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Autore: Lost In Donbass    09/12/2016    3 recensioni
Ricordi, lacrime, droga. Perché l'amore di Bill e Tom, è autodistruzione allo stato puro.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
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PLEASE, DON'T JUMP


La loro era stata una storia da dimenticare. Una di quelle storie amorali, volgari, violente, disinibite, ciniche, una di quelle storie che la gente cerca di cancellare il più in fretta possibile. Era stata una storia underground, fatta di violenza domestica, lacrime amare, passione travolgente, musica ad alto volume e bottiglie spaccate. Era stata una storia on the road, fatta di viaggi, colpi di testa, canzoni sotto le stelle, macchine che macinavano l’asfalto. Era stata una storia rock and roll, fatta di concerti sfrenati, cocaina da sniffare, canne da fumare, soldi da buttare nel cesso, sorrisi da copertina, e diti medi da alzare al cielo. Era stata una storia degradata, fatta di occhi lucidi, insulti, botte, incesto, qualcosa che sapeva di amore. Era stata una storia che non era capita da nessuno, oppure che veniva occultata per non tirare su un vespaio di scandali, o che veniva ignorata per non venirne contagiati e nauseati. Era stata una storia virulenta e malata. Era stata la loro fottutissima storia d’amore, che puzzava di marcio e di zucchero, che puzzava di JD e di Chanel, che puzzava di vomito e di fiori andati a male. Era stata una storia costruita attorno a due personaggi sballati dentro e fuori. Era stata una storia in cui uno era una puttana e uno era un teppista. In cui uno era una ballerina da lap-dance, e uno era un marinaio che vagava i sette mari. In cui uno era un tossico del cazzo e uno era un ubriaco del cazzo. Oppure, era stata la storia dove uno era un cantante e l’altro un chitarrista, erano fratelli gemelli, avevano in mano la band più in voga del momento, erano due ragazzini troppo ricchi e troppo annoiati. Era una storia che faceva già abbastanza schifo così a sentirla, ma che faceva proprio vomitare se si fosse andati a tirare fuori la trama un po’ trash punk che teneva in piedi la commedia da due soldi. Era la loro canzone che non avrebbero mai inciso, scritta da una pop star suicida e musicata da un chitarrista depresso. E forse, la loro era una canzone talmente triste che nessuno avrebbe mai cantato, che tutti avrebbero dimenticato, una di quelle canzoni destinate a risuonare nelle solitarie tavole calde di una Route dimenticata nel cuore dell’America o nella radio di una vecchietta sul punto di morire sperduta nella pianura tedesca. Era la canzone muta dei Gemelli della Vergine.
 
