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Autore: Silvar tales    09/12/2016    7 recensioni
L’aria fredda della notte era riuscita a svegliarlo un po’ dallo stordimento della sbornia. Era seduto su una panchina del molo, viscida di salsedine e talmente imbrattata di scritte che era impossibile riconoscerne il colore originario. Ora che la rabbia e l’euforia se n’erano andate, erano giunte la vergogna e la malinconia a tenergli compagnia.
Yuri Plisetsky aveva tanti soprannomi, il Punk Russo, la Tigre dei Ghiacci, la Fata Russa… ma in quel momento era Yuri Plisetsky e nient’altro. Un Yuri Plisetsky mesto e avvilito che fissava il mare nero come il petrolio, e le luci arancioni del porto che traballavano riflesse nell’acqua scura.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Yakov Feltsman, Yuri Plisetsky
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The Russian Soldier'
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Premesse:
★ caro fandom, portate pazienza per questa oneshottina un po’ troppo het (almeno per quanto riguarda i miei standard, sono maledettamente incapace a caratterizzare i pg femminili, devo imparare). Non temete, presto inizierò a shippare Yuri con il Kazako sequestratore-di-minori (non fraintendetemi, li amo ), questo è solo un breve raccontino in cui ho tentato di immaginare le prime esperienze del nostro Yurochka.
ci tengo a specificare che se a volte Yuri formula dei pensieri sessisti, non significa affatto che la sottoscritta condivida tali pensieri.
★ ringrazio in anticipo chiunque leggerà questo robo (cercate di comprendermi, il mio amore per YuriP ha raggiunto i confini dell’universo e dovevo esternarlo).
ATTENZIONE: linguaggio crudo.




Chandelier
[the russian soldier]





Quando i giornalisti ti fanno domande assurde del tipo che cosa rappresenta per te il pattinaggio? è ovvio che li mandi a fare in culo.
E se mandi a fare in culo una giornalista in diretta TV è ovvio che poi iniziano a chiamarti il Punk Russo.

«Che cosa rappresenta per te il pattinaggio?» gli aveva chiesto miss Ivanovna di Russia2, subito dopo che era sceso dal gradino più alto del podio del Junior Grand Prix.
Il pattinaggio era quel lontano mattino di gennaio in cui si era nascosto sotto al letto perché non voleva saperne di uscire di casa. Aveva appena quattro anni, e sua madre voleva portarlo a pattinare sul vicino lago ghiacciato nelle campagne di Možajsk, la sua città natale. Lui non voleva saperne, odiava pattinare, ne era sicurissimo al cento per cento, anche se naturalmente non ci aveva mai provato.
Il pattinaggio erano le sberle che si era beccato dopo che aveva rubato cinquemila rubli dal vasetto di latta sulla credenza, dove i suoi genitori raccoglievano i risparmi per fare la spesa. Risparmi che venivano utilizzati con estrema parsimonia, e lui li aveva spesi tutti quanti per acquistare un paio di pattini da ghiaccio di ultima generazione, più belli di quelli che già possedeva. Peccato che Yuri all’epoca avesse ancora nove anni: campava ad acqua e funghi di Super Mario, e cresceva a vista d’occhio. Un anno più tardi quei bellissimi pattini erano diventati troppo stretti ed erano finiti nel ripostiglio assieme alle scope e alle scarpe vecchie, con le lame che non avevano avuto nemmeno bisogno di una seconda affilatura.
Il pattinaggio erano i minuti infernali passati con la testa china sul water a rigettare tutto ciò che aveva nello stomaco, nel tentativo di smaltire l'ansia delle prime gare. Un'ansia che con il passare del tempo aveva imparato a controllare.
Il pattinaggio era quella fetta in più di torta medovik che doveva lasciare da parte per colazione – e, diamine, soltanto Dio e nonno Nikolai sapevano quanto lui amasse la torta medovik.
Il pattinaggio era quella sera del suo undicesimo compleanno, quella maledetta sera in cui suo padre aveva bevuto troppa vodka, lo aveva chiamato frocio, gli aveva dato della femmina ed era persino arrivato a prendere in mano un paio di forbici, con la seria intenzione di accorciargli i capelli. Allora sua madre gli si era gettata addosso come una furia, guadagnandosi un pugno in faccia e un brutto taglio sulla guancia. Yuri era corso in camera, si era nascosto sotto le coperte e si era premuto forte le mani sulle orecchie. Aveva pianto fino a prosciugarsi e si era addormentato con le lacrime che gli si seccavano sul viso. Al suo risveglio, sua madre aveva un grosso livido sullo zigomo e un cerotto appiccicato sulla guancia, e suo padre era scomparso. Da allora non l'aveva più rivisto.
Il pattinaggio erano i rimproveri che Yakov gli dedicava durante gli allenamenti, e quella luce di soddisfazione che gli vedeva brillare negli occhi dopo che la sua piccola fata russa stringeva tra i denti la medaglia d'oro.
Il pattinaggio erano i voti di scuola che diventavano ogni anno più bassi, e l'insoddisfazione di sua madre che avrebbe voluto per lui una brillante carriera universitaria.
Il pattinaggio era l'odore di legna e pasta fritta che gli riempiva le narici quando correva ad abbracciare nonno Nikolai dopo ogni gara. Il nonno, l’unica persona che l’aveva sempre sostenuto, che gli era stato ancor più vicino dopo che suo padre l’aveva abbandonato, sfidando l’ostilità della nuora e accantonando l’amore per il proprio figlio per mettere al primo posto l'affetto per il suo unico nipote.

