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Autore: SherlokidAddicted    22/12/2016    4 recensioni
- John, tu chi sei per me? – Si asciuga le lacrime con il palmo della mano. Mi sembra di guardare un bambino indifeso e impaurito. E quel bambino indifeso ha bisogno di qualcuno che lo aiuti e che lo sostenga, ed anche se non mi riconosce voglio essere io quel qualcuno che lo prende per mano e lo guida. Accenno un sorriso ed abbasso lo sguardo sulla punta delle mie scarpe.
- Vuoi davvero saperlo? – Lui annuisce. Il velo di paura nei suoi occhi sta pian piano svanendo, sembra ricominciare a fidarsi di me. – Ci arriverai da solo, con calma. -
Cosa mi passa per la testa, dite?
Perché non ho semplicemente detto “Sherlock, io sono tuo marito”?
Non lo so. Ho come l’impressione che questo sia il modo giusto per affrontare la cosa. In fondo non sa chi sono, credo che avrebbe reagito male se avesse saputo già da subito la verità. E questo non è mentire! Semplicemente lascerò che sia lui a capirlo… o spero a ricordarlo.
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Londra sa cos'ha rischiato di perdere




Piove. Le gocce di pioggia battono sui freddi vetri della finestra mentre la mia fronte vi è poggiata contro. Con la bocca semiaperta osservo il mio respiro appannare la superficie. Il rumore dell’acqua all’esterno riesce a cacciare via per un po’ i miei pensieri negativi.
Fa freddo, sento le dita delle mani congelarsi, nonostante io le tenga all’interno delle tasche dei jeans, oltre il camice sbottonato.
Va avanti da questa mattina. Non ha smesso di piovere nemmeno un secondo. Le nuvole hanno iniziato a coprire il cielo fin dalle prime luci dell’alba, sembrava quasi che sapesse che giornata orribile sarebbe stata oggi. Di solito adoro la pioggia, mi piace sedermi sulla poltrona davanti al camino, leggendo un buon libro mentre il suono dall’esterno distende i miei nervi e mi rilassa. Ma adesso tutto sembra così insopportabile che non riesco a reagire a nulla.
Le auto all’esterno vengono parcheggiate nei pochi posti rimasti vuoti. La gente scende di corsa, chiudendo lo sportello in fretta, poi corre e arriva sana e salva sotto la tettoia. La pioggia è troppo fitta per permettermi di vedere altro, ma tutto sembra essere deserto. Vuoto, come quello che provo.

Londra sa cosa ha rischiato di perdere, perciò tutto è grigio.

Non riesco a muovere un muscolo, tutto si è intorpidito nel mio corpo perché sono ore che non mi muovo di qui.
“Dottor Watson, perché non si accomoda in sala d’aspetto? Lì c’è una stufa!” Le infermiere hanno provato a smuovermi dal mio stato di trance, ma io non ho mosso un muscolo. Come avrei potuto affrontare tutti quegli occhi puntati addosso? Mi avrebbero guardando con pena, avrebbero sussurrato un “povero John, non immagino cosa stia provando in questo momento”, avrebbero di certo cercato di offrirmi un tè che secondo loro sarebbe servito per distogliere i miei pensieri dalla negatività e dal dolore, tè che inoltre proveniva dal distributore, rivoltante come sempre. Ma tutto ciò di cui ho davvero bisogno in questo momento non sono gli sguardi ed i favori compassionevoli. Ma la solitudine. L’unica cosa che mi avrebbe mantenuto calmo, nonostante il freddo penetrasse nelle mie ossa, facendomi tremare sul posto… ma non tremo solo di freddo.

Ho forse paura?

Il mio cellulare continua a vibrare nella mia tasca da più di dieci minuti. Ho intuito si trattasse di Sarah, arrabbiata per aver lasciato l’ambulatorio all’improvviso e nelle sue mani. Mi ricordo di aver fatto cadere lo stetoscopio sul pavimento, forse si è anche distrutto mentre raggiungeva il parquet chiaro del mio studio. Il paziente è rimasto a fissarmi con quello sguardo inebetito mentre mi precipitavo fuori dalla stanza. Sarah mi ha visto correre via e ho notato la furia nei suoi occhi mentre era intenta a gestire la confusione della fila in sala d’aspetto. Ma non c’era alcun medico. Io me n’ero andato, ero corso via, seguito dall’infermiere che era venuto ad avvertirmi.
Ho ancora il camice addosso, il cartellino appuntato sul petto e dal riflesso della finestra posso vedere gli occhi diventare lucidi, riempirsi di lacrime e inondare le mie guance. Il cellulare vibra ancora e per la rabbia lo afferro e lo lancio bruscamente contro il pavimento con un roco urlo di rabbia.

