Wenn die Sterne leuchten.
Capitolo Tredicesimo, parte Prima.
Boku wa kodoku sa douka sono mama de
Kimi ga warau tabi ni naku naru hazu mo nai no ni
Kizu kara me wo sorasanai you ni
Nikushimi yo soba ni ite kimi wo koroshitai kara
https://www.youtube.com/watch?v=uNjKYBnRbdE
Anno 846
Irsee, ad un’ora di marcia verso nord dal distretto di Trost.
Il
sole era tramontato da un paio di ore quando Levi fece ritorno ad Irsee.
Non
si recò immediatamente al quartier generale della Legione, prediligendo al
solito pasto frugale, una cena degna di questo nome, in compagnia di colei che
l’aveva accompagnato per tutta quella strada.
Non
era strano vedere Jara Meier cavalcare verso Trost, specialmente da quando suo padre aveva deciso
d’esser troppo anziano per presiedere ad ogni raduno della Gilda dei Medici.
“Sarà
presente per il comizio di fine semestre, fra poco più di una settimana; per
questo ha deciso di mandare me a portare questa documentazione urgente” è stata
la sola cosa che la bionda valchiria aveva detto al soldato quando si erano
rimessi in marcia subito dopo la fine della celebrazione per le esequie di
Wilhelm Müller. Il funerale si era svolto nel primo
pomeriggio, ma Levi si era rifiutato categoricamente di rimanere per la notte a
Stohess, nonostante gli fosse stata offerta
ospitalità con una cortesia un po’ fredda, ma sentita. L’atmosfera in quella
casa era irrespirabile. A stento aveva scambiato due parole con Erwin, il quale
aveva trascorso gran parte del tempo con la madre. Levi si era sorpreso di
vederla esprimere una qualche sorta di emozione, ma il passare dalla totale
noncuranza all’isteria l’avevano parecchio stupito. A sentir Friedelhm, che persino nel lutto pareva comunque non
perdere quella sottile quanto sarcastica vena critica, a stento si era resa
conto di aver perso una figlia. Al contrario, di fronte alla consapevolezza di
essere vedova per la seconda volta, aveva perso la testa. Alla fine, dopo
l’ennesimo litigio con Alma, al termine del quale erano volate parole davvero
forti, era stata accompagnata dallo stesso figlio nella sua stanza, dove Franz
Meier l’aveva sedata affinché potesse dormire.
Al
culmine di quella pietosa scena quasi tutti si erano dileguati. Il dottor Meier
aveva preso con sé sia Leopold che Rielke ed era
tornato a Mitras, raccomandandosi con Jara di portare quei documenti. Levi li aveva visti partire
rimanendo in piedi al fianco della biondona, a pochi
passi dalla carrozza. Rielke era così pallido da far
luce, mentre Leopold pareva così stanco da sembrare sveglio da mesi.
In
conclusione, anche loro avevano lasciato Stohess e
lui non aveva nemmeno avuto il tempo e la voglia di salutare il suo Comandante.
Ci
stava ripensando in quel momento, alle urla di Alma e all’espressione sul viso
di Erwin, di fronte a una tazza di the nero e un piatto pieno di carne, nella
taverna di Rheva. Ora che la padrona di casa aveva
trovato un compagno di vita, suo zio Peter le aveva ceduto del tutto l’attività
e lei, che ben sapeva intrattenere gli ospiti, zampettava qua e la con caraffe
ricolme di birra, che offriva agli attendenti dell’osteria per festeggiare il
suo fidanzamento.
“Un
gran lutto per ogni legionario” fu il commento di Jara,
che fece ridere l’altra donna, mentre le riempiva il boccale sino al bordo “Ora
che tu ti sposi non avranno più un motivo per tornare dall’esterno.”
“Rammaricata
per loro” le rispose la bella donna, mostrando loro l’anello un po’ pacchiano,
con un brillante al centro di una raffinata montatura d’argento. Doveva essere
costato parecchio. “Qui però non c’è spazio per queste constatazioni.
Continueremo a bere tutta la notte.”
