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Autore: _Kiiko Kyah    19/12/2016    4 recensioni
{ Regalo in ritardissimo per Raven Callen | Tematiche delicate (implied abuse + mentioned violence) | Incompiuta | accenni BBRae, I guess | AU - Highschool }
Aveva già letto tutti i libri che possedeva, anche più di una volta, ma aveva esaurito i soldi che poteva sprecare questo mese e aveva bisogno di qualcosa da fare per distrarsi dal silenzio spaccatimpani della casa, dall’aria di chiuso che si respirava in ogni stanza, la luce fioca che entrava dalle imposte chiuse di tutte le finestre, le fotografie a faccia in giù sui mobili.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beast Boy, Raven
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
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Questa fanfiction è un regalo per la dolcissima Raven Callen! E avrebbe dovuto essere finito quasi tre mesi fa, il che può avere due risultati: 1) grandi aspettative, o 2) giustificato disinteresse.
Qualunque sia il caso, spero che questa, um, cosa non sia deludente. Io mi limito a scusarmi infinitamente con la mia dolce HoneyDrop per l’attesa interminabile, augurarmi che la fanfiction sia di suo (e vostro!) gradimento, e dileguarmi.
La mia unica avvertenza è che è un po’ lungo. Qualcosa come 6300+ parole. Ah ah. Mi sembrava giusto dirvelo in caso fosse troppo. Buona fortuna.


Raven sapeva perfettamente quello che la gente pensava di lei. Aveva la nomea di essere così immersa in se stessa da non accorgersi di quello che facevano e dicevano gli altri, ma in realtà li vedeva e sentiva benissimo; solo, sceglieva di ignorarli.
Non prestava alcuna attenzione ai suoi colleghi studenti, ma si rendeva perfettamente conto delle occhiate che le rivolgevano nei corridoi, e sapeva bene quello che dicevano di lei alle sue spalle—che era una tipa strana, una matta da legare, fuori come una mongolfiera, solitaria ed inquietante, e tante altre cose adorabili come queste.
Conosceva anche tutte le voci che giravano su di lei: la sua preferita era quella secondo la quale lei sarebbe stata un demone travestito da sedicenne che divorava l’anima di chiunque le parlasse per più di tre minuti—i liceali sapevano essere proprio degli idioti. Però bisognava ammirare la fantasia.
In realtà, tale fama, o forse dovrei dire infamia, non la turbava più di tanto. Sì, le occhiatacce e i sussurrii che sembravano seguirla ovunque andasse erano un po’ irritanti, ma almeno ciò le permetteva di passare il tempo come più le piaceva: da sola.
Nessuno osava avvicinarla se non quando strettamente necessario, e, se qualcuno per caso lo faceva, bastavano uno sguardo o una risposta vagamente lapidaria per spaventarlo e vederlo rapidamente sparire.
E se trovare che questo fosse un vantaggio la rendeva una “asociale”, Raven non provava alcuna vergogna ad esserlo: le persone non erano altro che uno spreco di tempo, energia, e pazienza, e lei non aveva nessuna di queste cose.
La solitudine era l’unica realtà che fosse interessata a conoscere, ed era certa che sarebbe stato così per tutta la sua vita. Parola chiave, era.

 

