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Autore: Hermit_    18/12/2016    0 recensioni
Rebecca Palumbi è una scrittrice in cerca dell'ispirazione mancante in Toscana, Campo nell'Elba. Di certo, quello che non si aspetta è un ragazzo dagli occhi del color del mare in tempesta, misterioso e di poche parole. Ma cosa nasconde, dietro tutto ciò?
Il salotto era la parte più bella di tutta la casa, ma non per il grande divano o la televisione a plasma, era bello –anzi, magnifico- a causa delle ventane a grandezza muro come se lo sostituissero, da cui si scorgeva il mare nella sua immensità. Non spiagge, non terreni, non persone, non alberi, niente.
Era stupendo.

[...]
“No” rispose lui, le labbra che quasi non si aprirono per parlare, e subito dopo distolse lo sguardo per riportarlo ai bicchieri.
“Wow, non sei uno di tante parole, vedo.” Doveva essere una provocazione lasciata lì per flirtare, ma evidentemente il tipo non era granché interessato.

[storia partecipante al contest "Scegli un'abitazione e crea la storia" di M.Namie sul Forum di EFP]
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Blu come il mare in tempesta

Nickname sul Forum e su EFP: Hermit_

Generi: Fantasy, romantico

Rating: Verde

Abitazione scelta: N. 1

 

 

 

 


BLU COME IL MARE IN TEMPESTA

Con l'aiuto di IseyZ, grazie mille :)

 


 

Image and video hosting by TinyPic“Grazie mille, le prometto che ne avrò cura” disse la ragazza dagli scalati capelli color topo, sorridendo con i suoi denti bianchi e curati.

Non era la prima volta che si ritrovava ad affittare una delle tante case della signora Donati, ormai aveva imparato a conoscerla, difatti era sempre stata lei a intervenire quando Rebecca Palumbi aveva avuto bisogno di una nuova casa. Cosa che succedeva spesso, dovette ammettere.

Era una signora di mezz’età ma con ancora l’energia e la voglia di vivere di una quindicenne; usciva in continuazione per andare a party e festini e ritornava completamente sbronza. Lontani erano i tempi in cui aveva avuto un marito dolce che si prendeva cura di lei: non appena aveva saputo di avere una malattia che l’avrebbe portato alla morte, quasi sei anni fa, se n’era andato e non si era fatto più sentire; se lo si nominava anche per sbaglio, la signora Donati era capace di fingere di non conoscere quel nome e rinchiudersi in uno stanzino a piangere. Rebecca aveva imparato a non nominarlo mai.

“Oh non ne dubito, tesoro” ribatté infatti la governante facendole un occhiolino; lasciò cadere le chiavi dell’appartamento nella mano aperta della ragazza e la salutò con una risatina e l’avvertimento di non rompere niente. Sparì, veloce come era arrivata, sulla Mercedes rossa che l’aspettava dall’altro lato della strada.

Rebecca sospirò e si morse l’interno delle guance: era arrivata l’ora di conoscere la casa in cui avrebbe abitato per il prossimo mese. Sapeva sarebbe stata stupenda come tutte le altre, non aveva dubbi. La prima che aveva affittato per non più di qualche settimana a Venezia si era rivelata una delle più belle per la meravigliosa vista sui fiumi, l’enorme salotto sul cui divano si era abbuffata di cibo e il giardinetto pieno di fiori di tutti i colori e le piante più verdi che avesse mai visto. Certo, il costo era stato decisamente maggiore rispetto a tutte le altre case in cui in seguito era stata, ma ne era valsa la pena.

Questa volta il costo si era abbassato di poco ma la casa, a detta della signora Donati, era una delle più belle mai affittate insieme a quella a Venezia.

Giocò facendo rimbalzare il mazzo di chiavi sulla mano per un po’ e solo quando il peso dello zaino sulle spalle e della valigia nera in mano si fecero sentire, si decise ad inserire la chiave nella serratura. All’inizio ebbe dei problemi, tuttavia alla fine, aiutata da una piccola spintarella, riuscì a spalancare l’uscio completamente.

L’interno era fantastico, niente che fosse lontanamente simile alla casa di Venezia ma sicuramente non brutta. La cucina era piccola però ben organizzata con un grande tavolo a destra, un divano grigio al centro della stanza e un cucinino pulito e grande al punto giusto. L’arredamento era raffinato e classico: c’erano piccoli oggetti, come l’orologio sopra la mensola dei piatti o i quadri sulle pareti o, ancora, i vasi di fiori sulle finestre che contribuivano a renderla accogliente. Alla sinistra, invece, c’erano delle scale di legno che portavano al secondo piano, dove teoricamente si sarebbe dovuta trovare la camera da letto.

Rebecca si diresse subito lì, impaziente di lasciare le valigie e scalò gli scalini due alla volta.

La camera in realtà si rivelo piuttosto deludente; era composta solo da un letto da una piazza e mezza bianco, un comodino anonimo e delle ventane larghissime. Lasciò la valigia sul letto e stiracchiò la schiena, erano state dure tre ore di treno ma ne era valsa la pena: la Toscana era bellissima. Aveva deciso di scegliere la piccola città balneare Campo nell’Elba un giorno, in palestra, mentre chiacchierava tranquillamente con Laura Biomera. Lei continuava a parlare di quanto fossero fantastiche le spiagge di Firenze e Becca non faticava a crederlo, con i suoi stessi occhi aveva visto quanto fossero belle. Stanca, si sedette sul bordo del letto e passò le mani tra i ciuffi della frangia. La odiava, non ricordava nemmeno perché avesse deciso di tagliare i capelli per farsi la frangetta. Non solo avevano un colore terribile ed erano secchi, da allora avevano pure un brutto taglio.

Tirò fuori dallo zaino il portatile e lo collegò ad una presa che trovò dietro il comodino. Lo possedeva da circa otto anni ed era un po’ vecchiotto però funzionava ancora e ormai se n’era affezionata, anche se per accendersi ci metteva il doppio del tempo che avrebbe dovuto.

