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Autore: Valpur    21/12/2016    2 recensioni
Era notte, faceva caldo e lui aveva messo a segno un altro colpo. Nessuno badava mai ai bambini, e lui sapeva essere furtivo, un’ombra nell’ombra con le dita agili capaci di infilarsi in qualsiasi tasca e alleggerirla del suo contenuto.
Genere: Azione, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Zevran Arainai
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Il borsello era pesante, un grumo di cuoio e monete tintinnanti strette nel piccolo pugno ostinato. Avrebbe riso – quell’ilarità folle che era eccitazione e terrore – se non fosse stato così impegnato a respirare.
No, ad ansimare, i polmoni in fiamme e la faccia rovente: sotto i piedi scalzi e sudici la strada di Rialto era viscida dell’umidità dei canali, una lastra che scintillava debolmente sotto le rare lanterne appese davanti alle facciate scrostate dei palazzi.
Era notte, faceva caldo e lui aveva messo a segno un altro colpo. Nessuno badava mai ai bambini, e lui sapeva essere furtivo, un’ombra nell’ombra con le dita agili capaci di infilarsi in qualsiasi tasca e alleggerirla del suo contenuto.
Lo scalpiccio della corsa fece voltare la donna dalle spalle nude che si sventolava con un ventaglio tarlato all’angolo della via. Con un piccolo strllo e un gran sbattere di ciglia pesantemente truccate fece un balzo indietro al passaggio del turbine biondo che le sfrecciò davanti.
“Zevran! Che tu sia maledetto, mi hai macchiato la gonna!”
“Scusami!” le rispose senza fiato ma voltandosi a regalarle un gran sorriso. Sette anni, gli occhi grandi come la fame e la consapevolezza quasi adulta che a quel faccino scuro e smunto nessuno poteva resistere. E infatti la prostituta scosse la testa divertita.
“Non metterti nei guai!” gli gridò dietro.
Zevran si girò di nuovo per strizzarle l’occhio, ma quel che vide gli gelò l’espressione sul volto.
L’uomo era ancora lì.
Zevran lo aveva puntato quel pomeriggio. Lo sconosciuto non poteva passare inosservato: alto, vestito da capo a piedi di nero ma con uno sfarzo che stonava con lo squallore dei bassifondi, tutto broccati lucenti e merletti che sbucavano dai polsini della giacca dalle lunghe code. Sotto di esse, attraverso lo spacco che le divideva, scintillava l’elsa tempestate di pietre preziose di un pugnale, e a ogni passo dei lucidi stivali neri il denaro gli tintinnava nella tasca.

Impossibile non notarlo, eppure per qualche motivo che Zevran non aveva colto nessuno degli innumerevoli passanti lo aveva degnato di uno sguardo. Certo, il viso non era nulla di che – anzi, a ben vedere era strano come non ci fosse nessuna caratteristica degna di nota su quei lineamenti pallidi, con occhi scuri e labbra sottili.
Per ore, incredulo di fronte a una sfida simile, Zevran lo aveva pedinato; al bordello nessuno si sarebbe accorto della sua assenza, e il pollo era troppo ghiotto per non spennarlo.
Il sole era scivolato oltre i tetti di Rialto prima che trovasse il coraggio – no, non proprio, che non gli mancava di certo: si era trattato solo di attendere l’occasione giusta per sgattaiolargli alle spalle. Mani piccole, dita esili da elfo che trovarono la via e sfilarono senza un suono un borsello dalla tasca della giacca.
Via, di corsa per le calli affollate e tra le gambe dei passanti. La scarica di eccitazione gli accendeva ancora la pelle scura, ma quando si voltò e vide, nella luce della lanterna, quei freddi, calmi occhi neri che lo scrutavano, Zevran sentì un brivido di inquietudine che non aveva niente a che vedere con l’emozione del furto.
Non poteva vederlo così bene, non nel buio e tra la folla che si faceva più densa mentre derapava in una strada più frequentata.
