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Autore: simocarre83    22/12/2016    2 recensioni
Può una telefonata cambiare la vita di una persona? Dipende dalla telefonata. Il problema è che spesso non sappiamo quale sarà quella telefonata. Potessimo saperlo, la registreremmo per ricordarcela, o non risponderemmo neanche. Ma non lo sappiamo. E quando ce ne accorgiamo è troppo tardi e possiamo solo sperare che la vita cambi. In meglio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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FOTORICORDO

13/9/2021
Caro diario,
Oggi è stata in assoluto la giornata più strana della mia vita.
È vero, ho solo 14 anni, però oggi sono successe tante di quelle cose che anche solo per raccontarle ci vorrebbe un libro. Cerco di riassumertele brevemente.
Ho incominciato l’ITIS, finalmente. Andare alle scuole superiori non è come andare alla scuola media. Conoscere tutti i compagni e tutti i professori, praticamente daccapo, non è il massimo. E il lunedì è anche un giorno pesante. Due ore di italiano, un’ora di matematica e tre ore (tre ore!!) di fisica. Ma non educazione fisica. Proprio fisica… speriamo di non annoiarmi troppo.
Siamo in 27 in classe e già non mi ricordo i nomi di tutti. A parte il mio miglior amico, Andrea, che è l’unico che conoscevo già dalle scuole medie. Comunque seguire il consiglio di mio papà è stato fortissimo. E sicuro lo seguirò, come mi ha detto lui, per tutta questa settimana. Con Andrea siamo entrati in classe e ci eravamo già messi d’accordo per sederci vicini. Praticamente tutto il giorno non ho parlato con nessuno tranne che con lui. E lo stesso ha fatto lui con me. Però ci siamo guardati attorno. E non immagini neanche quanto aveva ragione papà. Sai quante cose abbiamo capito dei nostri compagni? Ad esempio c’è Antonio, che sta ripetendo la prima. È un bullo. Durante l’intervallo ha avvicinato quasi tutti insultando e costringendo quelli più piccoli di lui a consegnargli due euro a testa. Noi non l’abbiamo fatto perché appena è suonata la campanella siamo usciti e non ha fatto in tempo a chiederceli, ma l’altro mio compagno di banco, Fabio, ce lo ha raccontato. E visto che avevo come l’impressione che lui ne sapesse qualcosa, anche in questo caso ho fatto come mi ha detto mio papà. All’inizio dell’ora successiva ho subito detto al professore quello che era successo. Il professore di matematica ha costretto Antonio a restituire tutti i soldi. Antonio mi ha guardato male per il resto delle ore. Anche se poi non è successo niente.
Ma la cosa veramente strana è successa poco dopo, quando il professore ha fatto l’appello. Avendo appena incominciato a lavorare nella nostra scuola, non aveva avuto il tempo di trascrivere sul suo registro personale i nostri nomi e lo fece dal registro di classe appena risolto la questione di Antonio, facendo contemporaneamente l’appello. Io sono il quinto in ordine alfabetico e anche con i primi, quando li chiamava, si faceva raccontare da loro qualcosa. Solo che, arrivato al mio nome, prima ancora di pronunciarlo, si è fermato. Io, che sapevo già che mi avrebbe chiamato, ho alzato la mano e mi sono fatto riconoscere. Lui, per tutta risposta, mi ha squadrato, e poi mi ha chiesto di parlargli della mia famiglia. Io l’ho fatto ma appena ho detto il nome dei miei, si è alzato e, visibilmente agitato, è uscito dall’aula, rientrando dieci secondi dopo con un mazzo di carte da “Scala 40”. L’ha aperto e mi ha dato una carta, il jolly, chiedendomi di darlo a mio padre e raccontargli poi la sua reazione. A me è sembrato tutto strano, ma il bello deve ancora venire.
Oggi pomeriggio, quando sono arrivato a casa da scuola, ho mangiato e ho parlato con mio padre di come era andata a scuola. Per caso è rimasto a casa, solo perché dovevamo andare a fare la solita visita medica per iscriverci a nuoto. Gli si sono illuminati gli occhi quando gli ho raccontato quello che era successo con Antonio. Poi però mi sono ricordato della cosa ancora più strana, del professore di matematica e della carta, e quando gliel’ho data, per la prima volta ho visto mio padre commuoversi. Prima mi ha chiesto come si chiamava il professore e non ho saputo rispondergli, perché non ce lo aveva neanche detto. Poi mi ha detto “La vedi questa carta? Rimane una semplice carta, finché non scopri la storia che c’è dietro” e mi ha promesso che me ne avrebbe parlato tornati a casa dal medico. Dopo un paio d’ore siamo tornati. Io pensavo che si fosse dimenticato di quella promessa, invece mi ha spiazzato di nuovo. Mi ha detto che in azienda non aveva molto da fare e che si sarebbe potuto occupare tranquillamente di tutto lo zio Vito. Quindi mi disse che il mio professore si chiamava Giuseppe. Poi mi è venuto in mente che mentre ero alla cattedra a spiegargli cosa era successo con Antonio, sbirciando il suo registro chiuso, ho visto che il nome era proprio Giuseppe. Solo che quando ho detto a mio papà che lui si chiamava come me, per tutta risposta mi ha detto queste testuali parole: “no! Sei tu che ti chiami come lui, anzi, tu ti chiami Giuseppe perché lui e tuo nonno si chiamano Giuseppe”.
