Capitolo 1
A Mad Man in a Prison
Era una fredda giornata invernale ed
Harleen passeggiava solitaria per Gotham, stringendosi sempre di più al suo
piumino per ripararsi dal gelo, in direzione del suo luogo di lavoro.
L’Arkham Asylum era un ospedale
psichiatrico in stile neogotico. Era un luogo tetro che, secondo la dottoressa,
più che aiutare nella riabilitazione dei pazienti, li istigava al suicidio.
Odiava quel posto. Era tutto troppo
grigio, troppo sciatto e squallido: sapeva di morte.
Quando si era appena laureata in
psichiatria, non pensava che, un giorno, si sarebbe abbassata a tanto. Per fare
carriera nella vita, però, purtroppo bisogna accettare tutto quello che la
sorte ci offre e lei, dal canto suo, aveva colto al volo quell’opportunità,
sperando, per il futuro, di diventare una psichiatra di fama mondiale.
Erano passati, però, diversi anni
dall’inizio del suo incarico, e dell’avanzamento di carriera non si vedeva
neanche l’ombra.
Ridestandosi dai suoi pensieri, varcò, finalmente
arrivata, la soglia di quel lugubre posto, facendo fatica a causa del suo esile
corpo, come ogni giorno, a spingere quel maledetto portone massiccio, unica via
d’entrata e d’uscita del carcere in cui, stranamente, quella mattina vi era un
gran trambusto.
Tutta la prigione era in subbuglio.
Il tetro silenzio dei detenuti, lasciava
posto ad urla e schiamazzi da parte degli stessi. Evidentemente qualcosa doveva
aver stuzzicato le loro menti perverse.
Era arrivato un nuovo paziente, aveva
scoperto subito dopo Harleen, in seguito a una chiacchierata veloce davanti
all’unico distributore di bevande della prigione.
A detta dei suoi colleghi, il paziente zero, il primo uomo ad essere
stato rinchiuso in quel posto e che, ogni volta, non si sapeva come mai, riusciva
prontamente a fuggire, provocando irreparabili danni non solo al penitenziario
in sé, ma anche alla sua reputazione, secondo le voci più indiscrete, era
finalmente tornato, pronto a regalare qualche giorno di spettacolo prima di
fuggire verso una nuova meta.
Tutti erano eccitati per quel raro
avvenimento. Da anni nessuno aveva più rivisto il manigoldo che, finalmente,
era saltato fuori dal suo nascondiglio, facendosi arrestare.
Proprio così. Perché checché se ne
dicesse, era il criminale a decidere quando farsi arrestare, manipolando le
forze di polizia, e non viceversa.
Una decina di guardie, in uniforme nera tattica,
stavano avanzando per il corridoio principale del manicomio, trasportando su
una sedia a rotelle quell’uomo dai capelli dipinti di verde, in pendant col
colore dei suoi occhi, intrappolato come una una bestia, che rideva in modo
macabro, nonostante la camicia di forza e quella sottospecie di museruola per
cani che era solito indossare ogni nuovo arrivato.
Al suo passaggio, il cuore di Harleen
sussultò. Quell’uomo l’aveva guardata, per un momento, con un guizzo frenetico
degli occhi, quasi perverso. Era stato un secondo, un movimento impercettibile
per occhi poco attenti. Ma lei, abituata a studiare ogni più piccolo dettaglio
e gesto del corpo, quel movimento lo aveva notato e, per un attimo, l’aveva
destabilizzata.
Era
possibile che si trattasse di un criminale tanto spietato?
pensò tra sé e sé come per convincere sé stessa. I suoi occhi, ad una prima
impressione, le erano sembrati così umani, così vivi, così folli.
Quello che, a detta degli altri, era il
criminale più spietato di tutta Gotham, le era sembrato solo un ragazzo comune,
uno spaccone qualunque che, puntando sulla propria immagine, aveva giocato con
le paure più recondite della gente. I tatuaggi e i capelli tinti contribuivano
solo a rendere più minacciosa la maschera perversa che stava indossando, sotto
la quale si nascondeva un uomo fragile, bisognoso di pompare il suo ego a causa
di un inconscio complesso di inferiorità, ne era certa.
Dall’alto della sua conoscenza, la
dottoressa aveva già tracciato, mentalmente, una diagnosi del nuovo arrivato e
si sentiva terribilmente eccitata all’idea di fare la conoscenza di
quell’individuo in grado di manipolare la psiche umana. Era impaziente:
sperava, in cuor suo, di ottenere l’affidamento del caso, per poter avere un
immediato confronto con quell’uomo.
Il paziente era stato, in seguito, condotto
in isolamento, nell’unica cella che Harleen, in tutta la sua carriera
lavorativa, non aveva mai visto neppure aprire. Nessun altro vi era mai
entrato, eccetto quell’uomo misterioso che venne sedato prima di essere
rinchiuso in gattabuia.