Lacrime, da asciugare con le labbra
 
Mi ricordo di te, fratello mio. Piangevi, lacrime di trucco che cadevano pesantemente al suolo, rimbombavano sul pavimento dell’attico, inginocchiato per terra come la troia che sei, la guancia arrossata dallo schiaffo che ti avevo dato, le mani, quelle tue bellissime mani lunghe e nervose, premute sul viso, quello stesso viso dove mi rifletto ogni volta che ti guardo, il viso bellissimo che ci è toccato in sorte, la pelle che amo toccare, gli occhi che amo fissare, la bocca che amo baciare, in un atto tanto perverso quanto poteva esserlo Narciso che si innamorò di se stesso tanto da uccidersi e noi non siamo da meno, uccidendoci lentamente con ogni nostro sguardo, parola, risata. Piangevi e singhiozzavi, come l’idiota che sei, quel tuo pianto così finto e insopportabile per le mie orecchie, che ti hanno sentito piangere sul serio. Mi ricordo le tue fottutissime lacrime di quando eravamo bambini, quelle non sporcate dal mascara, pure e cristalline come lo era il tuo cuore, quelle che facevano rumore quando rimbombavano nel silenzio della casa di Loitsche, quelle che bevevo innocentemente come fosse normale stringere il viso del proprio gemello e bergli le lacrime come fosse il nettare più pregiato, quelle che leccavo via dal tuo viso e di cui mi sarei ubriacato e non mi importava se avevamo dieci anni e non avrei dovuto fare altro che abbracciarti. È così tanto tempo che non posso più bere il tuo pianto, avvelenato dal successo, dalla fama, dai trucchi pesanti, dall’alcol e non sai quanto mi manca, come soffra a vederti singhiozzare e rimanere in piedi di fronte a te senza poterti né abbracciare né tantomeno dissetarmi con le perle che rotolano sulle tue guance smunte. Rivoglio indietro le lacrime del Bill che conoscevo io, quello che si emozionava per un tramonto, che mi teneva la mano di notte, che guardava i cataloghi dei vestiti da sposa e mi diceva “Perché non potrò mai indossarne uno?”, che mi saltava sulle spalle quando era stanco, che rideva quando gli facevo il solletico sul divano del vecchio salotto di mamma. A volte ti guardo, fratello mio, e penso a come guardi i tramonti, e non reagisci con un sospiro stupefatto ma non lo calcoli nemmeno, come fosse normale. Penso al fatto che di notte non mi tieni più per mano, ti limiti a starmi sdraiato addosso e a lamentarti se mi muovo nel sonno. Penso che è così tanto che non ti sento parlare di matrimoni, ma vieni a casa con nuovi vestiti, nuovi stivali e strilli “Tom, voglio andare a Las Vegas!” e quel “Tom, secondo riusciremo mai ad andare a Berlino?” è scomparso sotto un paio di skinny firmati e dei guanti di brillantini. Penso al fatto che ora ti appendi al mio braccio sghignazzando volgarmente e non mi salti sulle spalle con quella risatina complice che nessuno capiva. Penso che quanto ti faccio il solletico non ti rotoli più ridendo fino alle lacrime, strillandomi di smetterla, ma ti levi di torno mandandomi a fanculo, ché ti rovino la messa in piega. Ti guardo anche ora, fratello, con quel tuo pianto che non è più del vero Bill ma di quel Bill cantante dei Tokio Hotel che tutti conoscono e che tutti adorano. Hai confuso il personaggio con la verità, ti sei fuso dentro alla falsità della personalità che ti sei costruito per riscattarti, da cosa poi non lo capirò mai. Pensi che non me accorga? Pensi che non veda che non mi guardi più come facevi all’epoca? Pensi che non registri il fatto che cerchi sempre di rimanere il meno possibile da solo con me, giusto per scopare e per dormire e poi via, cerchi le telecamere come cercavi la mia mano? Pensi che anche io sia diventato il Tom di tutti? Non hai capito che io ho diviso il personaggio per le telecamere e il mio vero Io, che sono sempre lo stesso che ti caricava sulle spalle e che ti faceva il solletico, che per te non cambierò mai? Non riesco nemmeno a piangere, guardandoti, guardando la tua falsità, la tua anima corrotta, la tua fissa per la fama?
 
Perdono, da chiedere in ginocchio.
 
Mi ricordo di te, fratello mio. E se possibile, proprio perché  mi ricordo del nostro passato, vorrei piangere ancora di più. Sto implorando il tuo perdono in ginocchio, come la puttana che sono, ma non l’hai sempre saputo, in fondo, che io sono una troia a tutti gli effetti? Piango e piango ancora per noi, per tutto quello che stiamo costruendo e demolendo giorno dopo giorno, la nostra personale tela di Penelope, che più cuciamo più alla fine dobbiamo scucire, per nascondere l’orrore, lo schifo che si perpetra ogni secondo delle nostre perverse esistenze. Non credi sia una perversione la nostra? Non credi che amare il proprio gemello vada contro ogni legge morale? Sì, Tom, lo sai come lo so io, ma non lo vuoi vedere, sei cieco da non voler aprire gli occhi. Credi di poter continuare come quando eravamo bambini, che nessuno di accorga di niente ora che siamo una band di fama mondiale? Mi ricordo di quanto eravamo bambini, di come mi leccavi via le lacrime dal volto, e mi sembrava così giusto sentire la tua lingua sulla mia faccia, sentire le tue mani che mi stringevano, ma eravamo bambini innocenti, già ora mi sembrerebbe qualcosa di così perverso vederti leccarmi le guance. Dormiamo insieme da quando siamo nati, e finché sei piccolo anche mamma lo capiva, che stessimo insieme, che ci tenessimo le manine paffute, cristo, eravamo gemelli, un po’ di comprensione. Ma ricordo la sua faccia quando avevamo dodici anni e continuavamo a starcene nel lettone, a tenerci per mano come fosse normale; mi ricordo la tua prima ragazza, te la ricordi?, che ti aveva chiesto come mai portassi me sulle tue spalle e come mai a Capodanno non avevate dormito insieme, e tu le avevi risposto che finché ci fossi stato io, il posto sulle tue spalle e nel tuo letto era mio diritto. Forse ti aveva mollato, ma non eri triste, perché c’ero io che ti avevo abbracciato e forse ti avevo anche baciato, non saprei dirlo. Piango forte, a pensare a quando ci baciavamo in bocca senza pensare a quanta perversione si nascondeva dietro a quel gesto, e a quando avevamo finalmente realizzato e ce n’eravamo fregati, talmente innamorati uno dell’altro da lasciare tutto il mondo in secondo piano, tanto da girare per mano per strada, sgattaiolare a turno uno nella stanza dell’altro la notte, quando mamma dormiva, farci il bagno insieme e schizzarci di schiuma. Non voglio che finisca tutto così, Tom, amore mio, ma non posso fare a meno di essere terrorizzato dal fatto che potrebbero separarci una volta per tutte se qualcuno scoprisse mai cosa si nasconde dietro a quelle interviste, a quelle canzoni e a quei sorrisi smielati. Io non ti voglio perdere come sto perdendo me stesso.
 
