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Autore: GuapaLocaa    14/12/2016    0 recensioni
Harleen lavora all'Arkham Asylum ormai da troppo tempo e non le è mai stato affidato un caso serio.
Finchè non arriva lui.
Lui che, con i suoi inconfondibili capelli e occhi verdi la plagerà, fino a portarla alla distruzione.
Perchè è molto meglio un solo momento di vita vissuta intensamente, piuttosto che cento anni passati a sopravvivere.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harley Quinn, Joker
Note: Lemon, Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Capitolo 1

A Mad Man in a Prison

Era una fredda giornata invernale ed Harleen passeggiava solitaria per Gotham, stringendosi sempre di più al suo piumino per ripararsi dal gelo, in direzione del suo luogo di lavoro.

L’Arkham Asylum era un ospedale psichiatrico in stile neogotico. Era un luogo tetro che, secondo la dottoressa, più che aiutare nella riabilitazione dei pazienti, li istigava al suicidio.

Odiava quel posto. Era tutto troppo grigio, troppo sciatto e squallido: sapeva di morte.

 

Quando si era appena laureata in psichiatria, non pensava che, un giorno, si sarebbe abbassata a tanto. Per fare carriera nella vita, però, purtroppo bisogna accettare tutto quello che la sorte ci offre e lei, dal canto suo, aveva colto al volo quell’opportunità, sperando, per il futuro, di diventare una psichiatra di fama mondiale.

Erano passati, però, diversi anni dall’inizio del suo incarico, e dell’avanzamento di carriera non si vedeva neanche l’ombra.

 

Ridestandosi dai suoi pensieri, varcò, finalmente arrivata, la soglia di quel lugubre posto, facendo fatica a causa del suo esile corpo, come ogni giorno, a spingere quel maledetto portone massiccio, unica via d’entrata e d’uscita del carcere in cui, stranamente, quella mattina vi era un gran trambusto.

Tutta la prigione era in subbuglio.

Il tetro silenzio dei detenuti, lasciava posto ad urla e schiamazzi da parte degli stessi. Evidentemente qualcosa doveva aver stuzzicato le loro menti perverse.

Era arrivato un nuovo paziente, aveva scoperto subito dopo Harleen, in seguito a una chiacchierata veloce davanti all’unico distributore di bevande della prigione.

A detta dei suoi colleghi, il paziente zero, il primo uomo ad essere stato rinchiuso in quel posto e che, ogni volta, non si sapeva come mai, riusciva prontamente a fuggire, provocando irreparabili danni non solo al penitenziario in sé, ma anche alla sua reputazione, secondo le voci più indiscrete, era finalmente tornato, pronto a regalare qualche giorno di spettacolo prima di fuggire verso una nuova meta.

Tutti erano eccitati per quel raro avvenimento. Da anni nessuno aveva più rivisto il manigoldo che, finalmente, era saltato fuori dal suo nascondiglio, facendosi arrestare.

Proprio così. Perché checché se ne dicesse, era il criminale a decidere quando farsi arrestare, manipolando le forze di polizia, e non viceversa.

 

Una decina di guardie, in uniforme nera tattica, stavano avanzando per il corridoio principale del manicomio, trasportando su una sedia a rotelle quell’uomo dai capelli dipinti di verde, in pendant col colore dei suoi occhi, intrappolato come una una bestia, che rideva in modo macabro, nonostante la camicia di forza e quella sottospecie di museruola per cani che era solito indossare ogni nuovo arrivato.

 

Al suo passaggio, il cuore di Harleen sussultò. Quell’uomo l’aveva guardata, per un momento, con un guizzo frenetico degli occhi, quasi perverso. Era stato un secondo, un movimento impercettibile per occhi poco attenti. Ma lei, abituata a studiare ogni più piccolo dettaglio e gesto del corpo, quel movimento lo aveva notato e, per un attimo, l’aveva destabilizzata.