Perché la gente non capisce?

Perché non ha un minimo di umanità?

Perché è così egoista?

Devo aver urlato troppo forte, dato che ho visto Mycroft raggiungermi a passo svelto. Quell’urlo, però, è riuscito a tirare fuori tutte le mie emozioni, tutta la rabbia e la paura che fino a poco fa cercavo di trattenere. Sono scivolato seduto sul pavimento e ho cominciato a piangere nervosamente con la testa fra le mani, gemendo a voce alta e convulsamente.
- John! – Si è abbassato alla mia altezza e ha cercato con tutte le forze di tirarmi su. Non l’ho respinto, stranamente, ma senza parlare è riuscito a farmi smettere di piangere, mentre con la coda dell’occhio lancia sguardi al mio apparecchio telefonico ormai in mille pezzi.
È rimasto accanto a me per tutto il tempo. Veglia su di me in silenzio, aspettando una qualche notizia, mentre con la calma che sono riuscito a raggiungere cerco inutilmente di rimettere insieme i frantumi del mio telefono.
Poco dopo Mycroft mi ha convinto ad entrare in sala d’aspetto, anche se ho preferito distaccarmi dal resto del gruppo e sedermi in un angolo, ricevendo ovviamente gli sguardi di compassione che speravo di evitare.
I singhiozzi della signora Holmes, non ce la faccio più a sopportarli.
- Siete voi i familiari? – Mi alzo velocemente quando sento la voce del medico. Lo conosco, ci siamo visti più volte in ospedale. – Oh, dottor Watson, sapevo che sarebbe venuto. – Ha esordito subito dopo. Io sono rimasto in silenzio. Ormai tutti sanno di me e Sherlock, perfino i colleghi dell’ospedale con cui non ho mai parlato.
- Mi dica, dottore, come sta? – La signora Holmes, con i suoi occhi gonfi di lacrime e un fazzoletto stretto fra le dita, si è avvicinata prendendo la parola. Il medico ha sospirato, ma non è un respiro di sollievo quello. È il sospiro di quando qualcuno sta per darti una cattiva notizia, il sospiro che io chiamo “campanello d’allarme”, quello che mi fa cedere le ginocchia.
- Purtroppo le sue condizioni sono gravi. Ha un braccio e quattro costole rotte. Siamo riusciti a salvarlo, nonostante l’emorragia alla testa… ma adesso è in stato comatoso. – La signora Holmes ricomincia a piangere disperata e Mycroft ed il marito sono costretti a reggerla per farla restare in piedi e per impedire che le sue gambe la facciano crollare. Io non voglio cedere, ma mi mordo l’interno delle guance, gli occhi mi bruciano e non riesco a fermare quella lacrima che scivola giù dalla mia pelle e raggiunge il mento. Trattenere un pianto come quello mi provoca sempre un’emicrania terribile e sono costretto a massaggiarmi una tempia con le dita. La terra sotto di me trema e quasi inizio a barcollare. Non può succedere davvero, non a lui. – Ciò che possiamo fare adesso è aspettare. Ma avrà bisogno del vostro aiuto, della vostra presenza. -   
Ciò che il medico dice dopo non riesco più a sentirlo. Nella mia testa cerco di vedere la scena che l’infermiere mi ha raccontato mentre visitavo il mio paziente.

Sherlock esce di casa.

Sherlock attraversa la strada.

Sherlock viene travolto da un furgone.