“Finirai
in banca rotta!” Jara rise mentre spergiurava quel
monito, guardando Rheva tornare dietro al bancone per
prender qualche ordinazione da un gruppo di viandanti appena arrivati “Sono
queste le cose che amo, appena tornata da un funerale: ottima birra e buona
cucina.”
“Mi
sto chiedendo chi glielo dirà.”
Jara si
voltò verso Levi, che stava parlando assorto, forse più a se stesso che a lei.
Sbuffò una mezza risata, picchiettandogli il gomito nelle costole “Dire a Rheva che non dovrebbe regalare la birra? Sono anni che ci
proviamo. Come era la sua filosofia? I legionari pagano la metà e i gendarmi il
doppio?”
“Chi
dirà a Nina che suo padre è morto, quando sarà tornata.”
Quella
riflessione ebbe un effetto mortificante su Jara, sul
cui viso non vi era più posto per il solito sorriso sornione. Esso di fatti
morì, sparendo dalle labbra rosse, sostituito da un’espressione ben lontana
dall’esser divertita “Hai rovinato l’atmosfera” gli rispose senza pietà,
tagliando un pezzetto dalla bistecca un po’ asciutta e portandoselo alla bocca.
Poteva però condividere la sua frustrazione. Nina voleva molto bene a suo
padre, era più legata a lui che alla madre e, certamente, al suo ritorno le si
sarebbe spezzato il cuore. Perché Jara era certa che
Nina fosse viva esattamente come suo fratello Fritz. Dopo più di un anno dalla
perdita delle terre di Maria, lei ancora aspettava, ogni giorno, che tornasse a
casa. Non chiudeva mai la porta di ingresso con il catenaccio, né spegneva la
lanterna appesa fuori dall’arcata di siepe ed edera del cortile. Fritz era da
qualche parte là fuori, perso nelle terre dei giganti e sarebbe tornato, un
giorno.
Così
come sarebbe tornata anche Nina.
“Forse
dovrebbe dirglielo Mieke” osservò pensieroso Levi,
rivelando che quella fonte di preoccupazione stava davvero ammorbando la sua
mente, come un tarlo “O magari Rielke. Sono sempre
stati molto attaccati, quei due. Non credo che io o Erwin saremmo in grado di
darle una notizia del genere come si deve. Erwin soprattutto, visto che non ha
pazienza. Non ha nemmeno atteso il quarantesimo giorno per portare la notizia
della morte di sua sorella a casa.”
“Nina
ti ha mai parlato dello studio per l’elaborato finale dell’università ?”
Levi
alzò gli occhi dalla tazza, spostandoli in quelli di un celeste statico della
donna. Scosse il capo, chiedendosi cosa mai potesse c’entrare con la loro
discussione e perché avesse chiesto una cosa del genere così, a bruciapelo.
Lei sorrise soddisfatta, prendendo un sorso generoso dal boccale di
birra, senza preoccuparsi di pulire il labbro superiore dalla schiuma “Non
c’erano i soldi per farle frequentare i corsi. A dire il vero c’erano, ma i
signori Müller non avrebbero mai lasciato che mio
padre facesse di loro figlia un debito. Lui, però, ha fatto di meglio: l’ha
presa con sé ogni giorno, in ospedale, e ha fatto di lei un medico. Quando è
stato il momento di scegliere in che branca della medicina specializzarsi, Nina
ha scelto quella con la quale ha finito con l’averci a che fare di più: la
chirurgia.”
Egli
si appoggiò con il mento al pugno chiuso, passando gli occhi sui piatti della
casa. A un occhio inesperto pareva quasi che non stesse ascoltando nemmeno una
parola, mentre, al contrario, aveva registrato ogni informazione. “Un chirurgo
da campo.”
“Un
chirurgo. Che poi lavori su un bel tavolo di ferro sterilizzato o sotto la
pioggia, in mezzo al fango, poca differenza fa. Per i metodi, si intende,
perché per il paziente la differenza la fa eccome.” Jara
si concesse una breve risata, scansando la lunga treccia bionda dalla spalla
senza cura, mentre beveva ancora “Io le ho consigliato una tesi sulle infezioni
post operatorie. Lei ha deciso invece di imbarcarsi in un lavoro puramente
empirico che tutti noi, mio fratello e mio padre compresi, abbiamo cercato di
sconsigliarle in ogni modo.”
