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Autore: lady igraine    10/12/2016    5 recensioni
Demian ha quasi sedici anni, è armato della tragicità di un adolescente e dell’esperienza di vita di un uomo fin troppo intraprendente. La sua esistenza è in costante bilico tra un morboso amore per la propria famiglia, afflitta dal dramma della malattia terminale della madre, ed un mondo più oscuro, di amici poco raccomandabili che gli permettono di sfogare i sentimenti più ombrosi e repressi della sua anima. È in questa fase che lo incontra Arianna, infantile, irrequieta e altrettanto problematica ragazza, dotata di un instancabile sorriso che cela più malinconie e segreti che gioie. Sono tre, i mesi decisivi, quelli che, nel bene e nel male, lasceranno un segno indelebile nelle loro vite.
***
La coscienza era una bestia oscura che divorava da dentro, lasciando sempre l’impressione di facciata che tutto andasse bene.
"Le persone, da fuori, sembrano indistruttibili, perfette come bambole di plastica che non si possono rompere. È il dentro che è una fregatura, un agglomerato di marciume infilato a forza tra gli organi, da qualche parte"
La sua coscienza era terribile più di tutto, le toglieva molte cose, una ad una, con la noncuranza con cui un bambino strappa i petali ad una margherita
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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À Demian

Capitolo primo

Attesa

 

 

Le note basse di una chitarra elettrica picchiavano secche, rimbombando tra le pareti del corridoio vuoto. Poi, l’urlo euforico della voce distorta e grezza esplose distintamente mangiando ogni altro suono, e su quelle grida di sfogo liberato Demian si mosse appena, sprofondando di più nella sedia, alla ricerca inconscia di una posizione più comoda.

L’auricolare sinistro sfuggì al suo orecchio e, con la musica d’un tratto ovattata, sussultò e si raddrizzò con un sobbalzo e uno sprazzo improvviso di consapevolezza. In un primo momento di confusione non riuscì a mettere a fuoco dove si trovasse e l’istinto lo portò a guardarsi intorno con sospetto, solo per pochi istanti, prima di riprendere il controllo e lasciarsi avvolgere da un’inaspettata sorpresa.

Si era addormentato.

Semplicemente addormentato.

Non ci era mai riuscito, non in ospedale, passava le ore d’attesa in uno stato di torpore e dormiveglia nel migliore dei casi, ma riposare veramente era impensabile per troppe ragioni, per la tensione, il nervoso.

La musica doveva essere riuscita, chissà grazie a quale miracolo, a riempire il vuoto apatico di tutto quel bianco e la solitudine dell’attesa, permettendogli di trovare tregua persino su una di quelle seggiole da ospedale, di ferro e finta pelle anallergica con un’inesistente imbottitura di gommapiuma.

Eppure, come sempre, bastava un breve frammento di silenzio per farlo ricadere nel disagio e in quei pensieri sui quali si riprometteva di non indugiare troppo a lungo, per non permettere all’angoscia di scivolare nella costernazione. Nemmeno la stanchezza delle ultime quarantotto ore prive di sonno bastava a sedare l’ansia.

Lentamente, ancora intontito, sollevò il viso per scrutare il cielo oltre il finestrone dagli infissi bianchi, scrostati, che dal fondo del corridoio lasciava penetrare tenui raggi di luce tiepida.

Stava albeggiando, dovevano essere quasi le sette del mattino, anche se non poteva esserne del tutto certo, il cellulare si era scaricato la sera prima e naturalmente non gli era stato possibile in alcun modo tornare a casa.

Quasi due giorni senza dormire e quasi senza mangiare, si sentiva a pezzi e forse avrebbe dovuto farsi una doccia, ma non voleva muoversi, se lo era ripromesso. Sarebbe rimasto seduto lì fino a quando lei non si fosse svegliata, sarebbe rimasto finché non l’avesse vista respirare normalmente, e sorridergli magari.

Si sistemò sulla sedia come un essere umano e non come l’invertebrato che si sentiva essere, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e cercò di trattenere l’ennesimo sbadiglio e il dolore alla spalla e al fondoschiena. Il corpo era intirizzito, la spalla decisamente anchilosata e il collo irrigidito per la discutibile posizione con cui aveva trascorso la nottata.