Ma come poteva dire tutto questo, davanti a un microfono e a una telecamera, davanti a una giornalista incipriata e sorridente che non sapeva nulla né di lui né - molto probabilmente - del pattinaggio stesso?
Per cui aveva risposto semplicemente: «ma vaffanculo». In perfetto stile Plisetsky.


*




La festa di chiusura del Junior Grand Prix era una vera e propria baraonda a cui non avrebbe mai voluto prendere parte, ma Yakov non aveva voluto sentir ragioni. Coltivare la propria immagine era fondamentale per mantenere gli sponsor, non bastava risultare piacenti al pubblico durante le esibizioni, bisognava esserlo anche una volta dismessi gli scomodi pattini e gli attillati vestiti da gara.
In più doveva fare ammenda per l'infelice risposta che aveva riserbato alla giornalista, per cui ora Yuri Plisetsky si trovava intrappolato in un lussuoso locale di Barcellona, con le luci basse e la musica alta, pieno di alcol e cibo che non gli piaceva.
Yakov gli aveva espressamente ordinato di assecondare i giornalisti e dimostrarsi amichevole con gli altri concorrenti. Un po’ come ordinare a un leone di mangiare l’insalata senza toccare la bistecca.
Si era già beccato un rimprovero perché le sue sneakers leopardate e la sua felpa nera della Vans non erano certo l’abbigliamento più adatto per un ricevimento al prestigioso Sutton Club, senza contare che, avendo vinto l'oro, Yuri sarebbe stato al centro dell'attenzione.
Per cui ora Yakov lo teneva d’occhio alla stregua di un’aquila arcigna che sorveglia il suo nido. Eppure, Yuri era convinto che per eludere la sorveglianza del suo coach sarebbero bastati un po’ di pazienza e qualche bicchiere di gin.
Infatti, come previsto, non era nemmeno scoccata l’ora di Cenerentola che Yakov era già impegnato a fare sfoggio del suo dubbio senso dell’humor davanti agli altri allenatori, e non badava più a quello che combinava il suo tigrotto ribelle.
Yuri non aspettava altro che questo momento per sgattaiolare fuori dal locale, e ci sarebbe riuscito se non fosse stato malamente intercettato...

