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Autore: Blablia87    18/12/2016    9 recensioni
Cosa si può fare, in 180 giorni?
Alle volte, si può cambiare una vita intera.
[AU][Tematiche delicate]
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incompiuta
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-102
 
 
È interessante come ogni tentativo da parte delle persone di elevare l’amore a massima forma di altruismo e meravigliosa esperienza di vita finisca invece - ad ogni frase fatta, ad sospiro volutamente accentuato, ad ogni forzata incanalatura di un’emozione che dovrebbe essere personale in binari stabili e solidi, già percorsi da altri - col deformarlo, degradandolo a mero “prodotto”.
 
Spogliandolo delle sue fisiologiche storture per renderlo un inamidato oggetto da esposizione da ostentare con il terrore che non farlo conduca al perderlo per sempre o, peggio, significhi non averlo mai avuto.
 
Le persone amano rumorosamente, baciano con foga.
 
Guardano chi resta in silenzio con commiserazione.
 
Ma un sentimento non cresce in pari misura con l’attenzione che attira su di sé.  Molte parole leggere non pesano come pochi sguardi pesanti, pieni.
 
 
E l’amore non è quanto di più puro esista.
 
 
L’amore è egoista. È avvolto da paure.

Amare è un’esperienza opaca, imperfetta.
 
È scomporsi per cercare di assumere una forma che possa piacere all’altro, perdendo piccoli pezzi di sé.
 
È fondersi in una chimera che diluisce per sempre in un altro corpo una parte di noi stessi, di chi eravamo.
 
 
È lasciare che qualcuno prenda il comando della nostra vita, lasciarsi guidare.
 
 
Amare è come compiere un atto di fede. Come pregare.
 
E io - servo solo alla mia ragione - ho sempre osservato con aria di superiorità e distacco chi vedevo inginocchiarsi di fronte ad un altro essere umano.
 
Ma adesso…
 
 
John si è addormentato sulla mia poltrona, le braccia abbandonate lungo il corpo e la testa reclinata da un lato.
 
Posso vederlo perfettamente, da qui.
 
 
E mi trovo a pensare, ancora una volta, che - se le mie gambe lo permettessero - mi siederei a terra, ai suoi piedi, la testa sulle sue ginocchia.
 
Vorrei farlo.
 
E, allo stesso tempo, sono quasi grato di non potere.
 
Questo corpo che non riconosco, adesso, è ironicamente l’unico appiglio che mi resti alla persona che sono stato.
 
 
Ho paura di perdermi.
 
Ho paura di perderlo.
 
 
Di cambiare per poi scoprire di non essere più ciò che desidera.
 
 
 
Se decidessi di restare… lui farebbe altrettanto?
 
E per quanto?
 
Quanta riserva d’amore si deve avere, per poter vivere anni con una persona come me?
 
 
 
Più lo guardo, più mi rendo conto che dovrei lasciarlo andare.
 
Che la mia scelta non riguarda quasi più il mio corpo, ma il suo cuore.
 
 
 
Ma l’amore è egoista, dicevo.
 
 
 
E l’unica cosa che desideri è che si sdrai accanto a me, ancora una volta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-102
 

“John…?”
“John, svegliati. Andiamo a letto.”
 
“Mhm…”
 
“Avanti, su.”
“John!”
 
“Sì, sì, eccomi… io… ci sono. Scusa, non… devo essermi…”
 
“Ti sei addormentato sulla mia poltrona.”
 
“Davvero? Accidenti… Da… per quanto?”
 
“Almeno un’ora.”
 
“Mhm. Ok, arrivo.”
“Solo… devo andare un attimo in bagno. Non… non mi sento molto bene.”
“Dammi un paio di minuti.”
 
“Vuoi che venga con te?”
 
“Mhm? Oh, no, tranquillo. Ho solo un po’ di nausea. Forse ho preso freddo andando all’università, oggi.”
 
“John, non ti reggi in piedi.”
 
“Sono semplicemente stordito dalla dormita. Sto bene, Sherlock. Non ti preoccupare. Davvero.”
“Inizia a prepararti. Arrivo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-101
 
 
[08:03] Donovan, non posso venire in centrale, oggi. Coordina tu tutte le operazioni, ok? GL
 
 
 
[08:07] D’accordo capo. Va tutto bene?
 