Solo allora ho realizzato che mio padre lo conosceva bene.
Allora ha incominciato a raccontarmi come mai lo conosceva. E quando e come l’aveva conosciuto. Appena è arrivata la mamma, mentre cucinava, ci siamo spostati in cucina e quando la mamma ha visto la carta, si è commossa anche lei. Allora tutti e due mi hanno raccontato di persone conosciute più di venti anni fa. e mi hanno detto che avrebbero fatto di tutto per rivedere il mio professore di matematica.
Stasera ho conosciuto molto di più i miei genitori. Anche se non ho ben capito una cosa: mio padre mi ha chiesto quando avrò ancora matematica e visto che ce l’ho domani, mi ha detto che devo avvicinare il professore e, quando nessuno mi vede, dargli una scatoletta di tonno. Speriamo bene. Anche se tutti e due mi hanno lasciato intendere di essere veramente convinti che questa cosa possa fargli piacere. Penso proprio che prima o poi verrò a conoscenza di tutta la storia.
Domani ti faccio sapere.
Buonanotte!
Giuseppe
 
---O---

Il giorno seguente, Giuseppe aveva l’ultima ora di matematica. Altre due le avrebbe avute il giovedì. Al termine dell’ora, al suono della campanella, l’aula si svuotò quasi immediatamente. E Giuseppe si avvicinò al professore.
“Oggi avete avuto problemi con Antonio?” chiese premurosamente.
“No!” rispose Giuseppe cercando di sembrare più normale possibile. In realtà Antonio li aveva raggiunti prima dell’inizio della prima ora e minacciandolo, si era fatto dare, sia da lui che da Andrea, i quattro euro, due per il giorno prima e due per quel giorno. Poi, con calma, aveva trovato tutti gli altri e si era fatto ridare i soldi anche da loro. Ma pensò che quel professore non avrebbe potuto aiutarlo. Era troppo strano. Si vergognava come un matto anche di quello che stava per fare. Si vergognò fino a quando non fu proprio il professore ad incominciare a parlare.
“Allora, me la restituisci la carta o devo aspettare che me la portino i tuoi genitori?” chiese amichevolmente.
“Ha ragione! mi scusi! È nello zaino!” rispose rispettosamente Giuseppe.
Andò al suo banco e stava per prendere lo zaino quando udì il suo professore chiedergli una cosa che lo lasciò letteralmente di stucco.
“E già che ci sei, visto che mi piace tantissimo, portami anche la scatoletta di tonno!” disse ridendo.
Giuseppe impallidì. Come faceva a saperlo? Glielo chiese immediatamente.
“La scatoletta di tonno era, per quanto la cosa possa sembrarti strana, la cosa che più di ogni altra mi aspettavo da tuo padre. Digli che mi farebbe piacere rivederli, e che gli devo presentare la mia famiglia, mia moglie, Anna, e mio figlio. Che ha due anni meno di te. Anzi, vediamo se indovini come si chiama?” chiese in una maniera incredibilmente amichevole per un rapporto professore-studente.
Giuseppe ci pensò un attimo. Poi, trovando ragionevole solo una delle innumerevoli risposte possibili, azzardò: “Simone?”
“Sei tutto tuo padre!” esclamò il suo professore.
Il sabato successivo, alle 19, Giuseppe, con la moglie e il figlio erano invitati a cena da Simone e Maria. Quel sabato pomeriggio fu, per i due capifamiglia, tra i più emozionanti mai vissuti.
Giuseppe era veramente nervoso. Quel giorno era al lavoro fino all’una, e questo gli permise di distrarsi un attimo. Ma poi uscì e passò dalla pasticceria, come “ordinato” dalla moglie. Tornò a casa, a pranzo e poi uscì a fare la spesa con la moglie e il figlio. Tornarono verso le quattro. Quelle altre due ore e mezza non passarono più. Ma poi alla fine erano le sei e mezza e ora di partire per raggiungere casa di Simone. Gli batteva forte il cuore mentre, in macchina, raggiungeva quell’abitazione.
D’altra parte, Simone e Maria non erano da meno. Il mattino Maria andò a fare la spesa e Simone dovette andare in ufficio per sbrigare le ultime questioni della settimana. Mandare qualche e-mail, aprire la posta cartacea, fare qualche telefonata, in Cina, per concordare le ultime spedizioni. Uscì giusto in tempo per passare a prendere il figlio e andare a casa, dove pranzarono. Mentre Maria finiva di sistemare dal pranzo, aiutata da suo figlio, Simone andò in cantina a prendere il vino, quello buono, quello che ancora gli forniva suo padre. Salito nuovamente in casa, Simone cercò ancora di sedare l’emozione facendo una cosa che sapeva essere la seconda a rilassarlo veramente; seconda solo al nuoto. Quasi un hobby: cucinare insieme ai suoi famigliari. Guidando le cose quando poteva, assistendo la cuoca migliore che conosceva quando non sapeva muoversi. E tutti e tre, come accadeva sempre in quel caso, si divertirono. Anche se il continuo ritorno alla serata che lo attendeva lo faceva emozionare tantissimo. Rivedere Giuseppe. Dopo quasi venti anni. Chissà quante cose gli avrebbe raccontato. Così, anche se la cucina non lo distrasse a sufficienza, almeno gli fece passare il tempo più velocemente. Erano le sei, quando era tutto pronto. Doveva solo prepararsi, e tutto sarebbe stato all’opera per accogliere gli ospiti.