“Parla
semplice, Jara. Io, la laurea, non ce l’ho.”
“Un
lavoro d’osservazione” semplificò quindi, mettendo entrambe le mani sul tavolo,
sotto al naso piccolo dell’uomo, come per spiegargli ancor più chiaramente il
concetto “Molti interventi, sopratutto i più invasivi, non vanno a buon fine.
Che sia in ospedale o oltre le Mura, ogni chirurgo sa che alla base della
medicina ci sono tante teorie che spesso, nella pratica, non funzionano. Le
persone muoiono, non importa quanto il medico sia bravo o competente; anche la
più piccola infezione può uccidere. E poi, cosa succede? Nina una volta mi ha
guardato, con quei suoi irrazionali occhi chiari, e mi ha detto: il morto è morto. Poco importa ormai, ma chi
rimane? Cosa succede a chi rimane? Così ha scritto di questo. Per pagine e
pagine di elucubrazioni mentali tra le più disparate, riportando tanti esempi,
tanti casi.” Fece una pausa, incrociando le mani sotto al mento e socchiudendo
gli occhi, mentre spiava assorta la luce della candela posta al centro del
tavolo “Alla fine di questo ambizioso progetto, Nina ha teorizzato tre fasi di
passaggio che ciascuno di noi prova quando un nostro caro viene meno: lo shock
della perdita, la negazione della realtà e
la rabbia. Solo così si giunge, in fine, all’accettazione del dolore.
Ognuno ha i suoi tempi, certo, però tutti noi proviamo queste forti emozioni.
Io, per esempio, secondo mio padre non ho ancora superato la fase della
negazione per ciò che è successo a Fritz.” Fece una pausa, perché affrontare
quel discorso non era mai semplice e, per quanto determinata, era scoraggiante
pensare che forse non sarebbe mai tornato sul serio, che magari stava
aspettando una persona ormai morta da oltre un anno. “Il punto è uno solo: Nina
è pronta. È sempre stata pronta. Da quando è entrata nella Legione è cambiata,
non è più la ragazzina pigra, ma ambiziosa che è cresciuta a casa nostra,
imparando a mettere i punti da sutura cucendo il retro del divano del salotto
insieme a Friederich. Non dovresti preoccuparti di
questo, ma piuttosto di andarla a riprendere.”
“Ci
stiamo lavorando” fu il commento secco dell’uomo, appoggiandosi con il mento al
pugno chiuso, mentre allontanava il piatto ormai vuoto da sotto il naso “Hanji e un altro paio di commilitoni stanno cercando di
convincere Zackley proprio in questi giorni.”
“Capisco”
sospirò, la dottoressa Meier, girandosi quel boccale fra le mani e omettendo,
per una volta, di guardare il suo interlocutore, forse temendo di vederlo
chiudersi a riccio da un minuto all’altro. Non avevano finito. “Hai pensato
come farai a chiarire con Nina?”
Lesti,
gli occhi affilati di Levi scandagliarono il volto di Jara.
Lei era una delle pochissime persone al mondo che non provavano soggezione di
fronte a quello sguardo di ghiaccio, infatti non tardò ad incontrarlo.
“Cosa
ti fa pensare che devo chiarire con lei?”
“Ho
imparato a conoscerti. Avanti, Levi, smettila di fare il difficile e dimmi cosa
è successo.”
Lui
parve parecchio restio a parlarne, ma Jara aveva
ragione quando aveva affermato con così tanta caparbia di aver imparato a
conoscerlo. Cosa più importante, lui ormai sapeva di che pasta era fatta quella
donna e sapeva che non avrebbe ceduto facilmente. Prese un respiro, reprimendo
un’imprecazione e poi parlò “Un’incomprensione. Non è successo niente se non un’incomprensione.
Nessuno dei due ha saputo far fronte alla cosa e ci siamo ritrovati a non
parlarci come due mocciosi. Alla fine, per colpa della mia cocciutaggine e del
suo orgoglio, siamo andati avanti per più di un mese ai ferri corti e quando
Erwin ha fatto le squadre per la missione, lei ha chiesto il trasferimento in
quella di un altro superiore. E si è ritrovata là fuori da sola. Questa è la
storia.”
