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Autore: Piperilla    09/12/2016    2 recensioni
Un incontro dettato dal caso.
Un giovane scrittore e un uomo solitario.
Una vecchia storia taciuta per troppo tempo.
La storia del Joyful.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Nei parchi si possono fare strani incontri e ascoltare storie interessanti. Capita, così, che un vecchio sconosciuto ti si sieda accanto e inizi a raccontare. Che poi, se ci pensate, è strano: sono sempre i vecchi, a possedere le storie più belle. Forse perché hanno visto molto; forse perché hanno visto troppo.

******

Ciao, ragazzo. Ti disturba se mi siedo qui? È l’unica panchina in ombra nei paraggi, e le mie gambe sono stanche.
   Sai? Tu hai l’aria di uno che sa apprezzare una bella storia. Io ne conosco una, e ho una gran voglia di raccontarla. Ti va di ascoltarmi?
   Bene. Allora fa’ attenzione a non perdere neanche una parola.
   Che storia sto per raccontarti? La storia del Joyful.
   Conosci il Joyful, no? Qualche anno fa ci fu un grande scandalo, quando venne alla luce la vicenda. Un sacco di nomi importanti finirono nel fango, anche se nessuno dei diretti interessati disse mai nulla al riguardo.
   Ma comunque.
   Per quanto ne so, dal dopoguerra in avanti il Joyful è sempre stato il locale preferito di politici e imprenditori. Chiunque avesse soldi e potere, andava là.
   Pensa, la prima volta che ci misi piede ero poco più grande di te: avevo trent’anni, o giù di lì. Ero stato eletto da poche settimane ed ero anche stato nominato ministro.
   Sai com’è alla tua età, no? Credi di poter cambiare il mondo, di poterlo migliorare. Ancora non sai che sono tutte stronzate, quindi vuoi crederci lo stesso. Be’, all’epoca ci credevo anch’io. Ero entrato nel mio nuovo ufficio pieno di progetti e buoni propositi, e stavo irritando parecchia gente con le mie idee, così un giorno il mio capo partito mi dice che certi equilibri sono troppo importanti per poter essere spezzati, e che alcune alleanze sono più importanti di altre.
   Quali sono le alleanze importanti? Me lo chiedevo anch’io. Il mio capo dice che vuole spiegarmelo, ma che per capire devo prima conoscere il posto in cui le alleanze nascono. Anche i luoghi sono importanti, capisci?
   Se sai cos’era il Joyful, allora sai anche delle sue ragazze. Le più belle che tu possa immaginare, te lo garantisco. Lo so bene, io; per anni ho passato le mie serate lì dentro.
   Dicevamo delle ragazze. Incantevoli, delle dee. Entrare al Joyful, per un novizio, era stordente: ti ritrovavi in questo ambiente lussuoso, e dovunque ti voltassi vedevi inviti al peccato. Le ragazze ti passavano accanto, con i loro corpetti stretti, le spalle nude e le gonne corte e vaporose, e tu non vedevi che un sorriso ammiccante e un luccicare di occhi maliziosi. Era da far girare la testa a chiunque.
   Anche se in molti ne erano convinti, il Joyful non era una casa d’appuntamenti. Al contrario, lì dentro vigeva un regolamento ferreo. Le ragazze non si potevano toccare, pena l’estromissione dal Joyful, e te l’assicuro, non ci teneva nessuno.
   Un’altra regola della casa era che si poteva entrare soltanto mascherati. Noi indossavamo le maschere, e con quelle eravamo tutti uguali, come i completi che indossavamo per il lavoro. Le ragazze, invece, prima di farsi vedere, oltre a mettere su le maschere nascondevano tutti i segni particolari che potevano permettere a qualcuno di riconoscerle: nei, tatuaggi, voglie, cicatrici… per evitare che fuori qualcuno potesse rintracciarle.
   Perché? Perché le ragazze del Joyful erano speciali. Ti sei mai chiesto com’è possibile che nessuna delle ragazze che ha lavorato lì nel corso degli anni abbia mai parlato? La risposta è: perché non potevano. Il proprietario del Joyful andava in giro per la città e pescava le ragazze carine e in difficoltà: quando devi decidere tra mangiare e pagare le bollette, sei facile da convincere. La paga era alta, e in più le ragazze intascavano un altro bel gruzzolo con le mance. Aggiungici che l’opinione pubblica le avrebbe massacrate, se si fosse saputo come si guadagnavano da vivere, e capirai perché non ci tenevano, a spifferare tutto.