Alle diciannove spaccate suonarono alla porta. Giuseppe si sarebbe voluto complimentare per quella bella villetta che Simone aveva. Con tanto di giardino. Gli ricordava tanto quella casa dove Maria, Nicola e Vito avevano abitato per quella fantastica vacanza a Policoro. Ma non ci fu tempo. Arrivarono alla porta e di fronte a lui vide il suo studente aprirla. Il ragazzino era visibilmente in imbarazzo, non sapendo come comportarsi con quel professore-strano-super-amico-di-suo-padre.
Il professore fece entrare il figlio, salutato dal figlio del padrone di casa amichevolmente, e la moglie, trattata ancor più educatamente, e poi entrò lui. Nell’ingresso c’era solo lo spazio per loro, un piccolo appendiabiti e le scale che salivano al piano di sopra o scendevano in cantina. E di lato l’ingresso vero e proprio al salotto.
Si prese un attimo di tempo per parlare con il suo omonimo.
“Senti! se sei d’accordo e prometti di non farlo quando ci sono i tuoi compagni, dici di poter trovare la forza e il coraggio di darmi del tu?” chiese fingendosi estremamente preoccupato.
E il ragazzino si sciolse. “Certo!” esclamò con un sorriso a trentadue denti.
“Mamma! Sono arrivati!” urlò. “Entrate pure, che vado a chiamare mio padre!”
Un ambiente ordinato e accogliente si presentò alla loro vista. Giuseppe si rivolse nuovamente verso il ragazzino e sorridendogli continuò a cercare un complice: “Pasta col tonno!” disse, leccandosi le labbra.
“Piace tantissimo anche a me!” rispose l’altro.
Giuseppe e Simone (Junior) si presentarono. E si conobbero. C’erano due anni di differenza tra di loro e si notavano tutti. Ma cercarono di fare quattro chiacchiere alla pari. -Se c’è riuscito una persona adulta con me, perché non posso riuscirci io, a farlo sentire a suo agio?- pensò il più grande mentre si sedevano sul divano.
Maria li accolse a braccia aperte. Anche lei aveva tantissima voglia di vedere Giuseppe e di conoscere Anna. Così anche Anna e Maria, dopo qualche minuto, si sentirono ciascuna a proprio agio.
“Scemo!” disse una voce dall’ingresso. Un fulmine attraversò il salotto, colpendo direttamente Giuseppe.
“Scemo sarai tu!” fu la risposta che diede quest’ultimo, senza neanche voltarsi. Poi si voltò.
Due persone che non si vedono da vent’anni hanno di solito bisogno di squadrarsi un attimo, prima di riconoscersi. Quell’esclamazione di Simone aveva cancellato ogni bisogno di farlo. Un abbraccio lunghissimo coinvolse tutti e due.
“Mi è preso un colpo, quando ho visto la carta” disse Simone.
“Io invece ero sicurissimo della scatoletta di tonno!”
Quello fu l’inizio della serata. Serata che continuò fino a mezzanotte circa, quando gli ospiti se ne andarono.
Semplicemente si svolse in due parti. La prima, mentre mangiavano, nella quale Simone e Giuseppe aggiornarono la loro conoscenza reciproca con i vent’anni che mancavano.
Praticamente si concluse quando Simone, che aveva un ottimo rapporto con suo figlio, confidò a Giuseppe quanto avesse bisogno di qualcuno che lo aiutasse in matematica. Giuseppe si imbarazzò un po’. Rattristendosi, pensò che avrebbe preferito evitare di menzionare certi suoi problemi scolastici al cospetto del suo nuovo professore. Solo che fu proprio il suo nuovo professore a sistemare le cose.
“Sai che alla tua età anche io in matematica non andavo proprio forte? E durante le vacanze estive c’era uno che si prendeva sempre la briga di aiutarmi” disse, rapendo lo sguardo e l’attenzione di Giuseppe. Poi con lo sguardo gli fece capire che si trattava proprio di suo padre.
La situazione cambiò immediatamente. Giuseppe ci pensò un po’. Poi si sentì stranamente coinvolto da quella situazione a tal punto da potersi permettere di confidarsi anche con il suo professore, come ormai si confidava solo con suo padre.
“Fossero questi tutti i problemi a scuola! Posso farvi una domanda?” chiese, anche se era visibilmente imbarazzato per quello che stava succedendo.
“Pensi che sia opportuno parlarne davanti a loro? O preferisci che ne parliamo in un’altra occasione in privato?” chiese serio suo padre.