E allora perché aveva la netta sensazione che l’uomo in nero lo stesse scrutando?
Senza mai allentare la presa sul bottino si infilò sotto a un portone spalancato su un cortile deserto e si concesse un secondo per riprendere fiato. Quel trucco funzionava quasi sempre: con un po’ di fortuna, dal suo nascondiglio nell’ombra si sarebbe visto sfilare davanti la vittima e se la sarebbe svignata nella direzione opposta.
Quasi sempre, perché a sette anni Zevran aveva già imparato a fare i conti con i propri limiti e, all’occorrenza, con il bacio della sferza. Mentre si rannicchiava più in profondità nel cono di tenebra contro il muro un brivido che era dolore, paura e qualcos’altro – qualcosa che era ancora troppo giovane e innocente per identificare – gli rizzò i sottili capelli biondi sulla nuca.
Passarono i secondi e si trasformarono in minuti. Zevran, sempre acquattato contro i mattoni umidi, sporse il naso oltre il suo rifugio e guardò in su. Prima vide una processione di piedi – cuoio e fibbie e poi, risalendo, orli di vesti e braghe rattoppate, farsetti e mantelli e...
L’uomo in nero.
Di nuovo.
Un viso pallido e placido nell’oceano di teste.

La tensione gli arpionò ogni muscolo mentre da gatto si trasformava in topo, patetica, minuscola preda in un gioco fatto di miseria.
Zevran trattenne il fiato e gli occhi dorati saettarono avanti e indietro. Nessuna scappatoia: solo altra fuga. Strinse i denti e saltò su, ricominciando a correre.
A ogni spallata contro i fianchi dei passanti pioveva una gragnuola di improperi; qualcuno cercò persino di acciuffarlo per la collottola, ma Zevran era troppo rapido, e, adesso, troppo spaventato per farsi catturare così. Quasi non sentiva più il tintinnio delle monete strette nel pugno, il borsello diventato una zavorra da cui non osava sganciarsi.
Superò con un balzo una piccola frana di rifiuti e spaventò un enorme ratto nero prima di scavalcare la murata che si affacciava sul canale e lasciarsi scivolare giù. La distesa limacciosa sciaguattò sotto ai piedi nudi e non bastò a fermarlo: via di nuovo lungo la riva del canale quasi in secca, acqua lurida che risaliva fino alle caviglie ossute e nascondeva le tracce – via, fino al ponte più vicino.
Qui si fermò di nuovo e attese.
Era stato furbo, un’ottima idea frutto di anni di esperienza che forse lo avrebbe tirato fuori dai guai. Sorrise e si appoggiò alle pietre coperte di muschio del ponte.
Per un delizioso istante ci fu solo il silenzio rotto dal tonfo del cuore che gli ruggiva nel petto.
E poi anche l’acqua iniziò a sussurrare. Zevran fissò il buio mentre un nuovo brivido gli graffiava la pelle.
Lo sconosciuto era di nuovo .
Poteva essere molte cose, Zevran - Zevran e basta, troppo insignificante persino per avere un cognome – ma prima di tutto era un bambino. Un orfano.
Un moccioso spaventato.
Tirò su col naso e soffocò un singhiozzo mentre un pensiero gli prendeva forma nella mente.
Voglio tornare a casa.
Abbandonò ogni sotterfugio e sguazzò fuori dal canale senza neanche provare più a nascondersi.

Casa – il bordello, con le sue lanterne avvolte in laceri drappi rossi che dondolvano davanti al portone, con i profumi delle signore che cercavano di coprire la puzza di piscio e povertà del vicolo. Squallido, eppure era davvero l’unico posto dove potesse tornare.
Si passò l’avambraccio sulle guance umide – ma ovviamente no, non stava piangendo. Era troppo grande per piangere.
Non era un tragitto lungo, pochi minuti di corsa e Zevran sarebbe stato accolto dalla familiare porta scheggiata e dalla penombra rossa. Pochi minuti in cui si voltò mille volte, incespicando e con le dita che dolevano per la stretta attorno al borsello. Il pallido volto incappucciato era sempre lì, a non più di trenta passi di distanza.