[08:09] Adesso sì. Ma devo rimanere con Sherlock in ospedale. GL
[08:10] Che altro ha combinato, adesso?
 
 
 
[08:16] Nulla. Non è lui a stare male. Scusami, ci sentiamo più tardi. GL
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-100
 
 
Il battito cardiaco.
 
La respirazione.
 
L’affacciarsi continuo di pensieri alla coscienza.
 
Sono tutti automatismi, atti che compiamo ogni secondo senza renderci mai davvero conto che siano lì, a regolare la nostra vita.
 
Per un puro meccanismo biologico che affonda nella nostra forma più ancestrale, sono i primi fattori a mutare, in caso di pericolo.
 
Per un bizzarro meccanismo psicologico, finiamo con l’accorgerci della loro esistenza solo quando, repentinamente, subiscono un cambiamento drastico.
 
 
È stato l’ossigeno la prima cosa a mancare, mentre la gola si chiudeva in una stretta dolorosa.
 
“Trattenere il fiato”, come si è soliti definire questo “dispositivo” fisico, non rende l’idea.
 
Quando ho sentito il tonfo provenire dal bagno… non ho trattenuto il fiato.
 
È stato il respiro stesso, a spengersi.
 
 
E quando poi, dopo averlo chiamato in vano un paio di minuti ho avuto la forza di spingermi fino all’uscio del bagno.  
 
 
Quando l’ho visto…
 
 
Io… io non ho mai avuto tanta paura in tutta la mia vita.
 
Mai.
 
La certezza che sarei morto - provata mentre il mio corpo superava la balaustra in uno slancio innaturale - non mi ha spaventato quanto vedere il sangue attorno alla testa di John, riverso sul pavimento.
 
Io…
 
 
Per un attimo ho avuto la sensazione che il mio cuore si fosse rattrappito al punto da fermarsi, una morsa incandescente a serrare lo sterno, stritolandolo, mandandolo in frantumi.
 
 
Sono rimasto immobile, entrambe le mani stese di fronte a me, incapaci di toccarlo.
 
Entrambe le braccia.  
 
Un miracolo della paura e della disperazione inutile, tardivo, orrendo.
 
 
E con entrambi i palmi sono arrivato strisciando fino a lui quando, alla fine, ho trovato il coraggio di lasciarmi cadere sul pavimento per raggiungerlo.
 
Per sfiorarlo.
 
 
È stata la signora Hudson a telefonare per avere un’ambulanza, e ad avvertire Lestrade.
 
Almeno credo.
 
Non so quanto a lungo io l’abbia chiamata, immobile, le dita incapaci di fare qualsiasi cosa se non tremare.
 
Non sono neanche certo di averlo fatto.
 
 
Per la prima volta in tutta la mia vita non riuscivo a mettere a fuoco che pochi spezzoni, piccoli frammenti dell’ambiente scoordinati tra loro, scardinati dalla realtà.
 
Scampoli di pensieri confusi.
 
 
Il viso di John su le mie gambe.
 
Il taglio profondo sulla tempia.
 
Il suo respiro affannoso.
 
 
“John? John, adesso mi devi guardare e mi devi rispondere, va bene?”
 
 
Si può implorare qualcuno allo stesso tempo con amore, rabbia, dolore, terrore?
 
Immagino di sì, perché l’ho fatto così tante volte da non riuscire a ricordarle.
 
Contro i suoi capelli, le sue mani, il suo viso.
 
 
Lui ha aperto gli occhi un secondo, il tempo di fare un sorriso incerto e provare, ancora una volta, a rassicurarmi.
 
 
Quando sono arrivati i paramedici mi hanno spostato di peso da una parte.
 
Hanno dovuto faticare, per staccarmi da lui.
 
Fino all’arrivo di Lestrade sono semplicemente rimasto a terra, le braccia della signora Hudson attorno alle spalle e un unico pensiero che diveniva sempre più grande ad ogni movimento che vedevo svolgersi attorno a John: sono inutile.
 
 
Incapace di aiutarlo.
 
Di capire cosa succeda.
 