“No! Io non ho fatto niente di male. È solo una cosa che mi è successa a scuola, e non riesco a capire come comportarmi!” disse.
“Allora, se te la senti, fai pure!” concluse Simone.
“C’è un mio compagno di classe che ha un problema. Si tratta di Andrea” disse, tutto d’un fiato, cogliendo lo sguardo presente dei suoi genitori, che lo conoscevano molto bene, dal momento che spesso era ospite a casa loro, come, del resto lo stesso Giuseppe a casa sua.
“Di che problema si tratta?” chiese Simone. Fu solo per caso che rivolse lo sguardo al suo amico, a quel punto, ma quello che vide gli bastò ben più che una risposta.
Giuseppe aveva cambiato completamente espressione. E pronunciò solo una parola, rivolgendosi al giovane, solo per chiedergliene conferma.
“Antonio?” chiese il professore.
Giuseppe si rivolse verso di lui. Lo osservò, in parte stupito per quello che aveva sentito, soprattutto per essere arrivato subito al nocciolo del problema. E gli parve strano.
“Mi preoccupa, Andrea! In classe c’è un nostro compagno, Antonio, che fa un po’ il prepotente con tutti. Non mi ha mai fatto niente. Probabilmente se mi alzasse le mani lo polverizzerei, ma Andrea entra in crisi ogni volta che quello gli dice qualcosa. Può insultarlo, può dirgli qualunque cosa, ma lui non dice niente e poi va in bagno. Una volta l’ho anche seguito, e l’ho sentito piangere. Io vorrei aiutarlo, ma non so come posso fare. Soprattutto per dimostrarmi un vero amico. Cosa posso fare?” chiese Giuseppe.
In quel momento, in quella stanza, calò il silenzio.
Da quando il ragazzino aveva incominciato a raccontare quelle cose, lo sguardo dei due capifamiglia si era, più di una volta incrociato. Adesso, tralasciando il contatto visivo con il giovane, Simone e Giuseppe si fissavano direttamente.
Il figlio di Simone, appena adolescente, pensò di aver capito. Pensò di essere quasi riuscito a mettere in difficoltà i due ‘grandi’.
“Beh! non mi sembra poi questo gran problema. Sto parlando di bullismo. Non vi saranno mai capitate cose di questo tipo, ma penso che la situazione sia chiara!” disse, fingendo di sorridere, anche cercando, da parte sua, di stemperare un po’ la tensione di quei momenti che a lui parvero addirittura imbarazzanti. Fu Maria che, lanciandogli un’occhiata che da brava mamma diceva tutto, riuscì a farlo tacere. Lei infatti si rendeva conto di quello che stava succedendo. Fino in fondo. Infatti, pur non conoscendo cose che suo marito non aveva mai voluto raccontargli, era perfettamente a conoscenza del patto. Visto che, però, i due principali personaggi di quella storia erano riuniti in quella casa, quella sera, non sapeva proprio cosa sarebbe potuto uscire fuori.
Dagli sguardi che si scambiarono, capirono entrambi ciò che l’altro stava pensando. Tornarono alla loro mente vivide immagini del castello, della radura e di Policoro. Simone pensò che a suo figlio quel racconto avrebbe potuto servire più di un semplice consiglio dato con amore ma distaccato. Giuseppe capì che quella storia sarebbe servita anche al suo, di figlio, che stava entrando in quell’età in cui, quasi certamente, avrebbe affrontato quegli stessi problemi.
Anna, rendendosi conto del fatto che avevano seriamente bisogno di parlare, e ritenendo opportuno che lo facessero da soli, propose a Maria di darle una mano a sparecchiare.
“No! Aspetta!” le rispose “Se conosco bene Simone e Giuseppe, stanno per raccontare una storia bellissima. Una storia di amicizia e una storia che farà tanto di quel bene a mio figlio, che non me la perderei per nessun motivo al mondo! Pur conoscendola quasi in ogni particolare”. E aveva ragione.
Simone e Giuseppe incominciarono a raccontare. Man mano che raccontavano, l’attenzione degli altri si faceva più attiva, sia delle due donne, che dei due ragazzini. Anna non aveva mai sentito quel racconto, ma anche Maria era all’oscuro di alcuni particolari di quella storia. Particolari di cui venne a conoscenza solo quella sera. Altri particolari furono semplicemente non menzionati da Simone e Giuseppe, in accordo al patto stipulato ventuno anni prima. Era incredibile come furono in grado di ricordarsi tutte quelle cose. E come ciascuno dei due era in grado, come accadde più di una volta, di continuare con precisione il racconto dall’istante esatto in cui l’altro l’aveva interrotto.