Tentò di farlo scrocchiare per liberarsi di quella fastidiosa sensazione di non potersi muovere liberamente e imprecò sottovoce quando lo sforzo andò a vuoto. Ai vari indolenzimenti, contribuivano in maniera dolorosa i crampi allo stomaco per il lungo digiuno, così dopo aver contemplato la parete disadorna di fronte a sé e la porta chiusa della camera, pensò che forse, almeno, poteva concedersi di allontanarsi qualche istante, giusto il tempo di recuperare qualcosa che gli desse le energie per non crollare e finire ricoverato a sua volta.

Si tolse le cuffiette e le arrotolò impaziente intorno al lettore CD, poi l’infilò malamente nella grande tasca della felpa, insieme alle sue mani irrigidite e screpolate dal freddo, e di malavoglia si costrinse ad alzarsi e a ripercorre quel maledetto, familiare, corridoio vuoto.

Era tutto tremendamente bianco lì dentro.

Erano bianche le pareti.

Era bianco il pavimento.
Persino le finestre malandate e piene di spifferi erano bianche e l’unica nota di colore erano le piccole e scomode seggiole beige stinto che punteggiavano il muro.

La fissazione degli ospedali per il bianco Demian non l’aveva mai compresa. Ci aveva provato, ma quello restava ai suoi occhi il colore più estraniante e triste, sapeva di ricordo sbiadito e si ritrovava spesso a pensare che lo odiava, con ogni fibra del suo essere.

Era meravigliosamente paradossale che fosse generalmente riconosciuto come la sfumatura della purezza, come sinonimo di salvezza. Tutto ciò che era candido era bianco, il bianco rilassava le persone normali.

Ma non lui.

Demian se ne sentiva sconfitto, risucchiato in un nulla annichilente ogni volta che si ritrovava a camminare in tutta quell’assenza di colore. Il bianco accentuava solamente il senso di rovina che permeava l’ospedale e sapeva di resa, come una bandiera sventolata tristemente a ricordare che non tutti lì dentro potevano farcela.

Quella verità nessuno la conosceva meglio di lui.

Se fosse uscito avrebbe trovato suoni, rumori, vita.

Distrazioni.

Gli bastava oltrepassare il perimetro dell’ospedale però, per ritrovarsi in una dimensione sospesa e senza tempo, fatta di inquietanti silenzi e facciate in stile dopoguerra, con le camere rigorosamente bianche dai soffitti alti quattro o cinque metri ma non altrettanto larghe. Gli davano un malsano senso di claustrofobia e instillavano in lui un desiderio istintivo di fuga.

A quell’ora poi non c’era nemmeno un’anima nei dintorni, solo lui, che neanche avrebbe dovuto poter stare lì, ma, ogni volta che accadevano quegli imprevisti, Marisa e il Primario del reparto gli permettevano di aspettare fuori dalla camera fino all’orario delle visite.

Chiudevano un occhio perché Demian in ospedale, davanti a quella stanza, ci aveva passato più giornate che non seduto in un banco di scuola, e la televisione con le sue stupide serie con medici fantocci tanto brillanti da curare ogni malattia non lo aveva mai illuso o ingannato.

Lui la verità la conosceva fin troppo bene, sapeva che era tutto troppo grande e vuoto e che quel vuoto lasciava dentro solo una profonda tristezza che lo annientava ogni giorno di più.

Aprì una porta a due battenti e scese le scale per raggiungere il piano terra, dove sapeva di poter trovare delle macchinette. Sperava di resistere un altro paio d’ore almeno, però nonostante i crampi l’idea di una qualunque forma di sostentamento lo nauseava, per questo aveva un allucinante bisogno di caffè.

La macchinetta delle bevande era vicino alla porta d’ingresso.

Un capannello di persone aveva assediato l’infermiera di turno al banco informazioni e stava facendo un discreto schiamazzo che acuì solamente di più il suo già grande mal di testa.

