Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: rora02L    13/12/2016    11 recensioni
Angelo ha perso la sua voce, il suo canto. Riuscirà a ritrovare il coraggio? Potrà una semplice canzone salvarlo dalle sue paure ed insicurezze? Forse sì, con lo spirito natalizio a ricordargli che non è solo e non lo sarà mai.
Scritta per la sfida "A very happy ending for a happy Christmas" indetto dal gruppo su FB EFP famiglia. Spero vi piaccia, ho cercato di fare qualcosa di diverso dal solito.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Adeste Fideles.


Image and video hosting by TinyPic


“Stai scherzando, vero?” chiese nuovamente il professor Brunelli al suo alunno, mortificato per avergli dato quella terribile notizia.
Il loro tenore di punta per il concerto natalizio, Carlo, si era ammalato e non faceva altro che tossire. Ormai era il 23 Dicembre, le prove erano già iniziate da molto e quel brano non si poteva togliere.
Era il loro brano migliore, ma senza la voce di Carlo da solista era impossibile da eseguire. Ma il professor Brunelli non aveva la minima intenzione di rinunciare.
“Adeste Fideles” aveva una potenza ed una carica solenne e travolgente che lo aveva sempre affascinato in maniera assoluta. Gli altri coristi, sentendo la notizia, iniziarono ad agitarsi, chiedendosi chi di loro sarebbe stato il sostituto di Carlo.
Il professore di canto prese ad andare su e giù per l’aula, fermandosi ogni tanto davanti allo spartito e meditando. Chi avrebbe potuto prendere il posto del loro tenore di punta? Doveva essere una voce potente, capace di emozionare anche solo accompagnata da quella degli altri cantanti, abituati ad essere dei coristi e non dei solisti.
No, nessuno di loro sarebbe stato in grado di catturare l’attenzione del pubblico come faceva Carlo e, anche se quest’ultimo fosse guarito all’ultimo, non poteva lasciare il posto del solista vagante. Aveva bisogno di qualcuno dalla voce potente ed abituato alle folle che lo fissavano intensamente mentre cantava.
Finalmente il professore si fermò nel bel mezzo della classe e, con voce solenne, proclamò la sua decisione: “Nessuno di voi è pronto per questo brano e non riuscirei mai a prepararvi adeguatamente entro domani sera. Questo vuol dire che c’è solo una persona adatta a questo ruolo… anche se non fa più parte di questo coro.”
I giovani si guardarono, scossi e dubbiosi per la scelta del loro insegnante. Sapevano tutti a chi si stava riferendo. Non c’erano dubbi che quel ragazzo fosse uno dei prodigi del loro Conservatorio, ma era una testa calda e, da due mesi ormai, aveva mollato la musica classica per dedicarsi alla scoperta di altre esperienze. Così aveva mollato il Conservatorio, che aveva modellato la sua voce da tenore, predisposta già dalla nascita, e aveva fondato un gruppo di musica rock. Un vero colpo duro per suo padre.
Sì, perché il padre del tenore in questione era proprio il professor Andrea Brunelli. E suo figlio era il ribelle dalla voce paradisiaca: Angelo Brunelli, cantante della Hot Blody Hell. Il professore però aveva deciso ormai, sarebbe riuscito a convincere il figlio ad esibirsi almeno per un’ultima volta. Per l’”Adeste Fideles”.