Io non c’ero. È accaduto tutto mentre io non c’ero. Avrei potuto essere lì, avrei potuto spingerlo sul marciapiede, avrei potuto difenderlo, essere travolto al posto suo. E invece ero qui a lavorare, ignaro di tutto.
- Che ne dici, John? – Vengo riportato alla realtà dal signor Holmes che mi poggia una mano sulla spalla. Si sono rivolti a me ma io non ho la minima idea di cosa stessero parlando prima che mi immergessi nei miei pensieri.
- Cosa? –
- Vuoi entrare per primo? Per noi non c’è problema, anche perché mia moglie ha bisogno di riprendersi prima di vederlo. – Dice indicando la donna che si era accasciata su una sedia a singhiozzare. Annuisco lentamente e il medico mi accompagna alla stanza.
Prima che possa aprire la porta, gli chiedo con un sussurro di aspettare un attimo. Non credo di essere pronto a vederlo disteso su quel letto in quelle condizioni, so che mi farebbe male, che inizierei a sentire il cuore battere per colpa del panico. Mi prendo qualche secondo, poi annuisco e oltrepasso l’uscio insieme al medico e lui è lì. Sherlock è steso sul letto, ha gli occhi chiusi, è intubato, il braccio ingessato e il torace bendato… per un attimo sembra quasi che dorma, che mi basti soltanto scrollare la sua spalla per fare in modo che si svegli.
Lo guardo senza dire nulla e l’emicrania si fa sentire in modo molto più acuto. So perché. Sto cercando di trattenere ciò che la signora Holmes non è riuscita a trattenere poco fa.
- La lascio solo. – Il dottore abbandona la stanza e mi ritrovo piombato nel silenzio più totale. L’unico rumore che odo sono le macchine che tengono in vita ciò che resta di mio marito. Fuori piove ancora, sento anche la pioggia, ma ogni suono circostante svanisce nel momento in cui mi soffermo a guardare il suo viso ferito e la sua pelle ricoperta di lividi bluastri.
Accanto al letto si trovano due sedie, ne prendo subito una e la sistemo in modo da poter essere il più vicino possibile a Sherlock.
È vero, sono un medico, ma non mi è mai capitato di vedere un uomo (soprattutto uno a cui tengo così tanto) in coma. Quando nell’esercito si verificavano casi in cui io ero chiamato sul campo come dottore, si trattava sempre di ferite d’arma da fuoco e le opzioni erano due: l’intervento medico immediato, o la morte sul colpo. Mai un coma.
- Non posso lasciarti solo cinque minuti… - Ho sussurrato in preda ai tremori. Volevo che la mia voce risuonasse sicura e decisa, ma quando ho aperto bocca è uscito solo quel tono distrutto. La mia mano si poggia delicatamente sulla sua ed emetto un sospiro che spero possa essere in grado di aiutarmi a mantenere la calma. Afferro quella mano tra le mie e la porto sulla mia guancia, lasciando che il labbro inferiore sfiori il suo pollice caldo in un delicato bacio, e quando percepisco quel tocco le lacrime escono a fiumi senza che io possa fermarle. – Adesso mi ascolti, brutto idiota che non sei altro. – Mormoro con un filo di rabbia nella voce. – Questa non sarà l’ennesima volta in cui rischio di perderti. – Già, perché ho rischiato di perdere quell’uomo più di una volta: bastava pensare al suo finto suicidio, al colpo di pistola di Mary, all’assassinio di Magnussen… non doveva succedere di nuovo. – Quindi vedi di svegliarti… o ti strangolo con le mie mani, hai capito? – Sto singhiozzando, non avrei voluto ma lo sto facendo. Il cuore mi palpita impazzito nel petto mentre mi lascio andare a quelle lacrime. La mia mano si sposta fino ai suoi ricci ribelli e li carezza con devozione, poi mi sporgo quel tanto che basta per lasciare un bacio sulla sua fronte.
 
***
 
- Offro io, John. – Lestrade poggia le monete sul piattino che mette in bella vista il conto del nostro pranzo veloce.
- Greg, non ce n’è bisogno. – Dico prendendo dalla tasca posteriore dei jeans il mio portafoglio. Il mio amico, però, poggia la mano sulla mia poco prima che io possa prendere le banconote.
- John, non è un atto di compassione, credimi. È solo che offri sempre tu, fammi ricambiare il favore. – Lo guardo per qualche secondo senza dire nulla, poi sospiro e lo rimetto al suo posto.
- Solo per questa volta. – Mormoro portando le dita sulle tempie, massaggiandole nella speranza che questo movimento circolare mi aiuti a calmare l’emicrania insopportabile.
- Torni da lui dopo, immagino. –
- Perché, non lo faccio sempre? – Chiedo ironicamente, accennando un sorriso triste. Greg assaggia un altro po’ di birra, poi si lecca le labbra e si gira a guardare fuori dalla vetrata. Oggi fa schifosamente freddo, il vento è gelido e forte, vediamo la gente correre verso le proprie auto e sgommare via dopo aver messo al massimo i riscaldamenti.

Dopo quello che è successo, tutti questi giorni sembrano grigi e tristi.