   Cosa facevano le ragazze del Joyful, se il posto non era una casa d’appuntamenti? Ballavano. Sembra incredibile, vero? Eppure è così. Andavamo tutti lì per vedere quelle donne meravigliose danzare pur sapendo di non poterle toccare. Devi capire, ragazzo, che l’uomo è masochista e ama farsi del male, e io posso giurarti che non c’era niente di più doloroso che guardarle ballare senza poterle avvicinare. Se tu sapessi quanti accordi sono stati raggiunti in quelle stanze, quanti politici sono stati corrotti e quante mazzette sono passate di mano, impallidiresti!
   Ma torniamo alla mia prima volta al Joyful.
   All’inizio non capivo cosa stesse accadendo. Tutta la faccenda del mascherarsi mi sembrava un po’ strana: anche con le maschere potevo riconoscere al primo sguardo i miei colleghi di partito e gli esponenti di quelli avversari. Attraversavo le sale seguendo il mio capo e ci fermavamo a parlare con politici tra i più noti, con imprenditori ricchissimi che volevano aggiudicarsi appalti… tutto il marcio di quegli anni prendeva forma in quelle stanze tra divanetti di velluto, seta e mobili pregiati. Lì ho capito che le maschere non servivano per nascondere la nostra identità, ma per permetterci di tramare liberamente.
   Non ho mai pensato, neanche per un istante, di andarmene e denunciare tutto. Quel posto era stato creato per irretire e domare anche i più virtuosi, e io non sono mai stato un santo. Avevo tanti buoni propositi, sì, ma fragili come un castello di sabbia asciutta: bastò quel colpo di vento profumato e tentatore a sgretolarli tutti.
   Mi biasimi, ragazzo? Avresti ragione. Mi ero lasciato comprare dal fascino del proibito e da qualche bella ragazza che difficilmente avrei potuto avere. Anch’io mi biasimo. Non solo non ho fatto nulla di buono, ma a differenza degli altri clienti del Joyful, ho rovinato la mia stessa vita.
   Ma quando ti sedevi e guardavi quelle ragazze ballare… ah, era tutto lì il segreto del Joyful. Loro volteggiavano e ti sfioravano seducenti, facendoti immaginare tutte le delizie che racchiudevano in quei corpi, e tu finivi per ammorbidirti. Ti rilassavi e facevi due chiacchiere con chi sedeva al tuo tavolo, parlavi di lavoro e senza neanche rendertene conto ti accordavi con altri per sottrarre fondi pubblici, truccare i concorsi e le gare d’appalto e stabilire il prezzo a cui potevano comprarti. È da non credere, quanto diventino stupidi e loquaci gli uomini quando sono storditi dal corpo di una donna.
   In quel posto scorreva un fiume di soldi inimmaginabile. Lo vedevi nei liquori rari e pregiati che ordinavano gli habitué, o in quello che pagavano perché una ragazza ballasse solo per loro. Ho visto uomini arrivare a sborsare cinque o diecimila euro per avere vicina la loro ragazza preferita per mezz’ora. Regalavano loro gioielli, abiti firmati e, quando riuscivano a conquistare i favori della ragazza che desideravano, arrivavano anche case e automobili di lusso.
   Come dici? Sì, la regola del Joyful prevedeva che non si potessero toccare le ragazze, ma quello che accadeva fuori era un’altra storia. Molte delle farfalle trovavano una sistemazione stabile come amanti di questo o di quel politico e si ritiravano.
   Sei o molto sveglio o molto informato, ragazzo, se sai che farfalle era il termine con cui ci si riferiva alle ragazze del Joyful. Erano belle, delicate e leggiadre proprio come loro, e ognuna aveva il nome di una particolare farfalla. Ne portavano sempre una riproduzione appuntata sui capelli, così potevano essere individuate più facilmente dai clienti.
   Ai miei tempi, la più richiesta era Purple Emperor. Il giorno della mia prima visita al Joyful, lei era la novità del momento: era stata ingaggiata dal proprietario un paio di mesi prima, nel bel mezzo della crisi finanziaria. Tutti la volevano e tutti chiedevano di lei, nonostante ci fossero ragazze molto più belle. Il fatto è, ragazzo, che quella donna era fuori dall’ordinario. Le farfalle che erano lì da più tempo avevano l’aria annoiata e indifferente, quelle nuove erano intimidite e impacciate: Purple Emperor, no. Attraversava le sale con sguardo altero e il mento sollevato in un gesto di sfida, e aveva l’incedere di una regina. Attirava gli sguardi come il miele attira le api, come il ferro attira una calamita. Era diventata quasi una legge fisica: se c’era Purple Emperor tu dovevi guardarla, volente o nolente. Speciale, ragazzo: l’unico modo per capire davvero il significato di questa parola era guardare Purple Emperor.