Andrea trovò il figlio al solito posto, in quel pomeriggio del 23 Dicembre: davanti al pc, con le cuffiette viola fosforescenti alle orecchie e la mente presa da una qualche canzone dalle note stridule ed acute.
Con due colpi di gola ed una pacca sulla spalla, riuscì a catturare l’attenzione del ragazzo dai corti boccoli biondo cenere, che si voltò verso di lui, con sguardo interrogativo: “Ma che ci fai qui a quest’ora? Non dovresti essere alle prove col coro? Domani è il grande giorno, no?”
Andrea roteò gli occhi al cielo, sospirando teso: “Ecco, volevo parlarti proprio di questo. Carlo si è ammalato… e non c’è nessuno che possa cantare la sua parte da tenore.”
Il giovane lo guardò alzando un sopracciglio e borbottò frettolosamente: “Cavolo, mi dispiace, so che ci tieni a quello stupido pezzo in quella lingua morta scema.”
Il professore si alterò subito, rispondendo: “Non è per nulla stupido. Ed il latino è una nobile lingua antica, che ha forgiato quella che ora stiamo parlando io e te!”
Angelo alzò le spalle indifferente e riprese le sue cuffie, ma questa volta il padre riuscì a dirgli subito cosa voleva da lui: “Voglio che sia tu a prendere il posto di Carlo. Devi cantare da solista al concerto di domani.”
Vide il figlio bloccarsi, come se quelle parole lo avessero congelato, con ancora le cuffie tra le mani. Notò che il suo sguardo azzurro si fece più grigio, ciò accadeva quando il ragazzo si faceva più pensieroso. Almeno non aveva rifiutato subito. “No – disse in modo atono lui- lo sai che non canto più nel coro.”
Il padre però insistette: “Ed io so che non canti più nel coro perché non ti piace più la musica da coristi. O almeno così dici.”
Vide un lampo balenare nel cielo nuvoloso degli occhi del giovane che, senza ribattere in alcun modo, si voltò verso il monitor del computer e riprese ad ascoltare quelle canzoni così rumorose che gli impedivano persino di ascoltare i suoi pensieri e di sentire il dolore che provava al petto.
Lo dilaniava e la musica sembrava l’unica medicina. Ma non poteva più cantare nel coro. Ricordava ancora gli sguardi di tutti gli spettatori di quella serata, puntati su di lui come arpie pronte a banchettare su un cadavere. Il suo, di cadavere. Quella sensazione lo aveva fatto morire. E non aveva mai rivelato al padre che la sua band si era sciolta da ormai più di due mesi, da quando era rimasto muto come un pesce davanti al pubblico dell’ennesimo bar in cui si erano esibiti.
Quella volta per lui era stato diverso: aveva sentito nuovamente la morsa allo stomaco, il cuore battere al rallentatore ed una sensazione di nausea impadronirsi di lui. Il microfono tremava nelle sue mani.
Angelo aspettò che il padre se ne andasse. E, per un curioso caso del destino o per semplice curiosità da ragazzino ribelle, andò a cercare quello strano canto il lingua morta che suo padre tanto amava e decantava.
Trovò la versione di Boccelli e la ascoltò in religioso silenzio.

« Adeste fideles læti triumphantes, venite, venite in Bethlehem.
Natum videte
Regem angelorum.
Venite adoremus Venite adoremus
Venite adoremus Dominum .

La voce del cantate suonava molto solenne, come lo squillo di trombe reali che chiamano a raccolta il popolo, per una lieta novella. Angelo sapeva bene il significato del suo nome, “messaggero divino”.
Ma non aveva mai pensato che forse il modo in cui poteva dare un messaggio alle persone fosse tramite la sua voce. O almeno, non un messaggio importante come la nascita del Salvatore.
Che poi, Angelo era così giovane da non essere certo che un dio esistesse, figurarsi il suo figlio fatto uomo.
Si immaginò un coro irlandese del 1700, che cantava in una chiesa quella musica, diffondendo orgoglio e solennità tra i fedeli. Quanta storia aveva da raccontare quella semplice canzone in quella lingua ormai in disuso?
Angelo si chiese quale fosse effettivamente il messaggio di quella melodia e continuò ad ascoltare con attenzione, analizzando ogni particolare, come gli era stato insegnato fin dalla tenera età di sei anni.

En grege relicto humiles ad cunas, vocati pastores adproperant, et nos ovanti gradu festinemus.
Venite adoremus,
Venite adoremus,
Venite adoremus Dominum

Sorrise quasi. Il re degli angeli nasce in un giaciglio e gli unici che lo acclamano sono dei pastori, che addirittura lasciano il proprio gregge per vedere quel pargoletto paffuto, nato da un miracolo e destinato a tanto. Ma loro come facevano a saperlo, ad esserne così certi?