La schermata iniziale mostrava l’immagine di un gatto dal pelo nero con alle orecchie due cuffie bianche: non la cambiava da quasi un anno. Sorrise per quell’immagine familiare e si affrettò a digitare la password prendendo a torturarsi le unghie, mentre aspettava che si accendesse.

Finalmente si accese e Rebecca controllò la casella di posta elettronica. L’applicazione segnalava tre nuovi messaggi, ognuno di una persona diversa. Il primo era di sua madre che le chiedeva come era andato il viaggio e le diceva di chiamarla, il secondo della sua migliore amica Giulia Sabini e il terzo della sua manager. Decise di aprire quest’ultimo; la sua manager era una tipetta terribilmente diligente e stressava Becca in continuazione per farla affrettare a scrivere il libro di cui in quel momento si occupava. Quando aveva deciso di dedicarsi alla scrittura, non pensava fosse così stressante quel genere di lavoro. Solo da poco l’aveva capito.

“Ciao Martine, come è andato il viaggio? Sono felice di sapere che finalmente sei partita per Firenze, mi auguro che troverai l’ispirazione giusta in fretta, lì.”

Poteva quasi sentirla parlare con la sua vocina stridula come quella di una maestrina e le sue mani che costantemente correvano ad alzare fin sopra il naso gli occhiali piccoli e fini.

Rebecca sbuffò, quella donna doveva seriamente rilassarsi di più e pensare meno al lavoro. Nel frattempo, digitò una risposta veloce: “Sì, tutto bene. Mi metterò a scrivere il prima possibile :)”

Guardò rapidamente anche l’email di Giulia in cui le raccontava dell’ultimo suo appuntamento, le elencava alcuni posti belli a Firenze che poteva visitare e le raccomandava di trovarsi in fretta una nuova fiamma in quella città. A Rebecca sfuggì una risata: certo che Giulia non cambiava mai, dai tempi del liceo a quelli dell’università e oltre era rimasta sempre la stessa esuberante e simpatica ragazzina qual era un tempo.

Spense finalmente il portatile e prendendo il cellulare e la busta che aveva nello zaino, scese velocemente le scale. Compose il numero di sua madre che suonò a vuoto per qualche secondo e alla fine la sua voce bassa le rispose. “Pronto, Becca?”

“Mamma, ciao!”

Quando arrivò in cucina, la ritrovò esattamente come l’aveva lasciata. Posò quasi come se abitasse lì da anni la busta sopra il tavolo e si sedette su una sedia. Si era portata da casa due panini ripieni di frittata conditi con la maionese per il pranzo perché sapeva che il frigo sarebbe stato vuoto. Non era il tipo di ragazza molto attenta alla linea o a quello che mangiava, fin da piccola aveva avuto un fisico magrolino e quasi scheletrico e seppur mangiasse molto più degli altri, non ingrassava. Tolse il panino dalla pellicola di alluminio e lo azzannò come se non mangiasse da una vita. Intanto sua madre continuò a farle la lista delle cose che doveva fare come se avesse ancora cinque anni.

“Mamma” la fermò con la bocca piena e le sue parole si capirono a malapena. “Ho vent’otto anni e mi sposto per lavoro di continuo, non ti preoccupare. Davvero.”

“Ma sei la mia bambina, è ovvio che mi preoccupi.”

Rebecca alzò gli occhi al cielo ma non commentò; quando era piccola sua madre era sempre occupata a causa del divorzio con suo padre e con la vita che cercava di farsi al di fuori del divorzio quindi ora che il tempo era passato, cercava in qualche modo di riscattarsi stando sempre più attenta alla vita di sua figlia. A volte era piacevole, mentre altre era davvero stressante. Non sapeva più come dirle che ormai non le importava e che l’aveva perdonata già da tempo.

“Come va a casa?”

“Ancora tutto come l’hai lasciato tu” rispose lei, e Rebecca la sentì sorridere.

“Bene, e Rudy?”

Rudy era il suo cagnolino, un allegro pinch che nella vita si occupava solamente di dormire, fare i bisognini e farsi accarezzare dalle persone. Lei l’aveva soprannominato “polpettina” per via del suo peso decisamente non paragonabile al peso di una piuma.

“Sta bene anche lui. Hai già iniziato a scrivere?”

“Sono appena arrivata, datemi respiro.” Un gemito esasperato fuoriuscì dalla sua bocca proprio mentre finiva il panino. Accartocciò l’alluminio e lo lanciò verso il cestino, mancandolo per un pelo.

Con l’altro panino si diresse al salotto, l’unica stanza che ancora non aveva visitato e rimase letteralmente impietrita sull’uscio.

“Rebecca? Ci sei ancora?”

“S-sì…” Il salotto era la parte più bella di tutta la casa, ma non per il grande divano o la televisione a plasma, era bello –anzi, magnifico- a causa delle ventane a grandezza muro come se lo sostituissero, da cui si scorgeva il mare nella sua immensità. Non spiagge, non terreni, non persone, non alberi, niente.

Era stupendo.

Notò vicino alle ventane una piccola terrazza in cui nel mezzo c’era una grande vasca idromassaggio. Cavolo, era fantastica! Anche se con tutta quell’immensità di mare a disposizione si chiese se davvero avrebbe usato allo stesso modo la vasca idromassaggio.

“Becca!”

Si destò dalla sorpresa per quelle stanze di inaspettata bellezza e notò che il panino le era caduto sul pavimento e che fosse ancora in linea con sua madre. La rassicurò dicendole che tutto andava bene, riprese il panino e con un salto si lasciò cadere sul divano beige e morbido. Qualcosa le dava fastidio dietro la schiena e controllando vide che era il telecomando. Quando accese la televisione, non rimase nemmeno troppo sorpresa nel notare l’alta definizione di essa. Tutto in quella casa si stava rivelando di lusso.