Le cugine Veronika e Katerina Solovyov avevano rispettivamente quindici e sedici anni, ed erano entrambe campionesse di danza classica. Conoscevano Yuri perché d'estate si allenava nella loro palestra, e rimaneva ore intere appeso alle spalliere, o in bilico sulla trave, con le cuffie che gli urlavano nelle orecchie la discografia dei Subways a ripetizione, e lo salvavano dal fastidioso dovere morale di fare conversazione.
Tuttavia, anche così isolato dal mondo, non poteva evitare gli sguardi delle ragazze della scuola di danza che lo guardavano come fosse un gattino che si era arrampicato su un albero troppo alto e non riusciva più a scendere.
Veronika e Katerina erano sempre state le più invadenti. Non si erano limitate a guardare, erano riuscite a strappare a Yuri il suo numero di telefono, erano riuscite a portarlo fuori a pranzo con la scusa di voler spettegolare sui trascorsi amorosi di Yakov e Lilia Baranovskaja.
D'altra parte, Yuri non si era del tutto opposto a quelle avances spudorate. Riserbava alle due cugine un trattamento di sufficienza, ma se avesse voluto davvero le avrebbe liquidate senza problemi. Forse non lo faceva perché Veronika, la più piccola, un po' gli piaceva fisicamente? Aveva i capelli biondi come i suoi, quasi sempre raccolti in un roveto di trecce a loro volta intrecciate tra loro. Si era sempre chiesto quanto fossero lunghi davvero i suoi capelli, ma finché si ostinava ad acconciarli con quelle pettinature che avrebbero fatto invidia a Leila Skywalker era impossibile saperlo.
Se Veronika conservava ancora un briciolo di pudore, Katerina invece era smaliziata e intraprendente in modo imbarazzante. Aveva gli occhi e i capelli castani, e al contrario della cugina teneva i capelli sciolti persino quando danzava.
Anche quella sera aveva i capelli sciolti, una scollatura importante anche se non aveva molto seno da mostrare, un vestitino scosciato e semitrasparente, il trucco pesante. E anche quella sera era piombata sul pattinatore russo con la stessa grazia e violenza di un falco che si getta in picchiata su un topolino.
L’avevano raggiunto a Barcellona per vederlo in finale, ed erano riuscite persino a strappare un invito alla festa di chiusura del Grand Prix. Probabilmente il fatto di essere delle professioniste in uno sport non troppo differente dal pattinaggio sul ghiaccio era una motivazione sufficiente per intrufolarsi in quel noioso ricevimento.

Yuri non avrebbe mai voluto bere. Ricordava quanto diventava violento suo padre quando esagerava con i superalcolici, ricordava quanto diventava penosa sua madre quando alcune fredde sere d'inverno si attaccava alla bottiglia, ricordava quanto diventava sgradevole l’odore del nonno quando beveva troppo vino.
Yuri aveva sviluppato un odio viscerale per l'alcol, eppure quella sera sentiva un forte bisogno di sfuggire da tutti quei fastidiosi cerimoniali che gli erano stati imposti.
Katerina e Veronika non avevano perso tempo e l'avevano già preso in disparte. Yuri, dal canto suo, non aveva opposto resistenza. Aveva riso e aveva mandato giù interi bicchieri di cocktail di cui non sapeva né il nome né la composizione. Odiava il sapore e amava e odiava allo stesso tempo sentire la sua testa che iniziava a galleggiare, ma la tracklist passava da Ghost di Halsey a Chandelier di Sia, e lui si sentiva felice. Felice e disinibito in un modo del tutto sporco e insalubre.

