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Autore: The Black Pearl    07/12/2016    5 recensioni
< Quindi le persone possono innamorarsi come Cenerentola e il principe azzurro? >
< Beh... può succedere >
< Anche a te e papà è successo così? >
< Cosa intendi amore? >
< Tu eri triste prima di conoscere papà, quindi è stato lui a farti tornare felice. È andata così vero? >
< Mhh... Diciamo di sì. È stato anche merito suo >
< E come è andata? >
< Oh, è una storia veramente lunga tesoro. Un giorno te la racconterò, promesso >
< Raccontamela ora! >
< Non è il caso amore mio. Ti assicuro che da grande avrai tutto il tempo per farmi ogni domanda che vuoi. E capirai le cose molto, molto meglio >
< Ma io voglio saperla adesso mamma, ti prego! >
***
Il tortuoso viaggio nei ricordi di una giovane donna, che ripercorre gli eventi che l'hanno portata ad essere ciò che è oggi: l'orgogliosa madre di una stupenda creatura, e che rappresenta tutto per lei.
Ma il percorso è stato lungo è complicato.
E la sua bambina, non immagina neanche lontanamente, in che modo suo padre sia entrato nella vita della sua mamma.
Non sa cosa hanno vissuto, quali emozioni hanno provato, e quante esperienze hanno condiviso i suoi genitori.
E, molto probabilmente, a quel tempo, non lo sapevano neanche loro due...
[Ispirata alla serie televisiva: How I Met Your Mother]
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Nuovo Personaggio, Quasi tutti
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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A Drop in the Ocean

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"It's like wishing for rain as I stand in the desert...
I don't wanna waste the weekend...
Then it's time to go.
As my train rolls down the east coast,
It's too late to cry, too broken to move on. "

( A Drop in the Ocean - Ron Pope )


 

È difficile spiegare cosa accadde quell'estate. L'estate del duemila otto, la mia prima da orfana.
Non posso esattamente dire che, da un giorno all'altro, rimossi tutto, e cominciai lentamente e a mutare. Ma direi che, come spiegazione, ci si avvicina.
Chiariamoci; non mi sono svegliata una mattina, dicendo “Ma si, è proprio ora di rimuovere dalla mente questa morte, e cambiare stile di vita”. Assolutamente no. È stato molto più graduale ma, allo stesso tempo, è successo nel giro di quei pochi mesi estivi.
Se ci ripenso mi viene quasi da sorridere: non mi ero mai fatta un idea concreta sul concetto di lutto - o almeno, non prima di viverlo personalmente -, ma avevo sentito dire che ognuno lo gestisce a modo suo, a volte anche nei modi più bizzarri.
Non che mi fossi mai soffermata a chiedermi: “Se capitasse a me, come reagirei?”, ma se qualcuno mi avesse detto che, proprio io, sarei stata una di quelle a “reagire in modo strano”, non ci avrei mai creduto.
La verità è che finché non ti capita non puoi rispondere a una domanda del genere... non puoi assolutamente sapere come reagirai al dolore più straziante della tua vita, finché non ti ci trovi catapultato dentro.
A cosa paragonare quel dolore? A un mare. Un mare immenso, freddo e profondissimo. Un mare in tempesta, con delle onde - alcune più grandi, altre più piccole - che compromettono la tua capacità di nuotare. E tu devi fare di tutto per non affogare, ma, cosa più importante, devi trovare un modo per muoverti e riuscire a tornare a riva, perché non si può vivere in acqua per sempre.
Ecco, il mio modo di restare a galla, è stato sfociare in una sorta di ribellione adolescenziale. E non giudicatemi, perché non saprete mai cosa ci fosse nella mia testa, in quel periodo - a stento lo sapevo io -.
La mente umana, opera in modi imprevedibili... e la mia, mi ordinò di agire in questa maniera.
 
Ci misi circa un mese a riprendermi dall'intontimento iniziale. Emma, nel frattempo, rimandava ogni volta la partenza per Seoul fino a nuova data e la cosa mi opprimeva da morire. Sapevo bene, di esserne la causa. La situazione non si era ancora risolta - nessun parente si sentiva pronto per me - e nessuna soluzione sembrava palesarcisi.
Continuavamo a dormire, io sul divano, e lei sul materassino gonfiabile, nella stanza che un tempo era stato lo studio di nostro nonno.
Dopo settimane di tentativi, avevano finalmente smesso di farmi pressione sulla questione scolastica. Era ormai chiaro a tutti, quanto la mia decisione fosse irremovibile.
Il desiderio di evitare la scuola era talmente forte, che nemmeno il pensiero di mia sorella e dei progetti che stava rimandando, riusciva a smuovermi. Anzi, dopo un po', iniziai addirittura a fregarmene. Brutto, lo so. Ma il mio malessere interiore stava già cominciando a prendere il controllo.
 