Era possibile che si trattasse di un criminale tanto spietato? pensò tra sé e sé come per convincere sé stessa. I suoi occhi, ad una prima impressione, le erano sembrati così umani, così vivi, così folli.

 

Quello che, a detta degli altri, era il criminale più spietato di tutta Gotham, le era sembrato solo un ragazzo comune, uno spaccone qualunque che, puntando sulla propria immagine, aveva giocato con le paure più recondite della gente. I tatuaggi e i capelli tinti contribuivano solo a rendere più minacciosa la maschera perversa che stava indossando, sotto la quale si nascondeva un uomo fragile, bisognoso di pompare il suo ego a causa di un inconscio complesso di inferiorità, ne era certa.

Dall’alto della sua conoscenza, la dottoressa aveva già tracciato, mentalmente, una diagnosi del nuovo arrivato e si sentiva terribilmente eccitata all’idea di fare la conoscenza di quell’individuo in grado di manipolare la psiche umana. Era impaziente: sperava, in cuor suo, di ottenere l’affidamento del caso, per poter avere un immediato confronto con quell’uomo.

 

 

Il paziente era stato, in seguito, condotto in isolamento, nell’unica cella che Harleen, in tutta la sua carriera lavorativa, non aveva mai visto neppure aprire. Nessun altro vi era mai entrato, eccetto quell’uomo misterioso che venne sedato prima di essere rinchiuso in gattabuia.

 

Quella notte la dottoressa non riuscì a dormire. La pioggia batteva incessante sul vetro della sua finestra. Continuava a fissare il tetto della sua camera da letto, ripensando al brevissimo gioco di sguardi della mattina precedente. Aveva la gola secca, come se mille spilli le stessero trafiggendo la trachea. Si alzò dal letto per prendere un bicchiere d’acqua dalla cucina. Un lampo nel cielo notturno rischiarò l’abitacolo. Fu allora che lo vide. Una figura alta e slanciata, dai capelli verdi e dei denti metallici. L’uomo la afferrò per la gola, e con una violenza inaudita la spinse al muro, sovrastandola. Non riusciva a liberarsi dalla sua morsa, né ad urlare, a chiedere aiuto. Le forze la stavano lentamente abbandonando. Le stava stringendo il collo, sempre di più, fino a soffocare.

Harleen si svegliò di colpo, intontita dal temporale che impazzava fuori.

 

Era solo un sogno.

 

Corse in cucina col cuore in gola. Non c’era assolutamente nulla di strano.

Una finestra si era spalancata a causa della tempesta. Le tende svolazzavano spinte dal vento. La richiuse frettolosamente, subito prima di tornare in camera. Si voltò e lo vide.

Un messaggio scarlatto sul muro.

 

AHAHAHAHAH

 

Una risata, una risata che infrangeva la perfezione di quella parete bianchissima e asettica. Accanto un coltello conficcato che reggeva una carta da poker al muro.

Era sua firma.

Il Joker la stava sfidando, o forse le stava, più semplicemente, chiedendo aiuto.

 

 

Il giorno seguente il nuovo arrivato era sulla bocca di tutti. Jack Napier, o almeno questo si credeva che fosse il suo nome, era l’uomo del momento.

Harleen, come ogni mattina, una volta arrivata ad Arkham, si recò immediatamente nell’ufficio del direttore che la reclamava urgentemente.

L’uomo, un tipo sulla cinquantina, barbuto e abbastanza autoritario, le aveva chiesto di fare degli straordinari, ovviamente non retribuiti, e prendere in affidamento tre nuovi pazienti, per permettere ai suoi colleghi, più anziani ed esperti, di occuparsi del caso Napier.

Era sempre la solita solfa. Ogni volta che in quel macabro luogo arrivava qualcuno di interessante, questi veniva affidato agli esperti. Mai una volta aveva ricevuto un caso serio. Lei doveva occuparsi sempre e solo dei detenuti meno pericolosi.