Avrebbe voluto parlare con Marisa, giusto l’indispensabile per farsi un’idea un po’ più chiara della situazione e magari ricevere una qualche forma di rassicurazione, non che ci avrebbe creduto o avrebbe apprezzato, ma non si sentiva abbastanza coerente in quello stato per avere certezza di cosa desiderasse veramente sentirsi dire.

Forse, solo parole sterili da una persona familiare, la solita storia ripetuta con affettuosa e sconcertante ipocrisia.

La povera infermiera non sembrava essere in condizione di dedicargli qualche minuto in quel momento, perciò si rassegnò a recuperare dalla tasca dei jeans qualche spicciolo e selezionò il caffè forte con abbondanza di zucchero, nella speranza che glielo rendesse più tollerabile.

Demian detestava quella brodaglia amara ma non aveva troppe alternative che lo tenessero in piedi.

 

Resisti ancora un poco.

 

Continuava a ripeterselo, solo qualche ora e poi, quando avesse parlato con lei, sarebbe finalmente tornato a casa e avrebbe dormito tutto il giorno.

La macchinetta iniziò a ronzare mentre compariva il messaggio “attendere” sul display. Dondolò da un piede all’altro e quando finalmente il segnale scomparve estrasse il bicchiere bollente dallo sportellino.

Subito imprecò: non era scesa la paletta di plastica per mischiare lo zucchero. Un classico, non era di certo la prima volta che gli capitava, la sua esistenza non aveva mai brillato per fortuna, ma quella giornata nello specifico si preannunciava uno schifo peggiore di quello che era solito affrontare.
Rassegnato, lo buttò giù tutto d’un sorso.
Non sapeva nemmeno di caffè, sembrava una pallida imitazione. Come se, avendo richiesto più zucchero, avesse perso proporzionalmente il diritto ad avere la stessa dose di caffè che viene normalmente data. Gettò il bicchiere con stizza nel primo cestino che riuscì a trovare e sfilò dalla tasca dei jeans neri un pacchetto di sigarette, per levarsi quel sapore ripugnante dalla bocca. Non lo avrebbe mai capito, perché odiava il caffè. Forse, perché semplicemente gli ricordava l’ospedale, e per uno strano binomio mentale assumeva nella sua bocca il sapore del catrame.
«Brutta giornata?»

Era così concentrato che non comprese subito che quella voce dalla delicata cadenza veneta si stava rivolgendo proprio a lui. Con fin troppa indolenza si volse per incontrare il viso dell’infermiera. Era difficile guardarla, per lui, e quando si soffermava sui suoi occhi scuri di cioccolata fondente, opposti ai suoi, si convinceva che lo sarebbe stato sempre, anche in futuro.

Quando l’aveva conosciuta Elena era solo una tirocinante del reparto di oncologia, anni prima, che l’università aveva assegnato proprio a quell’ospedale per due mesi. Ma ormai era stata assunta proprio lì, ironicamente, e questo l’aveva resa odiosamente e faticosamente familiare per lui.

Anche troppo.

Annuì impercettibilmente, irritato per averla incontrata già di prima mattina e seccato dalla propria irritazione. L’unica nota veramente positiva, era che il suo umore con lei avrebbe potuto essere estremamente variabile, e ad Elena non sarebbe importato comunque, il modo in cui le si rivolgeva non la disturbava particolarmente.

«Che dici, me ne offri una?»
Dem inarcò un sopracciglio e la squadrò con sufficienza «Non dovresti nell’orario di lavoro» le fece notare. Solo perché odiava varcare quella soglia, dove in bella vista stava un cartello “vietato fumare”, per sentire l’odore di fumo addosso a ogni dipendente che poi si prendeva cura di malati che, per quell’odore, stavano morendo. Certo, era un ragionamento senza senso, come la maggior parte dei suoi pensieri quando si trattava di quel posto.

Probabilmente, contestare Ellie per principio contribuiva al suo sistematico contradditorio.

Certamente, se Jenevieve non avesse avuto il cancro, non gliene sarebbe fregato niente dell’odore del fumo o di qualunque altra cosa.

Avrebbe persino regalato ad Elena il pacchetto.

Magari avrebbe smesso di avercela con lei.