- Passerò stasera, dopo il lavoro. Donovan voleva accompagnarmi. – Lo guardo leggermente stupito a quell’affermazione.
- Il sergente Sally Donovan? –
- Sì, voleva sapere le sue condizioni e ho pensato che avrebbe potuto accompagnarmi questa sera. – Io scuoto la testa e mi lascio sfuggire una risatina nervosa mentre butto giù velocemente gli ultimi sorsi di vino.
- Buffo come per tutta una vita quella donna si sia divertita a torturare psicologicamente mio marito e tutto ad un tratto… -
- John, è preoccupata come tutti. – Distolgo lo sguardo dal mio amico. Negli ultimi giorni Greg era diventato il mio confidente, la persona più vicina che abbia mai avuto.
Di solito nei momenti più bui della mia vita era Sherlock a farlo. Mi stava vicino come nessun’altro. A volte, grazie al suo fantastico intuito riusciva a capire quando mi servisse sfogarmi e parlare a raffica dei miei problemi, senza alcun suo giudizio negativo, mentre altre volte capiva quando non volessi parlare e si limitava a starmi vicino. Sapeva sempre di cosa avessi bisogno quando non parlavo per giorni per via dei miei incubi sulla guerra, o della sua improvvisata sul tetto del Bart’s.

Per quello mi ha chiesto scusa non so quante volte. Ma il fatto che fosse lì con me bastava a perdonarlo.

Quando durante la notte mi agitavo mi serviva sentire il suo braccio attorno alla mia vita per calmarmi. Capitava che continuassi a dormire tranquillamente, ma anche che mi svegliassi in preda ai tremori e mi ritrovassi i suoi occhi color ghiaccio puntati nei miei, in grado di trasmettermi il calore e la sicurezza di cui avevo bisogno.
“Va tutto bene, John”, diceva con quella sua voce baritonale, poi aspettava mi calmassi grazie alle sue carezze appena accennate sulla mia guancia, ed infine mi baciava e in poco tempo riuscivo a prendere sonno con il sorriso sulle labbra e il suo odore addosso, le mani intrecciate e le nostre fedi che con tenerezza si sfioravano.
Dopo l’incidente, Mycroft e Greg sono stati gli unici ad aiutarmi. Con il maggiore degli Holmes non era quasi possibile sfogarsi come si fa con un amico, era fin troppo orgoglioso e fin troppo impegnato, anche se a modo suo dimostrava il suo affetto nei miei confronti e in quelli del fratello. Greg è stato quello con cui ho pianto e mi sono sfogato. La persona con cui cercavo di distrarmi dal peso dell’assenza di mio marito.
- Le dirò di non uscirsene con dei commenti inappropriati. – Dice lui cercando di attirare la mia attenzione. – Ma prova a fare questo sforzo anche tu. – Annuisco, lasciandomi scappare un sospiro rassegnato.
 
***
 
Alla fine, quel giorno, Sally venne in ospedale in compagnia di Greg. Rimase muta come un pesce a guardare Sherlock disteso sul letto. Non parlò per niente, tranne che per salutare e mormorarmi un sincero “mi dispiace” prima di andarsene insieme all’ispettore. Dalla sua espressione non traspariva nessuna emozione. Sembrava di guardare una di quelle bambole di porcellana inquietanti che ti mettono soltanto in soggezione. Lestrade doveva averle fatto la predica prima di entrare nell’edificio... e aveva funzionato… o forse era davvero dispiaciuta?

Sherlock lo avrebbe capito.