Quella notte la dottoressa non riuscì a
dormire. La pioggia batteva incessante sul vetro della sua finestra. Continuava
a fissare il tetto della sua camera da letto, ripensando al brevissimo gioco di
sguardi della mattina precedente. Aveva la gola secca, come se mille spilli le
stessero trafiggendo la trachea. Si alzò dal letto per prendere un bicchiere
d’acqua dalla cucina. Un lampo nel cielo notturno rischiarò l’abitacolo. Fu
allora che lo vide. Una figura alta e
slanciata, dai capelli verdi e dei denti metallici. L’uomo la afferrò per la
gola, e con una violenza inaudita la spinse al muro, sovrastandola. Non
riusciva a liberarsi dalla sua morsa, né ad urlare, a chiedere aiuto. Le forze
la stavano lentamente abbandonando. Le stava stringendo il collo, sempre di
più, fino a soffocare.
Harleen si svegliò di colpo, intontita dal
temporale che impazzava fuori.
Era
solo un sogno.
Corse in cucina col cuore in gola. Non
c’era assolutamente nulla di strano.
Una finestra si era spalancata a causa
della tempesta. Le tende svolazzavano spinte dal vento. La richiuse
frettolosamente, subito prima di tornare in camera. Si voltò e lo vide.
Un messaggio scarlatto sul muro.
AHAHAHAHAH
Una risata, una risata che infrangeva la
perfezione di quella parete bianchissima e asettica. Accanto un coltello
conficcato che reggeva una carta da poker al muro.
Era sua
firma.
Il Joker la stava sfidando, o forse le
stava, più semplicemente, chiedendo aiuto.
Il giorno seguente il nuovo arrivato era
sulla bocca di tutti. Jack Napier, o almeno questo si credeva che fosse il suo
nome, era l’uomo del momento.
Harleen, come ogni mattina, una volta
arrivata ad Arkham, si recò immediatamente nell’ufficio del direttore che la
reclamava urgentemente.
L’uomo, un tipo sulla cinquantina, barbuto
e abbastanza autoritario, le aveva chiesto di fare degli straordinari,
ovviamente non retribuiti, e prendere in affidamento tre nuovi pazienti, per
permettere ai suoi colleghi, più anziani ed esperti, di occuparsi del caso Napier.
Era sempre la solita solfa. Ogni volta che
in quel macabro luogo arrivava qualcuno di interessante, questi veniva affidato
agli esperti. Mai una volta aveva
ricevuto un caso serio. Lei doveva occuparsi sempre e solo dei detenuti meno
pericolosi.
Non aveva mai osato ribattere, forse
perché intimorita da quell’uomo baffuto, forse per codardia, fino a quel giorno.
Oggi era diverso, oggi sentiva una scarica d’adrenalina nuova scuoterla come da
tempo non accadeva ormai.
«Sig. Arkham, lasci il paziente a me, la
prego! –lo aveva implorato, con insistenza, Harleen, battendo i palmi delle
mani sulla scrivania in mogano del direttore, spazientita- Sto scrivendo un
libro a proposito di casi clinici particolari, e lui è il soggetto perfetto per
la mia ricerca.»
Si era spinta troppo oltre?
Subito si pentì di aver agito tanto sconsideratamente.
Era sempre così controllata, così dannatamente controllata.
Dopo la notte precedente, però, qualcosa
si era risvegliato in lei. Era come un campanello d’allarme che la invitava ad
uscire da quegli schemi preimpostati che con gli anni si era imposta, ma che
non le appartenevano veramente.
Non aveva avuto paura.
Era strano, chiunque ne avrebbe avuta
nella sua situazione.
Dopo aver raccolto il biglietto da visita
del nuovo arrivato si era accesa in lei una nuova luce.
Una tentazione che la invogliava a voler
studiare quell’uomo, a comprendere le sue perversioni più oscure. Voleva
conoscerlo e analizzarlo.
Il rischio era forte, lo sapeva, ma lei
non aveva paura del pericolo.
Non si sarebbe più lasciata calpestare.
Da nessuno.
«Va bene –aveva ceduto infine il direttore,
incuriosito dalla sua spavalderia- ma stia molto attenta. Chiunque, accanto a
lui, finisce con l’impazzire. Lei è ancora giovane, cerchi di non cadere nella
sua trappola».
«Grazie mille sig. Arkham, non si pentirà
di avermi affidato l’incarico!» affermò, con professionalità, la donna, congedandosi
per tornare poi nel proprio ufficio e iniziare a compilare la cartella clinica
del suo nuovo paziente.
Completato poi il lavoro, decise che era
giunta l’ora di fare la conoscenza di quell’uomo dagli occhi vispi che l’aveva
colpita così tanto.
Facendosi accompagnare da due guardie, la
donna entrò nella cella del Joker, quel misterioso luogo che non aveva mai
visto e che un po’ la intimoriva.
Era diversa dalle altre celle: più grande,
più luminosa, ma anche più spoglia, più triste e più lugubre.
Qualsiasi oggetto superfluo era stato
rimosso. Restavano soltanto un materasso, abbandonato a terra, senza brandina,
un minuscolo bagno, ed infine un tavolo e due sedie, portati lì per
l’occasione.