Credo che la cosa iniziò a non toccarmi più, il giorno in cui cambiai colore.
Avevo iniziato a tingermi i capelli già quattordici anni, ma fino a quel momento, la mia chioma aveva visto pochi cambiamenti significativi: a quattordici appena compiuti, mi ero fatta castano chiaro. Successivamente, mogano, mentre per tutto l'anno dei miei quindici, avevo avuto un marrone cioccolato. Mi divertiva cambiare...
Tutti continuavano a dirmi che ero pazza. Che il mio naturale biondo miele era perfetto così... e io continuavo a ripetere che la testa era mia.
Nel periodo in cui morì papà, avevo una cascata di capelli mori. Neri come la pece. Li avevo tinti tre mesi prima, nel lavandino del mio bagno, nell'alloggio scolastico. Nero, come il lutto. Come la morte. Chi sa, forse avrei dovuto prenderlo come un segno del destino...
Ma quell'estate, le tranquille gradazioni di colore, furono totalmente messe da parte.
Entrai nel negozio, in una giornata di fine giugno, senza un idea ben precisa in testa. Ricordo bene che pensai...
Devo tornare alla mia vita di sempre giusto? Tanto vale cominciare...
E la Tessa del “prima” - (del lutto) -, cambiava colore ogni quattro mesi. Tanto valeva che la Tessa del “dopo”, facesse altrettanto.
Mi diressi immediatamente allo scaffale delle tinte. Iniziai ad osservare ogni singolo colore disponibile, rimanendo immobile per parecchi minuti... e poi il mio sguardo lo vide. Si puntò su quella scatolina luminosa e la osservai con adorazione. Era il colore perfetto, lo specchio esatto della mia anima.
Così tornai a casa, e quando tirai su il capo dal lavandino del bagno di mia nonna, osservai, allo specchio, la mia nuova chioma rosso fuoco. Non un rosso sangue, ne un rosso autunnale. Ma puro calore e passione. Il colore della rabbia. Un colore determinato e sconvolgente. E in quel momento, sentii che era ciò di cui avevo bisogno.
 
Da lì fu una strada tutta in discesa...
Ad ogni cambiamento - fisico o caratteriale -, mostravo sempre meno tristezza. Non che non ne provassi, ma non la davo a vedere. Ne agli altri, ne a me stessa. Infatti iniziai a piangere sempre meno, la notte.
Chiamatelo meccanismo di difesa se volete. Io, ad oggi, non so ancora che nome dargli... ma ho le idee molto più chiare di allora. Capisco bene cosa stesse cercando di fare quella sedicenne smarrita.
Stava facendo leva sulla sua parte più forte, per non sprofondare nell'abisso del mare di dolore.
In poche parole, volevo svegliarmi la mattina, guardarmi allo specchio, e vedere una me diversa. Non volevo vedere la stessa faccia della ragazzina a cui era stata data la notizia della morte di suo padre, mai più. Volevo vedere il riflesso di un estranea.
Ad oggi mi rendo conto che non ha senso. Ma come ho già detto,ognuno gestisce il lutto a modo suo.
E così, iniziai con “mutazioni” più estreme...
 
Era metà luglio quando mi presentai in quello studio di tatuaggi, in un piccolo e anonimo quartiere di San Francisco. Non sarei potuta di certo andare dallo stesso che mi aveva fatto i piercing alle orecchie; per quelli avevo avuto il permesso scritto di un adulto, stavolta no.
Era stato Tyler, un amico di Brad, a consigliarmelo: avevo chiesto loro se conoscessero qualche piercer che facesse uno strappo alla regola, e accettasse una minorenne, senza permesso dei genitori. Dopotutto, ero orfana...
Non avrei saputo nemmeno a chi chiedere il permesso: mia nonna? Mio nonno? Emma? In fin dei conti non ero affidata a nessuno. Ma sinceramente non mi importava neanche del loro consenso, e non mi preoccupai nemmeno del loro eventuale disappunto.
Mi presentai nel posto, una mattina, alle undici e mezzo. Era una specie di vecchio magazzino in una viuzza nascosta, con una vetrina neutra. Sopra la porta di vetro, palesemente ammaccata, la malandata scritta luminosa “Tattoo”, sfarfallava a intermittenza. La seconda “t”, era completamente fulminata.
Dentro, le pareti erano grigie, e cosparse di foto di corpi tatuati. I disegni erano raccapriccianti.
Il tatuatore che mi venne incontro indossava un grembiule bianco, sporco, qua e là, di macchie di inchiostro nero, ed emanava un odore di fumo talmente forte, che dovetti trattenere il fiato.
Mi fece sdraiare sul lettino bianco, e pochi minuti dopo, le sue mani ricoperte dai guanti, gialli come i suoi denti, mi bucarono l'ombelico. Pagai quindici dollari.
Mi sentivo benissimo: la sensazione di controllo. Avere il potere di decidere del mio corpo e della mia vita... era sublime.
Tenni quel piercing nascosto per giorni, finché tornai a farne un altro. O almeno, entrai con lo scopo di farne uno, ma ne uscii con due.
Il cerchietto argentato sulla mia narice sinista fece spalancare la bocca a mia sorella, ma mai quanto la barretta d'acciaio infilzata nella mia lingua. Mia nonna non mi rivolse parola... aspettò la sera per sbraitare contro la povera Emma. Stesa, sul divanetto in quella stanza buia, ascoltavo la loro accesa discussione.
Stavo iniziando a sviluppare un senso ironico nei confronti della vita, per cui la situazione mi sembrava comica: nessuno voleva accaparrarsi il fardello del mio affidamento, ma tutti si incolpavano per i miei degradi.
 