Non aveva mai osato ribattere, forse perché intimorita da quell’uomo baffuto, forse per codardia, fino a quel giorno. Oggi era diverso, oggi sentiva una scarica d’adrenalina nuova scuoterla come da tempo non accadeva ormai.

 

«Sig. Arkham, lasci il paziente a me, la prego! –lo aveva implorato, con insistenza, Harleen, battendo i palmi delle mani sulla scrivania in mogano del direttore, spazientita- Sto scrivendo un libro a proposito di casi clinici particolari, e lui è il soggetto perfetto per la mia ricerca.»

Si era spinta troppo oltre?

Subito si pentì di aver agito tanto sconsideratamente.

Era sempre così controllata, così dannatamente controllata.

Dopo la notte precedente, però, qualcosa si era risvegliato in lei. Era come un campanello d’allarme che la invitava ad uscire da quegli schemi preimpostati che con gli anni si era imposta, ma che non le appartenevano veramente.

 

Non aveva avuto paura.

Era strano, chiunque ne avrebbe avuta nella sua situazione.

Dopo aver raccolto il biglietto da visita del nuovo arrivato si era accesa in lei una nuova luce.

Una tentazione che la invogliava a voler studiare quell’uomo, a comprendere le sue perversioni più oscure. Voleva conoscerlo e analizzarlo.

Il rischio era forte, lo sapeva, ma lei non aveva paura del pericolo.

Non si sarebbe più lasciata calpestare.

Da nessuno.

 

«Va bene –aveva ceduto infine il direttore, incuriosito dalla sua spavalderia- ma stia molto attenta. Chiunque, accanto a lui, finisce con l’impazzire. Lei è ancora giovane, cerchi di non cadere nella sua trappola».

«Grazie mille sig. Arkham, non si pentirà di avermi affidato l’incarico!» affermò, con professionalità, la donna, congedandosi per tornare poi nel proprio ufficio e iniziare a compilare la cartella clinica del suo nuovo paziente.

Completato poi il lavoro, decise che era giunta l’ora di fare la conoscenza di quell’uomo dagli occhi vispi che l’aveva colpita così tanto.

 

Facendosi accompagnare da due guardie, la donna entrò nella cella del Joker, quel misterioso luogo che non aveva mai visto e che un po’ la intimoriva.

Era diversa dalle altre celle: più grande, più luminosa, ma anche più spoglia, più triste e più lugubre.

Qualsiasi oggetto superfluo era stato rimosso. Restavano soltanto un materasso, abbandonato a terra, senza brandina, un minuscolo bagno, ed infine un tavolo e due sedie, portati lì per l’occasione.

Cosa avrà mai fatto di tanto grave per meritarsi quel trattamento? –pensò Harleen tra sé e sé.

Adesso avrebbe potuto scoprirlo da sola. Finalmente poteva osservare da vicino quell’uomo.

Era l’essere più particolare che avesse mai visto. Un uomo sulla trentina, avrebbe detto, a giudicare dalle apparenze. Gli zigomi marcati, le labbra carnose e dei vivaci occhi verdi, liquidi, completavano il quadro del suo splendido viso diafano, deturpato, purtroppo, da una miriade di cicatrici.

 

«Salve, sono la dottoressa Harleen Frances Quinzel, piacere di conoscerla.

Sono qui per aiutarla a essere reintegrato nella società, perciò passeremo diverso tempo insieme» iniziò Harleen, presentandosi con professionalità, cercando di entrare nelle simpatie del detenuto che rispose con un grugnito.

«Oh, lo so bene chi è lei professoressa. Lei è una di loro. Una strizzacervelli che vuole tentare di capirmi come tutti gli altri che, prima di lei, hanno fallito nel suo incarico.» disse, con tono suadente.

 

So bene chi è lei.

 

Un messaggio che gli altri non potevano recepire.