Era una sua abitudine camminare guardando per terra. Non perché volesse evitare lo sguardo di qualcuno, o perché non fosse fiduciosa abbastanza per alzare gli occhi. Semplicemente, non c’era niente del mondo intorno a sé che stuzzicasse il suo interesse a sufficienza.
Il pavimento, il corridoio, che cosa cambiava? Guardare per terra era meno faticoso. E poi, la sua era una presenza così conosciuta e temuta nella scuola che era praticamente impossibile sbattere contro qualcuno, visto che la maggior parte degli studenti erano così spaventati da lei da evitarla come la peste.
...La maggior parte, appunto.
Quando il suo fondoschiena si scontrò con il pavimento piastrellato del corridoio, il primo istinto di Raven fu inchiodare il suo ostacolo con un’occhiataccia. Si apprestò a fare proprio questo, e mentre lo faceva la sua mente registrò distrattamente che la persona con cui si era scontrata doveva avere una postura molto solida, considerato che non era rovinata a terra a sua volta nonostante le gambe piuttosto mingherline.
Mingherline come il resto del suo corpo, notò altrettanto distrattamente la ragazza quando la sua visione si scontrò (heh.) con l’immagine di un ragazzo dal fisico minuto, le spalle poco larghe e il collo sottile. La sua carnagione era abbronzata (il termine che la sua mente suggerì per primo fu “tostata”), e si mischiava al colorito biondo grano dei suoi capelli, corti e spettinati, come si mischiava il miele nel caffellatte.
Per un attimo l’attenzione di Raven fu attirata dalla forma quasi appuntita delle sue orecchie, per poi essere completamente catturata dai suoi larghi, rotondi e brillanti (troppo brillanti, qualcuno spenga quei fari, per favore) occhi azzurri, che la stavano fissando quasi con ansia.
Leggermente preso alla sprovvista dallo sguardo torvo che la ragazza gli stava offrendo, il biondo decise di ignorarlo e si accovacciò davanti a lei.
- Ehi, ti sei fatta male? - chiese in tono preoccupato, accingendosi a recuperare i quaderni e libri che Raven stava trasportando e che, nella collisione, aveva fatto cadere.
Gli studenti con cui il ragazzo stava camminando prima di suddetta collisione (una ragazza bassina, dai lunghi capelli biondo platino, e un ragazzone di colore con la testa rasata) stavano la scena visibilmente incerti sul come comportarsi, ma Raven si accorse a malapena della loro presenza, troppo occupata a scrutare il biondino con sorpresa, perplessità, e, onestamente, una certa indignazione.
Che le sue occhiatacce fossero completamente ignorate, che qualcuno le rivolgesse la parola, anche dopo un incidente del genere, non era una cosa a cui era abituata. Però, a ben pensarci, non era la prima volta che succedeva... Non era la prima volta che Mr. Fari-Al-Posto-Degli-Occhi le parlava così... naturalmente.
Logan. Si chiamava Garfield Logan, e Raven era piuttosto sicura che fosse un suo compagno di classe: sedeva sempre in un banco in seconda fila, all’estrema sinistra della classe, vicino alla finestra. Sì, ricordava di averci parlato prima d’ora; non ricordava bene cosa gli avesse detto, ma sapeva che non era stato niente di particolarmente carino, in risposta a qualcosa di, probabilmente, piuttosto innocuo.
Si chiese come fosse possibile che si fosse dimenticata, anche così brevemente, di una presenza tanto fastidiosa (sul serio, com’è possibile avere degli occhi così luminosi?); si ricordò poi che dimenticarsi delle persone era la sua specialità. Era molto facile, data la poca attenzione che prestava loro.
- —ven? Stai bene? - insisté il biondo, interrompendo il flusso dei suoi pensieri e piegandosi ancora di più verso di lei per guardarla meglio.
Raven vide i suoi occhi azzurri studiarla, alla ricerca di qualche graffio o contusione, e si trattenne dal coprire i propri per proteggerli dalla luce che sembravano emettere—aveva sentito parlare di “sole negli occhi”, ma questo era esagerare.
Stizzita da neanche lei era completamente sicura cosa, corrugo le sopracciglia e, muovendosi rapidamente, recuperò i suoi quaderni e si alzò di scatto in piedi, lasciandolo a semi-carponi per terra.
- Sto benissimo, grazie. - borbottò acidamente, evitando di guardarlo e fissando in cagnesco i propri piedi. Non corse via, ma i suoi piedi si mossero velocemente abbastanza da assomigliare una fuga.
Nel giro di pochi secondi, mise fra loro una buona distanza. Non prima, però, di avergli sentito commentare (e anche se non poteva vederlo, il suo tono suggeriva un’alzata d’occhi al cielo): - Simpatica come al solito. -
Non sentì se e cosa risposero la biondina e il nero, ma a dirla tutta non le importava.

 

La casa era vuota, come al solito. La luce si accese con un fastidioso click dell’interruttore, e Raven abbandonò le sue chiavi sul tavolino che riempiva un terzo del piccolo ingresso.
Nonostante fosse ora di pranzo, la ragazza sorpassò la cucina senza fermarsi un momento e fece finta di non notare il bruciore che la fame stava causando al suo stomaco. Decisa ad ignorare quel bisogno che la maggior parte del tempo le sembrava ridicolo (o di poco peso, in ogni caso), si diresse nella propria camera e gettò pigramente lo zaino ai piedi della sua scrivania.
Prima di abbandonarsi sulla sua sedia da ufficio e provare a studiare, fece una corsa in bagno per sciacquarsi il viso. Le ci volle una grande forza di volontà per non evitare di guardarsi allo specchio, ma quando lo fece si diede della stupida per aver faticato tanto.
Fece una smorfia quando si accorse che i segni violacei delle occhiaie erano peggiorati, e che le sue labbra screpolate sembrava appena più incolore del solito. Non che non fosse abituata ad essere pallida come la morte: sinceramente, non ricordava di avere mai avuto un colorito diverso.
Soffiò su una ciocca ribelle dei suoi lunghi capelli nero spento e si tolse il cappuccio della felpa, cosa che non faceva mai fuori casa, per pettinarsi svogliatamente e legare la chioma corvina in una coda alta sulla testa.
Dovrei tagliarli, pensò distrattamente mentre usciva dal bagno e tornava in camera propria. Si sedette alla scrivania e afferrò il libro di algebra. Lo fissò per una manciata di secondi, ponderando l’idea di fare gli esercizi assegnati per il giorno successivo; non che le sarebbe servito, dato che i professori la evitavano altrettanto che gli studenti, e della matematica a lei non importava niente.
Decise di cestinare ogni diligenza e fece scivolare la sedia fino alla sua libreria, per cercare qualcosa da leggere. Aveva già letto tutti i libri che possedeva, anche più di una volta, ma aveva esaurito i soldi che poteva sprecare questo mese e aveva bisogno di qualcosa da fare per distrarsi dal silenzio spaccatimpani della casa, dall’aria di chiuso che si respirava in ogni stanza, la luce fioca che entrava dalle imposte chiuse di tutte le finestre, le fotografie a faccia in giù sui mobili.
La sua scelta ricadde su “Il Ritratto di Dorian Gray”. Chissà, forse qualcosa le era sfuggito nelle ultime quattro letture.

