Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Chemical Lady    23/12/2016    2 recensioni
"La tradizione vuole che i soldati che muoiono oltre le Mura diventino stelle" aveva iniziato lui con quel suo tono che aveva un che autoritario anche mentre suonava rassicurante, facendole alzare gli occhi sulla volta celeste con un cenno. "Il loro ardore non smetterà mai di risplendere e illuminare il cammino di coloro che verranno dopo. Per ogni vita che si spezza, si accende una luce."
Lei sapeva che quello era un contentino, una storia per bambini, ma per il cielo, la forza che le aveva dato quel discorso l'aveva rinvigorita. Suo fratello sembrava crederci sinceramente. Una tradizione della Legione, della loro gente, di quelle persone che conoscevano il dilaniante dolore della perdita come lo conosceva lei. Nina non aveva mai capito cosa significasse davvero appartenere a qualcosa, prima di tornare dalla sua prima missione e scorgere sul volto dei compagni lo stessa amarezza che provava lei. Ma anche la stessa forte determinazione nel voler davvero credere che, quelle luci, non si sarebbero mai spente o avrebbero smesso di vegliare.
[[ Levi x OC || Un sacco di OC, like un sacco davvero]]
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Hanji, Zoe, Irvin, Smith, Levi, Ackerman, Nuovo, personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

 

Capitolo Tredicesimo, parte Prima.

 

 

 

Boku wa kodoku sa  douka sono mama de 
Kimi ga warau tabi ni  naku naru hazu mo nai no ni 
Kizu kara me wo sorasanai you ni 
Nikushimi yo soba ni ite  kimi wo koroshitai kara
https://www.youtube.com/watch?v=uNjKYBnRbdE

 

 

Anno 846

Irsee, ad un’ora di marcia verso nord dal distretto di Trost.

 

 

 

Il sole era tramontato da un paio di ore quando Levi fece ritorno ad Irsee.

Non si recò immediatamente al quartier generale della Legione, prediligendo al solito pasto frugale, una cena degna di questo nome, in compagnia di colei che l’aveva accompagnato per tutta quella strada.

Non era strano vedere Jara Meier cavalcare verso Trost, specialmente da quando suo padre aveva deciso d’esser troppo anziano per presiedere ad ogni raduno della Gilda dei Medici.

“Sarà presente per il comizio di fine semestre, fra poco più di una settimana; per questo ha deciso di mandare me a portare questa documentazione urgente” è stata la sola cosa che la bionda valchiria aveva detto al soldato quando si erano rimessi in marcia subito dopo la fine della celebrazione per le esequie di Wilhelm Müller. Il funerale si era svolto nel primo pomeriggio, ma Levi si era rifiutato categoricamente di rimanere per la notte a Stohess, nonostante gli fosse stata offerta ospitalità con una cortesia un po’ fredda, ma sentita. L’atmosfera in quella casa era irrespirabile. A stento aveva scambiato due parole con Erwin, il quale aveva trascorso gran parte del tempo con la madre. Levi si era sorpreso di vederla esprimere una qualche sorta di emozione, ma il passare dalla totale noncuranza all’isteria l’avevano parecchio stupito. A sentir Friedelhm, che persino nel lutto pareva comunque non perdere quella sottile quanto sarcastica vena critica, a stento si era resa conto di aver perso una figlia. Al contrario, di fronte alla consapevolezza di essere vedova per la seconda volta, aveva perso la testa. Alla fine, dopo l’ennesimo litigio con Alma, al termine del quale erano volate parole davvero forti, era stata accompagnata dallo stesso figlio nella sua stanza, dove Franz Meier l’aveva sedata affinché potesse dormire.

Al culmine di quella pietosa scena quasi tutti si erano dileguati. Il dottor Meier aveva preso con sé sia Leopold che Rielke ed era tornato a Mitras, raccomandandosi con Jara di portare quei documenti. Levi li aveva visti partire rimanendo in piedi al fianco della biondona, a pochi passi dalla carrozza. Rielke era così pallido da far luce, mentre Leopold pareva così stanco da sembrare sveglio da mesi.

In conclusione, anche loro avevano lasciato Stohess e lui non aveva nemmeno avuto il tempo e la voglia di salutare il suo Comandante.

 

Ci stava ripensando in quel momento, alle urla di Alma e all’espressione sul viso di Erwin, di fronte a una tazza di the nero e un piatto pieno di carne, nella taverna di Rheva. Ora che la padrona di casa aveva trovato un compagno di vita, suo zio Peter le aveva ceduto del tutto l’attività e lei, che ben sapeva intrattenere gli ospiti, zampettava qua e la con caraffe ricolme di birra, che offriva agli attendenti dell’osteria per festeggiare il suo fidanzamento.

“Un gran lutto per ogni legionario” fu il commento di Jara, che fece ridere l’altra donna, mentre le riempiva il boccale sino al bordo “Ora che tu ti sposi non avranno più un motivo per tornare dall’esterno.”

“Rammaricata per loro” le rispose la bella donna, mostrando loro l’anello un po’ pacchiano, con un brillante al centro di una raffinata montatura d’argento. Doveva essere costato parecchio. “Qui però non c’è spazio per queste constatazioni. Continueremo a bere tutta la notte.”

“Finirai in banca rotta!” Jara rise mentre spergiurava quel monito, guardando Rheva tornare dietro al bancone per prender qualche ordinazione da un gruppo di viandanti appena arrivati “Sono queste le cose che amo, appena tornata da un funerale: ottima birra e buona cucina.”

“Mi sto chiedendo chi glielo dirà.”

Jara si voltò verso Levi, che stava parlando assorto, forse più a se stesso che a lei. Sbuffò una mezza risata, picchiettandogli il gomito nelle costole “Dire a Rheva che non dovrebbe regalare la birra? Sono anni che ci proviamo. Come era la sua filosofia? I legionari pagano la metà e i gendarmi il doppio?”

“Chi dirà a Nina che suo padre è morto, quando sarà tornata.”

Quella riflessione ebbe un effetto mortificante su Jara, sul cui viso non vi era più posto per il solito sorriso sornione. Esso di fatti morì, sparendo dalle labbra rosse, sostituito da un’espressione ben lontana dall’esser divertita “Hai rovinato l’atmosfera” gli rispose senza pietà, tagliando un pezzetto dalla bistecca un po’ asciutta e portandoselo alla bocca. Poteva però condividere la sua frustrazione. Nina voleva molto bene a suo padre, era più legata a lui che alla madre e, certamente, al suo ritorno le si sarebbe spezzato il cuore. Perché Jara era certa che Nina fosse viva esattamente come suo fratello Fritz. Dopo più di un anno dalla perdita delle terre di Maria, lei ancora aspettava, ogni giorno, che tornasse a casa. Non chiudeva mai la porta di ingresso con il catenaccio, né spegneva la lanterna appesa fuori dall’arcata di siepe ed edera del cortile. Fritz era da qualche parte là fuori, perso nelle terre dei giganti e sarebbe tornato, un giorno.

Così come sarebbe tornata anche Nina.

“Forse dovrebbe dirglielo Mieke” osservò pensieroso Levi, rivelando che quella fonte di preoccupazione stava davvero ammorbando la sua mente, come un tarlo “O magari Rielke. Sono sempre stati molto attaccati, quei due. Non credo che io o Erwin saremmo in grado di darle una notizia del genere come si deve. Erwin soprattutto, visto che non ha pazienza. Non ha nemmeno atteso il quarantesimo giorno per portare la notizia della morte di sua sorella a casa.”

“Nina ti ha mai parlato dello studio per l’elaborato finale dell’università ?”