Jara
annuì, “Capisco. È tutto?” chiese quindi, certa che pretendere di sapere il
motivo di quell’incomprensione fosse eccessivamente indelicato anche per una
ficcanaso di prima categoria come lei. La risposta di Levi rischiò di farle
andare di traverso la birra.
“A
dire il vero no. Lei è andata a letto con un altro uomo e di questo dobbiamo
ancora parlarne come si deve.”
Portando
il tovagliolo alle labbra, decisa ora a levare la schiuma e quel poco di birra
che le era colato sul mento, Jara lo guardò sorpresa
“E tu lo conosci, questo uomo?”
“Certo,
anche lui fa parte della Legione di Trost.” Non
sapeva esattamente cosa lo portasse ad essere così tanto loquace. Forse perché
sopportava Jara nonostante chiedesse più di quanto le
spettasse sapere o forse perché si era tenuto tutto per sé in una situazione
così delicata, eppure Levi non pareva intenzionato a mandarla al diavolo e
dirle di farsi gli affari suoi. Al contrario, proseguì nel parlare “Le ultime
cose che ci siamo detti, eccetto questa bella rivelazione, sono state da veri
stronzi. Da entrambe le parti, abbiamo giocato sporco. Quando io le avevo detto
che poteva avere uomini migliori di me, lei mi ha risposto che ne aveva già
trovato uno e che io ho rovinato tutto. Credo stesse parlando di tuo fratello.”
“Ci
siete andati parecchio pesanti.” Jara scostò i
capelli dal viso, sentendosi improvvisamente accaldata. Forse non era tutta
colpa della bevanda. “Quando tornerà, gliene parlerai. Per quanto io voglia
bene a mio fratello e lo ritenga una persona meravigliosa, una delle migliori
che abbia mai conosciuto, non esiste uomo che possa concorrere con te, per il
cuore di quella stupida ragazzina.”
“No,
non hai capito” Levi la interruppe, con una determinazione nuova della voce che
lo infiammava, facendolo uscire dall’apatia nella quale solitamente rimaneva
immerso “Non c’è proprio niente da dire. Non mi importa chi si sia scopata o
cosa l’abbia spinta a farlo. Dal mio punto di vista, considerata la situazione
di merda, ha fatto quasi bene. Non glielo rimprovero, a me non interessa.
Voglio solo che torni, perché una persona viva può riscattarsi molto meglio di
una persona morta.”
Per
il resto della serata, si concessero di parlare di argomenti meno impegnati o
dolorosi. Jara declinò l’invito di dormire al
quartier generale, preferendo la stanza che Rheva
poteva metterle a disposizione.
Quando
si separarono, la dottoressa pagò il conto per entrambi.
“Il
prossimo giro lo offrirai tu, Caporale.”
Si
salutarono, con una stretta di mano e la promessa di passare più spesso per la
Capitale da parte del legionario, contornata da qualche parola di circostanza di
Jara. Era più fiduciosa lei, in quella brutta
situazione, di chiunque altro.
Quando
a Levi non rimase altra scelta se non fare ritorno al castello, preferì
condurre Meruka per le redini piuttosto che montarle
sul groppone. Si godette tutto di quella passeggiata, dalla luce delle stelle e
della luna che rendevano il sentiero pienamente visibile, fino alla brezza
leggermente fresca di quella notte estiva.
Ad
attenderlo non trovò ovviamente nessuno. Sistemò al meglio la sua cavalcatura
nella stalla, prendendosi il tempo di sbrigliarla e passarle sul pelo irto del
groppone a causa del panno una spazzola dalle setole rigide.
L’atrio
del castello era deserto quando vi entrò e le lampade ad olio quasi tutte
spente. Levi si fece strada a memoria, salendo la prima rampa verso gli alloggi
femminili degli ufficiali. Non aveva più dormito in camera di Nina, dopo il
loro primo litigio, ma dopo la missione all’esterno vi era tornato. Solo a quel
punto, mentre girava l’angolo verso il lungo corridoio delle camerata, trovò
una luce ad attenderlo.