Pro nobis egenum et fœno cubantem piis foveamus amplexibus;
sic nos amantem quis non redamaret?
Venite adoremus,
Venite adoremus,
Venite adoremus Dominum. »

La voce vibrante alla fine sembrava volesse percuotere le corde del cuore del giovane che, improvvisamente e senza apparente spiegazione, si alzò. Quel canto era un inno al coraggio, alla fede, all’amore, all’umiltà e alla saggezza. Ma soprattutto all’azione.
A differenza di tanti molti altri canti natalizi, inni alla gioia per la venuta del Cristo, questo canto faceva nascere in lui la voglia di fare. Di correre a vedere questo miracolo, di correre verso una fede che non comprendeva del tutto. Di agire e combattere quella paura che lo teneva paralizzato ormai da troppo tempo.
Si sedette, riprendendo un attimo conoscenza di sé. Poi stampò di getto lo spartito per il canto. Lo prese, senza dire nulla al padre, timoroso di non essere ancora pronto per dirgli che una parte di lui aveva accettato, spinta dal moto di coraggio e di movimento che quella melodia aveva infuso in lui. Ma un’altra parte si chiedeva se era davvero ancora capace di cantare da tenore, davanti a tanta gente.
Intanto poteva provarci nella soffitta, insonorizzata e dove nessuno mai andava.
Salì le scale, stando attento a non farsi sentire.

Andrea sospirò, sconsolato, massaggiandosi poi la nuca, come faceva sempre quando era sotto pressione. Eppure era certo che il figlio sarebbe stato perfetto per quel ruolo.
Conosceva lo straordinario talento di Angelo, che non risiedeva solo nella sua voce melodiosa, ma nel fatto che in ogni brano ci mettesse un po’ di lui. Per questo aveva capito perché si era bloccato, durante quel concerto di Natale dell’anno scorso. Per questo non aveva protestato, quando il figlio gli aveva annunciato che mollava il Conservatorio. Mettersi a nudo davanti agli altri, mostrando i propri sentimenti e le proprie fragilità è difficile. Complicato. Ma era l’unico modo in cui suo figlio poteva cantare.
Doveva imparare ad affrontare le proprie paure, ad essere orgoglioso di ciò che era e consapevole del proprio dono. Era uno scempio sprecarlo.
Poi sentì qualcosa. Era un flebile suono, proveniente dalla soffitta. Alzò un sopracciglio, posando il giornale sul tavolo della cucina. Si sporse verso l’esterno, in ascoltò. Passò proprio allora la moglie Fiona, che gli chiese: “Che cosa stai facendo?”
Lei ridacchio, divertita dal comportamento eccentrico del marito, ma si fermò quando lui le fece cenno di fare silenzio. Ed entrambi sentirono la voce del figlio, flebile per i vari piani che li separavano. Si guardarono, sorridendo contenti.
Forse la voce di Angelo era tornata, dopo tanto tempo. Forse non se ne era mai andata, ma era rimasta nell’angolo del suo cuore, ad aspettare il La dei polmoni ed un brano che potesse risvegliarla, in tutta la sua potenza.
Fiona domandò allora: “Pensi sia meglio lasciarlo fare da solo?”
Andrea ci pensò per alcuni istanti, poi si risedette a leggere il suo giornale: “Credo sia meglio che prima finisca questo articolo.”
Ma non lesse nessuna delle parole stampate. Se ne stava in religioso silenzio, con le orecchie tese a quella melodia in lontananza, riconoscendo la voce del figlio.
Gli era mancata. Era mancata a tutti, in quella casa.