Era l’una e mezza di notte, e Yuri Plisetsky sembrava essersi accorto solo in quel momento che la musica si era affievolita, gli spazi si erano ristretti e l’aria era diventata bollente.
Aveva il corpo bloccato dal peso di altro corpo, la bocca tappata da un’altra bocca, gli occhi serrati, le orecchie non gli funzionavano a dovere.
Sentiva le risatine limpide di Veronika come fossero distanti anni luce, e la sua vocina ancor più acuta del solito che squittiva e ridacchiava: «lo stai sporcando tutto di rossetto!»
Sentì la propria voce dire: «non te, quell’altra».
Cazzo, no, non era questo che volevo dire!
Ma intanto aveva spinto via Katerina e aveva incollato le labbra alla bocca di Veronika. Un bacio goffo e tutt’altro che piacevole, un bacio troppo secco, un bacio che era il suo primo vero bacio, e lo stava dando a una persona che gli era del tutto indifferente, che addirittura disprezzava.
Veronika dovette trovare divertente quel bacio disastroso, perché quando si staccò gli pizzicò le guance neanche avesse un pupazzo tra le mani, e gli passò le dita sulla bocca per togliergli le tracce di rossetto che gli aveva lasciato Katerina.
«Era il tuo primo bacio?» chiese, simulando un candore che non le apparteneva.
Katerina lo toccò sul cavallo dei pantaloni, e le sue carezze divennero subito prepotenti. «Certo che lo era», rispose, precedendo Yuri.
Yuri avrebbe voluto scappare via, avrebbe voluto alzarsi e sputare addosso a quelle due puttane che si permettevano di trattarlo come un animaletto di pezza i peggiori insulti. Ma non lo fece.
Rimase immobile, a sentire le mani fredde di Veronika che gli aprivano la zip dei jeans e gli tiravano fuori l’uccello. Maledisse mille volte il suo corpo disinibito dall’alcol che aveva deciso di rispondere a quegli stimoli in maniera fin troppo positiva.
Ma fu quando Katerina tirò fuori un preservativo dal reggiseno, e fece per infilarglielo, che Yuri si rese conto per davvero di ciò che sarebbe successo di lì a pochi secondi.
Ebbe la forza di guardare oltre i fumi del dannato alcol, e di dire a sé stesso che no, non era pronto. Non era il momento giusto, non era il luogo giusto, non erano le persone giuste.
Spinse via le due ragazze e con un guizzo si alzò dal divanetto. Vide tutto quanto girare intorno a sé, e per poco non finì carponi sul pavimento. Riuscì miracolosamente a restare in piedi appendendosi a un attaccapanni. Si guardò intorno, rendendosi conto solo in quel momento di trovarsi in un guardaroba buio e polveroso. Non ricordava come ci era arrivato.
«Yurochka… va tutto bene?» tentò Veronika, confusa da quella sua reazione improvvisa.
Nonno Nikolai lo chiamava Yurochka, e sentire il suo nome pronunciato a quel modo in quel contesto, da quella ragazza che non sapeva niente di lui che andasse oltre la sua fama e la sua figura imbellettata che scivolava sul ghiaccio, lo fece andare fuori di testa.
«Siete proprio delle troie».
Si riallacciò i pantaloni e alzò il cappuccio della felpa per nascondere i capelli in disordine, poi uscì dal Sutton Club senza guardare in faccia a nessuno.


*




L’aria fredda della notte era riuscita a svegliarlo un po’ dallo stordimento della sbornia. Era seduto su una panchina del molo, viscida di salsedine e talmente imbrattata di scritte che era impossibile riconoscerne il colore originario. Ora che la rabbia e l’euforia se n’erano andate, erano giunte la vergogna e la malinconia a tenergli compagnia.
Yuri Plisetsky aveva tanti soprannomi, il Punk Russo, la Tigre dei Ghiacci, la Fata Russa… ma in quel momento era Yuri Plisetsky e nient’altro. Un Yuri Plisetsky mesto e avvilito che fissava il mare nero come il petrolio, e le luci arancioni del porto che traballavano riflesse nell’acqua scura.
La Ronda del Litoral era affollata, gli spagnoli erano gente notturna: iniziavano a pasteggiare alle dieci di sera e andavano avanti ad ubriacarsi e festeggiare per non si sa bene cosa fino a un orario imprecisato. Tutto il contrario di ciò che accadeva nella sua madre patria Russia, o in generale in tutto il Nord Europa. Ora che ci pensava, forse erano proprio gli spagnoli ad avere qualche problema con la cognizione del tempo.
Yakov continuava a telefonargli da un’ora a intervalli regolari di due minuti, e Yuri continuava a non rispondere. Aveva quattordici anni e stava bighellonando alle tre del mattino in una città straniera di cui non conosceva né la geografia né la lingua: non riusciva nemmeno a immaginare la lavata di capo che si sarebbe beccato questa volta.