Al termine della storia in quella casa si poteva respirare un’atmosfera diversa, molto diversa. Anna aveva consumato un pacchetto di fazzolettini di carta, stentando a riconoscere in quel ragazzino l’uomo che solo pochi anni dopo la fece innamorare. Un’ulteriore dimostrazione di come le persone cambiano. Non che Giuseppe fosse peggiorato, anzi. Semplicemente capì il perché di molte sue affermazioni molto decise sulla sua completa avversione alla violenza e al bullismo nelle scuole. Adesso capiva il perché. Maria, man mano che la storia continuava, aveva incominciato ad avvicinarsi al marito, fino a stringersi a lui, soprattutto durante il racconto di quegli ultimi giorni, quelli durante i quali lei e i suoi due fratelli avevano condiviso con gli altri quell’esperienza. Simone junior, lui, ascoltò con attenzione e passione quel racconto. E poi corse ad abbracciare suo padre. Perché aveva voglia di farlo. Perché certe cose le aveva solo lette e aveva già iniziato a pensare che potessero accadere. Ma solo quella sera incominciò a vederle e sentirle così vicine. Giuseppe, da parte sua, non sapeva cosa pensare di suo padre, dei suoi genitori, e dei suoi zii. Aveva sempre considerato suo padre una persona tranquilla. Faceva un lavoro tranquillo, forse fin troppo noioso per lui. Ancora prima che lui nascesse aveva costituito con il cognato, lo zio Vito, quella piccola azienda, che commerciava computer usati, che col tempo si era un po’ ingrandita e aveva permesso alle due famiglie di avere un tenore di vita più che dignitoso. Sua mamma aveva lavorato come segretaria in un’azienda di Milano, poi, con la crescita degli affari dell’azienda di famiglia, aveva incominciato a dare una mano al marito e al fratello, lavorando part-time, più che sufficiente, per loro. Poi, da quell’anno, era passata alla sua passione per l’insegnamento, insegnando italiano e storia nella scuola media che lo stesso Giuseppe aveva appena finito. Lo zio Vito era simpaticissimo e dinamico, ma niente di più. E poi lavorava sempre, come d’altro canto faceva anche suo padre. Lo zio Nicola, invece, quasi non lo conosceva, perché faceva l’avvocato, ma ormai viveva quasi sempre in Francia. Praticamente si vedevano solo un paio di volte l’anno, anche se con la figlia, sua cugina, si sentiva spesso. Si chiamava Emanuela, e adesso stava, forse, capendo il perché. Comunque mai e poi mai avrebbe potuto pensare che i suoi genitori e zii avessero potuto vivere un’esperienza del genere. Per quanto gli fosse dispiaciuto tantissimo sapere quello che era accaduto, gli era servito. Eccome se gli era servito.
Il fatto era, ma la verità la conosceva solo lui, che non aveva raccontato proprio ai suoi genitori come erano andate le cose. Sostanzialmente, era lui e non Andrea a subire le continue angherie di Antonio. Perché gli atti di bullismo e le minacce di violenza da parte di Antonio erano continuate per tutta quella settimana. Soprattutto nei suoi confronti, che aveva difeso la classe quel primo giorno. Era stato il suo migliore amico che, proprio quella mattina, l’aveva rincorso in bagno e l’aveva sentito piangere, silenziosamente, per l’ennesima battuta spinta uscita dalla testa sfrontata di quell’Antonio. In quel momento Giuseppe si vergognò anche per aver pensato che un professore così “strano” come quello di matematica, non potesse anche solo lontanamente aiutarlo in quella storia.
“Comunque non preoccuparti” aggiunse Giuseppe.
“Hai visto… sono cose che capitano a tutti e che si possono risolvere. Soprattutto con l’aiuto di persone più grandi e mature. Ma ce la si può fare anche da soli. Basta che voi restiate uniti e Antonio non vi può fare nulla. A nessuno dei due” continuò Simone.
In quel momento, anche Maria comprese il senso più profondo di quelle parole. “Sentito? Hai dalla tua parte non solo me e tuo padre, ma anche un tuo professore, cosa vuoi di più dalla vita?” disse a suo figlio, cercando di sorridere e tirargli su il morale.
“Ma io cosa centro? Stiamo parlando di Andrea qui, ricordatevelo!” disse Giuseppe, portandosi evidentemente sulla difensiva. Ancora non si sentiva pronto per tirare fuori la verità.
Giuseppe e Simone si guardarono e sorrisero a quella difesa. Passò qualche altro minuto, poi si salutarono per andarsene.
“Beh! speriamo di non vederci, adesso, tra ventuno anni!” scherzò Giuseppe.
“Beh! visto il tipo, non vedo l’ora dei colloqui con i genitori e dei consigli di classe” ribatté Simone.
“Per me il martedì, dalle 11:55 alle 12:45”, rispose Giuseppe “e fuori dall’orario scolastico quando ti pare!”.
“Non preoccupatevi che ci siamo scambiati il numero di telefono io e Anna, altrimenti non vi trovate più” aggiunse Maria.
Poco prima di uscire, quando Giuseppe salutò Simone, gli strinse la mano un po’ più del solito. I tre ospiti uscirono. Simone si voltò, lanciò un’occhiata a Maria che capì immediatamente e gli sorrise. Simone uscì e si offrì di accompagnarli alla macchina.
“Wow! Non ti sei scordato di come sono, allora?” disse Giuseppe.
“Si! Per forza! Con tutte le cose che abbiamo passato assieme! Comunque che cosa dovevi dirmi?” chiese Simone.
“Non ti sei accorto di nulla?”