- Oh, caro, volevo proprio dirtelo ma me lo ero quasi dimenticata. Come mai non ha la fede al dito? – Violet Holmes mi ha appena portato un po’ di tè dal distributore qui fuori. Il bicchiere di plastica scotta, e nonostante la qualità scarsa di quella bevanda, ne bevo un piccolo sorso per dare sollievo alla mia bocca secca. Ho sempre la bocca secca quando sono nervoso, ansioso o preoccupato. Avrei bevuto di tutto pur di far passare il fastidio. Sono passate quasi due settimane ma lui non ha ancora aperto occhio... ma in compenso le fratture si stanno pian piano risanando.
Lo sguardo mi cade sull’anulare di Sherlock, prima di poter spiegare a mia suocera come mai l’anello non si trova lì.
- Dopo l’incidente sono andato a casa a cercare di capire come si erano svolte le cose e… la fede era in bagno, sul mobiletto accanto alla vasca. Sherlock non è mai stato uno che tiene particolarmente ai beni materiali, ma per quella fede aveva una specie di ossessione. Prima di fare il bagno la toglieva sempre, aveva paura di rovinarla. – Il pensiero mi fa sorridere. Riesco ad immaginarmelo nella vasca, con la sua pelle bianca e diafana, splendente per le piccole goccioline che la ricoprono, con i ricci umidi e il sorriso sulle labbra mentre si rigira l’anello tra le mani perfettamente asciutte. – L’ho messo nel suo cassetto. – Le mie dita scorrono dolcemente fra i suoi ricci scombinati, spostandogli piano quello sulla fronte. Violet mi guarda con un sorriso intenerito misto alla tristezza. Quando mi accorgo che i suoi occhi sono puntati su di me, ritiro piano la mano e tossicchio imbarazzato. Non eravamo soliti a mostrare il nostro affetto reciproco davanti ai suoi genitori.
Cala un silenzio imbarazzante nel quale mi premuro di finire la bevanda calda, tenendo gli occhi fissi sul viso rilassato di Sherlock. La signora Holmes gli ha preso la mano e adesso la accarezza con il pollice tremante.
Dopo il primo giorno non ha più pianto. Si stava trattenendo come mai aveva fatto prima. Diceva che con le lacrime non avrebbe risolto niente. Diceva che se fosse stata forte per lui allora si sarebbe svegliato prima o poi, solo che… riesco a vedere i suoi occhi pungere in ogni secondo della giornata, ogni volta che è qui a guardare il figlio steso su questo maledetto letto.
Siger Holmes e Mycroft, invece, preferivano esternare le proprie emozioni quando erano da soli con lui. Loro non piangevano davanti agli altri. Il maggiore doveva mantenere la sua reputazione da uomo di ghiaccio, mentre il padre… lui era ottimista. Preferiva sorridere e contagiarti con il suo ottimismo, invece di piangersi addosso. Forse era proprio il marito che riusciva a fare in modo che Violet non crollasse ancora una volta.
- Quando si sveglierà gliele suonerò! – Dice con un tono divertito e malinconico allo stesso tempo, tenendo ancora le sottili dita a contatto con quelle immobili del figlio. – Per avermi fatto prendere uno spavento così. – Come medico so che dal coma c’è una ben precisa percentuale di gente che si risveglia, e Violet sembra proprio leggermi nel pensiero mentre punta gli occhi lucidi su di me. – Ce la farà, John. – E poi non dice altro, la sua non è una speranza, è una certezza.

Quella certezza rassicura anche me.
 