Ad oggi, mi sento così in colpa, per aver fatto passare quel periodo d'inferno a mia sorella. Ogni mio sbaglio ricadeva su di lei, che era totalmente innocente. Non era certo colpa sua se ero orfana, così come non era responsabile della mia “ribellione”.
Continuo a chiederle scusa ogni volta, e lei, da perfetta sorella maggiore qual'è, mi abbraccia e mi da lo stesso bacio sulla fronte che mi dava allora, ogni sera.
 
Al contrario, non sono più arrabbiata con i miei nonni per non aver preso la situazione in mano.
A quel tempo lo ero, lo ero da morire. Li ritenevo dei vigliacchi, ma solo a distanza di anni, sono riuscita a capire che anche loro erano in lutto... un genitore non dovrebbe sopravvivere a un figlio.
Credo di averli perdonati a fondo, solo dopo essere diventata madre a mia volta. Dopo aver capito, che un nuovo pezzo di te, viene al mondo nel momento in cui stringi il tuo bambino o la tua bambina tra le braccia.
Quindi, anche un pezzo di loro, insieme a mio padre - il loro bambino -, è morto quel ventidue maggio.
 
La cosa più buffa, però, è che tutti si incolpavano a vicenda, additandosi i miei errori... ma nessuno ne ha mai parlato con me. La diretta interessata.
 
Tessa sta cambiando, devi impedirle di fare così, guarda cosa fa...
 
Ma un “Tessa come stai? Tessa parliamone”, non è mai uscito dalle loro bocche. Facevo davvero così pena?
Gira che ti rigira, la verità è una sola: stavo cercando disperatamente di capire come affrontare il resto dei miei giorni senza mio padre, e dato che nessuno era disposto - aggiungiamo pure, che non ho avuto il coraggio, io stessa, di chiederlo - ad aiutarmi, nel cercare una risposta... ho accantonato completamente quella domanda.
Ho impedito al mio cervello di pensarci. Come direbbero gli psicologi, ho protratto la fase della negazione per mesi. Non permettevo a me stessa di affrontare il dolore, e questo mi ha portato a diventare un altra persona.
Una ragazza dai capelli rossi e piena di piercing, anziché una bambina depressa. La ragazzina orfana doveva restarsene al di sotto di quella ferraglia.
Stupido, lo so. Ma avevo solo sedici anni...
 
E inizia anche a uscire. A frequentare i miei soliti amici. A passare le serate in quel parco giochi vicino scuola, fumando una o due sigarette, delle cinquanta che si portavano dietro.
Quella non era una novità. Anche prima lo facevo, ma la mia mentalità era completamente cambiata.
La Tessa del prima, usciva con loro per uniformarsi, e sentirsi un adolescente. La Tessa del dopo, usciva con loro, per combattere la noia.
Per non stare a casa, e non pensare. Non avevo più il men che minimo interesse a far parte di un gruppo sociale.
 
Il resto di quei caldi giorni, quindi, trascorse così... con la mia famiglia che continuava ad arginare attorno a un problema che nessuno voleva risolvere, mentre io passavo le giornate sempre nella solita maniera: la mattina camminavo per ore, sulla parte di spiaggia non intasata dai turisti; o a bagnarmi i piedi sulla riva, o a osservare le onde, seduta sugli scogli, con le cuffie nelle orecchie. Nelle afose ore pomeridiane, mi gettavo sul divano a leggere, o a fare zapping sui canali cinematografici. E la sera salivo sulla macchina di Brad, - sotto lo sguardo pieno di disapprovazione dei miei parenti - senza nemmeno sapere dove saremmo andati.
E questo è il semplice motivo per cui, quando ripenso o racconto di quel periodo, mi piace usare il termine “mutazione”. Perché nessun'altra parola potrebbe descriverlo meglio: io mutai. Mutai completamente. E non solo nell'aspetto. Cambiai quasi ogni parte di me. Così il dolore, non sarebbe stato in grado di distruggermi.
 