Simone guardò il suo amico. L’aveva ritrovato! Esattamente come venti anni prima!
“Beh! vediamo se te ne sei accorto anche tu?!” chiese.
“Era una balla!” disse Giuseppe, sicuro. “Non dirmi che non ti sei accorto che la storia di tuo figlio era una bugia? Giuseppe è come me con le bugie!”
Si! Decisamente: Giuseppe continuava ed essere quello che aveva conosciuto per i suoi primi quindici anni di vita.
“Beh! lo so! D’altra parte sono suo padre! È come eri tu a quindici anni. Solo che tu abbassavi lo sguardo. Lui si bagna le labbra con la lingua. Ma lo becco subito!”
Giuseppe sorrise, ritornando con la mente alla storia finita di raccontare pochi minuti prima.
“Secondo te dove ha mentito?” chiese.
“Mah! Secondo me, anche giudicando l’attenzione che mostrava alla storia, direi che il problema ce l’ha lui” rispose Simone.
Anche Giuseppe fu d’accordo.
“Puoi fare qualcosa? A livello scolastico intendo, per aiutarlo!” chiese Simone.
“Sicuramente! Purtroppo meno di quello che vorrei, però! Ad ogni modo, credo che possa esserti utile sapere che, ad esempio, durante l’intervallo, in bagno, gli studenti non possono essere puniti con dei provvedimenti scolastici, per qualunque cosa facciano”
Simone sorrise. Come sempre Giuseppe gli aveva fornito la soluzione a quel problema. Era sempre più felice di averlo vicino. Ed era sempre più felice che suo figlio l’avesse vicino. Improvvisamente riacquistò fiducia anche nel giovane.
“Non preoccuparti! Se conosco mio figlio abbastanza, e lo conosco abbastanza, la soluzione, dopo stasera e dopo quello che mi hai appena detto, la trova da solo!”
Si salutarono. Tornato in casa vide Giuseppe seduto con la testa sulle braccia, sul tavolo, e Maria che cercava di consolarlo parlandogli sottovoce e scompigliandogli un po’ i capelli.
“Credo che dobbiate parlare un po’ voi due. Io vado a letto, ci vediamo dopo” parlò, rivolgendosi a Simone. Al cenno affermativo di quest’ultimo, si alzò e con una carezza salutò suo figlio e salì le scale verso la camera da letto. Entrambi sapevano che avrebbe aspettato Simone anche fino a notte inoltrata, preoccupata com’era da quella situazione, in attesa di sentire cosa si erano detti.
“Ti posso dire una cosa?” chiese Giuseppe, con ancora la testa sulle braccia conserte.
“Certo! Sai che non c’è neanche bisogno di chiedermelo!” rispose deciso il padre.
Giuseppe alzò la testa, rivolgendo lo sguardo verso suo padre. “Che cosa penseresti di me, se venissi a sapere che ero io quello che è corso in bagno oggi, per sfogarsi e non far vedere a tutti che stava piangendo?” chiese tutto d’un fiato.
“Perché, è successo questo oggi?” chiese Simone.
Il cenno affermativo di Giuseppe gli fece capire, ancora una volta, che sia lui che il suo amico non avevano perso il buon fiuto per questo genere di cose. Lo sguardo, forzatamente severo di Simone, che aveva mantenuto fino a quel momento, si sciolse. Un lieve accenno di sorriso gli toccava le labbra, anche se gli occhi rimanevano malinconici e fissi sul figlio.
“Di te non posso che pensare tutto il bene possibile. Quello che ti è successo, succede ogni volta a milioni di ragazzini in tutto il mondo. È successo anche a me, anche al tuo professore di matematica. So che non scenderesti mai nei particolari di quello che ti dice e di quello che ti fa questo, come si chiama, Antonio. Fai bene. D’altra parte, fidati; anche noi non siamo scesi nei particolari del racconto. Però hai fatto ancora meglio a parlarci di questo problema, anche se non vedo tutto quel bisogno di raccontare quella mezza verità su Andrea. Ora, alla luce di quello che ti abbiamo raccontato, cosa pensi di fare? Capisci che non puoi rimanere in questa condizione per cinque anni, no? Devi fare qualcosa!” lo esortò Simone.
Giuseppe, dapprima rinfrancato per la risposta di suo padre, ammise di non saperlo.
“Normale! È successo anche a me quell’anno. Io però posso solo incoraggiarti e appoggiare o meno un’idea che deve essere la tua. Secondo me dormirci sopra ti chiarirà su quello che potresti fare!” rispose, enigmaticamente, Simone. Poi lanciò il messaggio, nella speranza che suo figlio lo cogliesse.
“Ah! Giuseppe mi ha detto una cosa: è vero che durante l’intervallo se ti picchiano in bagno non puoi rivolgerti ai professori?” chiese.
“Si! È una sciocchezza! Ma è così. Perché me lo chiedi?”