***
 
Sono passati altri quattro giorni e io non mi sono mosso dall’ospedale se non per prendere abiti di ricambio a casa nostra o per pranzare e cenare in compagnia di Lestrade o dei signori Holmes. L’ambulatorio adesso è sotto la supervisione di Sarah, alla quale ho spiegato tutto il giorno dopo dell’incidente. Non immaginate quanto si sentisse in colpa per quelle telefonate. L’ho perdonata, in fondo non poteva saperlo.
Sono sempre qui, su questa cavolo di sedia accanto a quel cavolo di letto, e sopra di esso mio marito è ancora incosciente. Ci sono stati momenti in cui lo vedevo muovere le dita, cambiare espressione del viso… e una volta mi è capitato anche di vederlo piangere, di vedere le sue lacrime scorrere via dalle sue guance e finire sul cuscino. Normali reazioni di una persona in stato comatoso. Si dice che siano segnali del fatto che il paziente capisca e ci senta. Per questo non smetto mai di parlare con lui, ci parlo tutte le sere implorandolo di riuscire ad aprire gli occhi. Ma segni di risveglio… nemmeno uno.
Nella stanza con me c’è solo Mycroft. Poco fa è passata la signora Hudson, ha pianto tutto il tempo.
- Stavo pensando… - Dico, catturando l’attenzione di Mycroft, poggiato con tutto il peso sul suo fidato ombrello nero. – Che magari potrebbe andare a stare dai tuoi quando verrà dimesso. –
- Fuori discussione. – Lo guardo inarcando un sopracciglio, senza capire il perché di quella risposta. – Viste le sue condizioni attuali, sono sicuro avrà delle conseguenze negative, e tu sei un medico, John. Stare accanto a te tutti i giorni potrà aiutarlo, e tu sarai in grado di sapere cosa fare. –
- Ma sono soltanto un medico di base, non sono portato a seguire terapie post traumatiche di questa gravità! – Esclamo rivolgendo uno sguardo sorpreso al maggiore degli Holmes, che non ha smesso un secondo di guardare il fratello.
- Questo lo so. Ma ne ho parlato con i miei genitori. Tu sei suo marito e sei un medico. Hanno detto che si sentono più sicuri se sarai tu a badare a lui, e sinceramente sono d’accordo con loro. Potrai stare attento alle medicine che deve prendere, costringerlo a farlo, dato che è un testardo. Entrambi sappiamo quanto tu sia l’unico a cui dia ascolto senza batter ciglio. Inoltre braccia e costole rotte sono il tuo campo. – Cerco di dire altro per controbattere, ma lui mi interrompe prontamente. – Ci sarà anche un’infermiera se serve, e noi saremo disponibili tutti i giorni, passeremo al 221b per aiutare, se no perché avrei permesso che la mia tranquillità quotidiana venisse intralciata da quei due zoticoni? – Lo vedo sorridere divertito alla sua stessa affermazione rivolta ai genitori. Non lo pensa davvero, vuole solo smorzare la tensione tangibile, e per un attimo ci riesce, perché anche io mi ritrovo a sollevare l’angolo delle labbra.
La conversazione finisce qui per due motivi: il primo, è calato un silenzio imbarazzante. Mycroft non è un infallibile conversatore e non parla se non ne sente il bisogno o se non gli viene posta una domanda specifica. Il secondo, Sherlock ha appena mormorato qualcosa.
Ci giriamo verso di lui all’istante, con la stessa espressione speranzosa dipinta in volto. È un mormorio che nessuno dei due riesce a capire, ma poi le sue palpebre tremano appena prima di aprirsi lentamente e puntarsi sul soffitto. Mi avvicino e afferro saldamente la sua mano, mentre Mycroft si precipita fuori dalla stanza, probabilmente per chiamare un medico.
- Sherlock? – Chiedo con voce tremante mentre mi sporgo di più per far puntare il suo sguardo su di me. Lui mormora ancora qualcosa e riesce a far muovere leggermente il braccio sano. – Sherlock? – Dico ancora, finché il suo mormorio risulta comprensibile, nonostante il modo in cui sussurra faticosamente per riuscire a farsi capire.
- Dove sono? – Una lacrima sfugge dai miei occhi, e allo stesso tempo dalle mie labbra nasce un sorriso di puro sollievo, mentre mi abbasso a lasciare un bacio sulla sua fronte.
- Oh, grazie a Dio! – La mia voce è rotta dall’emozione mentre pronuncio quelle parole al soffitto, come a rivolgermi alla Divinità in persona, grato del miracolo appena avvenuto. – Sei in ospedale, Sherlock… andrà tutto bene, sta arrivando un medico e… -
- Tu chi sei? -

Il mondo mi crolla addosso, sono certo di non stare più sorridendo per l’immensa gioia.

Per un attimo mi sembra di capire male, insomma… sta parlando a voce troppo bassa perché qualcuno riesca a sentirlo, magari mi sono sbagliato.

Spero di essermi sbagliato.

- Cosa…? –
- Chi sei tu? E Sherlock… sarei io? È il mio nome? – Piange. Dai suoi occhi sgorgano lacrime incontrollate che bagnano la stoffa del cuscino.
Mi sembra di non capire più nulla. Sento le mura tremare attorno a me, e lo stesso fa il pavimento sotto ai miei piedi. Sento che sto precipitando nel vuoto e che non ho via di scampo, che l’unica cosa che incontrerò alla fine della mia caduta sarà solo il freddo suolo.
- Ti prego… dimmi che ci faccio qui. – Sta singhiozzando, anche se la sua capacità di parlare è scarsa. A malapena odo i suoni che escono dalla sua bocca. Ma è Sherlock. Lo capisco sempre. – Ti prego… che sta succedendo? – è spaventato a morte ed ha iniziato a stringere la mia mano con le sue poche forze.

È spaventato e non mi riconosce.

Ora posso confermare di star vivendo un altro dei miei incubi nella dura e cruda realtà.




Note autrice:
Vi avevo accennato al fatto che stessi lavorando a questa storia già dalle note della serie di "The side of the Angels".
Questa storia è nata dopo che ho visto un film di David Tennant (Recovery, appunto) che mi ha fatto piangere come una disperata, vi consiglio proprio di vederlo perchè è magnifico.
Le vicende trattate qui sono simili a quelle del film.
Spero che vi piaccia, ho impiegato molto a scriverlo.
Un bacio e al prossimo capitolo!
  
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