“Pronto?” domandò Andrea al figlio, sistemandogli il papion nero sopra la camicia bianca. Angelo iniziò a sentire il nervosismo crescere dentro di lui e quel senso di nausea riprendere il controllo del suo stomaco.
Il padre capì che l’ansia per l’esibizione stava riprendendo il controllo di lui, anche perché aveva fatto solo una prova con il coro, prima dello spettacolo. Era stato bravo, ma tutti si erano chiesti se avrebbe retto, questa volta.
Andrea gli mise entrambe le mani sulle spalle: “Guardami. Tu non devi temere niente. Questo è un inno alla fede, al coraggio e alla speranza… - gli scompigliò i biondi bioccoli, come faceva quando suo figlio era un bambino – tu hai fegato da vendere. Fai sentire a tutti il canto dell’angelo. Fai sentire alla gente che non è mai finita, che si può combattere ogni demone.”
Il ragazzo gli sorrise, ancora un po’ spaventato, ma rincuorato dalle parole del padre. Non voleva deluderlo ancora. Non voleva deludere se stesso, facendo un buco nell’acqua ancora.
Quello era il suo momento, il momento in cui sarebbe rinato e avrebbe ripreso il controllo della sua vita, che era stata dominata dalla paura e dalle insicurezze.
Guardò suo padre entrare per primo sul palco, come se fosse stato il salotto di casa sua. Lo sentì esporre al pubblico i brani e li vide, tutti seduti sulle poltrone vermiglie. Le signore erano strette nelle loro pellicce vaporose, con gli occhi fissi sul palco illuminato. Gli uomini eleganti, accomodati accanto a loro, avevano il tipico aspetto di chi giudica e basta.
Ma Angelo si disse che quello sarebbe stato il regalo di Natale per suo padre, per la sua famiglia e per sé. Era stato contento di riprendere in mano le note che tanto aveva imparato ad amare e quella canzone sembrava infondergli coraggio, grinta e speranza.
Quando sentì l’applauso del pubblico e vide accanto a sé gli altri ragazzi del coro, entrò con loro, sentendo il tremolio delle ginocchia attenuarsi ad ogni passo. Essendo il solista ed un tenore, il suo posto era al centro, in prima fila. Vide suo padre girarsi.
Sentì il suo sguardo posarsi su ogni membro del coro e capì che non era il solo ad avere paura di quegli sguardi pieni di critiche pronte ad uscire. Ma loro avevano lavorato a lungo ed erano pronti. “Sbalorditeli, ragazzi.”
Queste furono le parole d’incoraggiamento del loro maestro. Angelo si sentì nuovamente parte di qualcosa e comprese che tutti sapevano quanto era capace. Non c’era alcun bisogno di avere paura né di pensare: doveva solo cantare. Restò concentrato sui brani iniziali, come Jingle Bells e I’ll be home for Christmas.
Più si andava avanti e più ci si avvicinava al canto finale, il suo. Per non pensarci, guardava il movimento delle mani del suo maestro ed il suo viso incoraggiante, di chi sapeva cosa stava facendo e di chi non aveva dubbi sul successo di quel concerto.
Allora Angelo capì cos’era la fede. Era aver sputato il sangue ed il sudore, aver sofferto e gioito, ma avere sempre la certezza che al mondo non sei solo. Avere fede è credere nelle persone che si ama, sapere che non ti lasceranno mai e che c'è sempre il sole alla fine del tunnel.
Quando toccò a lui, quasi non si accorse di aver cantato da solista. Quasi non si accorse che il concerto era concluso. Capì cosa era successo quando sentì gli applausi scroscianti degli spettatori, alcuni si erano persino alzati dal loro posto. Angelo sorrise, frastornato ma contento.
Andrea fece un inchino elegante, per poi indicare i suoi ragazzi, che lo imitarono, riconoscenti verso il pubblico. Angelo capì che non doveva avere più paura. Perché suo padre aveva avuto fede in lui. Ora era il suo momento: doveva avere fiducia in sé, nel futuro e nella speranza. Non aveva più paura.
Questo è il dono che Gesù ci ha fatto con la sua nascita: ha sconfitto la paura, con il suo grande amore per noi e la convinzione che meritiamo di essere felici.

  
Leggi le 11 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: rora02L