Accelerò fino a sentire cosce e polpacci che bruciavano, cuore che scoppiava e respiro di fuoco nella gola – e l’uomo non se ne andava.
I suoi passi quieti non davano tregua.
Il bordello, finalmente, si profilò dopo una brusca svolta a destra. Zevran guizzò sotto alle lanterne e aprì la porta con una spallata; quando si fu tuffato nella semioscurità profumata e stantia il tonfo del battente che si chiudeva dietro di lui si portò via le luci oscillanti e il mormorio dei canali lontani.
La paura, invece, era ancora tutta lì.
Il piccolo elfo si passò sulla fronte la mano tremante e si accorse di essere coperto di sudore gelido.
La refurtiva pesava nel pugno. Dopo un rapido sguardo nell’altrio, coi suoi tappeti che mostravano la trama e i fiori di campo un po’ vizzi nei vasi, si scoprì solo. Tutt’attorno il solito concerto di suoni dell’ora di punta: risate, mugolii, qualche grido. La signora Annamaria, la proprietaria dell’attività, diceva che ad alcuni clienti piaceva così, ma non avrebbe mai permesso che a una delle sue ragazze venisse fatto troppo male. Qualche schiaffo o un occhio nero non avevano mai ammazzato nessuno, e in compenso potevano portare qualche guadagno extra. Zevran non faceva eccezione: era al sicuro in quel luogo strano e buio, ma quando avessero scoperto cosa aveva combinato la punizione sarebbe arrivata anche per lui. Con il consueto brivido sfumato di deliziata anticipazione aprì il sacchetto e sbirciò dentro. Se non lo avessero scoperto non ci sarebbe stato alcun castigo, e in caso contrario insieme alla sferza sarebbe arrivata anche quella sensazione buffa e calda nella pancia che lo divertiva tanto.
Sotto le luci tremule delle poche candele Zevran ammiccò; appena riuscì a mettere a fuoco il contenuto del sacchetto però fece molta fatica a soffocare un'esclamazione di puro stupore,
L'oro scintillava giallo nel suo pugno. Una, due – tre monete pesanti e preziose, niente a che vedere con gli spiccioli che si era aspettato di trovare. Tre sovrane – non c'era da stupirsi che quel tizio fosse tanto accanito nel suo inseguimento!
“Zevran, sei tu?”
La signora Annamaria sbucò da oltre la tenda di perline che chiudeva il corridoio, impeccabile nel suo trucco elaborato che riusciva quasi a nascondere le rughe attorno alla bocca dipinta di rosso e agli angoli degli occhi duri. Zevran nascose in fretta le mani dietro la schiena e, dopo un profondo respiro, si appiccicò in faccia il suo migliore sorriso, efficace anche con il buco del dente che gli era caduto la settimana prima.
“Mi dispiace aver fatto tardi, signora, ma avevo già finito di pulire tutti i vasi da notte”. La finestrella dell'incisivo mancante rendeva un po' sibilanti le S.
Annamaria inarcò un elegante sopracciglio nero e lo guardò dall'alto.
“Ci mancherebbe altro, piccola peste. Vai in cucina prima che...”
Tre colpi secchi risuonarono alla porta. Zevran si bloccò a metà dell'atrio, le mani giunte attorno al bottino e il gelo che gli invadeva il viso.
Non ebbe bisogno di voltarsi per capire.
Il brivido nacque in fondo alla schiena e risalì lungo la colonna vertebrale fino alla nuca mentre la signora andò ad aprire.
Quando dalla soglia l'uomo parlò il brivido diventò uno spasmo.
Se il buio e il freddo avessero avuto una voce sarebbe stata quella.
“Sono qui per il bambino”.
La signora Annamaria si voltò di scatto verso Zevran, paralizzato davanti alla cascata scintillante di perline.
“Cos'ha combinato questa volta?”