Levi alzò gli occhi dalla tazza, spostandoli in quelli di un celeste statico della donna. Scosse il capo, chiedendosi cosa mai potesse c’entrare con la loro discussione e perché avesse chiesto una cosa del genere così, a bruciapelo.

Lei sorrise soddisfatta, prendendo un sorso generoso dal boccale di birra, senza preoccuparsi di pulire il labbro superiore dalla schiuma “Non c’erano i soldi per farle frequentare i corsi. A dire il vero c’erano, ma i signori Müller non avrebbero mai lasciato che mio padre facesse di loro figlia un debito. Lui, però, ha fatto di meglio: l’ha presa con sé ogni giorno, in ospedale, e ha fatto di lei un medico. Quando è stato il momento di scegliere in che branca della medicina specializzarsi, Nina ha scelto quella con la quale ha finito con l’averci a che fare di più: la chirurgia.”

Egli si appoggiò con il mento al pugno chiuso, passando gli occhi sui piatti della casa. A un occhio inesperto pareva quasi che non stesse ascoltando nemmeno una parola, mentre, al contrario, aveva registrato ogni informazione. “Un chirurgo da campo.”

“Un chirurgo. Che poi lavori su un bel tavolo di ferro sterilizzato o sotto la pioggia, in mezzo al fango, poca differenza fa. Per i metodi, si intende, perché per il paziente la differenza la fa eccome.” Jara si concesse una breve risata, scansando la lunga treccia bionda dalla spalla senza cura, mentre beveva ancora “Io le ho consigliato una tesi sulle infezioni post operatorie. Lei ha deciso invece di imbarcarsi in un lavoro puramente empirico che tutti noi, mio fratello e mio padre compresi, abbiamo cercato di sconsigliarle in ogni modo.”

“Parla semplice, Jara. Io, la laurea, non ce l’ho.”

“Un lavoro d’osservazione” semplificò quindi, mettendo entrambe le mani sul tavolo, sotto al naso piccolo dell’uomo, come per spiegargli ancor più chiaramente il concetto “Molti interventi, sopratutto i più invasivi, non vanno a buon fine. Che sia in ospedale o oltre le Mura, ogni chirurgo sa che alla base della medicina ci sono tante teorie che spesso, nella pratica, non funzionano. Le persone muoiono, non importa quanto il medico sia bravo o competente; anche la più piccola infezione può uccidere. E poi, cosa succede? Nina una volta mi ha guardato, con quei suoi irrazionali occhi chiari, e mi ha detto: il morto è morto. Poco importa ormai, ma chi rimane? Cosa succede a chi rimane? Così ha scritto di questo. Per pagine e pagine di elucubrazioni mentali tra le più disparate, riportando tanti esempi, tanti casi.” Fece una pausa, incrociando le mani sotto al mento e socchiudendo gli occhi, mentre spiava assorta la luce della candela posta al centro del tavolo “Alla fine di questo ambizioso progetto, Nina ha teorizzato tre fasi di passaggio che ciascuno di noi prova quando un nostro caro viene meno: lo shock della perdita, la negazione della realtà e  la rabbia. Solo così si giunge, in fine, all’accettazione del dolore. Ognuno ha i suoi tempi, certo, però tutti noi proviamo queste forti emozioni. Io, per esempio, secondo mio padre non ho ancora superato la fase della negazione per ciò che è successo a Fritz.” Fece una pausa, perché affrontare quel discorso non era mai semplice e, per quanto determinata, era scoraggiante pensare che forse non sarebbe mai tornato sul serio, che magari stava aspettando una persona ormai morta da oltre un anno. “Il punto è uno solo: Nina è pronta. È sempre stata pronta. Da quando è entrata nella Legione è cambiata, non è più la ragazzina pigra, ma ambiziosa che è cresciuta a casa nostra, imparando a mettere i punti da sutura cucendo il retro del divano del salotto insieme a Friederich. Non dovresti preoccuparti di questo, ma piuttosto di andarla a riprendere.”

“Ci stiamo lavorando” fu il commento secco dell’uomo, appoggiandosi con il mento al pugno chiuso, mentre allontanava il piatto ormai vuoto da sotto il naso “Hanji e un altro paio di commilitoni stanno cercando di convincere Zackley proprio in questi giorni.”

“Capisco” sospirò, la dottoressa Meier, girandosi quel boccale fra le mani e omettendo, per una volta, di guardare il suo interlocutore, forse temendo di vederlo chiudersi a riccio da un minuto all’altro. Non avevano finito. “Hai pensato come farai a chiarire con Nina?”

Lesti, gli occhi affilati di Levi scandagliarono il volto di Jara. Lei era una delle pochissime persone al mondo che non provavano soggezione di fronte a quello sguardo di ghiaccio, infatti non tardò ad incontrarlo.

“Cosa ti fa pensare che devo chiarire con lei?”

“Ho imparato a conoscerti. Avanti, Levi, smettila di fare il difficile e dimmi cosa è successo.”

Lui parve parecchio restio a parlarne, ma Jara aveva ragione quando aveva affermato con così tanta caparbia di aver imparato a conoscerlo. Cosa più importante, lui ormai sapeva di che pasta era fatta quella donna e sapeva che non avrebbe ceduto facilmente. Prese un respiro, reprimendo un’imprecazione e poi parlò “Un’incomprensione. Non è successo niente se non un’incomprensione. Nessuno dei due ha saputo far fronte alla cosa e ci siamo ritrovati a non parlarci come due mocciosi. Alla fine, per colpa della mia cocciutaggine e del suo orgoglio, siamo andati avanti per più di un mese ai ferri corti e quando Erwin ha fatto le squadre per la missione, lei ha chiesto il trasferimento in quella di un altro superiore. E si è ritrovata là fuori da sola. Questa è la storia.”

Jara annuì, “Capisco. È tutto?” chiese quindi, certa che pretendere di sapere il motivo di quell’incomprensione fosse eccessivamente indelicato anche per una ficcanaso di prima categoria come lei. La risposta di Levi rischiò di farle andare di traverso la birra.

“A dire il vero no. Lei è andata a letto con un altro uomo e di questo dobbiamo ancora parlarne come si deve.”

Portando il tovagliolo alle labbra, decisa ora a levare la schiuma e quel poco di birra che le era colato sul mento, Jara lo guardò sorpresa “E tu lo conosci, questo uomo?”

“Certo, anche lui fa parte della Legione di Trost.” Non sapeva esattamente cosa lo portasse ad essere così tanto loquace. Forse perché sopportava Jara nonostante chiedesse più di quanto le spettasse sapere o forse perché si era tenuto tutto per sé in una situazione così delicata, eppure Levi non pareva intenzionato a mandarla al diavolo e dirle di farsi gli affari suoi. Al contrario, proseguì nel parlare “Le ultime cose che ci siamo detti, eccetto questa bella rivelazione, sono state da veri stronzi. Da entrambe le parti, abbiamo giocato sporco. Quando io le avevo detto che poteva avere uomini migliori di me, lei mi ha risposto che ne aveva già trovato uno e che io ho rovinato tutto. Credo stesse parlando di tuo fratello.”

“Ci siete andati parecchio pesanti.” Jara scostò i capelli dal viso, sentendosi improvvisamente accaldata. Forse non era tutta colpa della bevanda. “Quando tornerà, gliene parlerai. Per quanto io voglia bene a mio fratello e lo ritenga una persona meravigliosa, una delle migliori che abbia mai conosciuto, non esiste uomo che possa concorrere con te, per il cuore di quella stupida ragazzina.”