Ellie, come prevedibile, sorrise di quella sua osservazione «Ho finito il mio turno, piccolo moralista»
Non la guardò, scrollò semplicemente le spalle e le porse il pacchetto di sigarette. La ragazza ne prese una e, senza consenso, lo seguì fuori dalla porta girevole e si appoggiò al muro accanto a lui.
Quel giorno aveva voglia solo d’ignorarla e fingere che non esistesse.

Era bella Elena, il tipo di bellezza che faceva voltare gli uomini quando passava per strada, con una folta chioma castana, due grandi occhi scuri, la carnagione olivastra e le gambe lunghe e snelle. Il tipo di ragazza che, quando era in vena, attirava anche la sua, di attenzione. Ma, forse per il rapporto che avevano, ormai non era più particolarmente toccato dalla sua presenza accanto a lui.

«Come sta tua madre?» domandò ad un certo punto lei, soffiando fumo.
Deglutì rumorosamente «Come ieri» mormorò, cercando di tenere solida e sicura la voce, mentre con gli occhi inseguiva gli inesistenti fili verdi del cortile interno dell’ospedale, per non rincorrere il guizzo di un presentimento che lo tormentava.

Era un semplice rettangolo di terra morta delimitato da alberi di magnolia spogli. Lo osservava sempre, dalla finestra del piano superiore, e si domandava a cosa servissero quei cespugli di fiori moribondi e mal curati.

 

Davvero non capiscono che questa raccolta di natura morta rende il paesaggio perfino più triste?

 

Doveva essere colpa sua, era lui ad aspettarsi troppo, a pretendere più del dovuto da un posto che le persone le accoglieva a lungo solo per abituare i parenti a non averle più intorno, per facilitare così la fase “Perdita della madre/figlia/cugina di  terzo grado e così via”.

«Hai passato di nuovo qui tutta la notte?» Elena interruppe ancora il filo assurdo delle sue elucubrazioni, e dal suo tono trapelò una nota di profonda pena che lo ferì e irritò più del dovuto.

«Non ho bisogno del tuo conforto» chiarì, scoccandole un’occhiata eloquente. Non sopportava la compassione che tutti gli riservavano, lo faceva sentire un animale ferito, e lui non era un debole.

«Ok» borbottò l’infermiera tranquillamente, gettando a terra il mozzicone di sigaretta e schiacciandolo poi con il tacco della scarpa «Allora suppongo che ci vedremo domani» continuò abbozzando un cenno di saluto con la mano prima di allontanarsi senza aspettare una sua risposta, che comunque non sarebbe arrivata.

Osservò la sua figura longilinea finchè non fu scomparsa dal vialetto, poi imitò il suo gesto, gettò il mozzicone e rientrò. Sperava che maman avesse aperto gli occhi, nel frattempo, aveva il sonno leggero nell’ultimo periodo ed era raro che riuscisse a farsi una completa dormita.
Gli tremò la mano, quando la posò sulla maniglia della porta della camera di Jenevieve. Strinse le dita in una contrazione che sapeva di spasmo, e schiuse l’uscio piano per non disturbarla in caso stesse ancora riposando.

La sera prima, quando finalmente aveva abbandonato la terapia intensiva e le avevano dato una stanza, Demian era rimasto con lei e le aveva tenuto la mano fino a che non si era addormentata.

Dopo no, non ce l’aveva fatta a fingere di sopportare di vederla in quello stato, era semplicemente fuggito, aveva preferito aspettarla altrove.

Il sottile rumore della bombola di ossigeno permeava l’aria e sostituiva il respiro un po’ affannato che aveva imparato ad associare a sua madre. La trovò seduta, per non dire abbandonata, contro la spalliera del letto, con il capo leggermente reclinato sulla spalla.

La guardò dalla soglia per qualche istante, prima di palesarsi.

Guardò il tubo che dal basso torace drenava il liquido dai suoi polmoni, pensò che le cannule nasali erano una visione quasi quotidiana, ma quel tubo, quel foro all’altezza delle costole più basse, quello sarebbe sempre stato un qualcosa di irrimediabilmente estraneo.

Jenevieve inclinò il viso sciupato verso di lui e abbozzò un sorriso tirato sui denti rovinati, ma il suo sguardo sembrò trapassarlo come non l’avesse visto davvero.