Flebile
e pallida, ma calda, c’era una candela accesa fra le mani di Petra Ral. Cosa lei ci facesse lì era un bel mistero, visto che
gli alloggi delle reclute erano al quarto piano.
Levi
comunque non lo chiese, limitandosi a guardare con espressione criptica la
giovane, quasi come se attendesse di vederla spostarsi per poter passare. Lei,
d’altro canto, trasalì alla sua presenza lì e si immobilizzò.
“Sono
venuta a cercare il caposquadra Zöe” si giustificò
anche se non interpellata lei, tirando il bordo della vestaglia bianca con la
mano libera per coprirsi meglio il petto “A cena non c’era e-”
“Hanji è partita stamattina alla volta del distretto di
Utopia. Non tornerà prima di qualche giorno dalla Capitale” fu il commento
laconico dell’uomo, che le girò attorno quando capì che lei non si sarebbe
spostata nemmeno di mezzo centimetro.
“Caporale!”
Petra
realizzò che aveva alzato la voce nell’esatto istante in cui ormai, l’aveva
fatto. Semplicemente, non voleva che lui andasse via, non in quel momento. Il
moro percepì qualcosa nella sua voce, forse un’urgenza o comunque una qualche
sorta di malessere, quindi per giusta misura si voltò nuovamente verso di lei.
Dopotutto era un superiore e lei era fuori dalle brande dopo il coprifuoco. Non
voleva scocciature di sorte, quella specifica sera.
“Ral.” La chiamò stanco, quasi pregandola, ma lei proseguì.
“Possiamo
parlare?” lo chiese con la voce piccola, quasi infantile. E maledettamente
bisognosa.
Lui,
però, non volle sentire ragioni “Non fai parte della mia squadra” replicò
secco, come se non volesse sentire nessun’altra replica “Dovresti cercare il
tuo diretto superiore e-”
“Sankov” In un impeto di coraggio, Petra lo interruppe “Sankov era il mio superiore.”
A
quel punto, non c’era molto altro da dire. Levi capì anche esattamente di cosa
la ragazza volesse parlargli. Sbuffò, irritato, perché non voleva sentir
storie. Non di quel tipo, quanto meno “Se ti senti in colpa, se pensi che
avresti dovuto trovarti tu là fuori al posto di Nina, allora mettiti l’anima in
pace e va’ da Rosemberg a farti prescrivere qualcosa
per farti dormire.”
Aveva
fatto un danno. Un altro.
Petra
era sbiancata, perché persino alla pallida luce della candela poteva notarsi la
sua espressione presa in contropiede “Io non- volevo solo dire che la mia
intera squadra è morta mentre io ero stata riassegnata ma….
Caporale ha ragione, avrei dovuto trovarmi io là fuori al posto del Sergente.
Mi dispiace.”
Levi
si portò la mano al volto, prendendosi il naso fra pollice e indice. Maledetto lui “Dimentica ciò che ho
detto” la liquidò, senza mezzi termini, dandole le spalle. Non era fatto per
quel lavoro “Ti ripeto che Hanji tornerà a giorni, ma
se vuoi parlare ci sono altre donne nel nostro corpo. Parla con la Klein, con
sua sorella o con Nababa. Buonanotte.”
Si
chiuse nella camera del Sergente, sfuggendo al guaio combinato come lo stronzo
codardo che era. Non aveva il cuore o la testa per prendersi cura anche di
un’altra persona. Parlarne con Jara era un conto, ma
Petra Ral?
Nemmeno
la conosceva. A mala pena ricordava il nome e solo perché l’avevano assegnata
alla sua squadra provvisoria. Non gli dispiaceva nemmeno di non poterle essere
di aiuto, perché lui non era la persona giusta con cui poter parlare. Lui
stesso avrebbe avuto bisogno di essere consolato o ascoltato in qualche modo e,
per quanto si fosse sfogato con una persona fidata per tutto il pasto, non era
bastato.
Peccato
che non fosse rimasto nessuno in quel castello con la confidenza giusta per
costringerlo a riversare i fiumi di merda
che aveva nella testa in quel momento.
I
rintocchi della campana del villaggio gli ricordarono perché non aveva la testa
per altro, riportandolo bruscamente alla realtà. Era scoccata la mezzanotte ed
era ufficialmente il compleanno di Nina.