“No, non hai capito” Levi la interruppe, con una determinazione nuova della voce che lo infiammava, facendolo uscire dall’apatia nella quale solitamente rimaneva immerso “Non c’è proprio niente da dire. Non mi importa chi si sia scopata o cosa l’abbia spinta a farlo. Dal mio punto di vista, considerata la situazione di merda, ha fatto quasi bene. Non glielo rimprovero, a me non interessa. Voglio solo che torni, perché una persona viva può riscattarsi molto meglio di una persona morta.”

 

Per il resto della serata, si concessero di parlare di argomenti meno impegnati o dolorosi. Jara declinò l’invito di dormire al quartier generale, preferendo la stanza che Rheva poteva metterle a disposizione.

Quando si separarono, la dottoressa pagò il conto per entrambi.

“Il prossimo giro lo offrirai tu, Caporale.”

Si salutarono, con una stretta di mano e la promessa di passare più spesso per la Capitale da parte del legionario, contornata da qualche parola di circostanza di Jara. Era più fiduciosa lei, in quella brutta situazione, di chiunque altro.

Quando a Levi non rimase altra scelta se non fare ritorno al castello, preferì condurre Meruka per le redini piuttosto che montarle sul groppone. Si godette tutto di quella passeggiata, dalla luce delle stelle e della luna che rendevano il sentiero pienamente visibile, fino alla brezza leggermente fresca di quella notte estiva.

Ad attenderlo non trovò ovviamente nessuno. Sistemò al meglio la sua cavalcatura nella stalla, prendendosi il tempo di sbrigliarla e passarle sul pelo irto del groppone a causa del panno una spazzola dalle setole rigide.

L’atrio del castello era deserto quando vi entrò e le lampade ad olio quasi tutte spente. Levi si fece strada a memoria, salendo la prima rampa verso gli alloggi femminili degli ufficiali. Non aveva più dormito in camera di Nina, dopo il loro primo litigio, ma dopo la missione all’esterno vi era tornato. Solo a quel punto, mentre girava l’angolo verso il lungo corridoio delle camerata, trovò una luce ad attenderlo.

Flebile e pallida, ma calda, c’era una candela accesa fra le mani di Petra Ral. Cosa lei ci facesse lì era un bel mistero, visto che gli alloggi delle reclute erano al quarto piano.

Levi comunque non lo chiese, limitandosi a guardare con espressione criptica la giovane, quasi come se attendesse di vederla spostarsi per poter passare. Lei, d’altro canto, trasalì alla sua presenza lì e si immobilizzò.

“Sono venuta a cercare il caposquadra Zöe” si giustificò anche se non interpellata lei, tirando il bordo della vestaglia bianca con la mano libera per coprirsi meglio il petto “A cena non c’era e-”

Hanji è partita stamattina alla volta del distretto di Utopia. Non tornerà prima di qualche giorno dalla Capitale” fu il commento laconico dell’uomo, che le girò attorno quando capì che lei non si sarebbe spostata nemmeno di mezzo centimetro.

“Caporale!”

Petra realizzò che aveva alzato la voce nell’esatto istante in cui ormai, l’aveva fatto. Semplicemente, non voleva che lui andasse via, non in quel momento. Il moro percepì qualcosa nella sua voce, forse un’urgenza o comunque una qualche sorta di malessere, quindi per giusta misura si voltò nuovamente verso di lei. Dopotutto era un superiore e lei era fuori dalle brande dopo il coprifuoco. Non voleva scocciature di sorte, quella specifica sera.

Ral.” La chiamò stanco, quasi pregandola, ma lei proseguì.

“Possiamo parlare?” lo chiese con la voce piccola, quasi infantile. E maledettamente bisognosa.

Lui, però, non volle sentire ragioni “Non fai parte della mia squadra” replicò secco, come se non volesse sentire nessun’altra replica “Dovresti cercare il tuo diretto superiore e-”

Sankov” In un impeto di coraggio, Petra lo interruppe “Sankov era il mio superiore.”

A quel punto, non c’era molto altro da dire. Levi capì anche esattamente di cosa la ragazza volesse parlargli. Sbuffò, irritato, perché non voleva sentir storie. Non di quel tipo, quanto meno “Se ti senti in colpa, se pensi che avresti dovuto trovarti tu là fuori al posto di Nina, allora mettiti l’anima in pace e va’ da Rosemberg a farti prescrivere qualcosa per farti dormire.”

Aveva fatto un danno. Un altro.

Petra era sbiancata, perché persino alla pallida luce della candela poteva notarsi la sua espressione presa in contropiede “Io non- volevo solo dire che la mia intera squadra è morta mentre io ero stata riassegnata ma…. Caporale ha ragione, avrei dovuto trovarmi io là fuori al posto del Sergente. Mi dispiace.”

Levi si portò la mano al volto, prendendosi il naso fra pollice e indice. Maledetto lui “Dimentica ciò che ho detto” la liquidò, senza mezzi termini, dandole le spalle. Non era fatto per quel lavoro “Ti ripeto che Hanji tornerà a giorni, ma se vuoi parlare ci sono altre donne nel nostro corpo. Parla con la Klein, con sua sorella o con Nababa. Buonanotte.”

Si chiuse nella camera del Sergente, sfuggendo al guaio combinato come lo stronzo codardo che era. Non aveva il cuore o la testa per prendersi cura anche di un’altra persona. Parlarne con Jara era un conto, ma Petra Ral?

Nemmeno la conosceva. A mala pena ricordava il nome e solo perché l’avevano assegnata alla sua squadra provvisoria. Non gli dispiaceva nemmeno di non poterle essere di aiuto, perché lui non era la persona giusta con cui poter parlare. Lui stesso avrebbe avuto bisogno di essere consolato o ascoltato in qualche modo e, per quanto si fosse sfogato con una persona fidata per tutto il pasto, non era bastato.

Peccato che non fosse rimasto nessuno in quel castello con la confidenza giusta per costringerlo a riversare i fiumi di merda che aveva nella testa in quel momento.

I rintocchi della campana del villaggio gli ricordarono perché non aveva la testa per altro, riportandolo bruscamente alla realtà. Era scoccata la mezzanotte ed era ufficialmente il compleanno di Nina.

“Un anno vieni rapita” commentò a voce alta, lasciandosi cadere sul letto, con le gambe a penzoloni, senza nemmeno prendersi la briga di spogliarsi delle cinghie dell’attrezzatura “Un anno vieni rapita, un anno ti prendi cura di un malato e quest'anno ti sei persa tra le terre dei giganti. Prima o poi riusciremo a festeggiare senza tragedie, ragazzina.”

 

 

 

 

 

Kako wo mitashiteiru tsumi ga tsukutta boku de aru tame ni 
Eiensei no NAIFU de kioku no Signal  kizamareteru no ni 
Itami sae keshisatte shimau kizuna no Spiral 
Mayoikonda boku wa boku ni kiekakureteiku

 

 

Anno 845

La grande epidemia di Trost.

 

 

 

-Il regolamento del Corpo di Ricerca afferma che, qualora vi fosse un disperso, è necessario attendere trentanove giorni prima di comunicare alla famiglia il suo decesso. Allo scadere del periodo di attesa, ovvero il quarantesimo giorno, il fascicolo in questione viene bollato dal segretario del corpo, da in servizio a disperso in azione. -

La tradizione voleva, invece, che si attendesse fino all’alba del quarantunesimo prima di cambiare quello status, da vivo a morto.

 

Un po’ per scaramanzia, un po’ per speranza.

 

Nina aveva atteso quaranta giorni precisi prima di salire a cavallo, recandosi senza fretta, verso il distretto di Utopia. Voleva essere presente, il giorno successivo o quello dopo ancora, nel momento in cui il Capitano di Nedlay si fosse presentato all’uscio dei Meier per potare loro la notizia che Fritz non sarebbe mai più tornato a casa.