   L’ho adocchiata quella sera stessa. Non che fosse una vera bellezza – non era molto alta, né prosperosa come tante altre farfalle – ma aveva una pelle bianca che sembrava di crema, ti veniva voglia di assaggiarla, sul serio… e quei capelli scuri, che cadevano giù come fossero state onde, li spostava sempre di lato, lasciando scoperto il suo collo lungo...
   Scusa, ragazzo, sto divagando. Alla fine, la cosa che più ti colpiva di quella donna erano gli occhi. Erano grandi, e scuri, ma quando li guardavi, ci vedevi dentro tutta la vita che una persona può possedere. Ti bruciavano, quegli occhi, dico davvero.
   Se io la osservavo, lei invece non mi aveva degnato di uno sguardo. Non che guardasse qualcuno: si limitava a salire sul palco, ballare e andarsene in un’altra sala. Ci ignorava, tutti quanti: non ci considerava degni neanche di un’occhiata rivolta per sbaglio.
   L’ho inseguita. Quando è scesa dal palco e si è diretta verso una delle uscite della sala, ho piantato il mio capo e i tizi con cui stavamo parlando per andarle dietro. Li ho sentiti ridere – non ero il primo a reagire così, sembra ci siano passati tutti, con una farfalla o con l’altra.
   Le sono corso dietro per tre ore, di sala in sala, come se non potessi farne a meno; e in effetti non potevo, non riuscivo a staccare gli occhi da lei. Alla fine è stata lei ad avvicinarsi. Si è messa a cinque centimetri da me, in bilico sui suoi tacchi altissimi, e mi ha guardato male col naso per aria. Mi ha chiesto cosa volessi da lei con un tono esasperato che alle mie orecchie era irresistibile. “Cos’è, un altro imbecille che vuole fare di me la sua amante?” mi ha berciato contro. “Torna a farti comprare da quelli come te, damerino, ché io non sono in vendita!”
   Cos’ho risposto? Non ho risposto affatto, ragazzo! Ero talmente ammaliato da quella piccola creatura furiosa che tutto quello che sono riuscito a fare è stato continuare a fissarla con un sorriso ebete. Dopo un po’ mi ha sbuffato contro e se n’è andata pestando i piedi e borbottando come una teiera. E io la trovavo più bella che mai.
   La sera dopo sono tornato al Joyful, stavolta senza il mio capo. Anche quella volta ho passato il mio tempo a seguire Purple Emperor, a guardarla, a sperare che mi parlasse di nuovo. Ma lei sembrava aver già dimenticato che esistessi: mi passava davanti con la schiena diritta, ancheggiando, senza guardarmi, quasi fossi stato trasparente. Andò avanti così per un bel pezzo; ci vollero quattro mesi perché mi rivolgesse di nuovo la parola.
   Com’è successo? In realtà non lo so neanch’io. Quella volta ero rimasto fino all’ora di chiusura; gli inservienti stavano già pulendo e gli ultimi clienti se ne andavano alla spicciolata. Io ero seduto al bancone, e mandavo giù un drink dietro l’altro. Era un periodaccio al lavoro, quello, e una volta che Purple Emperor si era ritirata nei camerini, non avevo nient’altro da fare per distrarmi.
   E poi è scivolata sullo sgabello accanto al mio; ha puntato un gomito sul bancone, ha appoggiato la testa alla mano aperta ed è rimasta a fissarmi per un pezzo. Era ancora vestita, mascherata e truccata. Dopo un po’ ho agitato il bicchiere verso di lei. “Che c’è, ne vuoi un po’?” le ho chiesto. L’alcool mi aveva già stordito, ed ero sulla buona strada per diventare completamente ubriaco.
   Lei ha scosso la testa, facendo ondeggiare la farfalla che aveva ancora appuntata sui capelli. “Dovresti smetterla di bere, signor Ministro del Lavoro” mi ha detto, “o domani non sarai in grado di svolgere il tuo”.