Tutt’a un tratto fu come se qualcosa l’avesse fatta sobbalzare, ma controllando non vide niente. E poi, nella descrizione della signora Donati non era segnata nessuna cantina o stanza sotterranea.

“Ti inizio a sentire strana, Becca. Non importa, ti richiamo più tardi?”

“Sì, hai ragione. Ho bisogno di sistemare un po’ di cose qui, se vuoi ti chiamo io dopo.”

“Bene, allora aspetto la tua telefonata. Mi raccomando, divertiti e inizia a scrivere!”

“Sicuro.”

Non ne dubitava, quel paesaggio le faceva venire ispirazione solo guardandolo. Presto si sarebbe messa a lavoro e sarebbe riuscita ad avere la giusta ispirazione, lo sentiva.

Finì il panino e si tolse le briciole di dosso, successivamente fece un veloce zapping sulla tv e quando notò che stava per appisolarsi, decise che era arrivato il momento di sistemare un po’ le valige.

Al secondo piano si godette ancora un po’ il bel panorama che aveva davanti e alla fine svuotò il borsone sul letto. Aveva portato di tutto; dalla crema per il viso e per il corpo a cose essenziali come vestiti o scarpe. Una volta sua zia le aveva detto che ognuno ha una propria passione per un determinato capo e, dopo averci riflettuto un po’ su, Rebecca era arrivata alla conclusione che per lei erano le scarpe la sua passione assoluta. Adorava entrare nei negozi di scarpe, indossare quelle col tacco in occasioni di eventi speciali, i sandali nelle passeggiate sul lungo mare, gli stivali nel periodo invernale/autunnale e le ballerine quando era di fretta. Odiava –in un certo senso- le scarpe da ginnastica, erano troppo comuni.

Per quella “piccola vacanza” aveva fatto il pieno di roba primaverile-estiva pensando che il tempo sarebbe stato molto soleggiato, difatti non sbagliava. Sistemò tutto nell’armadio e mise la biancheria intima nei cassetti del comò, infine sistemò altre piccolezze come bagnoschiuma o gioielli e finalmente poté buttarsi sul letto.

Non sembrava, eppure quel viaggio l’aveva stancata più del dovuto. Era sicura che se avesse chiuso gli occhi, si sarebbe addormentata in un secondo.

Che male c’era, dopotutto?

Buona dormita, Becca augurò a se stessa; infine sprofondò nel sonno tanto agognato.

 


*


1 tappa: Visitare luoghi, incontrare persone.

-Torre di San Giovanni

-Sassi Ritti

-Acquario dell’Elba

-Fetovaia

Non c’era niente che l’avesse ancora convinta.

L’acquario era stato bellissimo e la torre di San Giovanni molto interessante, ma c’era stata una cosa che l’aveva colpita in particolare per la stesura del libro? La risposta era no. La verità era che avrebbe potuto spulciare tutto Campo nell’Elba e arrivare anche a Firenze, avrebbe sempre trovato bellissimi monumenti e scoperto cose nuove, però non era in quei posti che avrebbe trovato l’ispirazione. Le serviva altro, ma dove avrebbe trovato quell’altro?

Rebecca picchiettò nuovamente con la penna sul suo block-notes; era da sempre il suo compagno di avventure e, almeno lui, non l’aveva mai abbandonata. Tra le sue pagine erano nascoste unicamente spunti per i suoi lavori e ogni singola parola, per lei, era preziosa. Ricordò la prima volta che ne comprò uno, non pensava le sarebbe davvero servito, dopotutto aveva un portatile molto più alla mano, eppure il block-notes era diventato fondamentale per il suo percorso da scrittrice.

Sbuffò e rivolse per l’ennesima volta lo sguardo alle ventane larghissime, un mare calmo e splendente si ergeva proprio davanti i suoi occhi e lei sorrise riconoscendo il paesaggio a cui ormai stava iniziando a fare l’abitudine. Era da quasi una settimana lì e… ah! Ecco cosa mancava alla prima tappa: conoscere persone! Se l’era segnato eppure l’aveva quasi del tutto ignorato. Ne aveva viste di persone, la Toscana ne era piena, le aveva sentite parlare con il loro accento aspirato, le aveva osservate chiacchierare bevendosi un caffè, aveva visto i bambini giocare nelle piazze… ma non aveva mai interagito direttamente con loro. Con una sola donna aveva parlato all’acquario, stava rimproverando il figlioletto monello che la stava esasperando perché voleva un giocattolo e, non appena aveva notato lo sguardo di Rebecca, ne aveva subito approfittato per cercare un po’ di solidarietà in lei. Le aveva parlato del figlio che era assolutamente il peggiore degli altri sei che aveva, tutti maschi, aveva tenuto a specificare. Becca aveva annuito tutto il tempo e, alla fine, dopo quasi cinque minuti, la signora aveva annunciato di sentirsi meglio e sorridendo l’aveva salutata. Becca ricordò di aver pensato bene, almeno sono servita a qualcuno.

“Okay, diamoci di fare” si disse e cerchiò ben due volte la frase ‘Incontrare persone’.

Dieci minuti dopo era già fuori di casa con gli occhiali da sole infilati dietro le orecchie e la borsa sottomano. Era pronta ad esplorare la parte ‘popolana’ della città ossia spiagge, stradine di negozi, piazze e parchi. Si facevano i più bei incontri, ai parchi.

Ovviamente, i primi posti che incontrò uscendo di casa furono le spiagge private, disseminate di ombrelloni rossi e blu perfettamente allineati però, purtroppo, ancora non molto usati per via dell’ora mattutina. Non si diresse, come faceva sempre, nel suo angolino vicino alle rocce con il borsone ma, invece, si fermò al chioschetto. Il bancone era di legno colorato di beige e sopra c’erano alcuni posacenere e delle noccioline, dietro al bancone un ragazzo di non più di trent’anni puliva dei bicchieri; aveva uno straccio sulla spalla e un codino basso che raccoglieva i suoi capelli castano chiaro. Mordendosi un labbro, Rebecca si ricordò dell’avvertimento della madre e dell’amica: “Trovati anche un bel ragazzo in Toscana, eh!”