Credo che la Tessa di oggi, abbia perdonato gran parte delle cose, alla Tessa di allora. Ma c'è un piccolo fatto che, per me, è ancora un tasto dolente, se ci ripenso. Non riesco proprio a mandare giù l'aver momentaneamente smesso di tenere ad Emma.
Posso girarci intorno quanto voglio, ma la verità è che, lutto o non lutto, avevo smesso di preoccuparmi di lei, su ogni fronte. E questo è l'unico punto della mia mutazione che non riesco ancora a perdonarmi.
Lei stava lottando con le unghie e coi denti per non lasciarmi allo sbando, mettendo da parte i suoi sogni... e io le porgevo beatamente l'altra guancia. E la cosa peggiore, è che non ho mai tenuto conto del fatto che anche suo padre era morto. Mi consideravo l'unica vittima della situazione, senza rendermi conto, che eravamo in due ad essere rimaste orfane.
 
Il picco dell'insolenza, lo raggiunsi una mattina di fine agosto.
Mi ero appena vestita, con una delle mie solite tute leggere, e prima di uscire di casa, ero passata dalla cucina per un bicchiere di succo. Emma era seduta al tavolo, intenta a massaggiarsi le tempie di fronte allo schermo del suo portatile. L'aria palesemente stressata negli occhi, che io - ovviamente - non notai.
 
<< Dio, se non mi muovo a tornare a Seoul, il proprietario dell'appartamento mi scioglie il contratto d'affitto. Ci metterò settimane a trovarne un altro >>
 
Aprii il frigo, non curante delle sue preoccupazioni. Che stronza... Non la degnai nemmeno di una parola, e lei aveva solo bisogno di un po' di conforto. O forse stava solo cercando di entrare, discretamente, nell'argomento...
 
<< Sai, stavo pensando di prenotare un volo per i primi di settembre. Mi sa che non posso più permettermi di rimandare... >>
 
Ero ancora voltata, e versai buona parte del succo in un lungo bicchiere trasparente. Alzai rapidamente le spalle, prima di risponderle con noncuranza.
 
<< Buon per te >>
 
Il tono così piatto e freddo, che se tornasi indietro mi prenderei a schiaffi da sola.
Portai il bicchiere alla bocca, e sorseggiai lentamente la bevanda alla mela verde. Sentii dietro di me il rumore della sedia muoversi e, pochi istanti dopo, Emma si avvicinò.
 
<< Tessa possiamo... posso parlarti un attimo? >>
 
<< Stavo andando sulla spiaggia >>
 
<< Ci metterò un minuto >>
 
Riposi il bicchiere, ormai vuoto, nel lavandino, e quando mi voltai incrociai il suo sguardo. Si era poggiata, con la schiena al muro, e mi guardava fissa negli occhi, tenendo le braccia conserte.
Poggiai a mia volta le mani sul ripiano del bancone, e attesi. Non mi chiesi neanche cosa volesse dirmi, mi importava solo uscire alla svelta di lì.
Prese una piccola boccata d'aria e il suo sguardo si sperse un istante nel vuoto, prima di parlare:
 
<< Non... so bene neanch'io come iniziare ma, beh penso che ormai sia giunto il momento di prendere la situazione in mano >>
 
Fece una pausa, e iniziò a gesticolare con le mani. Un vizio che ha sempre avuto.
 
<< Io devo urgentemente tornare in corea. Ne va del mio futuro, capisci? Adesso che l'intera questione dell'eredità è finita, non c'è più niente che mi tenga qua. Devo tornare a preoccuparmi dei miei studi, dello stage. Il prossimo anno mi laureo e non posso proprio...
 
<< Puoi arrivare al punto Emma? >>
 
Doppia stronza. Non ebbi neanche la decenza di lasciarla sfogare. Ma lei, che ormai da tre mesi conviveva con quell'adolescente ingrata, non ci badò e si riscorre subito.
 
<< Si, scusami. Il punto è che io... non partirei tranquilla, sapendoti qua da sola, e con il tuo affidamento ancora in sospeso >>
 
<< Sto qua da tre mesi, credo ormai i nonni si siano rassegnati, non avranno problemi a farmi restare >>
 
Nonostante la loro diffidenza apparente, sapevo bene che non mi avrebbero mai lasciata in mezzo a una strada.
 