Lei sapeva.

Sapeva che Jack Napier alludeva a quella notte. Sapeva che in quel momento si trovava nella tela del ragno, ma aveva bisogno di ascoltarlo, di sentire qualcosa di interessante, di rompere la monotonia quotidiana che affliggeva la sua vita.

Voleva sentire cosa lo aveva avvicinato al mondo del crimine.

Lo desiderava ardentemente.

 

«Potreste lasciarmi da sola col paziente?» chiese infine Harleen, con professionalità, alle guardie che la guardavano dubbiose continuando a puntare le loro armi contro il detenuto, data la sua pericolosità.

«Gentilmente…» aggiunse poi, schiarendosi la gola con un colpo di tosse, mentre i due omoni abbassavano i fucili, uscendo dalla cella e richiudendosi la porta alle spalle.

 

«Sei diversa bambolina! Non hai paura di me come tutti gli altri?» chiese, in tono divertito, il detenuto.

«Perché, dovrei averne signor Napier?» lo sfidò lei, sostenendo il suo sguardo, sedendosi nel tavolo di fronte alla brandina del detenuto, accavallando le gambe e invitandolo a fare altrettanto.

«NON MI CHIAMI COSÌ!» urlò, scattando in piedi con un lampo folle negli occhi, il criminale, facendola sussultare.

«Non le piace quel nome? Come posso chiamarla? Le piace Mr. J? -chiese imbarazzata la ragazza a quell’uomo che le stava di fronte, annuendo compiaciuto alla sua domanda.

«Bene, Mr. J, io credo veramente nel frutto del mio lavoro! Se lei mi venisse incontro sono sicura che potremmo ottenere degli ottimi risultati.» esclamò con convinzione la dottoressa.

 

«Andiamo bambolina, credi veramente che mi facciano uscire da questo posto? Ti facevo più sveglia -aggiunse con una risata sarcastica l’uomo- a loro non vado molto a genio. Ti rivelo un segreto -continuò sussurrandole all’orecchio- Dicono che sono un sociopatico. Ahahahahah!»

 

«Sai una cosa? Mi piaci bambolina!» continuò, poi, sorridendo quel folle uomo.

«Mi chiami per nome, la prego» sorrise di rimando la ragazza, rassicurandolo.

«Harleen…» soffiò lui sulle sue labbra.

«Jack» rispose lei, con un fil di voce, sempre più intimorita ma morbosamente attratta dalla mente degenerata del suo paziente.

«NON INTERROMPERMI MAI PIÙ! –urlò lui, in tono autoritario, facendo vacillare per un attimo la dottoressa- Harleen, come stavo dicendo, non tentare di capirmi, impazziresti.» concluse in tono più pacato, lasciandola per un attimo interdetta.

 

«Chi ti ha fatto questo?» chiese la donna interrompendo poi quel silenzio imbarazzante che lei stessa aveva creato.

«Siete stati tutti voi. Voi sciocchi umani non cambierete mai! Voi che, con le vostre insulse vite, cercate di comprendermi! Hai mai vissuto realmente Harleen?» rispose, ridendo sguaiatamente, il paziente zero, mentre le guardie tornavano in cella avvisandoli che la loro visita per oggi era da considerarsi conclusa.

 

Hai mai vissuto veramente Harleen?

 

Quelle parole le risuonavano nella mente, perché lei, per ventiquattro anni, aveva semplicemente cercato di tirare avanti, sopravvivendo alla giornata, senza mai vivere davvero.

 

 

 

NOTE D’AUTRICE:

Salve a tutti :D

Sono tornata con questa long su Harley Quinn e Joker.

Spero che vi piaccia.

Vorrei riuscire a caratterizzare bene i personaggi.

Spero di riuscire nel mio intento.

Fatemi sapere che ne pensate nelle recensioni.

Un bacio,

                                                                               Nina

  
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