   Non so con che espressione l’ho guardata, così come in quel momento non sapevo se essere scioccato per il fatto che sapesse chi ero o per le parole in sé, ma lei deve averla trovata molto divertente, perché ha gettato indietro la testa e si è messa a ridere. Non parlo di quelle risatine leziose o affettate che fanno in genere le donne per sembrare seducenti: lei rideva davvero, con la pancia e i polmoni, ed è finita che si è ritrovata senza fiato. “Sei divertente, signor Ministro del Lavoro Quasi Ubriaco” mi ha detto prima di andarsene. “Quasi quasi mi stai simpatico”.
   Da quella sera abbiamo cominciato a parlare; a volte erano intere conversazioni, altre volte soltanto un saluto frettoloso, ma Purple Emperor sembrava trovarmi quantomeno tollerabile, a differenza di tutti gli altri avventori del Joyful. Dopo altri cinque mesi eravamo in rapporti più o meno amichevoli. Cominciò a raccontarmi qualcosa di sé – che le piaceva il teatro e amava Shakespeare, per esempio, o che quando passava davanti a una libreria, non poteva fare a meno di entrarci – e quando parlava liberamente si illuminava tutta: ti abbagliava, e non potevi fare a meno di guardarla. È stato lì che ho capito che mi ero innamorato di lei.
   Hai sentito i rintocchi delle campane? Si è fatto tardi. Devo andare.
   Come dici? Il seguito della storia? Be’, diciamo che domani potrei passare di nuovo di qua, alla stessa ora. O dopodomani. Magari tra una settimana. Chi lo sa? Se ci rincontreremo, magari ti dirò come finisce questa storia. Stai bene, ragazzo.

*

Una bella fortuna rincontrarti, ragazzo. O forse sei venuto qui ogni giorno dal nostro incontro?
   Però. Sei quello che si dice uno testardo. Buttare tutti i tuoi pomeriggi per più di un mese solo per sentire la storia di un vecchio? Devi essere un tipo strano.
   Perché non sono tornato prima? Gli acciacchi, ragazzo, l’età: la vecchiaia è una brutta bestia. Soprattutto se sei solo. Ma ora torniamo alle cose serie: non volevi sentire il resto della storia?
   Bene. Dove ero rimasto? Ah, sì. Ti ho detto che dopo nove mesi dalla prima volta che avevo visto Purple Emperor, ho capito di essermene innamorato. La scelta più banale sarebbe stata prenderla da parte una sera all’orario di chiusura del Joyful e chiederle di diventare la mia amante, abbandonare tutto, stare con me. Ma lei era più orgogliosa della donna più orgogliosa che tu possa immaginare: sapevo che se le avessi proposto una cosa del genere, non mi avrebbe più guardato in faccia. Così ho deciso di mostrarle che l’amavo, e che l’amavo talmente tanto da riconoscerla anche fuori dal Joyful. Avevo pochissimi elementi per poter sperare di trovarla in una città grande come Roma, ma decisi di provarci lo stesso.
   Cominciai a girare tutte le librerie. Prima di andare al ministero e quando ne uscivo la sera, fino all’orario di chiusura dei negozi, nei finesettimana e nei giorni di festa, camminavo a caso per la città e se vedevo una libreria entravo, mi guardavo intorno e cercavo una donna dalla pelle di velluto e gli occhi vivi e bellissimi come i suoi. La sera andavo puntuale al Joyful, la guardavo ballare e chiacchieravo con lei durante le pause e nei pochi momenti liberi che aveva. Vivevo per guardarla al Joyful, e cercarla fuori di lì.
   È doloroso, sai? Volere tanto qualcuno e non poterlo avere. Ma ho avuto pazienza: io, ragazzo, che mi ero abituato a vedermi servire su un piatto d’argento tutto quello che desideravo e a non dover aspettare mai, ho passato mesi ad arrancare per le librerie del centro e della periferia di Roma in ogni momento libero nella speranza di incontrare Purple Emperor, di vedere finalmente il suo volto, di dimostrarle quanto contasse per me. E alla fine, eccola.
   Credevo che la ballerina fosse irresistibile, ma la donna che c’era sotto la maschera era semplicemente meravigliosa. Stava in quella libreria vicina a Piazza della Repubblica, con il naso infilato ne Il trionfo della morte, un’enorme sciarpa di lana intorno al collo nonostante fosse soltanto Novembre e un cappellino verde scuro che le pendeva sul lato destro della testa, e sul volto aveva l’espressione più tranquilla e felice del mondo: non l’avevo mai vista così.