<< Si, lo so Tessa, ma non mi sentirei tranquilla comunque. Hai sedici anni, non sei ancora in grado di badare a te stessa >>
 
<< L'ho fatto per l'intero anno scolastico mi pare! >>, la interruppi bruscamente. Mi dette un gran fastidio quell'affermazione. Negli alloggi scolastici, a parte qualche sporadico controllo degli insegnati, ero completamente da sola. O meglio, insieme ai miei coinquilini, ma senza la costante supervisione di un adulto.
 
<< Non lo metto in dubbio, ma la situazione era meno... meno... >>, indugiò alla ricerca del termine adatto e io ricacciai indietro il moto di tristezza derivante dalla consapevolezza di dove volesse andare a parare: << Più tranquilla >>, concluse portando le mani lungo i fianchi.
 
<< Puoi dire pure “meno tragica” >>
 
Riposi il cartone del succo nel frigo, sperando che la conversazione cadesse lì, ma ovviamente c'era dell'altro.
 
<< Il fatto è che... mi rendo perfettamente conto quanto difficile sia questo periodo per te. Ed è più che normale, non voglio fartene una colpa. Ma è proprio per questo che vorrei starti sempre accanto per aiutarti >>
 
Si interruppe, forse nella speranza che ci arrivassi da sola. In seguito, realizzai quanto fu difficile, per lei, instaurare quella conversazione.
Sfoderai un sorriso isterico e altamente ironico e alzai lo sguardo verso il soffitto:
 
<< Aiutarmi? Ora vuoi aiutarmi? Senti, se stai cercando di scaricare su qualcuno il senso di colpa per aver rimandato la partenza, fai pure. Ma non mi pare di averti mai pregato in ginocchio supplicandoti di restare, quindi scusami tanto, ma non so come risolvere i tuoi dilemmi esistenziali. O resti, o te ne vai. La scelta è tua >>
 
Esasperata, feci per uscire dalla cucina. Il minuto concessole, era abbondantemente scaduto.
 
<< Non è quello che in... Aspetta! Lasciami finire! >>
 
Mi fermai sbuffando, e quando tornai a guardarla, lei si era staccata dal muro e avvicinata a me.
 
<< Non era assolutamente quello che intendevo. Non voglio ne scaricare la colpa su di te, ne addossarti i miei problemi Al contrario, voglio che sia tu a raccontarmi i tuoi, e ovviamente non potrai farlo se saremo a un continente di distanza. >>
 
<< Tranquilla, ti chiamerò su Skype se dovesse finire lo zucchero... >>
 
<< Tessa, per favore... >>
 
E in quell'istante, capii che la sua pazienza stava iniziando a cedere. Stava usando tutta la sua forza per mantenere un tono calmo e rassicurante. Quello che non capiva - così come il resto della famiglia -, è che la cosa mi infastidiva da morire. Mi trattavano tutti con condiscendenza, mentre io volevo solo essere trattata come la Tessa di sempre. Non essere giustificata su tutti i fronti.
Decisi di andare incontro a mia sorella e lasciarla parlare; nemmeno la mia nuova facciata da ingrata riuscii a non notare la sua espressione supplicante.
Sospirai e le rivolsi un cenno, invitandola a proseguire:
 
<< Okay... ci ho girato troppo intorno. Il punto è questo: sono giorni interi che penso a una soluzione per poterti stare accanto anche a distanza, ma la verità è che è impossibile. Non potrò mai aiutarti concretamente, quando sarò dall'altra parte del mondo >>
 
Roteai gli occhi, perché non vedevo veramente l'ora di mettere piede sulla sabbia calda, e lei era sempre stata estremamente discorsiva.
 
<< Perciò, alla fine, ho concluso che l'unica strada possibile è una sola. Ovvero... beh... ovvero... >>
 
<< … Ovvero? >>, la esortai sempre più esasperata.
 
Prese un respiro, e pronunciò quelle parole con estrema cautela. Come se fossero la chiave d'accesso a una bomba ad orologeria:
 
<< Ovvero che... tu, parta con me >>
 
Sembrava più una domanda a se stessa che a me. Ma aveva fatto bene, anzi benissimo, a procedere con cautela. Perché la bomba iniziò a tentennare.
Rimasi con la bocca semi aperta per qualche secondo, cercando di capire se fosse seria o meno.
 
<< … R-ripeti scusa? >>, balbettai spaesata.
 
<< Rifletti un attimo >>, riprese, fastidiosamente a gesticolare, esponendomi i suoi assurdi piani: << A scuola non vuoi tornarci, giusto? Vuoi prenderti il tuo tempo? Là potrai startene in pace quanto vuoi. Io lavoro massimo otto ore al giorno, e tu sarai libera di girovagare per la città o startene in casa in totale tranquillità... a tuo completo piacimento! E col passare del tempo, vedremo come si evolverà la situazione e decideremo cosa fare... >>, parlava senza sosta. Senza neanche fermarsi per respirare, tanto pareva eccitata da tutte quelle prospettive: << … Se chiamo adesso il proprietario del condominio, posso spiegargli la situazione, e sono sicura che mi troverà un altro appartamento, con due camere, nello stesso edificio. L'affitto sarà un po' più alto, ma se faccio qualche straordinario in più, potremmo... >>
 
<< Puoi frenare un attimo la lingua! >>, sbottai agitando le mani in aria.
 