Di chiamare i soccorsi.
 
 
Non importa quanto John provi a mostrarmi costantemente il contrario.
Sono inutile, per lui.
 
Sono inutile, senza di lui.
 
 
 
 
Che avesse sbattuto la testa contro il lavandino cadendo è stato Lestrade a capirlo, non io.
 
Dai segni.
 
Dal sangue.
 
Mentre io non riuscivo neanche a capire perché la signora Hudson fosse andata con loro mentre noi eravamo ancora inchiodati il quel posto.
 
Forse, in un altro momento, avrei trovato ironico l’improvviso acume di Lestrade di fronte ai miei sensi obnubilati.
 
 
 
“Andiamo, ti accompagno in ospedale.” Ha detto, gentile, avvicinando la sedia.
 
Mi sono girato verso il Titanic, senza riuscire realmente a metterlo a fuoco.
 
“Andiamo.” Ha ripetuto lui dopo qualche secondo, alzandomi di peso.
 
 
Io, in silenzio, l’ho lasciato fare.
 
 
 
 
Non pensavo si potesse provare un terrore così profondo, così totalizzante.
 
 
Non pensavo che un uomo come me fosse capace di pregare per qualcosa.
 
Che mi sarei mai trovato a chiedere di barattare la mia vita con quella di un altro.
 
 
Non l’ho mai fatto. Non ho mai domandato nulla. Mai.
 
Non ho mai desiderato un miracolo per me, per la salvezza della mia vita.
 
Ma ho dato fondo ad ogni briciola della mia ragione, mentre andavamo in ospedale.
 
 
 
“Andrà tutto bene. I parametri erano nella norma, quando li hanno misurati.” Ha provato a rassicurarmi Lestrade in auto, le mani nervose attorno al volante.
 
 
“Vedrai che non è niente di grave.”
 
“Sono sicuro che starà bene.”
 
 
 
La parola piangere ha un’etimologia particolare.
Proviene dal latino, ed indica il gesto di percuotersi il petto.
 
Non avevo mai compreso fino in fondo quale fosse il senso di una scelta simile, fino a ieri notte.
 
Perché ho sentito il mio petto sconquassarsi.
 
Aprirsi in uno stridio di dolore puro, abissale.
 
 
Paura, dolore. Ira. Frustrazione.
 
 
Se mi fermo a rifletterci, non riesco a ricordare quale fosse stata l’ultima volta nella quale mi ero permesso di farlo.
Di piangere.
 
In presenza di altri, sono quasi certo che non fosse mai avvenuto.
 
 
Davanti al mio tentativo di ingoiare i singhiozzi cercando di fare meno rumore possibile, Lestrade ha continuato a guidare, in silenzio.
 
E gli sono grato, per questo.
 
 
Senza aggiungere una parola, poi, mi ha aiutato ad uscire dall’auto e accompagnato all’ingresso del pronto soccorso.
 
 
Ho permesso che mi sollevasse, che mi adagiasse, che mi spostasse. Che non chiedesse il permesso, ma lo facesse e basta.
 
 
Tutta la mia puntigliosa attenzione, la mia costante battaglia per non dipendere dagli altri dissolta, persa, un gomitolo di ego disfatto - in un secondo - in quel bagno.
 
 
 
Ci sono volute due ore per avere una diagnosi.
 
Due ore per poter tornare a respirare. A pensare.
 
A vivere.
 
 
 
Sincope del seno carotideo, hanno detto.
 
Una perdita di coscienza provocata da una momentanea costrizione dell’arteria carotidea.
 
 
Nessuna avvisaglia, nessuna conseguenza.
 
 
Solo la paura ed il tremore che ancora non riesco a
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-100
 

“Cosa stai scrivendo…?”
 
“John! Ehi… Non mi ero accorto che fossi sveglio.”
 
“Lo so. Mi piace, osservarti di nascosto.”
 
“Davvero…?”
 
“Davvero. Anche se non mi piaceva molto la tua espressione, mentre scrivevi…”
 
“Non è importante, adesso. Allora, sei pronto per tornare a casa?”
 
“Pronto. Un giorno in osservazione mi sembra più che sufficiente, per uno svenimento.”
 