“Un
anno vieni rapita” commentò a voce alta, lasciandosi cadere sul letto, con le
gambe a penzoloni, senza nemmeno prendersi la briga di spogliarsi delle cinghie
dell’attrezzatura “Un anno vieni rapita, un anno ti prendi cura di un malato e
quest'anno ti sei persa tra le terre dei giganti. Prima o poi riusciremo a
festeggiare senza tragedie, ragazzina.”
Kako wo mitashiteiru tsumi ga tsukutta boku de aru tame ni
Eiensei no NAIFU de kioku no Signal kizamareteru no ni
Itami sae keshisatte shimau kizuna no Spiral
Mayoikonda boku wa boku ni kiekakureteiku
Anno 845
La grande epidemia di Trost.
-Il regolamento del Corpo di Ricerca
afferma che, qualora vi fosse un disperso, è necessario attendere trentanove
giorni prima di comunicare alla famiglia il suo decesso. Allo scadere del
periodo di attesa, ovvero il quarantesimo giorno, il fascicolo in questione
viene bollato dal segretario del corpo, da in servizio a disperso in azione. -
La
tradizione voleva, invece, che si attendesse fino all’alba del quarantunesimo
prima di cambiare quello status, da vivo a morto.
Un po’ per scaramanzia, un po’ per
speranza.
Nina
aveva atteso quaranta giorni precisi prima di salire a cavallo, recandosi senza
fretta, verso il distretto di Utopia. Voleva essere presente, il giorno
successivo o quello dopo ancora, nel momento in cui il Capitano di Nedlay si fosse presentato all’uscio dei Meier per potare
loro la notizia che Fritz non sarebbe mai più tornato a casa.
Alle
sue spalle aveva lasciato una Trost al collasso,
perché dopo un mese e dieci giorni dal crollo di Maria, non vi erano stati
miglioramenti. Nessun intervento straordinario, disposizione dalla corona o da Zackley stesso, che pareva essersi chiuso in un mutismo
meditativo che non lo rappresentava per niente. Né serviva a molto. Una buona
parte degli esuli era stata allontanata dalla città per paura dello scoppiare
di una pandemia o di lotte per i pochi viveri a disposizione. Nonostante ciò,
più della metà risiedeva ancora nel distretto e la medesima situazione si
presentava anche a Karenese, Nedlay
e Clorba. Nel castello della Legione di Irsee erano state ospitate quante più persone possibili,
per garantire loro un tetto sulla testa e un letto – nel migliore dei casi – ma
la mancanza di cibo aveva reso il clima ancor più teso.
Nonostante
il pessimo umore, andavano avanti, cercando di far fronte anche alle continue
incomprensioni con i pochi sopravvissuti della Legione di Shigashina.
Ai comandi del Capitano Schäfer erano rimaste poco
più di venti anime, quasi tutte poco avvezze al pensiero di dover rispondere al
nuovo Comandante.
La
carne, la cioccolata, i limoni, il the e
molte altri generi alimentari, coltivati o allevati nelle terre di Maria, erano
divenuti ormai una rarità e ai tre ranci giornalieri se ne erano sostituiti due
assai magri, spesso o quasi sempre privi di carne, a base di legumi, fatti di
zuppe annacquate e pane raffermo che Nina era certa contenesse più segatura che
farina.
A
prescindere dal clima burrascoso che si respirava fra le pareti di solida
roccia del castello – non mangiare e dormir poco rendeva gli uomini inquieti –
la dottoressa era partita lo stesso. Levi non l’aveva accompagnata, per quanto
la cosa gli potesse rincrescere. I Meier erano sempre stati molto gentili nei
suoi riguardi e avrebbe voluto sostenere Nina in quel momento doloroso, ma lei
stessa aveva compreso che in condizioni così tese, non poteva chiedergli di
lasciare solo Erwin.