Alle sue spalle aveva lasciato una Trost al collasso, perché dopo un mese e dieci giorni dal crollo di Maria, non vi erano stati miglioramenti. Nessun intervento straordinario, disposizione dalla corona o da Zackley stesso, che pareva essersi chiuso in un mutismo meditativo che non lo rappresentava per niente. Né serviva a molto. Una buona parte degli esuli era stata allontanata dalla città per paura dello scoppiare di una pandemia o di lotte per i pochi viveri a disposizione. Nonostante ciò, più della metà risiedeva ancora nel distretto e la medesima situazione si presentava anche a Karenese, Nedlay e Clorba. Nel castello della Legione di Irsee erano state ospitate quante più persone possibili, per garantire loro un tetto sulla testa e un letto – nel migliore dei casi – ma la mancanza di cibo aveva reso il clima ancor più teso.

Nonostante il pessimo umore, andavano avanti, cercando di far fronte anche alle continue incomprensioni con i pochi sopravvissuti della Legione di Shigashina. Ai comandi del Capitano Schäfer erano rimaste poco più di venti anime, quasi tutte poco avvezze al pensiero di dover rispondere al nuovo Comandante.

La carne, la cioccolata,  i limoni, il the e molte altri generi alimentari, coltivati o allevati nelle terre di Maria, erano divenuti ormai una rarità e ai tre ranci giornalieri se ne erano sostituiti due assai magri, spesso o quasi sempre privi di carne, a base di legumi, fatti di zuppe annacquate e pane raffermo che Nina era certa contenesse più segatura che farina.

 

 

A prescindere dal clima burrascoso che si respirava fra le pareti di solida roccia del castello – non mangiare e dormir poco rendeva gli uomini inquieti – la dottoressa era partita lo stesso. Levi non l’aveva accompagnata, per quanto la cosa gli potesse rincrescere. I Meier erano sempre stati molto gentili nei suoi riguardi e avrebbe voluto sostenere Nina in quel momento doloroso, ma lei stessa aveva compreso che in condizioni così tese, non poteva chiedergli di lasciare solo Erwin.

Aveva portato con sé, però, un altro compagno di viaggio. Mathias aveva cavalcato con lei, perché Nina era decisa a dare una vita migliore almeno a lui. L’aveva sentito piangere ogni notte, da quando erano tornati insieme al quartier generale, dalla brandina ai piedi del letto che divideva con un Levi sempre più stanco e irritato, nella sua stanza da ufficiale. Erano state quelle lacrime a farle pensare che un buon orfanotrofio in Capitale sarebbe stato meglio di un covo di pulci a Trost. O peggio ancora, della strada.

Non c’era stato più bisogno di preoccuparsi per lui, una volta arrivati a destinazione.

Dal primo istante in cui gli occhi di Franz Meier avevano incontrato quelli spenti del piccolo, mentre questi sedeva ancora sulla sella del cavallo del sergente Müller, aveva decretato che l’avrebbero tenuto con loro.

Jara non era d’accordo inizialmente, ma poi l’aveva visto mangiare voracemente un pezzo di pane, come un cucciolo randagio, e aveva capito che meritava quella possibilità. L’avrebbe cresciuto lei, fra quelle mura, come aveva fatto con suo fratello. Era stata però maledettamente chiara sulle condizioni.

“Non tornerai in questa casa fra tre anni per riprendertelo, Nina. Questo bambino non diventerà mai un soldato, né prenderà mai le Ali. Queste sono le mie condizioni.”

Non le avrebbe prese, lo stesso Matthias l’aveva promesso, spaventato al solo pensiero di dover tornare nelle terre che gli avevano rubato l’amore di una madre e l’affetto di una sorella maggiore, che ora vedeva proiettato nella figura imponente di Jara. La dottoressa aveva compiuto un vero e proprio miracolo, perché sin dal loro primo incontro, quel bambino magro come un sacco di ossa e diffidente, le aveva sorriso. Seppur intimidito.

L’avrebbe fatto diventare un medico come ogni bambino cresciuto sotto quel tetto, dandogli l’istruzione migliore possibile.

Non avrebbe mai preso, per lei, il posto di quel fratello, perché non ve ne era bisogno. Per Jara, Fritz non era morto, continuava a ripetere a se stessa e agli altri, e presto o tardi l’avrebbe rivisto. Che era solo disperso.

Che sarebbe tornato.

 

Le ingenti perdite avevano messo in ginocchio la Legione esplorativa, in particolare al nord, dove rimanevano solo una manciata di soldati sotto le direttive di Erik Schmitd e Garlef Jürgen. Mentre il secondo citato aveva perso meno di una dozzina di uomini, poco più del trenta per cento degli effettivi, le perdite di Schmitd erano pari al cento per cento. Nessuno, da Briemer, era tornato al Muro Rose in quei quarantuno giorni. Nemmeno uno.

Per Jürgen, invece, era diverso. Otto uomini si erano sacrificati di loro iniziativa, decisi a portare più persone al sicuro entro le Mura, divorati o calpestati dalla foga dei giganti. Tre, invece, li aveva lasciati indietro lui al termine della missione che s’era conclusa qualche giorno prima della caduta di Maria, perché feriti.

Fra quei tre, tristemente, c’era anche Fritz. In quanto medico, non aveva abbandonato i suoi compagni.

Uno smacco che bruciava la coscienza di Jürgen e che mai gli avrebbe permesso di dimenticare quei tre uomini.

Il Capitano s’era recato stanco alla casa dei Meier il quaranteduesimo giorno, poco prima di pranzo.

Ad accoglierlo aveva trovato un bambino dai capelli castani e un paio di occhi caldi, vibranti come non lo erano da settimane. Seduto sul gradino con in mano una palla di cuoio marrone, Mati l’aveva visto arrivare da lontano. Non aveva atteso nemmeno un istante, però. S’era infilato in casa, chiudendosi la porta alle spalle, prima ancora che questi avesse percorso l’arcata di siepe che disegnava l’ingresso al cortile interno della casa.

“C’è un soldato fuori” aveva detto veloce, guardando solo Nina, la quale aveva perso la concentrazione, versando il the che stava servendo al loro ospite senza nemmeno accorgersene tant’era pietrificata. Leopold si era affrettato ad appoggiare sull’acqua bollente un panno, facendo poi  per alzarsi. La giovane donna, però, l’aveva preceduto. Era qualcosa che doveva fare lei, in mancanza di Franz e Jara.

“Nina Müller” era stata la sola cosa che Jürgen era riuscito a dirle, nel pieno della sorpresa, quando lei aveva accostato l’uscio per permettergli di entrare. Aveva preso il suo mantello estivo, pregandolo di unirsi a loro per un the mentre Leopold s’alzava in piedi a sua volta, salutando formalmente il nuovo venuto e presentandosi a lui come il Caporale Schitz della Polizia Militare.

Non avevano nominato Fritz per tutto il tempo in cui erano rimasti soli, loro tre. Avevano parlato dell’abbandono dei distretti esterni di Pereta, Renìn e Briemer, di come la corona non avesse voluto investire nei piani di evacuazione studiati dalla Legione di Trost, considerandola un’azione militare che sarebbe costata troppe vite in modo inutile. Avevano parlato di come le loro vite erano cambiate in quelle cinque settimane, mentre si alternavano i racconti delle veglie notturne del nord e delle operazioni di sfollamento del sud, intervallate da Leo che non aveva peli sulla lingua nell’affermare di come in Capitale, nessuno se ne fosse curato.