 

I giorni di Raven erano tutti piuttosto monotoni, e di questo la ragazza non si spiaceva affatto. La monotonia era comoda, sicura. Come si dice, “niente nuove, buone nuove”.
Fra tutti, il giorno più monotono era sicuramente il suo settimanale viaggio all’ospedale. Ogni martedì pomeriggio, percorreva sempre gli stessi passi; prendeva lo stesso autobus, faceva lo stesso numero di fermate ed entrava nello stesso, vecchio edificio bianco sporco.
Faceva lo stesso numero di scale (l’ascensore le faceva venire la nausea), attraversava sempre gli stessi corridoi, anche se pieni di gente spesso diversa, e parlava con gli stessi medici. Incrociava lo sguardo con gli stessi infermieri, che le rivolgevano occhiate piene di pietà e comprensione, o quella che loro credevano fosse comprensione, nonostante in realtà non capissero un accidente.
Ogni martedì pomeriggio, Raven si fermava sempre davanti alla stessa porta, e il suo respiro veniva a mancare per un paio di secondi. Stringeva sempre i pugni, mordendosi la lingua, affinché l’infermiere che la stava accompagnando non si accorgesse che stava tremando. In qualche modo, l’infermiere se ne accorgeva lo stesso, e invece di apprezzare il suo silenzio, la ragazza si doveva trattenere dal guardarlo di traverso.
La porta si apriva sempre con un rumore sordo, e i lenti e lunghi, straziantemente lunghi beep della macchina che segnava il battito cardiaco della donna che dormiva oltre quella porta scoppiavano nelle orecchie di Raven come fuochi d’artificio senza fuoco.
La ragazza entrava sempre nella stanza con rapidità, sbattendo la porta dietro di sé e ignorando la voce dell’infermiere, che le rammentava di non prolungarsi per più di venti minuti, e che l’avrebbe aspettata alla fine del corridoio per riaccompagnarla all’uscita.
Tutti i martedì pomeriggio, Raven camminava piano per la stanza e si sedeva in silenzio sulla sedia che, ormai, portava il suo nome. I suoi occhi blu notte esitavano, ma non potevano evitare di posarsi sulla figura sul letto accanto al quale si era appena seduta.
E, ogni martedì, Arella Roth non si voltava verso sua figlia, non le sorrideva, non la accoglieva con un allegro “Benvenuta!”, non le stringeva la mano e non le baciava la testa come faceva sempre prima. No, Arella non faceva più queste cose da anni ormai.
E, ogni martedì, Raven scrutava con labbra tremanti il corpo immobile di sua madre, i fili e i macchinari attaccati al corpo della donna, ben nascosto sotto le pesanti coperte ospedalieri. I suoi capelli nero pece erano nascosti da varie fasciature, i suoi occhi grigio scuro chiusi da fin troppo tempo.
Le mani di Raven toccavano delicatamente il viso di sua madre, le sue labbra fredde e violacee, e la ragazza si malediceva quando le sue dita tremavano troppo e la costringevano a ritrarre la mano, e la sua visione si offuscava, e singhiozzi raschiavano la sua gola, perché questa era la sua monotonia, e la monotonia era comoda, sicura, e “niente nuove, buone nuove” — ma per un lungo martedì pomeriggio, ogni martedì pomeriggio, Raven desiderava con tutta se stessa che la monotonia, quella monotonia nella quale sua madre era in coma ormai da sei anni, si spezzasse.

 

(Non si sarebbe mai aspettata che la rottura della sua routine arrivasse sotto forma di un ragazzo dalle orecchie appuntite e i fastidiosi occhi luminosi.)

Raven sentì le sue palpebre spalancarsi quando il biondo entrò nella sua visione. Allo stesso modo, vide le labbra di Garfield schiudersi a formare un sorpreso, quasi spaventato “oh”.
I loro piedi si fermarono quasi allo stesso tempo, e loro si scordarono di evitare lo sguardo l’uno dell’altra. I loro occhi si scontrarono per un secondo che parve interminabile, e il colore abbandonò le guance di Garfield, che sembrava più inorridito di quanto Raven lo avesse mai visto.
Non che lo avesse mai visto con qualunque espressione che non fosse il suo largo sorriso che partiva da un angolo del viso e arrivava all’altro o il semi-comico broncio che faceva quando qualcuno gli diceva di no.
- Sono qui per un controllo. - disse il ragazzo, metabolizzando la situazione più velocemente di Raven.
La ragazza permise al suo sguardo di vagare sulla figura davanti a sé, sulle mani pesantemente fasciate, il ginocchio sinistro tenuto saldo da una larga garza, la mano destra che reggeva una borsa del ghiaccio sull’occhio, sotto al quale era visibile una lunga scia di graffi rossi che scendevano fin sotto allo zigomo, e che sarebbero presto diventati parte di un livido spaventoso, e seppe che stava mentendo.
Ma, invece di inarcare un sopracciglio e accusarlo di essere un bugiardo in faccia alla realtà, Raven lo guardò dritto nell’occhio buono e non vide la luce, non vide il sole che si aspettava, bensì un azzurro spento, una stanchezza che non vi aveva mai visto prima, e —
- Anch’io. - esalò, inghiottendo la propria sorpresa.
E vide Garfield studiarla a sua volta, osservare con attenzione le sue gambe tremanti, i suoi occhi arrossati, le tracce di lacrime che ancora sentiva fresche sul viso, il fazzoletto che stava stringendo convulsamente fra le dita della mano sinistra, e realizzare che anche lei stava mentendo.
E se avesse voluto dire qualcosa, Raven non gliene diede il tempo: si calcò meglio in testa il cappuccio della felpa e, per quanto la sua agitazione lo permettesse, corse via, sorpassando il biondo e raggiungendo rapida l’uscita, senza voltarsi nemmeno una volta ad osservare la reazione del ragazzo.