“Allora… lavori da tanto qui?”

Finalmente il ragazzo alzò lo sguardo su di lei e Becca fu colpita dal colore dei suoi occhi blu come… come il mare in tempesta, rifletté, trovando azzeccatissimo quel paragone.

“No” rispose lui, le labbra che quasi non si aprirono per parlare, e subito dopo distolse lo sguardo per riportarlo ai bicchieri.

“Wow, non sei uno di tante parole, vedo.” Doveva essere una provocazione lasciata lì per flirtare, ma evidentemente il tipo non era granché interessato.

Becca sospirò e si girò appoggiando i gomiti sul bancone, in modo da avere la vista della spiaggia davanti a sé. Come faceva a sforzarsi di parlare con qualcuno, se erano le persone a non voler parlare con lei?

“Ti porto qualcosa?”

Beh, almeno era educato. “Sì, un’aranciata, grazie.”

Il tipo ne prese una dal frigo, alzò il tappo con un apribottiglie e successivamente ne versò il contenuto in un bicchiere.

“Sai, mi sono trasferita qui da poco e trovo che Campo nell’Elba sia bellissima” annunciò ad un certo punto, giocando con il bordo del bicchiere.

“E quindi?”

Becca lo guardò disorientata. “E quindi… niente, era solo un commento.”

“Di cui non mi frega assolutamente nulla.”

Cosa? In un attimo Rebecca si accigliò, aprì leggermente le labbra colta alla sprovvista e indietreggiò con il collo come se davanti a lei fosse appena passata una lama. “Oh, vedo che gli abitanti, al contrario, non lo sono” rispose tra i denti, adesso indignata. Prese la borsa che aveva lasciato sul bancone, il bicchiere e si alzò con tutta l’intenzione di andarsene.

“Lo scusi signorina, ha un carattere alquanto antipatico.” Girandosi, vide la figura di una ragazza non molto più grande di lei che indicava il barista con un’espressione che sembrava dire ‘è fatto così, mi dispiace’. Portava una maglia rossa con la scritta in bianco “STAFF”.

“Non importa” rispose lei educatamente, invece a lui rivolse uno sguardo fulminante. “Dovevo andarmene lo stesso.”

“Ho sentito che è qui da poco, posso permettermi di consigliarle qualche posto in particolare?”

“Ho già visitato molti monumenti, grazie, oggi volevo solo… ecco, capire come sono le persone qui” disse l’ultima frase lentamente, ponderando bene le parole. Non voleva fare la figura della pazza.

“Allora ti è andata proprio male incontrare un tipo come lui. Vieni, ti faccio un po’ di compagnia prima che la spiaggia inizi a popolarsi.”

“Oh grazie.” Evvai, pensò automaticamente. Si sedette sul divanetto bianco dove la stava portando la signorina che notò avere dei capelli cortissimi.

Poi lei incominciò a parlare: “Sei una specie di giornalista?”

“No, ma quasi.”

“Scrittrice?”

“Esatto.”

“Fico, e sei anche famosa? Devi scusarmi, non leggo molti libri.”

Continuarono a parlare per un bel po’, Rebecca capì che fosse una tipa tosta che si era fatta il culo –a detta sua- per studiare e andare all’università nonostante la sua famiglia non fosse delle più ricche e questo era il motivo per cui faceva quel lavoro. Ad un certo punto notò la spiaggia popolarsi. Prima che la ragazza si congedasse, però, le chiese il nome.

“Parliamo da circa un quarto d’ora e non ci siamo dette il nome? Cavolo, ma dove ho la testa? Mi chiamo Annalisa, tu?”

“Marta. Tranquilla, non sei l’unica.”

“Dovrei proprio andare ma se ti serve qualche informazione sul posto, posso aiutarti.”

Martine indugiò un pochino e poi le chiese il nome del parco più vicino.

“Ok, c’è un parco non molto più lontano da qui, prosegui dritto e gira a destra. È bellissimo, te lo assicuro.”

“Grazie mille” e i suoi ringraziamenti erano davvero di cuore, la breve chiacchierata con quella ragazza era stata davvero piacevole. Per ultima cosa, si chiese se l’avrebbe mai rivista, quando lei si allontanò per servire una coppia di fidanzati sbandierando la sua maglietta rossa.

Il parco era esattamente come Annalisa lo aveva descritto, grande e pieno di fiori. Come ogni parco che si rispettasse, aveva nel mezzo una piccola fontanella in cui nuotavano delle anatre e sul bordo del terreno un bambino di non più di cinque anni si divertiva a dare loro delle molliche di pane. Automaticamente, Marta si ricordò di quando anche lei da piccola si divertiva in quel modo, non essendoci ancora tanta tecnologia. Non pensava le sarebbe capitato di incontrare ancora bambini così. Proseguì per quella strada e si ritrovò per una distesa di verde in cui ovviamente non poteva mancare la presenza di piccioncini seduti a coccolarsi su dei teli e con i libri scolastici in mano. Sospirò pensando che un tempo anche lei passava pomeriggi interi al parco con i suoi amici o con il suo ragazzo.

Troppi ricordi, pensò storcendo la bocca, non la stava aiutando molto l’aria fresca.

Trovò un posto al fresco e un po’ isolato all’ombra di un albero e si sistemò sotto di esso posando la testa sullo zaino. Il sole sembrava voler attraversare l’ostacolo delle foglie per illuminare lei. Un uccellino si posò sul ramo e lei lo guardò affascinata, le sue amiche avevano paura degli insetti, ogni volta che ne vedevano uno scappavano come se avessero visto mostri. Lei no, adorava la natura e i piccoli esserini.

Prese le cuffie e le collegò al cellulare. Quando fece partire la musica, chiuse in contemporanea gli occhi e si preparò ad un nuovo sonnellino con la promessa che subito dopo si sarebbe messa a “lavorare”.