   Mi ci sono voluti dieci minuti per trovare il coraggio di avvicinarmi. A quell’ora c’era pochissima gente nella libreria, e nessuno mi aveva notato o riconosciuto. Ho fatto un gran giro, passando per i corridoi fino ad arrivarle alle spalle, anche se avevo paura che se ne andasse mentre non l’avevo sotto gli occhi. Ma quando sono spuntato nella sezione in cui l’avevo vista lei era ancora lì, impalata nello stesso punto, ad accarezzare le pagine del libro che aveva tra le mani. Ne ho preso uno anch’io, tanto per nascondermi. Mi sono avvicinato pian piano, le sono arrivato alle spalle. Volevo parlarle, ma solo in quel momento mi sono reso conto che non ci riuscivo. Le parole non mi venivano, la gola era bloccata, facevo fatica a respirare. Ho cercato di schiarirmi la gola, ed è uscito fuori un verso rauco e strozzato. Lei è saltata su, spaventata, e si è voltata a guardarmi.
   Mi ha riconosciuto subito, l’ho visto da come le sue pupille si dilatavano, l’ho sentito nel suo respiro che accelerava. Le ho teso un segnalibro a forma di farfalla, l’avevo visto mentre entravo, ed era una cosa stupida, ma non sapevo come farle capire che sapevo che era proprio lei, Purple Emperor. Ha socchiuso la bocca, voleva parlare, ma sembrava non riuscirci neanche lei. Balbettava. “Ma tu… qui-che fai, tu…”, ed era così carina mentre annaspava, non l’avevo programmato e sapevo che non era una mossa saggia, ma non potevo resistere. Le ho afferrato il volto e l’ho baciata.
   Mi aspettavo che mi respingesse, ragazzo, che mi tirasse un pugno e marciasse via inferocita. Invece non l’ha fatto. Si è dimenata un po’, all’inizio, anche se debolmente. Ho staccato appena le labbra dalle sue – avevo già osato troppo, potevo aver buttato al vento un anno e mezzo di paziente lavoro – e lei ha smesso di agitarsi e mi ha baciato. Riesci a comprendere la meraviglia di questa cosa così semplice? Lei baciava me. Proprio me, che non avevo mai veramente sperato di riuscire a farle capire che l’amassi, ed essere ricambiato.
   Quella sera, guardarla al Joyful aveva tutto un altro sapore. E dopo la chiusura, per la prima volta, venne a casa mia.
   Non fare quella faccia, ragazzo: non facemmo l’amore. Io ero ancora così sbalordito per la sua arrendevolezza che non riuscivo a fare altro che guardarla e tenerla stretta, mentre sentivo il suo cuore battere vicino al mio, ogni battito che mi ricordava che lei era davvero lì con me. Anche lei era stordita: sapeva di piacermi, immaginava che prima o poi avrei tentato di portarmela a letto, ma non le era mai passato per la testa che potessi amarla. Era felice, quella notte. Anche se, orgogliosa com’era, questo me lo disse solo molto tempo dopo.
   Come ho appena detto, era orgogliosa. Così tanto che quando le chiesi di lasciare il lavoro di ballerina per stare con me, lei rifiutò. Sapevo che l’avrebbe fatto; odiava anche solo pensare di dipendere da qualcuno, era dell’idea che stare con me e permettermi di pagare tutte le sue spese e aiutare i suoi genitori sarebbe stato come vendersi; non lo sopportava.
   Continuò a lavorare al Joyful, e io ad andarci per poterla guardare. Non ero geloso: ero certo di lei e dei suoi sentimenti per me, lo ero sempre di più ogni giorno che passavamo insieme. Fuori dal Joyful lei era mia, solo mia: i mesi passavano e io sapevo che era solo questione di tempo prima che cedesse e mettesse da parte quel suo dannato orgoglio per stare con me. Sposarmi, magari, e avere dei figli. Già mi preparavo per la fatica che sospettavo avrei dovuto fare per convincerla a diventare mia moglie. Ma se ti aspetti un lieto fine, ragazzo, stai ascoltando la storia sbagliata.
   Circa sei mesi dopo la mia prima serata al Joyful, al locale era arrivata una nuova farfalla: Blue Emperor. Scegliere il suo nome era stato facile, per il proprietario: era bellissima, alta, dalla pelle di porcellana, con lunghi boccoli biondi e grandi occhi azzurri, identici ai tuoi, come una principessa delle favole; e, cosa più importante, Purple l’aveva presa subito sotto la sua ala protettrice. Una mossa saggia, perché nonostante il giro in cui si stava infilando, quella ragazza aveva un’aria sperduta e un’innocenza che facevano gola a molti.