“ Non sono nemmeno suonate le campane. A noi della Gendarmeria è stato detto la sera, durante il cambio di turno, con lo stesso tono di chi ti sta dicendo che ha visto cadere una vecchietta dalle scale.”

“Non curanza?”

“Patetico quanto falso buonismo, misto a una certa ironia.”

A nessuno, a Mitras, era importato nulla di più del capire se vi fosse abbastanza cibo per le loro grasse pance. Nessun esule sarebbe stato ospitato nel distretto di Utopia o nessuno nei distretti del Sina. Erano stati ritirati quasi tutti i permessi di accesso entro le mura più interne, ad eccezione dei permessi militari e le missive, così come le transizioni economiche, s’erano arenate. Per quattro settimane tutto aveva cessato di funzionare, per poi riprendere in un traballante cigolio, misero. 

Jara era rincasata proprio mentre la conservazione iniziava a farsi stentata, stiracchiata. Jürgen s’era sbrigato a porgere le sue più sentite condoglianze, ma non c’era stato verso di quietare la donna, che aveva preso ad urlare come una pazza, inveendo contro l’uomo che aveva lasciato indietro suo fratello. Il Capitano aveva preso ogni singolo urlo, ogni insulto, ogni frase accusatoria, mentre Leopold cercava inutilmente di domarla. Alla fine c’era riuscito e l’aveva accompagnata in stanza, a stendersi.

Nina non aveva mai visto Jara così sconvolta.

Tutt’altra era stata la reazione di Franz Meier. Accompagnato dal figlio di primo letto, Fabian, aveva ringraziato pacatamente il Capitano Jürgen per aver personalmente riportato quella infausta notizia ed egli non si era risparmiato di versare  una qualche lacrima discreta mentre chiedeva il perdono dell’uomo a cui sentiva di aver portato via un figlio.

“Non siete stato voi a portarmelo via, Capitano, ma il destino. Contro di lui non possiamo combattere e se ho insegnato qualcosa a quel ragazzo, allora avrà venduto cara la pelle.”

Prima di andarsene, spezzato, Jürgen gli aveva consegnato un sacchetto di carta. Dentro di esso, lucido d’argento, c’era l’orologio che Franz aveva regalato al figlio il giorno in cui era diventato un dottore in medicina a tutti gli effetti. L’aveva dimenticato a Nedlay alla partenza per Briemer, come se infondo avesse dovuto lasciarsi per forza qualcosa alle spalle. Franz l’aveva aperto, leggendo l’incisione, prima di voltarsi verso Nina, prendendole la mano e piazzando l’oggetto al centro del palmo, donandolo a lei che era esplosa in un pianto inconsolabile.

Non avrebbe tenuto niente vicino che avrebbe riportato alla mente dei ricordi così belli, ma così strazianti.

 

Alla commemorazione per le esequie di Friederich Meier c’erano tantissime persone, molte delle quali giovani amici e compagni di studio, oltre che fratelli d’armi. C’era anche Moblit, che con Fritz aveva condiviso i tre anni d’accademia, stringendo quella che era diventato una solida amicizia. Era nata per forza, quella loro intesa, poiché erano soli in mezzo alle reclute dodicenni. Loro, che ormai avevano quasi diciotto anni, avevano unito le forze in mezzo a tutti quei ragazzini e alla fine s’erano trovati.

Berner era comunque rimasto in disparte, in un angolo del giardino insieme a Reynolds e a Ravenstein, con gli occhi piantati su un ritratto ancora fresco del ragazzo in abiti eleganti, civili. Aveva guardato Jara scappare in casa a metà del discorso del padre, seguita da Matthias, che sembrava a disagio tanto quanto lei. Aveva quindi spostato gli occhi su un piccolo gruppetto di persone, sedute in prima fila. La testa rossa di Leopold spiccava, poiché i capelli di quel ramato naturale unico brillavano baciati dal sole. Alla sua destra c’era Rielke, giunto fin lì per l’ultimo addio al caro amico, distrutto dal peso del dolore, in lacrime, scomposto sulla sedia col capo tra le mani e le spalle che, di tanto in tanto, venivano scosse da un tremolio. Leo gli teneva una mano sulle spalle, mentre l’altro braccio era stretto attorno alle spalle di Nina.

Moblit non credeva di averla mai vista così, completamente annientata e impotente. Vestiva con un abito nero, per rispetto al lutto, con i capelli legati in uno stretto concio sul capo. Sembrava invecchiata di dieci anni, in quel frangente.

Vennero rispettate un po’ tutte le tradizioni. Moblit, che rimase a dormire a casa Meier quella sera e le tre che seguirono il funerale, spiegò che a Trost era consuetudine in tempi più antichi tenere il corpo in casa almeno due notti e il parente più prossimo doveva dormire con lui, nello stesso letto. Ormai quella pratica era stata quasi del tutto abbandonata, per questo si passava quasi subito alla cerimonia della pira, dove il corpo veniva bruciato e le ceneri raccolte in vasi colorati o lavorati. A Stohess e a Mitras, dove invece solitamente erano consentiti più sfarzi a causa del migliore stile di vita, il corpo veniva tumulato. Mentre a Stohess il lutto solitamente era scandito dalla Settimana dei Lamenti, dove per sette giorni si piangeva il morto prima del riprendere dello scorrere normale della vita, a Mitras non esisteva una vera e propria tradizione. Solitamente, si attendevano due giorni e poi il corpo veniva seppellito, posteriormente a una cerimonia sbrigativa con i parenti e gli amici. Di rado venivano svolte celebrazioni pubbliche per le persone normali. Fritz avrebbe avuto una bella lapide, all’interno della cappella della famiglia Meier, ma non c’era nessun corpo da porvi al suo interno.

Per quattro notti, tutti insieme, sedevano nella mansarda, cercando di ricordare al meglio Fritz. Leo, Nina e Rielke raccontavano di ogni singola volta in cui lo avevano trascinato nei guai, perché dei quattro, Fritz era sicuramente il più moderato. O il più spaventato delle conseguenze delle loro azioni. Da parte sua Moblit s’era divertito a raccontare ogni singola cosa di rilievo successe nel loro ultimo anno d’accademia, mentre loro s’erano già avveduti di unirsi ai corpi militari di scelta.

Avevano bevuto, riso e pianto insieme. Poi, ogni notte, quando tutta la casa si era addormentata, Nina e Leopold s’erano recati nella stanza di Fritz, avevano dormito nel suo letto e, in silenzio, lo avevano pianto un po’ di più.

Perché sentivano che il vuoto nei loro petti era incolmabile.

 

Quando la polvere della saracinesca abbattuta del Muro Maria si era posata e le urla erano cessate, non era stato solo il nord a fare i conti con le ingenti perdite. Nedlay e Briemer erano piccoli stanziamenti con al massimo venti, forse trenta uomini per ciascuna sede. A sud, dove erano destinati più del doppio dei legionari, c’era stato anche il doppio dei decessi. Quando fu ordinato loro di ripiegare, il Corpo di Ricerca aveva perso inutilmente trentatré persone, per lo più dispersi o trovati a pezzi così piccoli da non poter essere identificati.

La conta dei morti, quell’anno, era però ben lontana dall’essere terminata.

 

Il quinto giorno dopo i funerali di Fritz, Nina si affrancò dalla famiglia Meier, salutando Matthias, certa che quel bambino sarebbe stato trattato bene. Con lei, sulla via del ritorno, c’era anche Moblit che si era intrattenuto per qualche giorno bisognoso di prendersi una pausa, Pascal che aveva sentito il bisogno di rivedere la sorella dopo tanta fatica e tanti sacrifici e Hanji, che era arrivata fino alla corte per poter proporre un piano di contenimento strutturale per la costruzione di alcune case nel distretto di Trost dove poter ospitare gli esuli. Richiesta che venne ignorata. Non c’erano i soldi nemmeno per sfamare le persone, non potevano esserci per ergere edifici.