«Sei ancora qui tesoro?»  la sua voce arrochita e secca lo fece sussultare. Aveva un aspetto tragicamente deperito e sgradevole, la stanchezza l’abbatteva brutalmente rendendo anche il gesto più semplice un’impresa in grado di prosciugarla. La pelle le aderiva alle ossa, la vedeva ogni giorno, eppure ora riusciva ad apparirgli persino più magra, più spolpata.

A quell’immagine distorta di maman non riusciva ad abituarsi, per quanto di tempo ne fosse trascorso.

Jenevieve era stata bionda come il sole, e come il sole erano stati i suoi occhi, dorati e caldi, e il suo sorriso raggiante e a tratti buffamente immaturo. E Demian aveva provato un orgoglio smisurato per la sua bellissima maman, al suo sguardo infantile splendida più di qualunque altra mamma avesse mai incontrato, perché tutte erano serie e antiche, mentre lei era distratta e giocosa.

Era difficile ora sopportare che quegli stessi occhi da cerbiatta furbi e dispettosi fossero resi così offuscati e assenti a causa degli antidolorifici, quasi vuoti avrebbe detto, se non si fosse ripetuto migliaia di volte che quella donna era sempre sua madre.

Si costrinse a inventare una forma di sorriso e si avvicinò a lei.

«Ti senti meglio?»
C’era un altro posto-letto in quella stanza. Fortunatamente era vuoto quel giorno, non doveva bisbigliare, ma il tono uscì comunque leggero e delicato, come si stesse avvicinando ad una bambina dal ginocchio sbucciato e dovesse ricorrere a tutta la tenerezza che provava per lei.

Jen sollevò gli occhi al soffitto «Sto bene, tu invece hai una cera pessima. Devi tornare a casa a dormire, mon amê. Non puoi restare tutte le volte»
Demian si trattenne dal risponderle male.

Quella mattina non era in vena di scherzare o di tentare per l’ennesima volta di sdrammatizzare sulla loro condizione, ma non voleva nemmeno ferirla. Era facile chiedergli di tornarsene a casa come se nulla fosse, ma come avrebbe potuto dormire sapendola lì da sola?

Non era la prima volta che accadeva, di certo non sarebbe stata l’ultima. Nonostante ciò, gli era impossibile assistere alle crisi respiratorie di sua madre e fingere che fosse tutto nella norma. Era stanco di vedere l’ambulanza che d’urgenza la portava via, era stanco di tutto. Desiderava avere solo più tempo, ma ogni volta che Jen stava male realizzava che il tempo stava iniziando a scadere e sentiva solo un gelido panico dentro di sé.

Si perse nell’intreccio di fili che la collegavano alle macchine, in quel bip che scandiva i battiti del suo cuore, in quegli aghi che le bucavano la bella pelle, sulle mani, pompando nel sangue le dosi di morfina necessarie e non farla soffrire, e gli sfuggì una smorfia.

«Maman, io sto bene» tagliò corto.

Capì che aveva colto l’antifona, perché esitò un momento prima di parlargli ancora. Gli prese la mano e se la portò al viso, baciandogli il dorso.
«Dami, davvero, non devi preoccuparti in questo modo per me. Va’ a casa e riposati. Non serve che tu trascorra la notte qui ogni volta»

Si lasciò andare ad un sorriso più dolce e si aggrappò alle dita magre di lei per contenere l’amarezza.

«Guarda che io lo faccio per l’infermiera» la prese in giro.

Era ancora bella, quando aggrottava le sopracciglia in un moto disappunto e arricciava le labbra, come pronta a fare i capricci più che a rimproverarlo.

Era bella ed era soffice di una dolcezza che lo scioglieva.

«Non è troppo grande?»

Finse di rifletterci un attimo, poi si morse il labbro inferiore per non tradire con un sorriso il tono serio «Credo abbia ventitré anni. Ho sempre preferito le donne mature»

Sua madre si drizzò all’istante, scandalizzata, ignorando il fatto che avrebbe dovuto muoversi il meno possibile «Otto anni di differenza, te lo scordi! Ti proibisco di rivederla categoricamente. Ci manca solo che porti il mio bambino sulla cattiva strada!»