 

Il giorno dopo, Garfield non venne a scuola, e, il giorno dopo ancora, le sue ferite sembravano scomparse. Raven fece finta di non notare gli insoliti paranocche neri e il modo in cui il lato destro del suo viso si corrugava impercettibilmente quando sorrideva, e, visto che i suoi occhi avevano ripreso il loro insopportabile brillio, distolse presto lo sguardo.
 

Garfield Logan aveva pochi amici. Solo due, per l’esattezza: una ragazzina tutto pepe di nome Tara, di un anno più giovane, e il suo energico vicino di banco, Victor Stone.
Durante le lezioni, il biondo o dormiva, nascosto dietro al suo zaino, o sognava ad occhi aperti. L’unica per cui rimaneva pressappoco sveglio ed attento era la lezione di ginnastica, nella quale regnava indiscusso (il che era insolito, vista la sua statura e il suo fisico minore alla media), in particolar modo nelle prove di corsa.
Mangiava molto poco durante la pausa pranzo, ma faceva numerosi snack nel corso della giornata, con o senza il permesso di un professore.
Spendeva le pause tra una lezione e l’altra a chiacchierava vivacemente con Victor, o a giocare a pallone con lui con una pallina di carta composta per la maggior parte dai fogli che avrebbe dovuto utilizzare per prendere appunti.
A giudicare dalla frequenza con cui Victor sospirava e roteava gli occhi al cielo, era facile dedurre che Garfield dicesse una bella quantità di scemenze, anche se sembrava piuttosto fiero di tutto ciò che diceva, qualsiasi cosa fosse.
E la sua risata era limpida, rumorosa, e combaciava perfettamente con la sua voce, vivace e fin troppo squillante per i gusti della povera Raven, che non avrebbe amato niente più che cucirgli la bocca con le sue mani.
A volte, Garfield arrivava a scuola con un’espressione più stanca del solito. Invece che sognare ad occhi aperti, passava gran parte della giornata a stiracchiarsi e fare stretching, e persino durante le lezioni di ginnastica correva più lentamente del solito e si muoveva meno agilmente. E ognuna di queste volte, le sue mani erano coperte con due spessi paranocche neri.
Non succedeva spesso, non abbastanza da sembrare bizzarro a chi non gli prestava particolare attenzione; cioè, la maggior parte delle persone. E poco tempo fa, Raven faceva parte di quella maggioranza, ma adesso? Adesso si riteneva fortunata quando la presenza del biondino non la faceva diventare un fascio di nervi.
E si sentiva una colossale idiota, perché da quando in qua un suo compagno di classe riusciva ad attirare così tanto la sua attenzione, senza neanche provarci? Da quando in qua aveva tutta questa energia da sprecare a guardarlo con la coda dell’occhio, anche se non lo faceva apposta? Ugh!
- Sono ancora tutto intirizzito da ieri, - lo sentì lamentarsi una volta in corridoio (non stava origliando; cosa poteva farci lei, se Garfield aveva una voce difficile da ignorare e da qualche tempo a questa parte, lei era più vigile del solito quando era vicino?).
- Certo che sei proprio un impiastro, - commentò Victor, inarcando un sopracciglio. - È la terza volta che inciampi per le scale questo mese. -
Garfield evitò lo sguardo del suo amico, e sollevò il braccio dietro alle spalle per stiracchiarsi. - Sai come sono fatto, mi distraggo! - si giustificò, e Victor roteò gli occhi cielo.
- Un giorno di questi ti farai male sul serio, Mr. Testa-Fra-Le-Nuvole... -
A pochi passi da loro, Raven lanciò un’occhiataccia ai suoi paranocche, per poi entrare in classe con un silenzioso sbuffo. Caduto per le scale, come no. Se c’era una cosa che aveva notato, era che le ferite di Garfield erano troppo specifiche per una cosa del genere.
Più la ragazza ci pensava, e più riconosceva i risultati di una rissa. E giudicare da quanto le sue mani fossero ferite rispetto al resto del corpo, la ragazza aveva un mezzo sospetto che Garfield non fosse quello che prendeva pugni, quanto quelli che li dava. 
Un tremito le risalì violento per la schiena, e lei scosse con forza la testa per scacciare l’immagine che le si era formata nella mente.

Non si accorse che, a sua volta, il biondo la stava guardando di sottecchi.

 

