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Autore: CrisNialler    15/12/2016    0 recensioni
Sentii dei rumori di passi dietro di me. Erano degli zombie? Speravo solo non fossero i miei amici, non potevano vedermi così, ero scappata proprio per questo: morire da sola. Ma no, dietro di me non c'erano i miei amici: c'era l'uomo spietato che aspettavo con ansia, solo che non mi uccise come desideravo.
Genere: Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daryl Dixon, Nuovo personaggio, Rick Grimes, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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“There's no right and wrong anymore. Just living and dying.” 
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VII. I can scream enough to show my face in the light of the day.

 

La stanza non possedeva punti nascosti, era quadrata e non c'erano mobili adatti a nascondermi. Mi aggrappai al chiavistello della gabbia per darmi forza, osservando lo zombie. Potevo nascondermi dietro il tendone che copriva un lato delle sbarre, ma accantonai l'idea quando capii che si sarebbe vista la sagoma del mio corpo.

Clide era vicino.

Notai una cosa, una colonna dietro il tendone dove era avvitata la gabbia.

Entrare nella tana del lupo per nascondermi? Era davvero un'idea accettabile?

Era vicinissimo, i passi lenti erano accompagnati dal martellare del mio cuore.

Agii. Velocemente senza fare rumore. Aprii il chiavistello e lo richiusi dietro di me, dopo essere entrata, senza un rumore o un cigolio.

Presi posto dietro la colonna che era abbastanza larga da coprire la mia intera figura e impugnai la katana portandomi la federa alle spalle.

Era nella stanza, lo capii dal rumore di provette infrante al suolo, dal ringhiare famelico dello zombie, ad una serie di "No" sussurrati dall'uomo.

"Non può essere vero." Iniziò ad urlare cercandomi per la stanza, aprendo tutti i cassetti e ante presenti nella stanza come se fossi stata capace di rimpicciolirmi e nascondermi tra i bisturi.

Lanciò oggetti ovunque che si infransero al suolo e sulle pareti grezze. Respirai solo nei momenti di rumore per non rischiare: nonostante lo zombie che urlava non riuscivo a sentirmi del tutto coperta.

Sentii Clide quasi piangere, trafficare con le mani velocemente tra le tasche per poi correre via, ma non uscii dal mio nascondiglio fino a quando non fui sicura di essere sola.

Dovetti, per uscire, uccidere lo zombie, ragionando sul fatto se fosse o meno una buona idea: se non fossi riuscita a scappare, se mi avesse fermata varcata la soglia della porta avrebbe sicuramente capito qualcosa, forse proprio quello che a me sfuggiva, e l'avrebbe sfruttata fino ad uccidermi. Dall'altra parte però lo zombie, ancora attratto dal sangue del dottore, stava attaccato alla porta della gabbia e non potevo rischiare un contatto fisico in quanto lo spazio all'interno era ristretto e sarebbe stato difficile usare la katana agilmente in caso di pericolo.

Avevo pochi minuti lo sapevo. Da dietro silenziosamente perforai il cranio dello zombie ed aprii difficilmente il chiavistello, uscendo dalla gabbia che si era fatta troppo stretta.

Ascoltai attentamente ma non c'era segno di Clide, o di una qualunque altra persona della comunità che non avevo mai avuto occasione di conoscere. Mi guardai intorno cercando qualcosa di utile, ma il mio zaino non era mai stato lì, e non c'era nulla che potesse servirmi, se non delle garze che infilai nelle grandi tasche di pantaloni consumati insieme ad un accendino.

Uscii dalla stanza, con un piccolo sorriso sulle labbra, la mia speranza era molta, ma non dovevo abituarmi a questa tranquillità. Un corridoio stretto e buio mi portò ad una seconda porta accostata, che portava a sua volta a delle scale molto più luminose: ero in un seminterrato.

Salii le scale e la luce vera del sole mi bruciò per un attimo gli occhi. Nella casa sporca non c'era nessuno, ma fuori le 4 mura potevo sentire degli uomini parlare, darsi ordini: mi stavano cercando.

Guardai velocemente dalle finestre senza scostare le tende gialle. Clide stava parlando con degli uomini, urlava. Gli altri non capivano. Lui rosso in viso cercava di descrivermi. Con le mani tracciava il profilo della mia persona, la mia altezza, la lunghezza dei capelli e credo come fossi vestita. Non avevo tempo di stare lì a guardarlo, cercai un'uscita secondaria che trovai sul lato destro della casa. Portava ad un giardino, recintato da alti pannelli di legno. Dovevo scavalcarli, perché oltre riuscivo a scorgere degli alberi alti, il bosco.