Simone non gli rispose. Si alzò e salì a dormire. Spiegò brevemente a Maria quello che era successo, e entrambi si addormentarono sereni. Solo Giuseppe ci mise un po’ ad addormentarsi. Aveva tantissimi pensieri. Quel racconto l’aveva scosso. Anche se aveva capito che ancora non sapeva tutto quello che era successo, quello che gli aveva detto suo padre l’aveva colpito. Cos’altro c’era da raccontare di quella storia? Non lo sapeva, ma la cosa che gli stava più a cuore era capire il perché dell’ultima domanda di suo padre. Poi Giuseppe comprese. Non solo comprese. Quella notte, Giuseppe, capì. Capì perché suo padre aveva rivolto la sua attenzione a quel particolare. Capì che come aveva fatto suo padre anni prima, arrivava un punto in cui l’unica possibilità per difendersi era attaccare. E risolse il suo problema.
Il mattino seguente si svegliò verso le undici e mezza e uscì con Andrea a fare un giro in bici. Comunque, appena suo padre lo vide, capì immediatamente che il problema era risolto e silenziosamente fu orgoglioso di suo figlio. Dopo pranzo una delle prime piogge autunnali lo costrinse a rimanere a casa a studiare e giocare ai videogiochi con Andrea. Dopo cena guardò un po’ di televisione.
Il lunedì mattina arrivò con la solita fretta. Arrivato a scuola, fece le prime due ore di italiano. Poi l’intervallo. Durante l’intervallo, quando il professore non era più in aula, Antonio gli si avvicinò. Per quella che ormai era diventata la solita sfilza di insulti e prese in giro rivolte a quel ragazzino fin troppo strano per lui.
“Guardatelo lo sfigato! Hai ancora paura di me? Corri in bagno, come hai fatto l’ultima volta. Non dirmi che hai pianto! Si vedevano gli occhi rossi quando sei tornato, sabato. Sei solo un povero mongoloide deficiente, che non ha neanche il coraggio di parlare”.
Giuseppe, immobile, aspettò che se ne andasse e lo lasciasse stare, ma Antonio non si muoveva. Si avvicinò anzi sempre di più a lui. Almeno ci fosse stato Andrea, ma era in segreteria! Antonio lo capì. E infierì. “Non c’è neanche il tuo amichetto a difenderti! Cos’è il tuo fidanzatino?” disse.
Tutti i suoi compagni si erano fermati a guardare quella scena. A qualcuno, evidentemente, Giuseppe faceva pena, gli altri sembravano quasi divertiti da quella conversazione a senso unico. D’altra parte Giuseppe non si era mai avvicinato a loro per tutta la settimana precedente. Quasi come se avesse voluto snobbarli. In fondo, pensava qualcuno, se la stava tirando troppo e qualcuno che gli desse un po’ di fastidio ci voleva. Si erano già dimenticati della difesa di Giuseppe davanti al professore della settimana prima.
“Vediamo se sai usare le mani, per difenderti” gli disse, spingendolo verso il muro. E spingendogli le spalle contro di esso.
“Non hai neanche il coraggio per farlo, eh?” chiese ancora più carico Antonio, continuando a burlarsi di quello strano ragazzino che non reagiva neanche. Anche gli altri suoi compagni non capivano. Si vedeva che Antonio era più grande di Giuseppe, ma Giuseppe faceva nuoto da otto anni. Insomma, aveva ragione quando aveva detto ai suoi che l’avrebbe polverizzato se avessero fatto a botte. E questo, Giuseppe lo sapeva. Anche alcuni suoi compagni l’avevano capito. Si chiedevano anche loro, quindi, perché non facesse niente.
“D’altra parte con quel cognome non puoi essere che uno sporco terrone sfigato!” aggiunse.
Giuseppe, cercò più volte di raggiungere l’uscita dell’aula, venendo sempre trattenuto da Antonio. Che lo guardava soddisfatto e contento di come riusciva a umiliare quel suo compagno.
“Questa volta ti lascio scappare. Se scappi in bagno però ti inseguo e ti spacco la faccia. Lo sai che non ci possono punire per qualcosa che facciamo in bagno durante l’intervallo?” disse ridendo. Primo errore: sottovalutare l’intelligenza degli altri.
-Oh! Era ora che dicesse una cosa del genere! Stavo per perdere la pazienza qui. Proprio come avevo previsto- pensò Giuseppe, mentre un lampo impercettibile attraversò i suoi occhi. Quello era il momento di agire. Corse via. Uscendo dall’aula e dirigendosi verso i bagni.
“Allora se l’è cercata!” disse ad alta voce Antonio correndo fuori e dirigendosi anche lui a tutta velocità verso i bagni. Tutti lo seguirono, tutti i suoi compagni di classe avrebbero anche pagato pur di vedere come andava a finire. “Vediamo se avete mai visto uscire così tanto sangue dal naso di uno!” urlò verso gli altri, correndo per raggiungerlo. Secondo errore: essere troppo sicuri di sé.
Giuseppe avrebbe potuto seminarlo come e quando voleva. Dapprima, però, corse lentamente verso i bagni, poi, quando fu sicuro del fatto che Antonio lo stesse inseguendo, accelerò, per costringere anche l’altro a farlo. E l’altro lo fece, per paura che riuscisse ad entrare in bagno e chiudersi dentro prima del suo arrivo. Terzo errore: troppa fretta di picchiare qualcuno.