Cavalcarono dimessi, parlando solo all’occorrenza, ancora turbati dai fatti recenti, dalla perdita dei territori di Maria e dei tanti amici che avevano dato la loro vita per proteggere la popolazione evacuata fino alle poche risorse di cui ora potevano disporre per il corpo. Come sarebbero sopravvissuti, a pane vecchio e zuppe annacquate?

Fu quindi l’ennesima batosta, quella che li attendeva una volta arrivati allo snodo che portava dal sentiero principale a Trost, seguendo il corso del fiume a sud oppure a Irsee, più a occidente.

Un posto di blocco della Guarnigione era stato arrabattato alla meno peggio e lì, seduti su due sedie di fronte a una piccola tenda color terra, due guardie stazionarie parevano attenderli.

“Non è possibile proseguire, signora” dissero rivolti a Hanji, la prima della piccola fila. Nina scambiò uno sguardo con Moblit, mentre Pascal ondeggiava il capo, ribaltandolo all’indietro, perso nel rimirare il cielo con una canzoncina serrata fra le labbra.

“Come mai?” chiese col solito tono gioviale il caposquadra, mentre la sua seconda si accostava col cavallo “Siamo di istanza da Irsee. Il nostro Comandante potrebbe non essere d’accordo con questa interruzione di viaggio.”

La guardia più vicina le rispose teso “Penso capirebbe, se non tornaste.”

“Una brutta epidemia” fece sapere il collega, con tono mesto “Il vostro quartier generale potrebbe essere silenzioso come un cimitero, al momento. Abbiamo sentito che ad Irsee, il villaggio ha preso le distanze dal castello per contenere il contagio arrivato dalla città.”

“Una epidemia?!” a parlare, questa volta, fu Nina. Era successo esattamente ciò che avevano temuto per tutto quel tempo e lei non riuscì a non sentirsi un’inutile voce inascoltata “Di che natura?”

“A quanto ne sappiamo, è esplosa tre giorni fa e ancora nessun dottore ha inviato il dispaccio per far sapere di che male si tratti.”

Tre giorni erano un significativo periodo di tempo in quelle circostanze. Tristemente, poteva essere determinante.

“Andiamo” Nina girò il cavallo, pronta a correre lì, ma nel momento in cui venne trattenuta nuovamente, ci pensò Moblit ad acquietare gli animi con un’insolita decisione.

“Secondo il decreto otto delle linee della condotta militare” disse con tono pretorio, spingendo avanti il cavallo fino a scansare senza mezzi termini lo stazionario d’intralcio “Il primo ufficiale medico ha autorità assoluta nelle situazioni di pericolo sanitario. Nina” guardò l’amica “Se dirai che dobbiamo andare, andremo.”

Lei non aveva dubbi “Io devo andare e devo farlo subito.” Tirò le redini, impaziente di ripartire “Voi però non siete obbligati a seguirmi. Tornate indietro, mandate antibiotici e state al sicuro.”

A porre fine ad ogni diatriba, ci pensò Hanji. Sorrise per dar conforto alla giovane donna, appoggiandole una mano sulla spalla mentre si sporgeva verso il suo cavallo “Andremo tutti. Ci sarà bisogno di una mano. Penseremo alle provviste mediche quando avrai identificato ciò con cui abbiamo a che fare.”

 

La visione più catastrofista che ognuno di loro quattro poteva aver anche solo immaginato, non era comunque paragonabile a quello che trovarono di fronte una volta sorpassato l’ingresso di quella che era sempre stata la loro casa. Aveva avuto ragione quello stazionario: in quel frangente, assomigliava di più ad un cimitero.

Così tante persone in uno spazio così delimitato potevano portare a un epilogo orribile. Nina appoggiò la mano sulla mascherina che aveva appoggiata sulla bocca e sul naso, respirando il profumo della menta fresca. Si erano fermati lungo la via, utilizzando fazzoletti e lembi di stoffa per schermarsi dal morbo, infilando qualche foglia di quella pianta fra le pieghe. Nina era una ferma sostenitrice della teoria secondo la quale, alla base di un contagio epidemico, vi fossero gli odori.

La puzza, per essere precisi.

E la pila di cadaveri che giacevano poco fuori dalla base della Legione, accatastati con poco riguardo sotto al sole di maggio, erano un vero e proprio focolaio infettivo.

“Questi vanno bruciati subito” Moblit parve leggerle nel pensiero, mentre anch’egli osservava l’orribile visione. La mascherina non ovattava affatto il tono raccapricciato “Potrebbero infettare l’acqua del pozzo.”

“Mi chiedo perché non lo abbiano ancora fatto” Nina lasciò i cavalli proprio al biondo e a Pascal, rifiutandosi di cercare fra i morti qualche volto amico ed entrando trafelata insieme al superiore. La corte interna e il salone d’ingresso erano deserti.

Ad attenderle trovarono una piccola folla stipata in quella che era la mensa. La dottoressa si guardò attorno, cercando con gli occhi Levi o Erwin, ma trovando solamente Mike, chino su qualcun altro “Questo non va bene. troppe persone in  un luogo chiuso.”

“Cerco qualcuno che mi aiuti ad aprire tutte le finestre” sbrigativa, Hanji le girò attorno, lasciandola lì ad esaminare la scena. Non sapeva da che parte iniziare, il medico. Attorno a lei, civili e soldati, dividevano le medesime sofferenze e lei non era un epidemiologa. Era un chirurgo.

Si diede comunque da fare, perché per quanto ne sapeva, era il medico più navigato in quella bolgia.

Non toccò nessuno prima di aver infilato un paio di guanti di cuoio scuri, passando poi in rassegna una donna con il figlio, i più vicini a dove si trovava lei. Il giovane, che pareva avere quattordici anni, scottava di febbre e aveva le ghiandole della gola infiammate, eppure se ne stava chino sulla madre che, stesa sulla tavolata di legno con una giacca arrotolata sotto al capo a ‘mo di cuscino, sembrava essere in punto di morte. Era fredda come il ghiaccio, però.

“Una febbre fredda” soppesò la dottoressa, sentendole le pulsazioni e constatando quanto debole fosse il battito “Una infezione di qualche tipo che ha preso le ghiandole, ma che da febbre fredda?”

“Nina!” La voce di Erwin le fece alzare di botto il capo. La raggiunse in due rapide falcate, spostando senza troppe cerimonie un uomo che lo ostacolava.

“Come ti senti?” domandò a bruciapelo, notando il colorito della pelle dell’uomo e le borse sotto agli occhi arrossati. Non gli diede il tempo di rispondere, ad ogni modo. Appoggiò il polso scoperto alla fronte, tirandoselo più vicino “Scotti da morire” fu la sola cosa che commentò amaramente, guardandosi attorno per cercare un posto in cui farlo sedere.

Lui però le prese il viso fra le mani, mantenendo però una certa distanza per non infettarla “Levi sta molto peggio di me” le fece sapere senza tatto, spicciolo, riuscendo a farle tremare la terra sotto alle suole “Da stamattina” aggiunse quindi, cercando di essere più specifico “Non è debole come molti altri, ma è bollente e ha i tremori. Ah! E dice di avere molto male alla schiena.”

“Dov’è?” chiese la sorella, stringendogli i polsi con le mani.

Troppe cose da fare e c’era solo lei. Dov’era Alana?

“Non ne ho idea. Era qui poco fa, credo sia andato a prendere qualcosa in infermeria. Si è ben guardato dal darmi retta quando l’ho spedito a letto, in ogni caso.”