Qualche minuto dopo, o forse qualche ora dopo, si svegliò di soprassalto, scattando seduta e guardandosi intorno agitata. Una volta appurato che non ci fosse alcun pericolo, si strofinò gli occhi e guardò in alto, verso l’apparecchio che l’aveva svegliata con il suo suono acuto.

“Oh, nin hao!”

“Eh?” Davanti a lei, a meno di un metro di distanza, un’interessante coppietta di cinesi la fissava sorridendo. Avevano degli strani cappelli di paglia sopra la testa e Rebecca riconobbe al collo dell’uomo la telecamera che l’aveva svegliata. Che l’avessero fotografata?

Si tirò su e velocemente rimise tutto quello che aveva tirato fuori dentro il borsone. La dormita era stata tutt’altro che ristoratrice, adesso si sentiva anche peggio di prima. “Ma che ore…” sussurrò controllando il cellulare. Erano le cinque. Come cavolo aveva fatto a dormire così tanto?

“Ehm… che c’è?” domandò alla coppia che la fissava ancora.

Loro non commentarono nulla, solo l’uomo allungò la mano per indicarle la sua… pancia? Marta si toccò e con sorpresa notò un millepiedi sopra. Lo prese in mano e nel frattempo si alzò pulendosi i pantaloni sporchi di erba. “Volevate fotografare questo?”

Non risposero al suo quesito, allora lo ripeté più lentamente e a quel punto la donna annuì con vigore, dicendo: “shi de-shi de!”

“È un sì? Beh, immagino di sì…” lo tese nella loro direzione e con la macchina fotografica, loro lo fotografarono. Adorava parlare con i turisti, studiare lingue era una cosa che da sempre le sarebbe piaciuto fare, ma che purtroppo non aveva mai avuto la possibilità di fare. “Scusate” sillabò, “per caso conoscete un ristorante nei dintorni? Ristorante” ripeté mimando il segno di un edificio e facendo finta di mangiare.

“Oh!” si illuminò la donna. “Meiyou, duibuqi!”

Non capì cosa loro dicessero, però capì che non sapessero di cosa parlasse. Sospirò sconfitta e lasciando cadere il millepiedi si infilò lo zaino sulle spalle. “Non importa, chiederò a qualcun altro. –Scusate!”

“Sì?”

Fu sorpresa appena vide girarsi la ragazza che era mano nella mano con un ragazzo. Aveva dei capelli biondi tinti sulle punte di nero, gli occhi truccati e un chewing gum in bocca. Le ricordava incredibilmente sua sorella, un’adolescente ribelle con cui litigava quasi ogni giorno.

“Oh, ehm… scusate, non sono di qui. Mi sapreste indicare un bar o un ristorante dei dintorni?”

Al suo posto, intervenne il ragazzo dai capelli biondi e l’espressione gentile, notò. “Sì, ci stiamo dirigendo proprio adesso al bar qui di fronte. Vieni se vuoi, fanno dei buoni prezzi.”

“Fantastico.” Era proprio quello di cui aveva bisogno, un po’ di cibo a basso costo, seppur non si definiva decisamente una ragazza con poco denaro. Aveva saltato il prezzo e adesso moriva di fame. “Come vi chiamate?”

“Io Simone e lei Federica.”

“Piacere, Rebecca.” Non tese la mano solo perché proprio in quel momento stavano per attraversare la strada. “Avete finito le superiori voi?”

“Facciamo l’università” rispose malamente Federica.

“Devi scusarla, è il suo carattere.”

“Ci sono abituata” rispose Becca. “Anche mia sorella faceva così.”

“Ah, sì? Hai una sorella, come si chiama?”

“Camilla, lei è più piccola di me.”

“Vieni, Simo, entriamo dai.”

Salutò Simone che si allungò per salutarla ed entrò anche lei al bar, mettendosi in coda. Pensò che il ragazzo era davvero simpatico, Federica non lo meritava. Si sbagliava, però. Mai fidarsi delle apparenze.

Alla fine, alla cassa ordinò un hotdog con patatine, stava morendo di fame ma non avrebbe fatto una brutta figura prendendosi un piatto intero alle cinque del pomeriggio.

Si accomodò davanti ad una finestra e tirò fuori il suo block-notes mentre azzannò il panino farcito con maionese e ketchup.

Il tentativo di conoscere persone era servito eppure ancora non sentiva quella voglia di impugnare carta e penna e scrivere senza staccarsi un attimo. Conosceva bene quella sensazione, l’aveva provata per la precedente decina di libri che aveva pubblicato, e non avrebbe iniziato a scrivere finché non l’avesse provata ancora una volta.

“Ciao.”

Alzando lo sguardo incontrò quello di un ragazzo abbastanza giovane con degli occhiali sul naso e il viso senza un accenno di barba. Velocemente, si chiese se lo conoscesse, il suo esame veloce le fece capire che no, non lo conosceva. “Devi sederti?”

“No, no… Io-mi chiedevo… lei è per caso Rebecca Palumbi?”

“Sì.” Becca si pulì con un fazzoletto e corrugò le sopracciglia davanti all’espressione incuriosita del tipo. “Ci conosciamo?”

“No, io… sono un suo grande fan! Ho letto quasi tutti i suoi libri, li adoro.”

“Davvero? Grazie!” si illuminò. Adorava incontrare i suoi fan, era una delle cose che le piaceva di più del suo lavoro. Sentì qualcosa tirarle la gamba e abbassando lo sguardo notò un cagnolino. “É tuo questo cane?”

“Sì, stranamente in questo bar accettano i cani.”

“È bello. Comunque” aggiunse vedendo il suo sguardo che non sembrava abbandonarla, “qual è stato il tuo libro preferito?”