Demian provava un sottile piacere, quando Jen giocava a fare il genitore. Era ovvio che fosse solo finzione, ma riusciva comunque a trasmettergli l’impressione di essere meno solo, e dopo anche lei sembrava più felice e soddisfatta.

«Sette, ho quasi sedici anni!» la rimbeccò, sollevando affettuosamente l’angolo della bocca in una smorfia ironica. Si chinò su di lei a stamparle un delicato bacio sulla fronte, e sorrise fra i capelli corti cercando di ricordare come fossero prima, lisci e morbidi.

«Rifiuterò le sue avance da oggi» le promise con finta condiscendenza.

Se maman avesse saputo le cose che aveva già fatto con Elena forse ne sarebbe morta oppure, se ne avesse avuto la forza, lo avrebbe appiccicato al muro con un sonoro ceffone. Eppure in parte doveva saperlo, che sulla “cattiva strada” ci era già finito da un pezzo, da molto prima che la malattia di lei peggiorasse al punto da renderle impossibile il vivere serena a casa sua.

«Se ti senti meglio vado a chiedere quando potrò portarti a casa» asserì infine.

Jen però scosse la testa.

Demian non le aveva notate, quelle occhiaie profonde, e neanche la piega dolente della bocca.

Non stava per niente meglio.

Non poteva guarire, non era un illuso e lo sapeva fin troppo bene, ma veramente non poteva impedirsi di sperare che il tempo si potesse dilatare ancora un poco.

Non era assolutamente pronto a perderla. Non sapeva neppure come spiegarlo alla sua Sarah, che maman un giorno semplicemente non ci sarebbe più stata e basta. Se poi pensava a sua sorella, pensava che forse anche lei avrebbe potuto non esserci più, si sentiva come se il terreno sotto i suoi piedi si stesse sfaldando e non ci fosse più nulla di concreto a cui potersi aggrappare.

«Ci penseremo più avanti» stava intanto dicendo Jenevieve «Lo sai che per routine mi terranno qui almeno un paio di giorni. Seriamente, adesso va’ a dormire, tresor»

Demian voleva andarsene da quella stanza con tanta intensità che stavolta accolse senza riserve il desiderio della madre. Si chinò a baciarla di nuovo sulla guancia e, dopo aver respirato il profumo della malattia che le aleggiava intorno, si congedò, promettendo di tornare presto.
Uscì dall’ospedale a passo svelto, schivando chiunque potesse riconoscerlo. Non era il momento opportuno quello per sentirsi fare le solite domande. Si calcò il cappuccio della felpa sulla berretta nera da cui spuntavano ciuffi di capelli bianchi, e raggiunse il parcheggio dove aveva lasciato il suo motorino. Rimpiangeva di avere solo quindici anni, di essere così inutile, di non poter fare mai nulla di concreto per poter aiutare le persone che amava.
 
 
Erano le otto del mattino quando arrivò a casa.

L’ospedale distava poco dal centro città e quindi dalla sua scuola, ma casa sua era molto più lontano, in un paesino limitrofo, e per poter rientrare gli occorreva sempre almeno mezz’ora.
Il campanile della chiesa vicina, con il fastidioso “Don” delle sue campane che scandiva il tempo implacabile, gli ridiede una dimensione temporale, quella che perdeva quando rimaneva troppo a lungo in quel luogo bianco tagliato fuori dalla vita vera.

In teoria avrebbe anche potuto andare a scuola, era da più di una settimana che non si presentava. Già l’anno prima si era preso troppe libertà a dire dei professori, aveva perso la maggior parte dell’anno e nonostante fossero stati molto permissivi niente l’aveva salvato da una disastrosa bocciatura. Ed ora, nel consiglio di classe ci leggeva solamente un’ostilità nei suoi confronti nata dall’esasperazione, lo sapeva benissimo che con il suo assenteismo cronico avrebbe probabilmente perso di nuovo l’anno.

Non che la cosa avesse un qualche peso.