- Boo! -
Raven sbatté piano le palpebre, considerando che forse, se al posto suo ci fosse stato qualcun altro, il rumore di due mani che sbattevano sul suo banco e un’esclamazione tanto improvvisa l’avrebbero colta un poco alla sprovvista.
Ma trattandosi di Garfield, la bruna dovette ammettere a se stessa, piena di vergogna, di aver seguito i suoi movimenti sin da quando si era alzato dal suo banco.
Alzò piano lo sguardo dal suo libro e sbatté di nuovo le palpebre, corrugando le sopracciglia quando si ritrovò faccia a faccia con il biondo e costretta a guardarlo nei suoi brillanti, fastidiosi, —
- —stupidi occhi. - mormorò fra i denti, voce flebile ed impercettibile. Garfield non la sentì, e inclinò la testa con aria interrogativa. In tutta risposta, Raven lo guardò di traverso, e sbuffò, aspra: - Che vuoi? -
Il biondo sbatté velocemente le palpebre, una, due volte, e parve ricordarsi il motivo per cui era venuto. Per qualche motivo, la sua espressione innocente non la convinceva, anzi, invece di farle né caldo né freddo come aveva fatto finora, le faceva ora venire un certo fastidio.
- Ti volevo parlare. - disse Garfield, come se la cosa non fosse ovvia.
- Mi sembra che tu lo stia già facendo. - replicò lei, impassibile, abbandonando la sua occhiataccia per inarcare un sopracciglio.
Quell’altro scosse la testa. - No, voglio dire, ti voglio parlare. Da soli. Una vera conversazione, sai, non le tue solite risposte a monosillabi che dai solo perché devi, e— - Ma Raven aveva smesso di ascoltare a “soli”.
Aprì la bocca, poi la richiuse, poi la aprì di nuovo. - Perché? - chiese, nascondendo una sincera curiosità con il suo tono atono. Il suo sopracciglio si alzò ancora di più.
Garfield corrugò la fronte alla domanda, e si appoggiò con i gomiti sul banco per guardare bene Raven in viso. - Ho delle domande da farti. - fu tutto quello che disse, e anche se la ragazza non la considerava una motivazione davvero sufficiente,
- Va bene. - sospirò, scordandosi per un momento che acconsentire contrastava con l’immagine che il mondo aveva di lei e non accorgendosi della sorpresa sul viso del suo interlocutore. - Ma ora sparisci, voglio finire questo capitolo. -

 