Aveva
portato con sé, però, un altro compagno di viaggio. Mathias
aveva cavalcato con lei, perché Nina era decisa a dare una vita migliore almeno
a lui. L’aveva sentito piangere ogni notte, da quando erano tornati insieme al
quartier generale, dalla brandina ai piedi del letto che divideva con un Levi
sempre più stanco e irritato, nella sua stanza da ufficiale. Erano state quelle
lacrime a farle pensare che un buon orfanotrofio in Capitale sarebbe stato
meglio di un covo di pulci a Trost. O peggio ancora,
della strada.
Non
c’era stato più bisogno di preoccuparsi per lui, una volta arrivati a
destinazione.
Dal
primo istante in cui gli occhi di Franz Meier avevano incontrato quelli spenti
del piccolo, mentre questi sedeva ancora sulla sella del cavallo del sergente Müller, aveva decretato che l’avrebbero tenuto con loro.
Jara non
era d’accordo inizialmente, ma poi l’aveva visto mangiare voracemente un pezzo
di pane, come un cucciolo randagio, e aveva capito che meritava quella
possibilità. L’avrebbe cresciuto lei, fra quelle mura, come aveva fatto con suo
fratello. Era stata però maledettamente chiara sulle condizioni.
“Non
tornerai in questa casa fra tre anni per riprendertelo, Nina. Questo bambino
non diventerà mai un soldato, né prenderà mai le Ali. Queste sono le mie
condizioni.”
Non
le avrebbe prese, lo stesso Matthias l’aveva
promesso, spaventato al solo pensiero di dover tornare nelle terre che gli
avevano rubato l’amore di una madre e l’affetto di una sorella maggiore, che
ora vedeva proiettato nella figura imponente di Jara.
La dottoressa aveva compiuto un vero e proprio miracolo, perché sin dal loro
primo incontro, quel bambino magro come un sacco di ossa e diffidente, le aveva
sorriso. Seppur intimidito.
L’avrebbe
fatto diventare un medico come ogni bambino cresciuto sotto quel tetto,
dandogli l’istruzione migliore possibile.
Non
avrebbe mai preso, per lei, il posto di quel fratello, perché non ve ne era
bisogno. Per Jara, Fritz non era morto, continuava a
ripetere a se stessa e agli altri, e presto o tardi l’avrebbe rivisto. Che era
solo disperso.
Che
sarebbe tornato.
Le
ingenti perdite avevano messo in ginocchio la Legione esplorativa, in
particolare al nord, dove rimanevano solo una manciata di soldati sotto le
direttive di Erik Schmitd e Garlef
Jürgen. Mentre il secondo citato aveva perso meno di
una dozzina di uomini, poco più del trenta per cento degli effettivi, le
perdite di Schmitd erano pari al cento per cento.
Nessuno, da Briemer, era tornato al Muro Rose in quei
quarantuno giorni. Nemmeno uno.
Per
Jürgen, invece, era diverso. Otto uomini si erano
sacrificati di loro iniziativa, decisi a portare più persone al sicuro entro le
Mura, divorati o calpestati dalla foga dei giganti. Tre, invece, li aveva
lasciati indietro lui al termine della missione che s’era conclusa qualche
giorno prima della caduta di Maria, perché feriti.
Fra
quei tre, tristemente, c’era anche Fritz. In quanto medico, non aveva abbandonato
i suoi compagni.
Uno
smacco che bruciava la coscienza di Jürgen e che mai
gli avrebbe permesso di dimenticare quei tre uomini.
Il
Capitano s’era recato stanco alla casa dei Meier il quaranteduesimo
giorno, poco prima di pranzo.
Ad
accoglierlo aveva trovato un bambino dai capelli castani e un paio di occhi
caldi, vibranti come non lo erano da settimane. Seduto sul gradino con in mano
una palla di cuoio marrone, Mati l’aveva visto
arrivare da lontano. Non aveva atteso nemmeno un istante, però. S’era infilato
in casa, chiudendosi la porta alle spalle, prima ancora che questi avesse
percorso l’arcata di siepe che disegnava l’ingresso al cortile interno della
casa.
“C’è
un soldato fuori” aveva detto veloce, guardando solo Nina, la quale aveva perso
la concentrazione, versando il the che stava servendo al loro ospite senza
nemmeno accorgersene tant’era pietrificata. Leopold si era affrettato ad
appoggiare sull’acqua bollente un panno, facendo poi per alzarsi. La giovane donna, però, l’aveva
preceduto. Era qualcosa che doveva fare lei, in mancanza di Franz e Jara.