“Così come hai fatto anche tu” la dottoressa allontanò le sue mani, mortalmente seria “Sei il Comandante dell’esplorativa e questa malattia potrebbe essere potenzialmente mortale. Devi andare via di qui, ora. Va’ nei tuoi alloggi e rimani lì. Verrò a visitarti tra poco.”

Lo sguardo di Erwin si irrigidì “Non abbandono i miei uomini.”

Nina lo sapeva che avrebbe risposto a quel modo, ma doveva trovare un modo per convincerlo a non rimanere lì in mezzo a tutti quei malati. “Devi farlo ora!”

“Non puoi darmi ordini, Nina! Visita queste persone e scopri di cosa si tratta, invece!”

Attorno a loro, commilitoni e civili osservavano la scena, un po’ col fiato teso. Erwin sembrava arrabbiato o in qualche modo ferito dal pensiero di andarsene di lì, come un codardo, che fosse per ordine medico o meno. Quel lungo scambio di sguardi proseguì per quello che parve un momento sospeso, poi la voce di Hanji li costrinse a voltare lo sguardo nella sua direzione.

Moblit, cos’è che hai detto mentre eravamo per strada? Quella roba sul decreto otto?”

Il povero ragazzo, sentendosi colto in contropiede nel venir tirato in causa avvampò, guardando quasi spaventato il Comandante che adesso pareva indirizzare tutta la sua ira su di lui “Ecco” sussurrò, incerto “In caso di pericolo sanitario, il primo ufficiale medico ha autorità assoluta.”

“Anche sul Comandante” gli diede inaspettatamente man forte Nababa, che contrariamente a lui, non temeva che Erwin potesse avercela o meno con lei “Non c’è da scherzare con la salute.”

“No, infatti” Nina sospirò, un po’ nervosa. Andava fatto quel che era giusto “Comandante Erwin Smith, mi appello al decreto otto delle linee di condotta militare, ordinando che lei si ritiri nei suoi alloggi immediatamente.”

Non ci fu niente da fare. Erwin resse quello sguardo incredibilmente risoluto, almeno quanto il suo, prima di sospirare facendosi piccolo all’improvviso “ Va bene” esalò in fine, alzando una mano in segno di resa “Ti lascio il comando.”

Quelle parole furono più terrificanti di qualsiasi altra cosa Nina avesse mai sentito in tutta la sua vita.

“No, un attimo.” Lo fermò, tirandolo per una delle cinghie un po’ lente, sulla schiena “In che senso il comando? Io ho autorità solo sulle faccende di ordine medico.”

“Rileggi un po’ meglio il regolamento interno. Con ‘autorità assoluta’ si intende esattamente questo.”

Ella deglutì a vuoto, sentendo improvvisamente come quell’incombenza le avesse asciugato la bocca. “Posso gestirlo” esalò alla fine, ma quella frase aveva lo stesso peso di una domanda stentata “Lagnar” chiamò infine, risvegliando una giovane ragazza dal volto coperto di lentiggini scure, la quale faceva parte della ormai dipartita legione di Shigashina “Va con lui e occupati dei suoi bisogni. Nel caso in cui dovesse avere bisogno di un dottore, chiamami.”

“Sì, signora.” La moretta si battè la mano sul petto, seguendo il comandante fuori dalla stanza. Nonostante la mensa fosse piena di persone, non volava più nemmeno una mosca.

Nina sgranò gli occhi sul pavimento, parendo intenzionata a permanere nel mutismo.

Fu Sankov a risvegliarla da ogni voce malevola che le tormentava i pensieri, guardandola dall’alto verso il basso attraverso il suo sguardo composto “Ora che hai mandato a letto il Comandante del corpo di ricerca come un lattante, quali sono i tuoi ordini, Comandante provvisorio Müller?”

Suonava così strano da farle effetto, ma Sankov aveva ragione. Il tempo stringeva “Per prima cosa, vanno bruciati i morti” disse meditativa, portando la mano al collo, come se sentisse effettivamente il peso di quelle decisioni. Se prendeva quelle sbagliate e lasciava morire delle persone, sarebbe stata solo colpa sua. “Sankov, organizza una squadra di uomini forti, anche civili, che ti dia una mano a farlo. Tieni due registri separati, segnando i nomi dei morti, dividendo i soldati dagli altri.”

“Agli ordini” l’uomo si voltò subito, iniziando a chiamare in fretta qualche nome e a indicare chi l’avrebbe aiutato.

Nababa, Mike, Ness e Thoma” proseguì quindi la dottoressa, riuscendo finalmente ad adocchiare anche Alana e sentendosi incredibilmente grata di averla lì. Ogni medico sarebbe stato prezioso “Voi occupatevi delle persone in questa stanza. Gli ufficiali nelle loro stanze private, i soldati nei dormitori. Qui voglio solo i civili e che ci siano almeno un paio di metri di distanza tra uno e l’altro o sarà impossibile girare fra le persone per prestare le cure mediche. Bossard!” la recluta sobbalzò. Oluo guardò verso il sergente con gli occhi sgranati, in attesa di ordini “Va al villaggio di Irsee, alla locanda di Rheva. Dille che c’è bisogno di qualcuno che cucini delle zuppe. Procurati anche delle galline per il brodo, senza della carne, qui non guarirà proprio nessuno.”

“Non troverai mai nessuno disposto a venderti delle galline” le fece sapere poco speranzosa il Caporale Marlene.

“Lo so” rispose Nina, “Vai con lui e porta qualcuno dei tuoi uomini. Rubatele se necessario.” Nemmeno si preoccupò di abbassare il tono, a quel punto. Avrebbero pagato ogni cosa alla conclusione di quel tremendo momento “Il team medico e quello scientifico devono preparare l’infermeria e lì spostare i più gravi. Moblit, occupati di questo”.

“Lo farò subito” le fece sapere il castano, guardandola allontanarsi “Tu che farai?”

“Devo trovare Levi. Vi raggiungerò in infermeria prima di quanto pensi” rispose, non voltandosi ma alzando semplicemente la voce. Fece sedere una donna, mentre si allontanava “Prendete ogni libro di medicina che ho e iniziate a sfogliarlo. Dobbiamo capire con cosa abbiamo a che fare!”

 

Aveva trovato Levi sulle scale, piegato su se stesso, contro al muro.

Non era mai arrivato in infermeria, colto probabilmente dalla spossatezza del morbo.

Appena Nina l’aveva toccato, s’era accorta che bruciava di febbre.

L’aveva aiutato ad arrivare fino alla camera, liberandolo delle cinghie dell’attrezzatura che erano state montate alla meno peggio dalle mani tremanti dell’uomo che non faceva altro che offendersi da solo e offendere qualsiasi cosa gli venisse in mente, lucido nonostante la malattia e frustrato dal sentirsi così debilitato.

L’aveva visitato a dovere, era stato il primo su cui si era concentrata, segnandosi ogni minimo sintomo: l’uomo aveva la gola infiammata, la sentiva ‘grattare’ ogni volta che deglutiva e, a parte la febbre alta con conseguente dolore alle articolazioni, non sembrava soffrire di null’altro. Forse una leggera tachicardia, ma Nina non poteva escludere che fosse data dal suo caratterino così tanto accomodante.

Erwin era tutt’altra storia.

Sudava moltissimo e, nonostante la febbre fosse molto più bassa di quella di Levi, sosteneva di vederci doppio.

Il terzo a sentirsi male e ad essere costretto a letto fu Mike. Nina stava uscendo dalla stanza del fratello quando Gelbert corse a chiamarla per avvertirla di ciò che era successo. Aveva avuto un giramento di testa mentre faceva spostare un paio di reclute dalla mensa al dormitorio del terzo piano ed era andato lungo e disteso in terra creando anche un certo boato.