“Vorrei discuterne in privato, se permettete”. Era cortese, persino gentile, e Zevran desiderò con tutto se stesso di trovarsi dall'altra parte della città. O del mondo.
Ovunque, ma non lì.
Ogni fibra del suo essere gli gridava di fuggire ancora, di correre lungo il corridoio e lanciarsi in una delle stanze, la prima che avesse trovato aperta, fuori dalla finestra e lontano, nella notte Antivana che sapeva di cuoio e pesce marcio. 
E invece rimase immobile, incapace persino di ribellarsi quando la mano curata della signora gli afferrò il braccio e se lo trascinò dietro.
Il salottino, con quelle lampade ricamate che aspiravano all'eleganza e stridevano con le macchie di umidità alle pareti, era buio quasi quanto l'atrio. Zevran si fece ancor più piccolo nell'angolo più lontano dalla porta e si fissò con ostinazione i piedi. Le monete sembravano essersi fuse con i palmi delle mani.
“Posso offrirvi qualcosa, messere? O qualcuno?” chiese la signora con un sorriso che aveva ancora l'ombra di una gioventù sfacciata.
Lo straniero ignorò il gesto d'invito verso uno degli sgabelli imbottiti e scosse la testa.
“No, grazie”.
La signora batté una volta le palpebre pesantemente truccate e si accomodò accavallando con grazia le gambe.
“Ditemi, allora: cos'è successo?”
“Ha rubato qualcosa che mi appartiene”.
Ecco fatto, lo avevano incastrato. Non gli era capitato spesso ma mai ne aveva avuto così paura.
“Zevran, è vero?”
Provò a rispondere – davvero, ci provò – ma riuscì solo a muovere le labbra senza produrre alcun suono. Si sentiva i piedi pesanti, inchiodati alle assi consunte del pavimento.
Rispondimi!”
Zevran alzò di scatto la testa, i denti piantati nel labbro che tremava e uno sguardo che voleva essere di sfida oltre il velo di lacrime, e annuì una volta.
La signora si alzò e lo prese brusca per le spalle; lo scrollò così forte da fargli battere i denti e costringerlo a sciogliere le dita intrecciate. La mano destra gli ricadde lungo il fianco e Annamaria gli agguantò il polso, strappandogli la refurtiva.
Zevran barcollò per recuperare l'equilibrio e tenne lo sguardo fisso oltre la spalla della signora, su una chiazza di umido che disegnava qualcosa di simile a un volto grottesco sulla parete. Respirava rapido, ansiti brevi e muti dal naso, e ingoiò con uno sforzo le lacrime.
L'espressione di Annamaria passò in un istante da torva a incredula – avida, persino – mentre guardava le monete.
“Certo, ora capisco, messere. È una bella cifra ed è giusto che il bambino venga punito. Sapete, è orfano e sua madre lavorava qui, è sempre stato un po' uno scavezzacollo... ma è un bravo ragazzo. Se vorrete riprendervi i vostri averi”, e gli tese il borsello, “provvederemo a...”
“Non voglio i soldi. Voglio lui”.
Zevran si morse così forte che i canini affondarono nella pelle e chiuse gli occhi.
Sapeva che sarebbe accaduto prima o poi ma si era sempre rifiutato di soffermarsi su quell'evenienza che non riusciva a comprendere fino in fondo. Lo aveva visto succedere qualche volta con le prostitute più giovani, che a dodici o tredici anni tornavano da una visita con un cliente facoltoso, in lacrime, pallide tra i festeggiamenti delle altre signore. Dopo un po' smettevano di piangere e indossavano tutte lo stesso sorriso.
Ma lui? Aveva pensato di essere ancora troppo piccolo. Ci aveva sperato, forse?
Gli occhi di Annamaria corsero dall'uomo in nero a Zevran, grandi e allarmati.
“Volete... lui? Ma ha solo sette anni, pensavo di aspettarne almeno altri tre prima di...”