L'adrenalina mi scorreva nelle vene ed anche per questo non riuscivo a pensare lucidamente.

I pannelli erano alti circa due metri, mi sarebbero bastati solamente 50 centimetri di appoggio per riuscire a scavalcare ed optai per uno scivolo in plastica per bambini abbandonato in un angolo del prato rovinato.

Sforzandomi per tirarlo su sentii cedere i punti della ferita, ma non ci feci molto caso in quanto nello stesso momento la porta di casa sbatté rumorosamente, ad indicare che qualcuno era dentro, diretto alla porta secondaria che avevo lasciato aperta.

Dannazione!

Mi arrampicai quindi sullo scivolo e saltai giù.

Stavo correndo, da ore ormai. Non dovevo far trovare le mie tracce e speravo che il vento avesse smosso il fogliame e nascosto le mie impronte. Era come ritornare agli inizi, io che scappavo dai miei amici per non farmi vedere mentre morivo, solo che ora ero io che correvo lontana dai miei nemici per sopravvivere.

Era buio pesto, la luna non illuminava abbastanza e sbattevo contro i grossi alberi ogni dieci metri, avevo il viso e braccia martoriate e sentivo il sangue delle ferite scendere sulla maglietta che non mi copriva abbastanza, avevo freddo e fame. Ero molto debole e sentivo che la ferita sul braccio si era aperta di molto, in quanto le garze erano bagnatissime. Dovevo fermarmi e ragionare. Avevo corso abbastanza e comunque non sarei riuscita ad andare oltre senza fermarmi a capire come stavo.

Mi sedetti ai piedi di un albero, e respirai profondamente, con la gola secca e fredda che urlava per un po' di acqua.

Mentre mi riprendevo e regolarizzavo il respiro divisi mentalmente le mie priorità: dovevo scaldarmi, medicarmi e cercare cibo e acqua.

Mi alzai e aiutata dall'accendino che avevo messo in tasca insieme alle garze mi aiutai nel cercare qualche ramoscello, ma era difficile anche solamente accucciarmi per raccoglierli.

Recuperai dal suolo dei piccoli ramoscelli che iniziai ad infiammare insieme a del fogliame secco, le mani mi tremavano e riuscire a far prendere quel poco che avevo raggruppato si rivelò più difficile del previsto. Quando finalmente si accesero potetti scaldare le dita congelate sulla fiamma che sembrava essere dalla mia parte, infatti con poco tempo il calore riuscì a farmi stare meglio.

Lo scoppiettio del fuoco mi spaventava in quanto ero sempre attenta ai rumori che mi circondavano: ormai ero capace di distinguere i passi dei vaganti da quello degli umani e di diversi animali, ma a quanto sembrava ero sola.

Con la luce della fiamma potetti definire come grave la ferita del braccio, in quanto circa cinque punti si erano staccati, lacerando la pelle e provocando nuove fuoriuscite di sangue. La visione della mia stessa carne insanguinata mi provocò un piccolo giramento di testa e mi abbandonai sulla corteccia dell'albero per recuperare i sensi.

Quando le orecchie smisero di fischiare tornai con le mani verso il fuoco, quasi a coprirlo. Ero stata stupida ad accenderlo così, senza nascondermi meglio, avrei attirato sicuramente qualcuno o qualcosa.

Sciolsi il braccio dalla fascia ormai zuppa di sangue e presi, cercando di forzare poco l'avambraccio ferito, le garze nella tasca anteriore dei pantaloni srotolandole sulle gambe incrociate.

Con i lembi ancora puliti della garza già usata cercai di pulire leggermente la ferita tamponando il sangue che non smetteva di uscire; anche se in minor quantità non avevo smesso da quando scappavo.

Buttai la garza insanguinata vicino al fuoco e iniziai a far passare quella pulita su tutto il lungo squarcio. Ero a metà dell'opera, avevo appena ricoperto lì dove erano saltati i punti che sentii dei rumori dietro di me. Velocemente spensi il fuoco con i piedi facendomi bruciare gli occhi per colpa del fumo.

Stavo piangendo. Non volevo tornare lì, basta con siringhe, sangue e pezzi di pelle.

Il rumore regolare e l'assenza di gemiti mi faceva perfettamente intuire la presenza di persone, due o più.

 

Questa volta non mi avrebbero avuta.

Srotolai la benda bianca dal braccio e con la katana, pronta nella mano destra, spezzai i punti rimasti intatti. Sentii immediatamente il sangue scorrere su tutto il braccio come era successo poche ore prima, e proprio come la prima volta mi sentii debole, ma felice.

Mi abbandonai su un fianco con il calore del suolo ancora tiepido e chiusi gli occhi.

 

  
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