Botte, da ricevere in silenzio
 
Una volta ti avevo picchiato. Me lo ricordo come fosse ieri, i pugni e gli schiaffi che ti avevo tirato, ti avevo spinto contro il muro e ti avevo fatto piangere così tanto che il giorno dopo non avevi più voce, le tue lacrime di terrore che si mischiavano con le mie rabbiose. Sì, ti avevo picchiato perché ti eri sniffato così tanta cocaina che avevo avuto paura di perderti per sempre. Lo sai cosa succederebbe se ti perdessi. Lo sai che morirei per te, lo sai che piuttosto che sopportare di vivere senza la tua presenza mi impiccherei. Odio che ti droghi. Certo, non che io non lo faccia, e parlo da vero ipocrita quando dico che non voglio che ti impasticchi di ecstasy, che ti sballi di acido e che ti sniffi quintali di coca ma me ne sbatto, perché io ti voglio sano, ti voglio sempre bellissimo, ti voglio pulito dentro, non ti voglio ucciso dalla droga che prendi solo per sembrare più bello e vivace al mondo intero. Da quando poi te ne freghi del giudizio altrui, quando mi avevi giurato che ti sarebbe importato solo di me? Ti odio Bill, ti odio così tanto. Mi ricordo il tuo viso sanguinante, ti ricordo che strisciavi sul pavimento e mi chiedevi scusa, con quella tua vocina lamentosa, appeso ai miei jeans piagnucolante e disperato, l’occhio gonfio e il labbro spaccato. Sì, ero fatto anche io, ma non volevo che lo fossi tu. Insensato? Forse, ma non mi importa. Ricordo di essermene andato, quella notte, e di essere tornato la mattina dopo, di averti trovato addormentato per terra, dove ti avevo lasciato a disperarti. Avevamo fatto pace, come al solito, d’altronde, perché lo sai anche tu che io e te non potremmo mai litigare seriamente, perché sarebbe come litigare con se stessi. Una cosa che accade sempre, ma non ci si uccide cercando di uccidere la parte di se che non piace, no? Avevamo scritto una canzone, la nostra canzone, qualcosa che ci ricordasse quella notte di incubi e diavoli danzanti, la mia mano che andava in contemporanea alla tua mente che ragionava alacremente. Chissà se la gente se ne accorge che quando canti lo fai per me e che quando suono è solo per te che lo faccio? Si saranno mai accorti che le nostre canzoni raccontano le nostre storie? Che sono pezzi di noi stessi raccontati alla gente per proteggerci dalle voci? Mi inginocchio accanto a te, perché puoi essere la persona più falsa che conosca, ma sei sempre il mio gemello e non posso vederti così. Ti sollevo il viso con due dita, fissandoti in quegli occhi inquietantemente uguali ai miei, così truccati e così stanche dal tanto piangere. Amo i nostri occhi, ma amo la luce dei tuoi. Amo i nostri tratti, e la dolcezza che hanno. Amo le nostre bocche, ma le tue sono più buone. Accarezzo i tuoi capelli corvini, sparati dappertutto, i capelli che adoro stringere, scendo delicatamente a sfiorarti la guancia bagnata, scivolando a toccare il tuo collo pallido che amo baciare, le spalle, la schiena ossuta che adoro vedere incurvata di piacere quando ti scopo, continuo a scendere, a toccarti le gambe magrissime, faccio scivolare la mano sulla tua coscia, le stesse cosce che sfregano il mio bacino. Alzi lo sguardo su di me, i singhiozzi silenziosi che ancora dilaniano il tuo petto, cerchi la mia mano, e sì, la trovi. La trovi che ti stringe, la trovi, la mano che ti ama, che ti tocca, che ti adora, la mano che suona, vive per te.
 