“Se devo essere sincero, ho adorato “Il 5 maggio”, è stato perfetto sotto tutti i punti di vista. L’inizio lento ma pieno di descrizioni, poi è arrivata la protagonista e mi sono affezionato come non mai a lei. Il colpo di scena finale! …”

Continuò a parlare per i successivi quindici minuti, mentre Marta ascoltava attenta. Aveva capito, dai suoi anni d’esperienza, che era meglio ascoltare sempre i consigli dei lettori, capire cosa piacesse loro, cosa li sorprendeva, quali stati d’animo convergessero in loro, quali emozioni provassero e soprattutto se fossero riusciti a rispecchiarsi nei protagonisti. Per Rebecca era una cosa essenziale.

“Senti, probabilmente non ti va, ma… mi potresti fare un autografo? Ci terrei molto, ecco…”

“Okay, tranquillo” lo rassicurò sorridendo. Lui sembrava esattamente il personaggio perfetto per una sua storia: chiacchierone, timido, nervoso e avrebbe giurato, studioso. Se lo appuntò mentalmente tra la lista dei possibili candidati.

Gli firmò il pezzo di carta che le mise davanti scusandosi, perché non aveva con sé un suo libro, e Rebecca gli rispose che un foglio di carta era perfetto.

“Cos’è quello?” le chiese infine, indicando con un cenno il block-notes aperto sul tavolo.

“Oh, degli appunti per un mio prossimo romanzo.”

I suoi occhi sembrarono illuminarsi. “Fico. E, io… non vorrei curiosare, però visto che ci siamo visti e insomma, mi hai fatto l’autografo… non potresti rivelarmi niente?”

Se solo avessi una minima idea di cosa parlare, pensò lei, te lo direi. “Veramente ho appena iniziato a scriverlo, devo ancora lavorarci. Mi sono trasferita qui a posta.”

“Ah. Beh, peccato. –Calmo, bello” sussurrò poi al suo cane. “Scusa, vuole fare i suoi bisognini, come è giusto che sia. Allora… Ci rivedremo, spero…”

“Certo, se ti vedo in giro ti saluterò. Ciao, Endry” lo salutò ricordando come le avesse detto di chiamarsi.

“Ciao, e… grazie per l’autografo!” fu l’ultima cosa che le disse prima di scomparire dalla porta del bar.

Con un nuovo e spontaneo sorriso sulle labbra, Marta ritornò a dedicarsi al suo hot dog ancora quasi intatto, non sapendo delle mail che la sua manager intanto le stava inviando, alquanto arrabbiata.

*

Finalmente a casa, pensò buttandosi sul divano. Lo sguardo le cadde automaticamente alle ventane ma questa volta una smorfia si estese sul suo viso. Iniziava a non sopportare la vista del mare, iniziava a… darle la nausea, in un certo senso. Non era normale, per lei che amava il mare.

Accese la televisione sforzandosi di pensare ad altro e per un po’ guardò uno stupido programma televisivo che parlava di alcuni ragazzi fissati con i libri che cercavano di rendersi più popolari, quando ricordò di dover fare una telefonata a Giulia, come le aveva promesso.

La sua amica rispose dopo pochi secondi. “Ehi, Marti!”

“Giu! Come stai?”

“Bene, però dimmi tu. Come vanno le cose lì?”

“Mi manchi tanto. La città è bellissima e le persone… beh, non sono malissimo.”

“Hai incontrato qualcuno, allora?”

Alzò gli occhi al cielo alla frase allusiva della ragazza. Non sapeva come farle capire che era una frana nelle relazioni e non avrebbe mai trovato nessuno, quella di oggi era stata solo una delle tante giornate tipiche in cui non riusciva a relazionarsi con nessuno. “No, Giuly” sospirò. “Tu?”

“Nah, aspetto te per rimorchiare un po’. Iniziato il libro?”

“Ehm… no, ma ho buone idee” mentì. Aveva raccolto un po’ di cose e parole, ma ancora nulla l’aveva colpita veramente.

“Bene, oggi ho incontrato la tua manager, faresti bene a risponderle se non vuoi ritrovarla sotto la porta di casa tua con un coltello in mano.”

“Oddio, no. Le rispondo adesso, tu puoi richiamarmi più tardi o domani?”

“Meglio domani, questa sera ho il turno al bar alle undici. Mi aspettavo di sentirti più emozionata…”

“Lo sono, è anche vero che sono un po’ stanca.”

“Tranquilla, ti capisco. Io aspetto ancora le foto della tua meravigliosa casa che avevi promesso di mostrarmi.”

“Oh, è vero!” esclamò coprendosi la bocca con la mano. “Me ne sono completamente dimenticata. Te le faccio vedere domani, giuro.”

“Okay, adesso devo proprio scappare, ciao chica!”

La salutò e sbuffando sentì la segreteria telefonica. La sua manager le aveva lasciato ben tre messaggi, il primo era molto calmo, il secondo leggermente più alterato e il terzo quasi arrabbiato. Non immaginava come sarebbe stato il quarto, se avesse aspettato ancora.

Prima di chiamarla, si fermò a causa di strani rumori che sentì. Fu come un botto e dei passi abbastanza forti da far allarmare Rebecca. Sembravano provenire da sotto il pavimento, però non era possibile, giusto? Non c’era niente di sotto. Si ricordò di quando qualche giorno prima aveva sentito gli stessi rumori e ancora la prima volta che era arrivata a casa senza farci particolarmente caso, e si allarmò ancora di più.

Afferrò un coltello e, ignorando il suo cuore che batteva veloce, andò a spegnere le luci. Non sapeva perché, ma era sicura che i rumori non provenissero dalla sua casa, quindi uscì e notò che stesse piovendo. Quando esattamente aveva iniziato a piovere? Mentre parlava con Giulia?

Ormai era troppo tardi per tornare dentro e prendersi l’ombrello. Avanzò lungo il suo giardino per ancora qualche metro e si guardò intorno fino a riuscire a scorgere due figure vicino al cespuglio. Stavano parlando animatamente e Marta si chiese se fosse stato uno dei due a farla spaventare con quel rumore, ma non era possibile. Il rumore era arrivato da sottoterra.