Quando vedeva sua madre capiva che di cose stupide come la scuola o il futuro non poteva importargli di meno. Chiuse la porta blindata dietro di sé, diede due giri di chiave e rilassò le spalle. Entrare lì dentro, solo, senza nessun tipo di ansia gli alleggerì per pochi attimi il mondo. Ma poi la luce lampeggiante della segreteria telefonica gli ricordò quasi crudelmente che aveva ancora dei legami che lo vincolavano a tutto ciò che si stendeva oltre la soglia di casa.
Era troppo presto perché qualcuno gli avesse lasciato un messaggio in mattinata. Era più probabile che fosse della sera precedente, forse di sua zia.
Premette il bottone e la registrazione rilasciò la voce d zia Claire. Sembrava agitata e Demian fu percorso dal brivido tipico di quando si aspettava solo brutte notizie.
“Ciao Dami, i medici ti hanno detto qualcosa? Come sta Jen? Si è svegliata? E tu come ti senti? Se hai bisogno basta che mi chiami e vengo subito”
Demian inarcò un sopracciglio, perplesso. Zia Claire sapeva perfettamente come stava sua madre, cosa potevano avergli detto o qualsiasi altra cosa. Quasi sicuramente aveva già chiamato in ospedale per avere le informazioni che ora stava chiedendo a lui.
La voce della zia s’interruppe un momento, una pausa abbastanza lunga da permettergli di deglutire. Poi, incerta, la registrazione riprese “sai… Sarah aveva una visita ieri. Mi ha chiesto perché non c’eri”
Questa volta impietrì. Se ne era completamente scordato.

In verità se ne scordava quasi sempre, perché odiava quelle visite più di tutto, e toccava sempre a Claire coprirlo, per non far rimanere male la sua sorellina. Si ritrovò a supplicare mentalmente che Claire non avesse aperto bocca con la bambina e che Sarah non fosse terribilmente arrabbiata con lui. Ma in verità già sapeva prima ancora di sentirlo che la zia aveva vuotato il sacco, così come era certo che la sua petite peste non gli avrebbe mai tenuto il broncio.
“Si è un po’ spaventata” ecco, le aveva detto della mamma, lo sapeva.

Un’altra lunga pausa.

Una di quelle che odiava sentire. Prima che la voce potesse riprendere aveva già afferrato il giubbino nero e lo stava indossando di nuovo. Sarah non doveva preoccuparsi, per questo le notizie che le venivano date erano dosate e addolcite col miele, perché lei non doveva assolutamente provare ansia.
“Comunque ora sta meglio, davvero. Non stare in pensiero. Sarah voleva che te lo dicessi, dice che tu devi sapere sempre tutto altrimenti ti preoccupi. È molto dolce. Ti saluta e dice di ricordarti che ti vuole bene… ciao Dami, ci vediamo presto”
Anche quel giorno non avrebbe visto scuola. Afferrò il cellulare e ricordò a scoppio ritardato che era scarico. Attraversò a grandi falcate il corridoio per raggiungere la sua camera da letto, spalancò la porta per ritrovarsi il cane bellamente addormentato fra le sue lenzuola. Il cucciolo alzò appena la testa quando lo vide e prese a scodinzolare gioioso.
«Maledizione Lala! Lo sai che non voglio che sali sul letto!» inveì scacciandola malamente. Lalami, una piccola, soffice e pestifera bestiolina che amava riempirgli il letto di peli, con la lingua a penzoloni, cominciò a saltargli addosso.
«Giù Lala! Non è proprio il momento! Levati dalle scatole!» riuscì ad allontanarla con una gamba mentre infilava il braccio dietro al letto per raggiungere il carica batteria, sempre attaccato a quella presa nascosta. Collegò il cellulare e in maniera quasi frenetica cercò nella rubrica il numero di Claire.
Il telefono iniziò a emettere il suo snervante “Tuuu” che sapeva quasi di accusa. Come se qualcuno, dall’altro capo della cornetta, lo stesse apostrofando con una sorta di disprezzo.
Claire ci stava mettendo troppo a rispondere. Poteva star facendo qualunque altra cosa, non era detto che fosse accaduto niente di grave, ma il pensiero di aver lasciato Sarah da sola quando le aveva promesso che l’avrebbe accompagnata lo tormentava. Per non parlare di quel “ora sta bene” che lasciava presupporre un qualcosa di non troppo positivo prima.
«Pronto?»
«Zia!» esclamò lui tirando un sospiro di sollievo «Che cosa le hai detto?» il tono aggressivo celava malamente un’accusa.
«Solo che hai accompagnato Jenevieve all’ospedale per dei controlli» chiarì lei pacatamente.
Sembrava un’affermazione piuttosto normale e innocua, e non riusciva proprio ad afferrare cosa avesse in tutto questo allarmato la sorella. Come se gli avesse letto nel pensiero Claire osservò
«Non è una stupida Dami. Ha capito che qualcosa non andava. E la mia bugia le ha fatto credere che fosse più grave del dovuto»
Maledisse Sarah, perché per avere solo nove anni era decisamente troppo sveglia, oltre che terribilmente sfortunata.
«Ok, arrivo» si ritrovò a dire prima ancora di averlo pensato
«Non è necessario, davvero. È stato solo un attacco di panico, oggi stava così bene che ha anche deciso di andare a scuola»
Si sentì sbiancare di collera per quanto la sua carnagione pallida glielo concedesse.
«E tu glielo hai permesso? Lo sai quanto è instabile dopo un attacco, non avresti dovuto permetterglielo!»
Staccò il cellulare. La conversazione non sarebbe durata ancora a lungo, e per quella manciata di secondi la batteria avrebbe retto prima di spegnersi di nuovo.
«Vado a prenderla. Chiama la scuola e avvisa che uscirà prima»
Guardò l’ora: più che prima, sarebbe praticamente uscita subito dopo l’inizio delle lezioni.
«Avanti Dami, non esagerare. Non è il caso»
«Ho detto che sto andando, quindi è meglio che chiami o la porterò via di lì senza il tuo consenso»
Riattaccò bruscamente senza aspettare risposta.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE

 

Buongiorno!

 

Prima di tutto, scusate, ho già trasgredito. Avevo detto mercoledì e invece finisco con il postare di sabato… ho tre motivi!

Uno valido, l’altro discretamente valido, il terzo diciamo forza maggiore!

Il mercoledì mattina sono stata chiamata per lavorare con poco preavviso e non pensavo che mi sarei liberata solo sul pomeriggio molto tardo (questo è il motivo valido), e poi ho fatto male i miei calcoli.

Perché ok, ora partono le ammissioni imbarazzanti.

Non ho scelto il mercoledì a caso, l’ho scelto perché la sera esce sempre una puntata di Yuuri! On ice e beh, non mi sono bruciata il cervello per questo anime giuro, sono tranquillissima, smanio solo come una pazza tutta la settimana e in giornata non riesco a pensare ad altro, tutto qui!

Quindi, visto che l’attesa del mercoledì non mi passa mai, mentre quando devo pubblicare per l’ansia mi sembra sempre che il tempo voli, ho deciso di sovrapporre le due cose…

Sì.

L’ho fatto solo per l’anime, il mio senso delle priorità fa schifo, ma davvero io ci muoio, la curiosità mi ammorba!

E quindi alla fine ho capito che pubblicare mercoledì sarà impossibile, perché penso solo a Yuri! E Yurio pure, è adorabile Yurio…!

Terzo motivo, il giorno dopo sono partita per la Francia e solo ora ho recuperato un wifi, quando ho saltato la pubblicazione non avevo pensato che poi non avrei avuto tempo fino a oggi, vi chiedo profondamente scusa.

Lato positivo: non so quanti di voi vecchi lettori ricordino questo dettaglio, ma in questo momento sono esattamente a Kerlaz, e proprio oggi ero esattamente su una scogliera non casuale, e ho mangiato un kouign amann ai piedi di un pozzo altrettanto non casule!

È stato un po’ come ritrovare un luogo familiare e ho provato un moto probabilmente immotivato di nostaglia… ma forse sono solo strana!

La prossima volta non tarderò, giuro che farò la brava.

 

 

Ah, Fabula Nera grazie di essere tornata, non sai quanto sia confortante ritrovare il tuo nome

  
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