Terrore, da nascondere nel cuore
 
Mi aggrappo spasmodicamente alla tua mano, la stessa che continua a tirarmi fuori dal pantano dove affogo ogni minuto da solo, cercando di farmi forza, di pensare che d’altronde io sono nato per essere una meteora, per brillare e sprecare tutte le mie energie in una volta, e poi lasciarmi morire tra le braccia del mio gemello tanto amato, spento come una cometa che deflagra al suolo, bellissimo e letale come una supernova sul punto di esplodere e disperdersi nell’universo. Mi baci, piano, sulle labbra, con una dolcezza che non dimostravi da tanto, quella che mi fa ricordare i nostri primi baci, quelli di quando ancora eravamo nessuno ed eravamo liberi di consumarci come meglio credevamo. Ora non possiamo più farlo, e i tuoi baci sono cambiati. Cerchi di essere dolce, ma non ce la fai, non so se te ne rendi conto. In ogni nostro bacio c’è un’urgenza, una fretta, una falsità che prima non c’era, sono rabbiosi quando prima erano miele allo stato puro, sono fatti di frame che vorrebbero essere come i vecchi ma che non sono altro che passione scatenata, brutale, repressa. Prima, potevamo fare l’amore come volevamo, ma ora è cambiato tutto. Mi ricordo, sul tourbus, schiacciati nella tua cuccetta, il mio viso affondato nel cuscino e il tuo nella mia spalla e nei miei capelli, e mi avevi fatto così tanto male che avevo pianto, pianto nel cuscino, soffocando i singhiozzi, sentendoti dietro di me che mi mordevi la spalla e faceva così male. Prima non avevi mai voluto fare le cose così, solo per te, fregandotene se piangevo, se mi facevi stare male, non eri mai stato così animalesco da svuotarti dentro di me e spedirmi in bagno a infilarmi di nuovo il mio pigiama (il babydoll che mi avevi regalato tu, oltretutto, quello che mi avevi messo sotto il cuscino a Natale e che avevo dovuto aprire prima di scendere giù in salotto da Georg e Gustav, quello che avevo ricevuto insieme a un bacino e a un “Buon Natale, piccolo”, quel Natale che sembra così lontano anche se forse non è passato neppure un anno) e a tornare a dormire come se non fosse successo nulla. Non sai il dolore che avevo provato, fisico, morale, spirituale, nello strisciare in bagno a mettermi il pigiama e scivolare di nuovo nella cuccetta, sopra a Gustav che russava sonoramente, e vederti dormire beato, i dread che ciondolavano quasi in faccia a Georg. Tu mi distruggi, fratello mio, mi riduci a uno straccio anche solo con uno sguardo, perché puoi dire tanto di me, che sono cambiato, che mi sono venduto alla fama e alla gente, ma mai quanto te. Mi ricordo i tuoi baci morbidi, che ora si sono tramutati in morsi rabbiosi, quando mi prendevi sulle spalle mentre ora non fai altro che trascinarmi come una bambola tirandomi per un braccio, i tuoi abbracci così teneri, che mi rinchiudevano in una gabbia da cui non avrei mai voluto essere liberato, uno scrigno d’oro dove affondavo tutta la mia tristezza, ma ogni volta che adesso mi stringi mi sento soffocare e non vedo l’ora che mi lasci stare, che la smetti di soffocarmi con la tua stretta spezza ossa, la furia possessiva che stai sviluppando e che mi sbigottisce. Mi fai paura, Tom. Sono terrorizzato da te.
 