“Non è stato solo uno svenimento. Hai sbattuto con forza la testa, John. Potresti avere una commozione celebrale. Il medico ha parlato di dimissioni protette. Dovrai stare a riposo per almeno un altro paio di giorni. Ho chiesto aiuto alla signora Hudson per—”
 
“Alla signora Hudson?”
 
“Beh, sì. Per preparare i pasti, aiutarti… aiutarmi nelle faccende…”
 
“Non puoi farlo tu?”
 
“John… io… non credo di essere capace di prendermi cura di qualcuno.”
 
“Io non sono “qualcuno”. E sono certo che sapresti prenderti cura di me.”
 
“No. Se fosse stato per me, saresti ancora sul pavimento del bagno. Io… Io… Io non credo che…”
 
“Tu temi che. Sei il mio compagno, ed io mi fido di te. Immensamente.”
“Sherlock…?”
 
“C-cosa…?”
 
“Mi fido di te, Sherlock.”
 
“No. Non… quello.”
 
“Sei il mio compagno…?”
“Non… non va bene?”
 
“In realtà non ho mai pensato a cosa fossimo o meno.”
 
“E pensi che potrebbe andarti bene, essere il mio compagno?”
“Sherlock…?”
“Ok, lascia stare. Fa’ finta ch—”
 
“Certo… certo, sì.”
 
“Certo che fingerai che non abbia detto nulla?”
 
“Certo che mi sta bene essere il tuo compagno. E…”
“Prendermi cura di te. Provare, a prendermi cura di te.”
 
“Vieni qui, vuoi?”
 
 
 
“Mi hai fatto morire di paura.”
 
“Lo so. Mi dispiace.”
 
 
 
“John…?”
 
“Dimmi.”
 
“Non andare da nessuna parte senza di me, ok?”
 
 
 
“Vorrei poterti chiedere la stessa cosa, lo sai…?”
 
“Lo so. Mi dispiace.”
 
“Non importa. Vieni qui, adesso.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-100
 
 
Solo la paura ed il tremore che ancora non riesco a controllare.
 
 
 
 
 
John.
 
Io sono sempre stato un uomo ridicolo.
 
Senza virtù, senza attenzione per la bellezza e senza desiderio di felicità.
 
 
Non ho mai voluto, non ho mai desiderato, essere il compagno di qualcuno.
 
 
Ma… se hai deciso che questo sia il mio ruolo… posso esserlo, per te.
 
Solo per te.
 
 
 
E anche se, alla fine, già sappiamo che sceglierò di non farlo…
Anche se sappiamo che non potrò, farlo…
 
Anche se non te lo dirò mai…
 
 
 

Io potrei restare, per te.

Resterei, per te.

 


Solo per te.
 
 
 
 
 


Angolo dell’autrice:
 
Questo capitolo arriva con più di un mese di ritardo.
 
È davvero vergognoso avervi fatto attendere tanto e, ancora una volta, vi chiedo scusa.
 
Ieri mattina mi sono imposta di sedermi al pc e di non alzarmi senza aver scritto almeno qualche pagina da pubblicare prima di Natale.
 
Questo - per quanto la mia capacità autocritica e di valutazione su quanto scrivo ultimamente sia davvero ridotta ai minimi termini e mi impedisca di capire quanto valido od orribile possa essere - è il risultato. ^_^
 
Spero che non sia troppo difforme dal resto dello scritto. Io ce l’ho messa tutta. :)
 

Quanto meno, possiamo dire che Sherlock abbia davvero capito cosa significhi “amare”  qualcuno più di se stessi!  :D
 
 
 
Come già fatto in “Apologize”, vorrei dedicare questo capitolo a voi.
 
A chiunque abbia letto fin qui, a chi mi accompagna in ogni viaggio fin dall’inizio e a chi è stato, o è, solo di passaggio.
 
Grazie di cuore, ancora una volta, per questo 2016 insieme.
 
 
 
A presto,
B.
 
 
 
 
 
“L'incontro di due personalità è come il contatto tra due sostanze chimiche: se c'è una qualche reazione, entrambi ne vengono trasformati.”
(Carl Gustav Jung)
   
 
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