“Più sono grossi più fanno rumore quando cadono” aveva sdrammatizzato mentre Nina lo visitava, non riuscendo a farla ridere.

I suoi sintomi erano ancora diversi. Aveva mal di gola come Levi e la vista sdoppiata come Erwin, ma era freddo come un morto. Faticava addirittura a parlare senza balbettare in modo strano.

Confrontando queste analisi con quelle fatte sommariamente a tanti altri pazienti, Nina si ritrovò a pensare che poteva essere davvero qualsiasi cosa.

“Forse potrebbe essere labirintite.”

Dopo più di due ore e mezzo sui libri, iniziarono quasi a tirare ad indovinare.

Nina non poteva biasimare nessuno per questo, nemmeno Alana, che si era sbilanciata e aveva buttato la prima cosa che le era venuta in mente. La giovane Klein però non era un dottore e quella ne era la prova.

“La labirintite non fa salire la febbre” le rispose Nina, continuando a camminare avanti e indietro per l’infermeria. Era la sola a non aver sotto un manuale, perché tutto ciò che c’era bisogno di sapere lo conservava bene in una scatola nella mente, “Senza contare che ho le orecchie a tutti e tre e non hanno infiammazioni. Se fosse labirintite, l’avrei notato così.”

Hanji sospirò, greve “Pensiamo a tutte le malattie che possiamo escludere, allora” propose iniziando ad alzare le dita “Non è Morbo Nero, né polmonare né bubbonico o lo avremmo trovato visitando i malati. Non è nemmeno febbre tifoide o avremmo notato delle macchie sulla pelle.”

“Non è nemmeno febbre emorragica” proseguì per lei Moblit, passandosi le mani sugli occhi che bruciavano per lo sforzo, mentre accanto a lui Pascal prendeva nota di le Mura solo sanno cosa “Nemmeno colera. Forse le prime fasi della lebbra?”

“Il Male degli Indigenti è diverso” gli rispose Alana, appoggiandosi con le braccia incrociate al libro e guardandolo “Ci vogliono anche cinque anni perché i sintomi si manifestino, il decorso della malattia è troppo lungo.”

“Dobbiamo stringere il campo a qualcosa che abbia bisogno di un periodo di tempo di incubazione molto breve” esordì a quel punto Pascal, parlando velocemente, senza smettere di scrivere ma riuscendo comunque ad alzare i grandi occhi pervinca per guardare verso la dottoressa. Il risultato fu inquietante “Siamo partiti meno di dieci giorni fa per Mitras e stavano tutti bene.”

“Pensavo alla meningite” soppesò Nina, scambiando con lui uno sguardo “richiede dai tre ai dieci giorni e come sintomo comune c’è il mal di testa, che provano sia Levi che Erwin. Mike, però, no.”

“Sarebbe coerente però con la differente temperatura dei soggetti” Alana, sfogliò rapida il libro, leggendo qualche riga “Non è necessaria la presenza di febbre, ma è ricorrente.”

“Molti non hanno né febbre né dolore alla testa” disse Nina, appoggiandosi alla finestra “Senza contare che gli altri sintomi principali non sono compatibili con la maggior parte dei pazienti.”

“Quali sono questi sintomi?” chiese Moblit.

Alana li lesse a voce alta “Irritabilità, dolore articolare, letargia, eruzioni cutanee e convulsioni.”

“Per l’irritabilità non possiamo usare Levi come campione di riferimento” ridacchiò sotto i baffi Hanji, decisa a non farsi abbattere dalle circostanze “Il vaiolo e l’impetigine?”

“Il vaiolo ci mette quattro settimane a manifestarsi” le disse Nina, “L’impetigine non porta febbre.”

“Magari ha iniziato ad incubare un mese fa?”

Nina scosse piano il capo “Difficile, il muro Maria è crollato appena sei settimane e mezzo fa. Non c’è possibilità che le condizioni igieniche abbiamo portato a un’epidemia così tanto rapida di qualcosa come il vaiolo, a mio parere. Poi, se fosse davvero questo, avrebbero tutti le bocche piene di ulcere, noi compresi che non stiamo male perché non eravamo qui in questi ultimi dieci giorni.”

“Non fa una piega” Moblit suonò più amareggiato di quanto volesse, ma aveva una paura del demonio di ciò che stava succedendo e non stavano arrivando da nessuna parte. Era frustrante. “Possiamo escludere anche pertosse, morbillo, sifilide e tigna.”

“Anche la rosolia” Pascal chiuse il libro che stava tenendo sotto, prendendo quello che Moblit fiocamente aveva sfogliato fino a quel momento per rivederlo per bene, strappandogli un’occhiataccia “Che cosa c’è?” gli chiese, innocentemente sorpreso. Pascal non si sarebbe mai accorto di parere sgarbato o meno “Voglio rivedere il tuo lavoro perché tu sei distratto.”

“Scusa se ho paura di morire” gli soffiò in faccia Berner, ferito dal compagno di squadra.

Lui, di rimando, gli sorrise “Il corpo è debole, è vero. Ma la mente è forte” concluse pragmatico, fermandosi su una pagina in particolare che aveva catalizzato la sua attenzione “Io non voglio ammalarmi e non mi ammalerò.”

“Fosse così semplice, Von Pedrick.”

“Bambini basta” li riprese Hanji, prima di guardare Nina. Trovò la dottoressa a fissare fuori dalla finestra, laddove sapere si intravedeva la colonna di fumo della pira che Sankov stava coordinando. Non andava affatto bene “Cosa ci rimane, quindi?” incalzò il caposquadra, alzandosi per accostarsi a lei.

Nina, però, non rispose subito. Si concesse un istante di puro sconforto, nel quale porto una mano alla bocca.

Poi ingoiando il magone, esternò la sua debolezza.

“Non so cosa sta succedendo.”

 

 

 

Nda.

 

Sono viva! Non sono morta!

Ancora non ci credo che FINALMENTE sono riuscita ad aggiornare.

Per cause di forza maggiore – ovviamente l’università –non sono riuscita a finire questo capitolo prima e mi scuso tantissimo con i pochi ma buoni lettori che ancora mi seguono.

 

Per prima cosa a parte ringraziare voi per la vostra pazienza, è doveroso citare Shige, che non ha solo betato questo capitolo, ma mi ha anche dato tanti preziosi consigli.

Oltre, ovviamente, a sparare un sacco di cazzate con me su WhatApp.

Quindi grazie grazie grazie!

Se non la conoscete, vi lascio il link della sua storia –che deve continuare *tono minaccioso*- proprio qui:

http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3416535&i=1

Sta scrivendo anche due week: una su Erwin e una natalizia.

Passate, ne vale la pena. Scrittrici brave, in questo fandom, purtroppo ne abbiamo poche.

 

Secondariamente, vi ricordo la storia della nostra RLandH, che scrive parallelamente a me.

I suoi personaggi sono miei, i miei suoi.

Sempre quella storia insomma, solo spostata geograficamente un po’ più a nord: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3529133&i=1

Scrivi Luna. Hai preso ventinove a medievale, ore scrivi o Arima discenderà per picchiarti con l’ombrello.

 

Vi faccio gli auguri di buon natale, visto che anche quest’anno è finalmente arrivato.

Vi penserò mentre leggete e io sto pulendo la casa perché mia mamma a Levi gli fa na…. Carezza.

Diciamo carezza per non essere volgari.

 

Jingle bells a presto con la parte due di questo never a joy!

Un bastoncino zuccherato natalizio,

 

CL.

 

 

 

  
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