“Mi prendi in giro?! Non lo farò mai, questa volta te la sbrigherai tu da solo.”

“Calmo, ragazzo, non è stata colpa mia, okay? Fattelo entrare in quella tua stupida testa vuota.”

Fu troppo tardi quando Marta si accorse di starli spiando. Non era riuscita a trattenersi, dopo aver visto che uno dei due ragazzi era il tipo che aveva conosciuto al bar, quello dalle poche parole. Questa volta, se possibile, i suoi occhi erano ancora più scuri.

Sobbalzò quando sentendo un’onda impetuosa sbattere là vicino, si chiese se fosse stato sicuro vivere in una casa così vicino al mare. E se un’onda improvvisamente avrebbe inghiottito la sua casa come se fosse stata una gustosa fetta di torta? Becca, basta pensieri negativi.

Distratta, non si accorse che ormai i due tipi strani avevano finito di conversare e adesso quello dagli occhi del colore che ricordava il mar in tempesta si stava allontanando verso… casa sua. Casa sua?

Lo seguì di nascosto e imprecò quando cadde nel terreno sporcandosi tutta di sabbia: non ci vedeva molto a causa della pioggia.

Il tipo si era diretto verso le ventane che davano sul mare del suo appartamento ed era sparito dietro dei cespuglietti.

Marta non ci pensò più di tre secondi prima di correre a vedere dove fosse sparito. Forse avrebbe dovuto pensarci qualche secondo in più, però…

“Ciao, bellezza.”

“Oh, Cristo!” si lasciò sfuggire la ragazza, portandosi una mano al cuore. “Come hai fatto a vedermi?”

“Non sei per niente brava a spiare la gente, avrei capito che ci stavi guardando a un chilometro di distanza. Metti giù quel coltello, per favore.”

Improvvisamente fu come se si risvegliò, e glielo puntò contro decisa. “No. Dimmi prima cosa volevi fare a casa mia, perché sei qui?”

Forse si sbagliò, ma una smorfia di disappunto gli passò sul viso. “Questa è la mia casa, tesoro.”

Eh?

“L’ennesima turista che viene ad affittare una casa qui… No, questa volta non risponderò.”

O quel tipo era pazzo o si era fatto di sostanze forti, non poteva essere altrimenti.

Avvicinò di più la mano con il coltello alla sua figura, non sapeva assolutamente come gestire quelle situazioni. Un tempo aveva fatto un corso di difesa personale nel quale le avevano insegnato qualche mossa adatta, ma era da sempre stata una frana.

Senza pensarci più di tanto, gli afferrò una spalla e gli mise il coltello vicino al collo, stringendogli la schiena. “Vattene subito da casa mia.” La sua voce avrebbe dovuto incutere timore, invece quella intimorita sembrava lei.

“Il coltello va puntato un po’ più vicino” la corresse come se non fosse toccato minimamente dalla situazione, “la presa sulle mani dovrebbe essere decisamente più forte e quella a tremare come una foglia non dovresti essere tu.” Detto questo, le sfilò il coltello dalle mani come se fosse stato un giocattolo per bambini e le indicò l’ingresso della casa. “Sei una brava ragazza, torna a casa e non pensare più a me, ci siamo intesi?”

Come se avesse potuto lasciar correre una cosa del genere…

Tuttavia, quello ad avere il coltello dalla parte del manico, era lui. Poteva davvero rischiare? Non sembrava molto pazzo o drogato, come pensava prima, ma se fosse stato un assassino? In alternativa, avrebbe potuto lasciar correre e lasciare che il tipo scomparisse nella sorta di cantina che si nascondeva sotto il suo appartamento e rimanere le successive settimane nel dubbio. Forse per tutta la vita.

“Non lascerò correre, o mi dirai subito chi sei o chiamerò la polizia. A te la scelta.”

“Che ragazzina fastidiosa” commentò lui, con una smorfia in viso simile a quella che gli aveva visto fare al bar.

Becca contenne la rabbia e sobbalzò spaventata quando lo vide alzare il coltello per puntarlo al legno del recinto vicino al cespuglio. “Ebbene sia, cerca però di contenere l’eccitazione, non ho tempo, adesso, anche per questo.”

“Ma…cosa…” sussurrò lei, adesso quasi temendo quello che stava per mostrarle. Scriveva da sempre libri gialli e quella situazione non la faceva presagire granché bene, dovette ammettere.

L’osservò con occhi attenti mentre apriva la porta ed entrò dopo di lui, tenendo il coltello talmente forte da fare male. Il muro era esattamente uguale il suo, effettivamente quasi tutto ricordava il suo appartamento tranne… le ventane. Non davano su uno spazio aperto, ma anzi, dentro il mare. Si fece mille domande, si chiese se fosse possibile, come facesse ad avere abbastanza ossigeno, se fosse legale, come facesse a non crollare o se nessun squalo avesse mai provato a rompere le finestre. Vicino alla ventana, al posto di avere una vasca idromassaggio –piuttosto inutile, tra l’atro- c’erano tanti piccoli coralli a ricordare i fiorellini che si poggiano sul balcone per bellezza.

Il suo sguardo si puntò sulla figura del ragazzo, la bocca aperta a mostrare la sua incredibilità. “M-ma- cosa-come” si rese conto solo dopo di sentir la bocca secca e il respiro agitato, rendendole quasi impossibile comporre una frase di senso compiuto.

Lui sospirò e roteò gli occhi quasi come se Rebecca fosse l’ennesima persona a fargli quella domanda. “Sì, è nel mare. No, non è legale. Sì, è sicura. No, non sono umano.”

“E allora cosa sei?”

Lui sorrise chinando la testa da un lato, quasi affabilmente. Le ricordò lo sguardo caloroso di una madre intenerita da qualcosa che aveva detto il suo piccolo, eppure il suo sguardo non era dolce, era ironico. “Te lo mostrerò subito.”