   Era curioso osservare Purple e Blue insieme. La prima rimproverava sempre la seconda: la esortava a stare attenta, a non lasciarsi abbindolare dai clienti, ma Blue era davvero innocente e non per affettazione: aveva un’anima candida come non ne ho mai visto l’eguale.
   Il mio capo si prese subito una sbandata per Blue Emperor. Aveva l’indole del predatore, e il candore di quella ragazza lo eccitava oltre ogni misura.
   Purple si impegnava più che poteva per tenerla lontana dalle sue grinfie. Si arrabbiava, le faceva ramanzine, e quando lo vedeva avvicinarsi a lei, la trascinava via con la scusa di dover sostituire delle colleghe in altre sale. Così le riuscì di tenere Blue separata dal mio capo per quasi un anno, ma alla fine non poté nulla contro tutti i soldi e il potere di quell’uomo. Con quelli si comprò la possibilità di stare da solo con Blue Emperor; con il suo fascino, invece, conquistò il cuore tenero di quella povera ragazza. Lei credeva ancora al principe azzurro, al vero amore e al lieto fine delle favole: niente di quello che le aveva detto Purple era riuscito a farle aprire gli occhi sugli squali tra cui veleggiava ogni sera. Fu una facile preda.
   Blue Emperor e il mio capo divennero amanti. Purple fumava di rabbia: conosceva troppo bene quell’uomo per avere dubbi su come si sarebbe comportato. Lui non chiese mai a Blue di lasciare il Joyful: era sposato, aveva dei figli, e non avere tra i piedi la propria amante era una comodità a cui non avrebbe mai rinunciato.
   Contro ogni previsione, per qualche mese tutto andò bene. Poi le cose precipitarono.
   Puoi immaginarlo da solo. Blue Emperor rimase incinta, e come chiunque tranne lei avrebbe potuto prevedere, il suo amante insisté per farla abortire.
   Ma Blue era più forte di quando credessimo. Amava già quel figlio che le cresceva in grembo, e si rifiutò di accondiscendere a quella terribile richiesta. Continuò a lavorare al Joyful; disse a Purple che l’avrebbe fatto fino a quando la gravidanza non fosse diventata evidente, e poi sarebbe tornata alla normalità, avrebbe cercato un lavoro ordinario e una casetta, con i soldi che aveva messo da parte in quell’anno.
   Al mio capo, quel progetto non andava giù. L’idea che un suo figlio illegittimo girasse per il mondo lo mandava in fibrillazione: era un pericolo troppo grande, Blue avrebbe potuto far scoppiare lo scandalo in ogni momento, e il test del DNA l’avrebbe inchiodato senza appello. Così si accordò con il proprietario del locale, e decisero di optare per la soluzione che per secoli aveva risolto questo tipo di problemi.
   Non lo scorderò mai. Era un mercoledì sera, era quasi l’ora di chiusura e la maggior parte dei clienti se n’era già andata dal Joyful, compreso il mio capo. Blue e Purple erano al piano superiore, approfittando della relativa solitudine per chiacchierare e ridere in pace. Io ero un piano più sotto, nascosto sulla soglia della sala che dava sulle scale. Le ho viste sbucare sul pianerottolo, ho sentito le loro risate squillanti. Erano proprio sul bordo del primo gradino quando qualcuno spalancò di scatto la porta lì vicino e colpì Blue Emperor in pieno. Per un istante lunghissimo il mondo sembrò muoversi al rallentatore: vidi i suoi riccioli ondeggiare follemente mentre barcollava; i suoi occhi si sgranarono sotto la maschera, il sorriso che aveva sul volto si congelò e divenne una smorfia di paura, e una delle sue mani andò d’istinto a coprire il ventre, quasi avesse già capito cosa stesse per succedere e quale sarebbe stata la tragica conseguenza.
   Ma Purple non era pronta a vedere la sua amica perdere il bambino, o peggio, spezzarsi l’osso del collo dopo un volo giù per le scale. Con un balzo le arrivò addosso mentre il corpo di Blue già aveva perso l’equilibrio e le serrò una mano sul braccio in una morsa ferrea. La strattonò indietro, verso il pianerottolo, l’unico riparo sicuro.