Perché Giuseppe ebbe giusto il tempo di entrare, fare leva sul lavandino al proprio fianco e girarsi. Giusto in tempo per vedere Antonio che correva verso di lui. A quel punto niente e nessuno avrebbe potuto fermarlo.
Questo, però, era proprio quello che Giuseppe voleva. Più di ogni altra cosa. Che Antonio non si fermasse. Almeno fino al suo piede, che velocemente spuntò dal lato della porta.
Nessuno seppe mai se Antonio, quel piede, lo vide. Certo fu che non lo poté evitare o saltare. Né poté fermarsi. Lo prese in pieno. Spiccando letteralmente il volo. E finendo sul lavandino di fronte all’ingresso. Col viso. Perdendo due denti. E rompendone un’altro. Praticamente i suoi compagni furono tutti testimoni di quello che accadde e proruppero in risa e applausi. Risate per la figuraccia di Antonio. Applausi per Giuseppe, soprattutto, per aver risolto, definitivamente, il “problema Antonio”. Antonio si alzò rintronato dal dolore, tremante dallo spavento e rosso dalla vergogna. Giuseppe lo avvicinò. E gli disse, sottovoce, guardandolo fisso negli occhi: “ad insultarti ci penseranno loro. Io non lo farò mai. Ma se non la pianti di rompere le scatole a tutti con i tuoi modi di fare prepotenti, e non restituisci immediatamente tutti i soldi, ti prometto che questo è solo l’inizio. E guai se racconti in giro quello che è successo”
Girò i tacchi e se ne andò. Il professore dell’ora seguente non seppe niente di quello che era successo, finché non rientrò dall’infermeria lo stesso Antonio. Quando gli fu chiesto cosa gli fosse accaduto, questi rispose che era inciampato durante l’intervallo. Mentre rispose tenne lo sguardo abbassato, ma alla fine lo alzò e osservò Giuseppe. Prese una scatola dallo zaino e la diede al professore.
“Voglio chiedere scusa a tutta la classe, per il mio comportamento. Questi sono tutti i soldi che vi ho preso la settimana scorsa. Dieci euro a testa. Perdonatemi per il mio comportamento. Vi prometto che non lo farò più”
“Non è che questo centra con il fatto che sei inciampato durante l’intervallo?” chiese il professore. Poi guardò il suo omonimo, che gli sorrise. Senza che nessuno lo vedesse, ma in modo che il professore lo notasse, tirò fuori dall’astuccio una cosa e l’appoggiò sul banco. Il professore la vide e scoppiò a ridere irrefrenabilmente. Con una risata che, a parte Antonio, troppo dolorante e umiliato, coinvolse presto tutta la classe.
Mentre tutti si riprendevano dalla risata, Giuseppe, il professore, perdendo i cinque minuti di lezione meglio persi della sua carriera scolastica, scrisse un messaggio a Simone.
“ANTONIO MESSO KO NEI BAGNI. IL BULLO HA CHIESTO SCUSA E HA RESTITUITO I SOLDI A TUTTI. GIUS MI HA APPENA FATTO VEDERE UNA SCATOLETTA DI TONNO… TUTTO SUO PADRE!” 



N.d.A: Buongiorno a tutti! siamo così giunti alla fine di questo racconto. Erano ANNI che ce l'avevo da qualche parte, ed è incredibile pensare come tuttora, dovessi ricorreggerlo, troverei errori, cose che possono essere cambiate, migliorate, scritte in maniera diversa o semplicemente approfondite in base ai sentimenti e alla condizione emotiva che ho ORA.
Grazie a tutti per le recensioni, per averlo seguito, per averlo commentato. Grazie anche a coloro che con i loro pareri, "in forma privata", mi hanno detto cosa ne pensavano, quello che avrebbero voluto leggere nella storia e quello che non gli è piaciuto.
Insomma grazie a tutti voi!
La storia era già scritta e quindi non ho cambiato il racconto sulla base dei vostri (validissimi) suggerimenti. Non ritengo che sarebbe stato comunque giusto. Ma sapete che c'è?
Una storia che è già stata scritta non esiste fino a che non viene letta; è il lettore a dare vita ai personaggi, alle loro azioni, ai loro pensieri. Quando la vita, che il lettore dona a coloro di cui
legge la storia, è molto simile alla vita che ha pensato per loro colui che ne ha scritto la storia, credo che lo """""scrittore""""" abbia raggiunto il suo obiettivo.
Chissà, forse da qualche parte nello spazio tempo incontrerete ancora Simone, Maria, Giuseppe, Anna, Francesco, Emanuele, e chissà forse anche Marco e gli altri. Forse incontrete loro di nuovo su questo sito (magari dal 9 Gennaio :) ), forse li incontrerete per strada, in uno sguardo di una persona a voi nota o sconosciuta, in un altro racconto, in un discorso con vostri amici e parenti. Non importa.
Se qualche volta, in questi 5 mesi, avete passato qualche minuto in loro compagnia e quel minuto vi è parso piacevole, siategliene grati, come loro sono grati a VOI della vita che avete saputo dargli.
S
  
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