Lo sconosciuto raggiunse Zevran e si accucciò davanti a lui. Una mano gelida anche attraverso il cuoio nero del guanto gli afferrò la mandibola e premette, costringendolo ad aprire la bocca.
“ È un bel bambino. Vi darò quelle tre sovrane d'oro per lui”.
Zevran si divincolò dalla stretta e voltò di scatto la testa per mordere le dita che ancora lo trattenevano, ma il contatto si interruppe così bruscamente da farlo vacillare contro il muro.
Tre sovrane erano tanti soldi per comprare un corpo, anche un corpo mai usato prima, e la signora strinse subito il pugno attorno al denaro.
“Messere, parliamone. Zevran è ancora troppo minuto per il mestiere, non voglio che gli venga fatto del male: potrebbe rovinarsi e, come avete detto, è un bel bambino che promette bene. Potrei suggerirvi un'alternativa: magari una delle nostre ragazze più giovani, se apprezzate il genere? Sono sicura che potrei trovarne una ancora... sapete... fresca?”
Ansimando Zevran si sfregò le braccia; era come se una miriade di insetti gli stesse correndo sotto la pelle – no, non erano insetti, solo quell'orrore senza nome che gli stava penetrando in fondo all'anima.
Lo straniero lo guardò a lungo e scosse la testa.
“Fraintendete il mio interesse, madama. Tenetevi i soldi e le puttane. Il bambino viene via con me”.
“Con voi? Questo è impensabile!” Le guance di Annamaria si stavano arrossando anche sotto al trucco. Rabbia e senso degli affari che si mischiavano. “Queste faccende si concludono sempre all'interno del bordello, specie con chi...”
Alzandosi lentamente l'uomo sembrò ingoiare tutta la luce della stanza.
Zevran dimenticò il sapore salato delle lacrime che gli scendevano sulle labbra e l'odore della paura. Lo seguì con lo sguardo mentre qualcosa di nuovo gli vibrò dentro.
Curiosità? Eccitazione?
“Sono maestro Talav Arainai dei Corvi di Antiva, e questo affare si conclude qui. Tenetevi quei soldi: ora Zevran è mio”.
C'era silenzio nel bordello. Anche gli scricchiolii e i gemiti lontani sembravano irreali, come se appartenessero a un altro mondo. La signora Annamaria chiuse la bocca e abbassò il capo senza guardare Zevran, pallida.
“F-Farò portare le sue cose, allora”.
Non lo guardò, non disse una parola e uscì.
Un istante dopo era tornata con un fagotto minuscolo che conteneva un paio di braghe e poco altro. Guanti ricamati, tutto ciò che Zevran conservasse di sua madre. Per un attimo temette che potessero portarglieli via e quasi li strappò dalle mani della signora, ma poi Mastro Talav gli afferrò la spalla con una morsa forte e gelida che sembrava metallo, un comando muto a cui era impossibile disobbedire.
Tutta l'allegria, tutta la voglia di ribellarsi erano sparite insieme alla paura. Era oltre, adesso, mentre il Corvo lo conduceva lungo il corridoio, sotto la tenda di perline e fuori, nella luce delle lanterne rosse.
Zevran si voltò solo una volta verso la porta con la vernice un po' scrostata. La signora Annamaria – non l'aveva neanche salutata, non aveva chiesto scusa...
Talav lo portò con sé nel buio della notte di Rialto.
“Se ti aspetti che ti dica che non ti verrà fatto alcun male rimarrai deluso”, disse, e questa volta la voce era solo dura, senza traccia di cortesia. Zevran guardò in su trotterellando per tenere il passo e sollevò le sopracciglia.
“S-Signore, però io non ho capito cosa devo fare...”
Mastro Talav Arainai non rallentò ma restituì lo sguardo con un'ombra di sorriso che portò indietro il terrore e ingigantì l'eccitazione di Zevran.
“Soffrire. Sopravvivere. E poi”, il sorriso si fece più largo, denti che sembravano affilati, da predatore, “uccidere”.

 

 

   
 
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