- Hai tre minuti prima che divori la tua anima, quindi ti conviene sbrigarti. - disse Raven chiudendo la porta dell’aula vuota dietro di sé.
Garfield rise. Non era la risata sguaiata che la corvina aveva sentito prima d’ora, era appena una risatina, simile al suono di un campanellino. - Non sapevo avessi un senso dell’umorismo. -
- Chi ti dice che stia scherzando? - rimbeccò placida la ragazza, giocando con l’orlo del suo cappuccio e scegliendo di non prendere quel commento come un insulto; per prima cosa, probabilmente nessuno pensava potesse avere un senso dell’umorismo; per seconda, neanche lei era sicura di averne uno, e sinceramente non le interessava.
- Il fatto che la storia del demone l’ha messa in giro Jinx, e tutti sanno che— -
- Chi? -
Il biondo si portò le mani ai lati della testa, piegandole come orecchie di coniglio. - Jinx! Sai, quella ragazza del terzo anno con i ciuffi rosa? - spiegò, incurante dello sguardo incredulo di Raven, - Non so il suo vero nome, quindi la chiamo Jinx. -
- Jinx. - ripeté lei, e quell’altro annuì con convinzione. - E dai soprannomi del genere a tutte le persone di cui non ti ricordi il nome? -
- Certo. - disse Garfield, e cominciò a contare sulle dita: - Sai Kori? Kori Anders? Per un paio d’anni l’ho sempre chiamata Star. E Dick Grayson— -
- Richard? - interruppe lei, mentre i suoi pensieri volavano al ragazzo dai capelli neri.
Non molti lo sapevano, ma era stata sua compagna di classe fin dall’asilo, molto prima che il soprannome “Dick” diventasse il suo nome ufficiale. Non era sicura che lui lo sapesse, considerato che non si erano mai scambiati una parola. Forse sì: Richard era un buon osservatore.
- Wow, come sei antica. Nessuno lo chiama “Richard”. - Raven roteò gli occhi al cielo. - Beh, per un po’ lo chiamavo Robin. In realtà lo faccio ancora, perché gli dà molto fastidio. -
La ragazza scosse la testa, incerta su cosa pensare. - Non stento a crederlo. -
Un pensiero le passò per le mente come un flash, e lei subito lo scacciò, stringendo le labbra. Per un secondo era stata tentata di chiedergli se per caso avesse un soprannome anche per lei... che sciocchezza. Certo che no. Tutti conoscevano il nome di Raven Roth, e lei lo sapeva bene.
Dunque, invece di porre quella stupida domanda, sospirò e disse: - Avevi qualcosa da chiedermi? -
Il sorriso del biondo gli morì sul viso, e la sua espressione si fece più seria. Si appoggiò alla cattedra, facendo inizialmente peso sulle mani per poi sussultare e staccarle con stizza dal tavolo. Raven seguì il movimento con lo sguardo, ma non disse nulla. Si chiese che aspetto avessero le sue dita sotto quei paranocche.
Garfield esitò ancora un momento. - Non hai detto a nessuno di quel pomeriggio in ospedale? - esordì poi, una confusione e una sincera curiosità nella sua voce che alla ragazza parvero piuttosto fuori posto.
In realtà, era sorpresa che il biondo avesse deciso di parlare dell’accaduto; in fondo erano passate già un paio di settimane. - Anche se avessi voluto, non ho nessuno con cui parlarne. - fu l’onesta risposta, anche se il suo tono disinteressato era tutto fuorché sincero.
Se vogliamo essere davvero sinceri, ultimamente l’argomento era una delle poche cose che la interessavano, anche se la cosa la irritava infinitamente.
Garfield si morse il labbro inferiore e guardò da un’altra parte. - Non, um, non ci avevo pensato. -
Raven assottigliò gli occhi. Bugiardo. - È una tua abitudine mentire? - disse, ed ignorò l’espressione mista tra il sorpreso e l’interrogativo che il biondo le rivolse. - Non sei molto bravo. - commentò poi, lapidaria, e Garfield distolse lo sguardo di nuovo, stavolta fissandosi i piedi.
- Scusa. - disse, sincero, e dopo un breve momento di riflessione, la corvina sospirò senza rumore.
- Che cosa volevi chiedermi davvero? - chiese, spostando il proprio peso su una gamba e osservando il ragazzo con attenzione.
Sotto lo scrutinio dei suoi occhi scuri, quest’ultimo esitò un’altra volta. Poi si voltò verso di lei. - Perché piangevi? -
La domanda arrivò inaspettata alle orecchie di Raven, così come la voce flebile di Garfield, quello stesso Garfield la cui voce rimbombava di solito nell’intera aula, e il suo sincero tono di preoccupazione. Invece della risposta alla domanda, a cui non era certa di sapere (o volere) rispondere, un’altra le uscì di bocca prima che potesse rifletterci su:
- L’hai detto a qualcuno? - E si maledisse piano per la paura malcelata nel suo tono, e incrociò le braccia al petto a mo’ di istintiva protezione. Non voleva sapere che tipo di espressione le si era formata in viso.
Garfield parve accorgersi del suo panico, perché fu rapido nel rispondere: - No, no, certo che no. - “Non potrei mai fare una cosa del genere”, diceva il suo tono. - Non... Non devi rispondermi se non vuoi. - aggiunse poi, quando gli sembrò che il timore della ragazza si fosse sedato.