Una chiassosa comitiva di ragazzi ventenni si fermò a pochi metri dalla sua panchina. Erano palesemente ubriachi: due di loro cantavano a squarciagola uno stantìo tormentone estivo, uno aveva sbattuto una bottiglia di vetro contro un palo mandandola in frantumi, un altro era impegnato a prosciugare una lattina di birra e un altro ancora si era sporto sulla banchina, si era abbassato la cerniera dei pantaloni e senza pudore alcuno stava pisciando nell’acqua oleosa del porto – che tanto più sporca di così non poteva essere.
Yuri si irrigidì sulla panca e iniziò a pregare che proseguissero oltre senza infastidirlo.
«Hola guapa*».
Purtroppo, le sue preghiere non furono affatto esaudite. Il ragazzo che aveva rotto la bottiglia contro il palo decise di rivolgere le sue attenzioni a quella solitaria figura incappucciata che se ne stava in disparte su quella panchina imbrattata, e all’istante gli altri quattro balordi fecero lo stesso. Si misero in cerchio intorno alla panca e iniziarono a sghignazzare come delle iene spelacchiate.
Yuri si mise subito sulla difensiva, digrignando i denti come una belva messa con le spalle al muro.
«Spagnoli del cazzo», sibilò nella sua lingua natale, benché il buon senso gli suggerisse di alzarsi da quella panchina e correre, correre molto veloce.
Uno di loro gli si avvicinò, gli afferrò il cappuccio e gli scoprì il viso. «Mira este tiene el puto**», disse.
Tutti gli altri scoppiarono a ridere, additando il ragazzo che l’aveva approcciato per primo come volessero schernirlo per qualcosa che Yuri non capiva.
Non perse altro tempo.
In un battito di ciglia si era alzato dalla panchina ed era corso via, lasciandosi alle spalle le risate sguaiate di quei ragazzi. Forse uno di loro tentò di agguantarlo, forse un altro gli urlò degli insulti, ma Yuri non lo seppe mai perché non comprendeva la loro lingua e perché non si voltò più indietro.


*




«YURI!»
Il cielo era già chiaro dei preludi del mattino, quando Yakov ritrovò il suo pattinatore smarrito nella Plaça del Mar, ridotto alla stregua di un vagabondo ubriaco, sdraiato su una panchina in delizioso arricciato stile liberty.
Aveva il cappuccio abbassato sugli occhi, i capelli in disordine, le braccia strette attorno al petto e le ginocchia rannicchiate nel tentativo di ripararsi dal pizzicore della brezza marina. Mancavano solo la bottiglia di birra appoggiata per terra, il bicchiere per l’elemosina e uno zaino logoro da sessanta litri, poi il quadro sarebbe stato completo.
«Che cosa ti è saltato in mente, razza di imbecille! Lo sai che ore sono? Lo sai per quanto ti ho cercato? E perché diamine non rispondi al telefono? Mi vuoi far morire di crepacuore? Ti informo che non hai nemmeno quattordici anni e sei sotto la mia responsabilità, razza di...»
«Li ho quattordici anni...» Yuri rispose con una vocina talmente roca e abbacchiata che, tutto ad un tratto, Yakov divenne incapace di arrabbiarsi.
Si alzò dalla panchina e tirò su con il naso. Anche se cercava di evitare lo sguardo del suo coach, Yakov capì che aveva pianto. O forse erano soltanto i postumi di una notte passata all’addiaccio?
«Yuri, ma si può sapere che cosa ti è successo?»
«È successo che odio questo paese di merda e voglio tornarmene a casa mia».
Yakov lo conosceva abbastanza bene da capire quand’era il momento di non insistere, e pensò che per il momento poteva accontentarsi di averlo ritrovato vivo e incolume.
«D’accordo, ora torniamo in albergo, dormi qualche ora, e stasera partiamo. Tuo nonno sarà in aeroporto a Mosca ad aspettarti».
Yakov sapeva perfettamente quali tasti toccare per strappargli un sorriso, e non si sbagliava.
Yuri sembrò rallegrarsi, mentre si incamminavano insieme verso la Rambla.
«Arriveremo a Vnukovo o a Domodedovo?»
«Vnukovo».

Era frettoloso di lasciarsi alle spalle la brutta esperienza di Barcellona, sebbene proprio a Barcellona avesse conquistato il gradino più alto del podio del Junior Grand Prix.
Tuttavia, ancora non sapeva che, un anno più tardi, avrebbe amato follemente quella città: il mercato della Boqueria, il quartiere gotico, il parco Güell...
Soprattutto il parco Güell.

Doveva solo passare un altro anno.
Doveva solo crescere un altro po’.











Note:
* ciao bella
** guarda che questo qui ha il cazzo
   
 
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