Emma parve confusa dall'improvvisa interruzione del suo progetto perfetto, e mi guardò negli occhi preparandosi a qualunque reazione.
 
<< Mi dispiace rovinare la tua prospettiva delle adorate sorelline felici, ma non accadrà mai! Non mi trasferirò all'altro capo del mondo, solo perché la tua coscienza ti impedisce di fare sonni tranquilli la notte >>
 
Non capii subito quanto quella frase l'avesse colpita, ma giurai di vedere i suoi occhi farsi più lucidi. Per la terza volta, nel giro di pochi minuti, avevo preso le sue buone intenzioni, per rigettargliele addosso, come uno schiaffo in pieno volto. Quello che, invece, mi sarei meritata io.
Ma lei diede l'ennesima dimostrazione di forza, e non permise a quelle lacrime salate di rigarle le guance. Il suo tono però, la tradì, perché divenne molto più basso e roco.
 
<< Ti ho detto che non riguarda me, Tessa >>, scosse la testa lentamente, a conferma delle sue parole: << Ho pensato che fosse la soluzione più adatta per... entrambe. >>
 
<< Oh, tu hai pensato a entrambe!? Perché a me sembri già molto convinta. Dì pure “ho organizzato senza chiedere il tuo parere” >>
 
<< Non ho organizzato niente! >>, alzò bruscamente la voce, mentre cercava, visibilmente, di moderarsi: << Non te lo sto imponendo! Te lo sto proponendo... >>
 
La frustrazione, ben visibile sul suo volto, fu troppo. Non ressi più a quella discussione e la troncai di netto.
 
<< Beh, proposta rifiutata! Ritenta, magari avrai più fortuna >>
 
Glielo sputai in faccia come veleno, prima di raggiungere la porta d'ingresso con passo deciso e senza voltarmi.
Poggiai la mano sulla maniglia, e nel varcare la soglia di casa, vidi Emma spuntare frettolosamente, al di là del muro divisorio tra il salotto e il corridoio. Mi aveva rincorso, per poi frenare bruscamente. Mise una mano aperta davanti a se, come a volersi proteggere o a supplicarmi di lasciarle dire un ultima frase:
 
<< C'è una buona offerta per dei biglietti su un volo nei primi giorni di settembre . Mi prometti che almeno ci penserai? >>
 
La fulminai con lo sguardo, impugnando la maniglia ancora più forte.
 
<< Io vado in spiaggia >>, e richiusi, con un tonfo secco, la porta dietro di me.
 
Il tempo, fuori, sembrò essersi adeguato al mio umore, dato che uno strato di nuvole grigie iniziò a coprire il cielo. Non faceva particolarmente freddo, ma era percepibile lo svolgimento al termine della stagione. Il caldo afoso estivo non c'era già più, e in quella giornata particolarmente spenta, mi vennero quasi i brividi. Il tessuto della mia tuta, grigia come il cielo, era molto traspirante, per cui mi coprii con la leggera felpa abbinata. Tirai su il cappuccio e strinsi forte le braccia al petto. Camminai a sguardo basso, per non incrociare lo sguardo di nessun passante.
La casa di mia nonna si trovava in un bel quartiere. Elegante e colorato. Ma la cosa che ho sempre adorato, è la vicinanza con il mare. Pochi isolati a piedi, e ti ritrovi di fronte all'immensità del Pacifico, che nelle giornate di sole, brilla come se fosse un pavimento di cristallo.
Quella mattina, però, non feci la solita strada. Sapevo bene che, nonostante il brutto tempo, non sarebbero mancati i turisti, perché la spiaggia di San Francisco è troppo bella. Sole o non sole, pioggia o nuvole... vorresti restare lì e non andartene più.
Ed ecco il primo valido motivo per non partire, pensai camminando direttamente verso la strada per gli scogli, senza dover passare sotto gli sguardi dei bagnanti.
Quello si che era il mio posto preferito. Non che fosse privo di turisti; pullulava anzi di tuffatori provetti o di donne in cerca di un po' di pace per abbronzarsi, ma proseguendo su quegli enormi massi, trovavo sempre un posticino leggermente isolato, in cui potermi abbandonare a me stessa.
Quella mattina però camminai più del solito. Scansai tutte le persone, saltando agilmente da un masso all'altro. Camminai un sacco, e nel frattempo rimuginavo.
 