E glielo mostrò davvero. Spalancò le ventane facendo temere a Rebecca che l’acqua si riversasse dentro l’abitazione, cosa che non successe. Semplicemente, lo strano ragazzo sgusciò fuori dalla casa e le sue gambe come per magia si trasformarono in una pinna di una sirena.

Lo sguardo della ragazza non riusciva a staccarsi dalla sua figura quasi eterea mentre nuotava come se lo facesse da tutta la vita, come se fosse stato normale. Magari stava sognando, magari aveva preso un brutto colpo in testa, eppure avrebbe giurato che quello che vide fosse pura realtà.

Il respiro iniziò a mancarle, il petto le si alzò sempre più velocemente e iniziò a girarle la testa. Era un attacco di panico, non le venivano dalla quinta superiore, quando era rimasta bloccata nell’ascensore accompagnando la sua amica con la caviglia fratturata.

Voltando lo sguardo, con poche falcate raggiunse la porticina dell’abitazione sotterranea rimasta aperta per far circolare ossigeno e si riversò fuori a carponi. Finalmente, il respiro le tornò regolare e lei ricominciò a respirare in modo regolare.

*

“Abbiamo raggiunto le 110 milioni di copie in tutto il mondo, un successone! Ecco, questi sono gli ultimi articoli usciti e queste sono le richieste per una possibile intervista. Se fossi in te, tesoro, non ne rifiuterei nemmeno una. Direi che il mio lavoro come manager ha fatto un grosso passo avanti grazie a te, stasera posso arrivare anche ad offrirti qualche bicchierino al bar se me lo permetterai, forse anche più di qualcuno!” Rocchetti Brenda scoppiò a ridere mantenendo sempre e comunque la posa composta che le apparteneva. Si aggiustò un filo della frangia fuori posto dietro l’orecchio lasciando intravedere la sua espressione decisamente solare ed emozionata. Non riusciva a stare ferma un attimo, accavallava e scavallava le gambe in continuazione, inoltre sembrare avere un tic alle mani perché allacciava e slacciava il cardigan che aveva addosso ogni secondo.

“Bene, però-”

“Sì, lo so, lo so. Sono stata cattiva, ma adesso ti lascio un po’ di tempo per rilassarti prima di affidarti la prossima stesura. Vedrai, andrai anche meglio in quella! Mi aspetto il massimo da te.”

“Brenda, posso parlare?”

La manager sembrò finalmente capire che Becca voleva parlare, e per la prima volta tacque per un lungo secondo. “Certo,” disse lentamente, “dimmi tutto.”

“Cerco di dirti da questa mattina che l’immagine di copertina non va bene. Non è quella che ho indicato io.”

Un lampo di disapprovazione attraversò le sue labbra. “Insomma, Rebecca, non riesci mai ad accontentarti di nulla. Hai sempre da ridire su tutto. No, mi spiace, non si può fare niente per l’immagine di copertina. Tornatene a casa, fatti un bel tè caldo e rilassati prima dell’intervista delle cinque di oggi. Va bene?”

Allibita, Rebecca la guardò alzarsi e riprendersi il caffè con aria critica. Infine uscì prima che lei riuscisse a rincorrerla.

“Oh, ma che problemi ha quella donna?” si chiese ad alta voce. Prese nervosamente la sua borsa e seguì il suo consiglio.

Quel giorno, la sua casa era vuota. Era quasi sempre vuota, eppure da quando era ritornata alla sua casa a Torino molta gente era passata a salutarla e a rivederla, tra cui soprattutto sua madre. Forse quello era il primo pomeriggio che poteva passare un po’ da sola. La cosa da una parte la tranquillizzava ma dall’altra la faceva sentire sola.

Seguì a bollire dell’acqua per il tè e posizionò la sua sedia a dondolo mai usata sul terrazzo. Le mancava il mare e le sensazioni che le faceva provare, era come essere tornati alla vita reale e non era così bello come immaginava.

Toccò la copertina del libro con la punta delle dita pensando che non le piacesse per niente e che era un suo diritto quello di avere la copertina che voleva ma lasciò perdere e lo aprì nel mezzo, la sua parte preferita.

Normalmente non rileggeva i suoi scritti, eppure quel libro era diverso. Lo adorava e adorava quella parte di se stessa che ci aveva messo dentro.

“La sua coda era lucente, fatta di scaglie. Erano come tanti piccoli scorci di bottiglie di vetro che la gente lasciava cadere per strada e che al sole luccicavano come piccoli diamanti. Io guardavo ammirata il movimento della sua coda, faceva su e giù producendo un movimento ipnotizzante ai miei occhi; mi ricordai quando da bambina mi dicevano di fare il “delfino” in piscina… beh, io lo facevo ma non usciva bene come riusciva lui, aiutato dalla lunga coda di sirena.

Cercai di darmi un contegno, cercai di spostare gli occhi, di chiudere la mia bocca aperta, ma il mio sguardo indugiava e indugiava ancora. Poi, finalmente, lo staccai.”

“Ero sulla terrazza, un caffè in mano e il computer sulle gambe. Quando lui si accorse del mio sguardo fu troppo tardi. Uscì dall’acqua con un salto, ricordando un delfino e mi sorrise come solo lui sapeva fare, con un angolo della bocca leggermente arcuato verso l’alto. -Mi disegni, Doc?- disse e dicendolo si avvicinò fino ad appoggiarsi con il mento alla terrazza.

-Non riuscirebbe a rendere la tua bellezza un disegno- risposi arrabbiandomi quasi con i capelli biondi che mi finirono davanti gli occhi, impedendomi la sua vista. -Ma il romanzo prosegue bene-. Certo, pensai, se solo non mi distraesse così tanto la tua coda.

-Ne sono felice.-

Nello stesso momento in cui lo disse, tornò nell’acqua e riprese a nuotare ignaro dell’effetto che aveva su di me.

Sorrisi, un giorno mi sarei ricordata di chiedere il nome al ragazzo dagli occhi blu come il mare in tempesta.

   
 
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