Ricordi, da smentire
 
Mi ricordo quando ti ho baciato per la prima volta, Bill, anche se so che tu non te lo ricordi, perché in fondo tu non ricordi nulla di quello che riguarda noi, se non giusto i regali che ti ho fatto. Sei uno schifoso materialista, e ti amo per questo, anche se non posso fare a meno di odiarti. È un controsenso? Non mi interessa.
Ti bacio, per sentire le tue labbra così belle, così carnose, ti sento aggrapparti spasmodicamente alle mie spalle, come se in fondo io potessi salvarti, ti sento, così debole, così costruito sulla droga e sull’alcol. Sei patetico, Bill, ma in fondo lo sei sempre stato. Una patetica burattina che io ho sempre potuto muovere a mio piacimento, strappandoti i fili e avvolgendoteli attorno al collo, uccidendoti lentamente e riportandoti in vita quando mi servi. Faccio scivolare le mie mani sulle tue cosce, aprendoti le gambe, prendendoti in braccio e ti bacio di nuovo, sentendo le tue mani avvolgersi ai miei dread, trascinandoti nel buio di questo attico verso la camera da letto. Ti ricordi quando eravamo ancora in casa della mamma, e ti schiacciavo la testa sul cuscino per non farti urlare, e mi mordevo le labbra così forte da farle sanguinare? Ti ricordi quando dovevamo pulire il letto prima che lei lo mettesse a posto? Ti ricordi tutte le balle che dovevo inventarmi a scuola sulle ragazze inesistenti che avevo scopato solo per dare una spiegazione ai tuoi morsi che mi decoravano il collo? Ti ricordi di noi, Bill?
Rovesciandoti sul materasso ad acqua, squittisci, il trucco sciolto che ti impiastra il visetto, ti strappo la maglia, comincio a baciarti con foga la pelle malaticcia delle scapole, dello sterno, della pancia, forse ti mordo quando sento le tue mani lunghe e nervose che mi spogliano, le tue unghie smaltate che mi graffiano la schiena. È tanto che non mi graffi più, fratello mio. E’ tanto che non ti sento baciarmi in questo modo così desideroso, così appassionato, che non sento il tuo bacino sfregarsi contro il mio in modo così disperato. Sei una puttana, Bill, te l’ho sempre detto e te lo dirò finché vivrai. Non credi che la gente sarebbe pronta a buttarci maledizioni addosso se ci vedesse, adesso, i gemelli Kaulitz, il tizio rasta e il tizio coi capelli da porcospino, quelli che piacciono tanto alle ragazze, che se ne stanno su un letto a mordersi come cani affamati e graffiarsi come bestie che si vogliono uccidere? Non credi che forse io e te vogliamo solo ammazzare l’altro? Che siamo fatti per lottare fino all’ultimo nel tentativo di ucciderci per rimanere da soli, finalmente liberi dalla costrizione e dalla maledizione di amarci? Sono diciannove anni che cerchiamo di ucciderci, ma io sono troppo forte per te, tu sei troppo sfuggente per me. Siamo costretti ad amarci, ma nessuno di noi due lo vuole.
 