Che cosa voleva il mondo da me? Non era già abbastanza quello che mi era successo? Perché improvvisamente dovevo addossarmi la responsabilità della vita di Emma!
Non le avevo mai, mai chiesto di non partire, e all'improvviso sembrava che l'avesse fatto per richiesta mia. Beh, che se ne tornasse pure nella sua Eritrea, e tanti saluti a tutti.
Perché mai avrei dovuto seguirla? San Francisco era la mia città, il posto in cui sono nata e cresciuta. La facoltà di scegliere di andarmene, avrei dovuto averla quando e come mi pareva. Non certo perché la poverina aveva crisi di coscienza.
 
Mi fermai quando mi resi conto di essere in un luogo mai visto. Dietro di me potevo ancora vedere il tracciato rettilineo segnato dalle rocce, ma non mi ero mai spinta così oltre.
Osservai intorno: non c'era l'ombra di un granello di sabbia. Davanti a me, solo una fetta di Pacifico, la più calma che avessi mai visto; le onde la smuovevano appena. Alla mia destra, in lontananza, una coltre di abeti si ergeva in una fila ben delineata. Cavolo, ero arrivata fino al confine con la vegetazione. Non mi era sembrato di aver fatto tanta strada.
Mi tolsi le converse nere, abbassai il cappuccio, e andai a sedermi sul limite dello scoglio. Se non fosse stato per l'orizzonte sconfinato dell'acqua, avrei giurato di trovarmi di fronte a un lago.
Mi presi le ginocchia tra le braccia, e poggiai la testa sopra. Una bambina capricciosa, ecco come mi definirei oggi. Ma in quel momento mi sembrava di essere nel pieno delle mie convinzioni:
 
Non se ne parlava proprio. Ma come si permetteva? Considerarmi un pacco postale da poter tranquillamente spedire su un aereo. No. Categoricamente.
Sarei rimasta in quella città, con dei parenti incapaci di approcciarsi a me.
Mi resi conto, da sola, quanto quel pensiero suonasse ridicolo, e credo che in quel momento, la mia convinzione iniziò a vacillare. Ma non del tutto, tant'è che cercai mentalmente un'altra valida motivazione a mio favore.
Ho i miei amici qua!, e passai in rassegna ai loro volti: più che amico, Brad era diventato il mio tassista. Lui non si lamentava, e io lo lasciavo fare. Nessuno di loro si era minimamente interessato a chiedermi perché avessi lasciato la scuola. E mi venne in mente che, a breve, loro avrebbero ricominciato l'anno. Io avrei avuto tante altre serate libere per uscire a mio piacimento... loro no.
 
Oltre a Brad, c'era Amy, che si sarebbe abbassata le mutande per qualsiasi essere maschile e dotato di polmoni. Johanna e Brenda; la prima non l'avevo mai sopportata. Sputava sentenze in ogni frase che pronunciava, mentre Brenda era a posto. Un po' solitaria, e una fumatrice compulsiva, ma tutto sommato, tranquilla. Tyler non usciva spesso con noi, e non lo avevo ancora ben in quadrato, ma suo cugino Christian - che ci deliziava invece della sua compagnia -, avrebbe venduto sua madre per un po' di birra. Credo che avesse pure iniziato a farsi. Il ragazzo di Johanna, Jake, era un santo. Come facesse a sopportarla, rimaneva, e rimane tutt'ora, un grande mistero per me.
Bel quadretto di amicizie Tessa,sembra proprio invitante. Sai scegliertele bene le persone, pensai auto commiserandomi. No che non sapevo sceglierle. Era sempre stato così. Io, le persone disastrate me le andavo proprio a cercare, per buttarmi a capofitto nei loro disastri. Salvo poi, rendermene conto, tempo dopo, e chiudere i rapporti. Ragione per cui, le mie amicizie durature erano pari a zero.
Per una frazione di secondo, con lo sguardo fisso sul mare, visualizzai due lati opposti del mio futuro nei mesi successivi:
Nel primo, ero seduta sul divano di mia nonna, guardando annoiata la televisione, mentre fuori dalla finestra, la stagione invernale incombeva.
Nel secondo, camminavo nella metropoli di una città sconosciuta, con le cuffie nelle orecchie, ma senza sguardo basso. Mentre persone sconosciute - straniere -, mi passavano di fianco senza degnarmi di uno sguardo, perché lì, in quella città lontana, nessuno conosceva la mia storia.
Improvvisamente, la prospettiva del viaggio, non mi sembrò più così sgradevole.
 