Cosa avrà mai fatto di tanto grave per
meritarsi quel trattamento? –pensò Harleen tra sé e sé.
Adesso avrebbe potuto scoprirlo da sola. Finalmente
poteva osservare da vicino quell’uomo.
Era l’essere più particolare che avesse
mai visto. Un uomo sulla trentina, avrebbe detto, a giudicare dalle apparenze.
Gli zigomi marcati, le labbra carnose e dei vivaci occhi verdi, liquidi, completavano
il quadro del suo splendido viso diafano, deturpato, purtroppo, da una miriade
di cicatrici.
«Salve, sono la dottoressa Harleen Frances
Quinzel, piacere di conoscerla.
Sono qui per aiutarla a essere reintegrato
nella società, perciò passeremo diverso tempo insieme» iniziò Harleen,
presentandosi con professionalità, cercando di entrare nelle simpatie del
detenuto che rispose con un grugnito.
«Oh, lo
so bene chi è lei professoressa. Lei è una di loro. Una strizzacervelli che
vuole tentare di capirmi come tutti gli altri che, prima di lei, hanno fallito
nel suo incarico.» disse, con tono suadente.
So
bene chi è lei.
Un messaggio che gli altri non potevano recepire.
Lei sapeva.
Sapeva che Jack Napier alludeva a quella
notte. Sapeva che in quel momento si trovava nella tela del ragno, ma aveva
bisogno di ascoltarlo, di sentire qualcosa di interessante, di rompere la
monotonia quotidiana che affliggeva la sua vita.
Voleva sentire cosa lo aveva avvicinato al
mondo del crimine.
Lo desiderava ardentemente.
«Potreste lasciarmi da sola col paziente?»
chiese infine Harleen, con professionalità, alle guardie che la guardavano
dubbiose continuando a puntare le loro armi contro il detenuto, data la sua
pericolosità.
«Gentilmente…»
aggiunse poi, schiarendosi la gola con un colpo di tosse, mentre i due omoni abbassavano
i fucili, uscendo dalla cella e richiudendosi la porta alle spalle.
«Sei diversa bambolina! Non hai paura di
me come tutti gli altri?» chiese, in tono divertito, il detenuto.
«Perché, dovrei averne signor Napier?» lo
sfidò lei, sostenendo il suo sguardo, sedendosi nel tavolo di fronte alla
brandina del detenuto, accavallando le gambe e invitandolo a fare altrettanto.
«NON MI CHIAMI COSÌ!» urlò, scattando in
piedi con un lampo folle negli occhi, il criminale, facendola sussultare.
«Non le piace quel nome? Come posso
chiamarla? Le piace Mr. J? -chiese imbarazzata la ragazza a quell’uomo che le stava
di fronte, annuendo compiaciuto alla sua domanda.
«Bene, Mr.
J, io credo veramente nel frutto del mio lavoro! Se lei mi venisse incontro
sono sicura che potremmo ottenere degli ottimi risultati.» esclamò con
convinzione la dottoressa.
«Andiamo bambolina, credi veramente che mi
facciano uscire da questo posto? Ti facevo più sveglia -aggiunse con una risata
sarcastica l’uomo- a loro non vado molto a genio. Ti rivelo un segreto
-continuò sussurrandole all’orecchio- Dicono che sono un sociopatico.
Ahahahahah!»
«Sai una cosa? Mi piaci bambolina!» continuò,
poi, sorridendo quel folle uomo.
«Mi chiami per nome, la prego» sorrise di
rimando la ragazza, rassicurandolo.
«Harleen…» soffiò lui sulle sue labbra.
«Jack» rispose lei, con un fil di voce,
sempre più intimorita ma morbosamente attratta dalla mente degenerata del suo
paziente.
«NON INTERROMPERMI MAI PIÙ! –urlò lui, in
tono autoritario, facendo vacillare per un attimo la dottoressa- Harleen, come
stavo dicendo, non tentare di capirmi, impazziresti.» concluse in tono più
pacato, lasciandola per un attimo interdetta.
«Chi ti ha fatto questo?» chiese la donna
interrompendo poi quel silenzio imbarazzante che lei stessa aveva creato.
«Siete stati tutti voi. Voi sciocchi umani
non cambierete mai! Voi che, con le vostre insulse vite, cercate di
comprendermi! Hai mai vissuto realmente Harleen?» rispose, ridendo sguaiatamente,
il paziente zero, mentre le guardie tornavano in cella avvisandoli che la loro
visita per oggi era da considerarsi conclusa.
Hai
mai vissuto veramente Harleen?
Quelle parole le risuonavano nella mente,
perché lei, per ventiquattro anni, aveva semplicemente cercato di tirare
avanti, sopravvivendo alla giornata,
senza mai vivere davvero.
NOTE D’AUTRICE:
Salve a tutti :D
Sono tornata con questa long su Harley
Quinn e Joker.
Spero che vi piaccia.
Vorrei riuscire a caratterizzare bene i
personaggi.
Spero di riuscire nel mio intento.
Fatemi sapere che ne pensate nelle
recensioni.
Un bacio,
Nina