Certo che non voglio, pensò lei, ma si trattenne dal rispondere in quel modo. Per qualche motivo che lei stessa non era sicura di capire, non aveva voglia di essere scortese. Non adesso. Non l’ha detto a nessuno. - Anch’io ho una domanda per te. - mormorò, e strinse la presa sulla stoffa della sua felpa.
Chiese a se stessa perché avesse fatto quella piccola confessione; non era sicura di volere una risposta a quella domanda.
Il biondo incassò l’implicita risposta, e gli angoli delle sue labbra si piegarono in un sorriso storto, seppur non forzato. - Spara. -
Raven misurò con i battiti del proprio cuore il tempo che passava. Uno, due. Tre. - Le tue mani, - disse, recuperando il suo tono tranquillo, un po’ indifferente, pieno di una calma che in verità non sentiva del tutto. - Le hai ferite picchiando qualcuno, vero? -
L’accenno di sorriso scomparve completamente dalla faccia di Garfield. I suoi occhi si spalancarono, e Raven riconobbe l’orrore che vi aveva visto quel martedì pomeriggio in ospedale. E in un battito di ciglia, la luce che di solito albergava nelle sue larghe iridi azzurre si spense, le sue palpebre sembrarono farsi pesanti e vergogna viva e lampante si dipinse sul suo viso.
Un battito. Due. Tre, quattro. Cinque, sei, sette... La ragazza smise di contare quando i suoi battiti divennero troppo veloci per essere usati come parametro per i secondi che ticchettavano, invece, molto lentamente.
Sentì i propri occhi spalancarsi a loro volta, e non fu in grado di controllarli mentre vagavano senza meta sulla figura del biondo. Da una parte, l’idea che questo ragazzino, mingherlino e poco più basso di lei, potesse pestare qualcuno al punto da ferirsi le mani le sembrava ridicola. Senza contare che Garfield era una delle persone più solari che le fosse capitato di vedere, sempre pronto a ridere e scherzare. E giusto adesso, non le aveva chiesto con sincera preoccupazione se ci fosse qualcosa che la turbava?
Però, dall’altra parte, c’erano quei paranocche neri, i movimenti intirizziti di quelle dita color caffellatte, e quell’espressione, quell’espressione che aveva prosciugato tutta la luce che Raven aveva sempre detestato, ma che in questo momento quasi le mancava, nei suoi grandi occhi chiari.
La sua schiena sbatté contro la porta, e fu allora che si accorse di essere istintivamente indietreggiata. Garfield non la stava guardando; strinse un pugno, e fece una smorfia di dolore.
- Non vivo in un bel quartiere. - disse, o meglio sussurrò, come se nemmeno lui la trovasse una scusa adeguata. Si fissò la mano per un paio di secondi. - Ho imparato a lottare in Africa. - cominciò poi, evidentemente intenzionato ad approfondire. - I miei genitori mi ci portarono anni fa. Un virus me li portò via, e l’Africa mi insegnò come difendermi da solo. ...Non ho più smesso. -
Raven registrò a malapena il suo tono stanco e quasi timido. Lo osservò mentre si grattava il retro della nuca con imbarazzo, e ignorò con forza l’associazione che la sua mente stava cercando di fare. Si concentrò invece sul termine che aveva usato: difendermi. - Hai mai... Hai mai picchiato qualcuno che non avesse fatto la prima mossa? - domandò.
Si aspettava una risposta fulminea, indignata. Ma Garfield storse il naso e si fece pensieroso, chiaramente alla ricerca di qualche ricordo nella sua memoria, misurando con attenzione le informazioni che trovava.
Infine, - No. - rispose quando fu sicuro, e stavolta fece bene attenzione a guardarla negli occhi. Era sincero.
- Pensi che potresti farlo? - insisté la ragazza, ma già sentiva il nodo che le si era formato in gola sciogliersi lentamente. Forse tu—
La risposta, questa volta, fu rapida. - Anche se potessi, non penso che vorrei. -
—sei diverso da lui.
- Okay. - mormorò Raven sovrappensiero, e infilò una mano nella tasca della felpa. Non smise di guardarlo negli occhi. - Posso? - sentì la propria voce domandare, pacata ed innocente, e vide la propria mano libera sollevarsi verso Garfield, a mo’ di richiesta.
Nonostante non avesse specificato, il biondo capì quello che intendeva e, dopo un momento di esitazione, una delle sue mani semi-coperte si appoggiò delicatamente su quella di Raven, più piccola e ben più pallida. La ragazza notò distrattamente che stavano entrambi tremando come due foglie.
Non ci fece molto caso, e toccò delicatamente il bordo del paranocche. Garfield non si mosse mentre la corvina liberava la mano dal suo nascondiglio, e ben presto le sue nocche, scorticate, rosse di sangue e piene di graffi quasi guariti, furono esposte allo sguardo tremante di Raven.
- Raven, - disse il biondo dopo averla osservata per un momento, - per caso, tu sei mai stata... -
Nonostante non avesse terminato, la corvina capì quello che intendeva. Non rispose, e Garfield non insisté oltre. Guardò solo la sua compagna di classe, stringendo le labbra per trattenere un mugolo di dolore quando un paio di lacrime, gelide e salate, caddero sulla sua ferita, facendola pizzicare.