Sesso, per chiedersi scusa
 
Mi apri le gambe, come al solito, perché lo sai che in fondo io posso essere una troia ma le gambe le apro solo per te, siamo nudi entrambi, soli e deboli come in fondo siamo sempre stati, due bambole di pezza che nessuno comprende. Mi scopi, perché sei bravo a farlo, è l’unica cosa che ci rimane, quell’amore sporco che nascondiamo agli occhi del mondo, che soffochiamo dove possiamo, i piccoli segnali che tento di lanciare al nostro pubblico ma che nessuno è in grado di comprendere. Mi scopi e mi fai male, ma non mi interessa, lascio semplicemente che mi tiri su le gambe e mi divori la bocca e il collo di baci, urlo, urlo ma tanto nessuno mi sente. Nessuno è mai pronto ad asciugare le lacrime del proprio idolo. Nessuno è mai pronto ad amare un fantasma. Mi giri a quattro zampe, mi masturbi, mi fai sempre più male e non ti interessa se piango, se urlo, se ti prego di smetterla. Tanto non lo faresti comunque. Sono solo una lurida marionetta nelle tue mani forti e sicure, che amo vedere correre sulla chitarra come amo sentire sul mio corpo. Il fatto che poi veniamo uno addosso all’altro, tra le mie lacrime depresse e insignificanti e la tua rabbia che si dirama a onde in questa camera da letto, è solo il segno che io e te non potremmo mai separarci, anche se so che mi odi, mi odi così tanto da volermi uccidere, da non potermi più sopportare. Ma sai una cosa? Io ti amo, Tom. Ti illudi che io ti voglia male, ma non è vero, perché se te ne volessi me ne sarei già andato lontano, avrei intrapreso una carriera solista e i Tokio Hotel non sarebbero mai esistiti. Ma ora sono qui, nel tuo letto, tra le tue braccia, che ti chiedo di scoparmi ancora, ubriaco del tuo profumo e del fumo della sigaretta che ti sei acceso e che mi metti tra le labbra dischiuse. Se ti avessi davvero odiato, saremmo stati soltanto gemelli come ce ne sono a milioni, io avrei un uomo da amare, tu saresti un donnaiolo come dovresti essere, ma non saremmo qui a piangerci addosso, a canticchiare le nostre vite uno nelle labbra dell’altro, i nostri corpi nudi legati nella danza a cui siamo dediti da sempre. Se ti avessi odiato, non mi starei scopando sul tuo membro gonfio, non ti starei baciando, non indosserei questi anelli pacchiani che mi hai regalato da quando abbiamo sedici anni. Io e te siamo fatti per essere uno dell’altro fino alla fine dei tempi, cucciolo mio, lo sai benissimo. E sai anche che ti amo, ti amo così tanto da essermi ucciso per te. Sì, Tom, fratello mio. Mi sono suicidato, per il tuo amore.
 
Amore, per suicidarsi
 
 
Tom osserva con aria persa la strada davanti a lui, la Porsche sparata a una velocità così alta che governarla oramai è impossibile, diretta verso quello che si ricorda essere una cava che sprofonda giù, nella periferia di Loitsche. Osserva la foto di suo fratello posata sul cruscotto e osserva il suo largo sorriso bastardo, i suoi occhiali da sole troppo grandi, i suoi capelli neri che si irradiano come una buffa aureola demoniaca attorno al suo splendido viso da bambola. Non piange, mentre schiaccia ancora sull’acceleratore, la macchina ormai fuori controllo, i dread che gli ricadono scompigliati sulla schiena nuda, gli occhi asciutti che fissano senza vederli gli occhi di Bill nascosti dalle lenti degli occhiali neri. È molto stanco, Tom Kaulitz. È stanco di sentire la gente compiangerlo, di vedere sua madre scavata dal dolore, di essere aiutato da Georg e Gustav, di affrontare un mondo sconvolto. È stanco di sopportare tutto questo, insomma. È stanco di aver riso tutte le sue risate e di aver pianto tutte le sue lacrime. È stanco di vedere suo fratello dovunque. Nel fondo dei bicchieri, nella sua chitarra, vicino a lui nel letto, nel vapore della doccia, in ogni ragazza con i capelli neri lunghi, nel suo stesso viso. È stanco di suonare la chitarra, di starsene chiuso in casa affogato nel suo dolore, di bere, di impasticcarsi, di sentire la voce di Bill dappertutto. È perseguitato dal suo fantasma. Non dorme più, da quando Bill è morto. Non mangia più, da quando l’hanno trovato in quella camera d’albergo, morto ingozzandosi di droga. Non ride più, da quando si è reso conto che era vestito da sposa, lo stesso vestito che da ragazzino diceva sempre di voler indossare al loro matrimonio segreto, e teneva in mano una loro foto che avevano scattato con la vecchia Polaroid, la foto in cui erano a letto che fumavano, abbracciati. Non piange più, da quando ha visto che Bill si era inciso “Don’t let memories go, of me and you” sulla pelle con una lametta, prima di uccidersi.
Tom accelera ancora, la pelle che brucia, l’intrico di “And if I can’t hold you back, then I’ll jump for you” inciso sul cuore come avrebbe voluto suo fratello.
Si rende conto di una cosa, mentre la Porsche vola giù dal precipizio. Che forse Bill era un idiota in fondo, convinto che loro due si amassero, che avrebbero resistito a tutto. Si rende conto che Bill non si è suicidato, che l’ha ucciso lui col suo amore disperato, bastardo, malato e ossessivo. E si rende conto che lui non si sta suicidando, ma che sta venendo ucciso dall’unica persona che forse era in grado di amarlo per quello che è davvero.
 
E tu gemello mio, ti ricordi di me?
  
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