Alzai la testa e osservai una singola goccia d'acqua cadere dal cielo, e poi andare confondersi col resto dell'oceano.
Non era poi così pessima, come idea. E forse avevo esagerato, inveendo contro Emma in quella maniera. Forse avrei dovuto aspettare, a carpire qualche informazione in più?
Quando una seconda goccia mi bagnò la punta del naso, decisi di ripercorrere la strada, prima di ritrovarmi inondata dalla pioggia. Rimisi velocemente le scarpe, ma stavolta lasciai il cappuccio abbassato.
Capii di aver fatto un sacco di strada, solo quando mi ritrovai a correre a testa bassa per evitare le fredde goccioline. Gli sguardi dei turisti mi si piantarono addosso, dato che i miei sgargianti capelli rossi erano, stavolta, ben visibili, ma io li sorpassai il più veloce possibile.
L'unica pensiero che avevo in testa, era quanto la proposta di mia sorella iniziasse a risultarmi sempre meno ridicola. Come se ogni piccolo vantaggio, andasse a posizionarsi proprio sopra i punti sfavorevoli, schiacciandoli completamente.
Arrivai al primo isolato, e camminai a passo svelto, riparandomi sotto le varie tettoie, mentre la pioggia prese un ritmo più regolare.
 
Era davvero così? Ne avrei ricavato dei vantaggi a partire?
Non avendo mai visitato quel paese, non sapevo trovare delle risposte concrete: magari la città non mi sarebbe piaciuta, il tempo sarebbe stato costantemente orribile e il cibo pessimo... ma la prospettiva di diventare una minuscola goccia, in oceano di gente sconosciuta, mi attraeva da morire.
Là, nessuno mi conosceva. Là, nessuno sapeva niente del mio passato. Là sarei stata una dei tanti, non una ragazzina sfortunata. Là, il progetto di essere una Tessa estranea, sembrava mille volte più realizzabile. Paura ne avevo, e anche parecchia. Si trattava comunque di oltrepassare il mio amato oceano Pacifico. Sarei potuta tornare a casa a mio piacimento? Ne dubitavo. Emma doveva comunque lavorare e, mi pareva, le mancassero ancora parecchie ore di stage.
La mancanza di certezze, improvvisamente, mi opprimeva. Era fastidioso dover ragionare sulla base di così poche informazioni.
Rientrai in casa in tutta fretta, togliendomi subito quella felpa bagnata di dosso. Dalla cucina, il profumo del pranzo sui fornelli, invase le mie narici, e sentii i passi di mia nonna, indaffarata ad apparecchiare.
Non mi preoccupai nemmeno di salutarla; raggiunsi direttamente quella che era ormai diventata la mia camera da letto, nello studio del nonno.
Aprii piano la porta e guardai Emma, seduta di fronte alla scrivania, che spostò lo sguardo dal computer a me.
 
<< Quando sarebbe questo volo? >>




 
 
 
 
Angolo di Black Pearl:
Ce l'ho fatta! Ce l'ho finalmente fatta! Voi non potete capire quanto sia stata dietro a questo capitolo. Credo di averci messe più impegno di qualsiasi altra cosa abbia mai scritto. Con questo non voglio dire che sia un capolavoro, ma mi sento abbastanza fiera, soprattutto della lunghezza.
Adesso si che entriamo ufficialmente nel vivo della trama, e spero di cavalcare quest'onda nella miglior maniera possibile.
 
Non volevo affermarlo con certezza prima di esserne sicura, ma credo proprio, che mi porrò l'obiettivo di pubblicare almeno un capitolo a settimana.
Mi sarebbe piaciuto anche annunciarvi un giorno fisso di pubblicazione (infatti avrei voluto far uscire questo capitolo lunedì), ma mi rendo conto che i miei impegni, AL MOMENTO, non me lo consentono.
Tenete conto che sono al quinto anno, la maturità incombe, e i professori mi remano contro. Quindi cercherò di fare del mio meglio, ma non posso promettervi niente. Tengo molto a questa storia, e rimarrei delusa da me stessa se dovesse restare nei meandri del sito... ma cercate pure di capirmi, se non sarà la mia priorità assoluta.
Spero vivamente di riuscire a trovare un organizzazione tale, da poter rispettare una pubblicazione settimanale fissata (Ogni lunedì o ogni martedì, ecc...), ma per il momento, non mi è assolutamente possibile. Quindi cerchiamo di mantenere una promessa alla volta...
 
I ringraziamenti sono d'obbligo, perché il vostro supporto è una spinta enorme a proseguire:
_bluebell, per aver messo la storia tra le preferite e le seguite.
Klastella00, per averla messa tra le seguite, preferite, ed aver recensito.
E ovviamente, grazie anche a tutti i lettori precedenti.
 
Siete preziosissimi,
alla prossima (spero) settimana!
 
- The Black Pearl
   
 
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