 

- Hai fame? -
- Huh? -

 

La casa di Garfield era piccola, calda e confortevole. Raven seppellì qualsiasi paragone con la propria, grande, fredda e buia, sotto un mare di altri pensieri, e si guardò lentamente intorno.
Le pareti erano di uno spento verde palude, e le uniche stanze erano una cucina, una camera da letto con un divano e una piccola televisione dalla parte opposta rispetto al letto, e un bagno. In tutta la casa, compreso il microscopico ingresso, c’era un gran disordine; la ragazza pregò che non ci fossero paia di boxer sporchi da qualche parte sul pavimento, e fu lieta quando tale preghiera si realizzò.
C’erano però un buon numero di magliette, e un jeans nero scolorito fuoriusciva dal letto, le cui coperte erano così sottosopra e aggrovigliata da sembrare a malapena delle coperte.
La ragazza seguì il padrone di casa in cucina, facendo attenzione a non scivolare sui calzini sparsi un po’ ovunque e a non calpestare un computer portatile abbandonato vicino all’entrata della suddetta cucina.
- Scusa il disordine! - squittì Garfield quando era già troppo tardi per impedire a Raven di farsi una certa opinione del suo stile di vita.
- Sembra che sia passato un uragano. - commentò seria lei, e nonostante non fosse di certo un complimento, il biondo rise di gusto come se lo fosse stato.
- È un po’ difficile fare attenzione a tutto quando si vive da soli. - si giustificò con un’alzata di spalle mentre si accingeva ad aprire una credenza, - Capisci che intendo? -
La ragazza non rispose. Le sarebbe quasi piaciuto poter dire di sì, ma tanto per cominciare lei, anche se viveva da sola, non aveva mai neanche provato a “fare attenzione a tutto”. Secondo poi, dubitava che fosse così difficile, se ci si impegnava davvero. Dunque, stette in silenzio.
Garfield, nel frattempo, aveva tirato fuori un pacco rosso fuoco. - Caffè? - propose, scuotendo il pacco per enfatizzare.
E la cosa educata da fare sarebbe stata annuire. - Hai del tè? - chiese invece Raven, sbattendo piano le palpebre e senza muovere un passo oltre la soglia della porta.
Il biondo ci pensò su per un momento, per poi mettersi ancora a cercare nella credenza. Ne tirò una scatola praticamente nuova, di un acceso giallo canarino. - “Tè aromatizzato”. - lesse sulla confezione, per poi alzare gli occhi su di lei alla ricerca di approvazione. La corvina annuì, mormorando un lieve “grazie”, e il ragazzo le sorrise. - In arrivo. Accomodati pure! - disse poi, indicando con un movimento del braccio il tavolino bianco al centro della stanza, circondato da tre sedie grigiastre.
Senza emettere un fiato, Raven obbedì e si depositò delicatamente su una di queste. Si guardò intorno, chiedendosi che cosa l’avesse posseduta ad accettare l’invito a pranzo di questo ragazzo che non solo conosceva a malapena, ma di cui quel poco che conosceva non era affatto piacevole.
Lo osservò silenziosamente mentre scaldava l’acqua per il suo tè, e si accorse di avere il cappuccio ancora molto calcato sul capo, tanto da coprirle una parte di campo visivo. Si morse la lingua, per poi sospirare e pensare che rimanere a capo coperto in casa altrui non era molto educato.
Nel frattempo, mentre l’acqua si scaldava, Garfield si allontanò dal fornello per dedicare la sua attenzione al frigorifero. Lo aprì con un suono sordo e afferrò un pacco che a Raven parve un po’ sospetto.  
- Hamburger di soia? - domandò il biondo, senza voltarsi verso di lei.
La ragazza ci mise forse più del necessario per processare l’offerta. - Soia? – ripeté, mascherando come meglio poteva la sua incredulità.
Garfield non parve accorgersi della sua sorpresa. - Ho anche del tofu rimasto da ieri, ma non sarebbe molto carino offrirti degli avanzi, vero? -
Raven quasi non fece caso ad alcuna di quelle parole. - Non sapevo che fossi vegetariano. - Ovviamente, aggiunse una vocina nella sua testa che fu bellamente ignorata.
Il ragazzo ridacchiò, e si girò per guardarla. - Vegano, per l’esattezza. - corresse, e il suo sorriso si allargò ancora di più. - L’uomo è un animale fra i più deboli. - disse, e sembrava sinceramente allegro nel farlo, - Non pensi sia un po’ ingiusto che sia in cima alla catena alimentare? -
La corvina non rispose. Sbatté piano le palpebre, cercando di trovare risposta alla svariate domande che le stavano pizzicando la lingua e il cervello in quel momento. Si chiese che cosa avesse visto questo ragazzo nella sua vita per farlo giungere a questa conclusione, si chiese se c’entrava qualcosa con l’Africa, si chiese se avesse mai odiato il suo essere un uomo.
Soprattutto, guardò questo ragazzo dalla corporatura così piccina e le orecchie semi-appuntite come quelle di un elfo, in grado di lottare con qualcuno e ferirsi alle mani per via dei troppi colpi sferrati, senza arrecare danni seri al resto del suo corpo, questo vegano dal sorriso gentile e lo sguardo luminoso, e si disse—
È diverso da lui.
Garfield parve prendere il suo silenzio come negativo, perché cominciò a blaterare, accompagnando le parole ad un gesto svolazzante della mano libera: - Ah, ovviamente parlo per me, non ho intenzione di “indottrinarti” o qualcosa del genere, so che il veganismo non è per tutti, prendi Victor per esempio, lui non potrebbe rinunciare alla carne nemmeno sotto tortur— -
- Hai dell’insalata? Non sono una fan della carne finta. - disse ad un tratto Raven, senza cambiare espressione.
Il biondo parve colto alla sprovvista dall’interruzione, ma si sciolse presto in un altro sorriso, come sollevato. - Certo! Pomodori o finocchi? -
- Pomodori, grazie. -
Garfield tirò un pacco di lattuga e un paio di pomodori fuori dal frigo. Li mise un momento da parte per recuperare l’acqua dal fornello; prese una bustina dalla scatola e versò l’acqua in una tazza, che poi posò sul tavolo davanti a Raven. Le offrì anche un cucchiaino e una piccola zuccheriera di metallo.
- Aspetta qui un minuto, - le disse, per poi far svolazzare le mani intorno al suo viso. - Vado a fasciarmi meglio queste prima di lavare l’insalata. -
La corvina annuì, impedendosi di pensare allo stato in cui la verdura sarebbe stata se il sangue di quelle ferite ci fosse finito in mezzo. I paranocche non erano certo isolanti molto sicuri... Rabbrividì al solo pensiero. Non fece in tempo ad offrirsi di aiutare con l’insalata, che il biondo era già corso fuori dalla cucina, probabilmente diretto in bagno.
Raven si concesse di concentrarsi solo sul suo tè. Mentre intingeva la bustina nell’acqua, si ritrovò a studiare i cerchi concentrici che si formavano sul pelo della tazza, e istintivamente soffiò piano intorno all’orlo. Il vapore le risalì fin sulle guance, facendole venire caldo.
Senza pensare, liberò la testa dalla copertura del cappuccio, e prese la tazza fra le mani, scaldandosi le dita nonostante non avesse poi molto freddo.
Studiò pigramente la cucina con lo sguardo, chiedendosi come fosse possibile che una stanza così pulita potesse trovarsi a meno di un metro da quella mezza discarica che sembrava essere la camera da letto di Garfield. Ci stava giusto pensando, quando—
- Huh. - disse una voce, facendola quasi saltare sulla sedia. Quasi.
Voltandosi, la corvina vide Garfield in piedi sulla porta, le mani coperte da fresche e pulite fasce bianche, che la guardava con un’espressione perplessa, sopracciglio inarcato e labbra socchiuse.
- Cosa? – domandò Raven, senza accorgersi che la sorpresa aveva reso il suo tono più acido del necessario.
- Niente. - rispose pronto il biondo, stringendosi nelle spalle e dirigendosi verso il bancone della cucina su cui aveva posato la verdura. – Sei solo più carina di quello che mi aspettavo. –
Raven decise di prenderlo come un complimento e, senza rispondere, sorseggiò piano il suo tè.


Angolo di _Kiiko
6367 parole dopo... Ah ah... Ci credete che questo non è neanche metà di quello che avevo in mente per questa storia???? Beh, credeteci. C’è un sacco di altra roba.
Fra la scuola che mi tartassa e la mia dolce Rae che aspetta da così tanto tempo, non me la sentivo di farlo ancora più lungo. Conoscendomi, probabilmente vorrò integrare con il resfo quando ho il tempo, ahah.
Il motivo per cui è uscita una cosa così lunga (che non è neanche tutta la storia, geez) è che penso a questo AU da anni, in realtà; sono contenta di essere riuscita a condividerne una parte con voi, yay.
Ora però scappo, perché sto cominciando a sentirmi in imbarazzo (com’è giusto che sia, l’ho fatta aspettare tre mesi, tre, mesi). E ho sonno. Insomma, me ne vado.
Un bacione,
_Kiiko

PS. Il "lui" di cui parla Raven è Trigon.
Just in case non si capisse bene dalla mia narrazione n.n"
  
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