   Rischiò di finirci Purple, giù per le scale. Ma Blue no; lei era al sicuro, in salvo, lontana da quella rampa maledetta.
   Dalle porta che l’aveva urtata sbucò il proprietario del Joyful: aveva l’espressione scocciata quando vide che Blue non era caduta, ma la nascose rapidamente. “Che fortuna, Purple, che tu abbia questi riflessi” disse a denti stretti. “Già. E che sfortuna, che tu abbia aperto la porta proprio mentre passava Blue” sibilò lei di rimando. Aveva fatto due più due in un secondo; il mattino seguente, a casa mia, mi confessò che temeva che accadesse qualcosa di simile sin da quando Blue le aveva confidato di voler avere il bambino.
   Quella fu l’ultima volta che qualcuno vide Blue Emperor. Il giorno dopo, all’orario di apertura, il proprietario si accorse che non si era presentata al lavoro. Il mio capo la fece cercare, ovviamente – voleva essere certo che il problema del bambino venisse risolto – ma nessuno la trovò mai. Era sparita, semplicemente.
   Se c’entrava Purple? Centro pieno, ragazzo. La mia donna, la mia splendida, amata Purple, c’era dentro fino al collo. Non fu facile estorcerle la verità, ma alla fine cedette: aveva aiutato Blue a nascondersi. Quella stessa notte in cui Blue rischiò di volare giù dalle scale, Purple l’aiutò a raccogliere le sue cose e i soldi, la spedì lontano, dove nessuno l’avrebbe trovata, e coprì le sue tracce. E ci riuscì talmente bene che mai nessuno fu in grado di scoprire dove Blue Emperor e il suo bambino non ancora nato erano andati. Nemmeno io l’ho mai saputo: Purple si rifiutò categoricamente di dirmi dove avesse mandato la sua amica.
   Ero preoccupato. Naturalmente il proprietario del Joyful aveva capito che c’era Purple dietro l’inspiegabile sparizione di Blue, e non aveva esitato nell’informare il mio capo. Erano entrambi furiosi: uno aveva perso una notevole fonte di guadagno, l’altro non aveva più la possibilità di rimediare al suo piccolo problema.
   Chiesi a Purple di lasciare il lavoro e nascondersi. La pregai, la supplicai, ma lei fu irremovibile: oltre alla propria famiglia, adesso aveva anche quella di Blue di cui preoccuparsi, perché solo con la promessa di tenere d’occhio anche i suoi genitori era riuscita a convincere Blue a scappare.
   Mi sarebbe piaciuto trovare una soluzione per quel problema. Mi scervellavo, mi lambiccavo il cervello in ogni momento libero per capire come sistemare quella situazione da pazzi, ma non avevo idee. L’unica cosa a rendermi tranquillo era sapere che, finché era accanto a me, Purple non correva rischi e io avevo più tempo per farmi venire in mente una soluzione decente.
   La verità era che di tempo non ne avevo affatto.
   Circa una settimana dopo la sparizione di Blue Emperor, fu convocata una riunione straordinaria di tutti i ministri del Lavoro dei Paesi dell’Unione Europea. Non potevo sottrarmi: dovetti partire, con la previsione di stare via circa due giorni.
   Convinsi Purple a passare con me la notte prima della mia partenza. Era tardissimo – o prestissimo, a seconda dei punti di vista: quasi le quattro del mattino, credo. Ci eravamo addormentati abbracciati dopo aver fatto l’amore, ma ero così nervoso che riuscivo solo a sonnecchiare; bastava il minimo rumore per svegliarmi. Purple dormiva; aveva il palmo di una mano e la fronte pressati sul mio petto. Ogni tanto si muoveva appena e mi si stringeva addosso un po’ di più. A un certo punto strofinò piano il naso sul mio petto; la sentii respirare profondamente e baciarmi all’altezza del cuore. Si muoveva piano, convinta che fossi addormentato. E poi sentii quel mormorio bassissimo, quasi impercettibile. “Ti amo”.
   Era la prima volta che me lo diceva. Io glielo avevo detto, e non una volta sola, ma lei a me non l’aveva mai detto. “Te lo dirò quando meno te l’aspetti, perché se te lo dico quando tu lo dici a me, sembrerà che lo faccia solo per darti la risposta che ti aspetti” mi aveva detto un giorno, con uno dei suoi soliti ragionamenti contorti. Ma in quel momento capii cosa intendesse: sentire quel “ti amo” mormorato, senza alcun preavviso, fu dolce; così dolce che mi spezzò il cuore.
   Il mattino seguente, partii. Le ore sembravano non passare mai, i discorsi degli altri ministri erano solo un ronzio privo di senso. Avevo una brutta sensazione e volevo solo tornare a casa, trovare Purple e stringerla a me, baciarla, tenerla al sicuro.
   La sera seguente ripartii per l’Italia. Quando arrivai andai dritto al Joyful: non m’importava che stesse lavorando. L’avrei portata fuori di lì e le avrei chiesto di sposarmi. Avevo deciso – no, avevo capito – che non potevo più aspettare. Ma quando entrai al Joyful, trovai la peggiore delle sorprese ad attendermi.
   Uno dei buttafuori, un uomo particolarmente grosso, aveva un sacco caricato su una spalla e una pala in una mano. Borbottava, furibondo. “Perché tocca sempre a me ripulire?” ringhiava sottovoce. “Loro fanno i casini e io devo sistemarli”.
   “Che cos’è successo?” chiesi, simulando indifferenza. Avevo sentito dire che qualche volta c’era scappato il morto, al Joyful, ma da quando lo frequentavo non era mai capitato.
   “Il capo e un suo amico, quello che stava sempre con Blue Emperor, erano arrabbiati marci. Una farfalla gli stava dando un sacco di problemi e hanno deciso di sistemare la cosa a modo loro” bofonchiò, infastidito. Aggrottò la fronte, dando un colpetto al sacco che portava in spalla. “Peccato. Mi stava simpatica, Purple Emperor; era sempre gentile, con me”.
   In quel momento il mio cuore si spezzò davvero. Non ho un altro modo per descrivere quello che provai. Era un uomo finito, proprio come mi vedi ora.
   A questo punto non c’è molto altro da raccontare. Mi offrii di aiutarlo a caricare la macchina; gli presi la pala e gliela sbattei in testa con tutta la rabbia che provavo in quel momento. Il poveretto crollò come un sasso e io rubai la macchina, con dentro il corpo senza vita della donna che amavo. Lo portai via, mi nascosi. Comprai una casetta in un posto lontano dalla città e seppellii Purple sotto un bell’albero, all’ombra, nell’angolo del giardino. Ogni giorno mi siedo accanto a lei e le parlo.
   Il suo vero nome? No, ragazzo, questo è un segreto che non rivelerò. Il suo nome resterà con me fino a quando non la raggiungerò sotto quell’albero.
   Sono rimasto con lei per tutti questi anni. L’unico contatto col passato lo ebbi poco dopo essere scappato: rintracciai quel pover’uomo talmente disperato da dover nascondere cadaveri di innocenti per il proprietario del Joyful e versai sul suo conto corrente una grossa somma di denaro, grande abbastanza da permettergli di lasciare quel posto e rifarsi una vita in un luogo lontano. Mi auguro l’abbia fatto: quella sera di tanto tempo fa, erano due uomini disperati a fronteggiarsi sull’ingresso di servizio del Joyful, con un cadavere tra loro.
   Provai anche a rintracciare Blue Emperor. Lei era stata amica di Purple, era stata salvata da lei, e sentivo che in Blue e nel suo bambino sopravviveva un pezzetto di Purple.
   Ma la donna che amo aveva fatto un ottimo lavoro. Nessuno fu mai in grado di rintracciarli, e dopo molti tentativi, mi rassegnai. Così tutto quello che mi rimase di Purple Emperor fu una lapide in giardino e una manciata di ricordi.
   Questo è tutto, ragazzo. Il mio racconto termina qui, e non credo di avere nulla da aggiungere. Adesso devo andarmene: sono lontano da casa da troppo tempo, e Purple mi aspetta. Vivi la tua vita lontano dalla corruzione, ragazzo, e niente insozzerà la tua anima.
   Ti auguro una vita felice.
   Vuoi saperla un’ultima cosa? Sarà l’aver rievocato questa storia dopo tanti anni, ma tu hai una faccia familiare. Deve essere la vecchiaia che fa brutti scherzi. Addio, ragazzo.

******

Finalmente sono arrivato al traguardo che mi ero prefissato. Scrivere un libro. E raccontare la verità.

LA COLLEZIONE DI FARFALLE
di
Alessandro Borromini

A mia madre, che ha combattuto contro il mondo per darmi la vita,
e a Purple Emperor, che ha salvato quella di entrambi.
   
 
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