“Nina
Müller” era stata la sola cosa che Jürgen era riuscito a dirle, nel pieno della sorpresa,
quando lei aveva accostato l’uscio per permettergli di entrare. Aveva preso il
suo mantello estivo, pregandolo di unirsi a loro per un the mentre Leopold
s’alzava in piedi a sua volta, salutando formalmente il nuovo venuto e
presentandosi a lui come il Caporale Schitz della
Polizia Militare.
Non
avevano nominato Fritz per tutto il tempo in cui erano rimasti soli, loro tre.
Avevano parlato dell’abbandono dei distretti esterni di Pereta,
Renìn e Briemer, di come la
corona non avesse voluto investire nei piani di evacuazione studiati dalla
Legione di Trost, considerandola un’azione militare
che sarebbe costata troppe vite in modo inutile. Avevano parlato di come le
loro vite erano cambiate in quelle cinque settimane, mentre si alternavano i
racconti delle veglie notturne del nord e delle operazioni di sfollamento del
sud, intervallate da Leo che non aveva peli sulla lingua nell’affermare di come
in Capitale, nessuno se ne fosse curato.
“
Non sono nemmeno suonate le campane. A noi della Gendarmeria è stato detto la
sera, durante il cambio di turno, con lo stesso tono di chi ti sta dicendo che
ha visto cadere una vecchietta dalle scale.”
“Non
curanza?”
“Patetico
quanto falso buonismo, misto a una certa ironia.”
A
nessuno, a Mitras, era importato nulla di più del
capire se vi fosse abbastanza cibo per le loro grasse pance. Nessun esule
sarebbe stato ospitato nel distretto di Utopia o nessuno nei distretti del Sina. Erano stati ritirati quasi tutti i permessi di
accesso entro le mura più interne, ad eccezione dei permessi militari e le
missive, così come le transizioni economiche, s’erano arenate. Per quattro
settimane tutto aveva cessato di funzionare, per poi riprendere in un
traballante cigolio, misero.
Jara era
rincasata proprio mentre la conservazione iniziava a farsi stentata,
stiracchiata. Jürgen s’era sbrigato a porgere le sue
più sentite condoglianze, ma non c’era stato verso di quietare la donna, che
aveva preso ad urlare come una pazza, inveendo contro l’uomo che aveva lasciato indietro suo fratello. Il
Capitano aveva preso ogni singolo urlo, ogni insulto, ogni frase accusatoria,
mentre Leopold cercava inutilmente di domarla. Alla fine c’era riuscito e
l’aveva accompagnata in stanza, a stendersi.
Nina
non aveva mai visto Jara così sconvolta.
Tutt’altra
era stata la reazione di Franz Meier. Accompagnato dal figlio di primo letto, Fabian, aveva ringraziato pacatamente il Capitano Jürgen per aver personalmente riportato quella infausta
notizia ed egli non si era risparmiato di versare una qualche lacrima discreta mentre chiedeva
il perdono dell’uomo a cui sentiva di aver portato via un figlio.
“Non
siete stato voi a portarmelo via, Capitano, ma il destino. Contro di lui non
possiamo combattere e se ho insegnato qualcosa a quel ragazzo, allora avrà
venduto cara la pelle.”
Prima
di andarsene, spezzato, Jürgen gli aveva consegnato
un sacchetto di carta. Dentro di esso, lucido d’argento, c’era l’orologio che
Franz aveva regalato al figlio il giorno in cui era diventato un dottore in
medicina a tutti gli effetti. L’aveva dimenticato a Nedlay
alla partenza per Briemer, come se infondo avesse
dovuto lasciarsi per forza qualcosa alle spalle. Franz l’aveva aperto, leggendo
l’incisione, prima di voltarsi verso Nina, prendendole la mano e piazzando
l’oggetto al centro del palmo, donandolo a lei che era esplosa in un pianto
inconsolabile.
Non
avrebbe tenuto niente vicino che avrebbe riportato alla mente dei ricordi così
belli, ma così strazianti.
Alla
commemorazione per le esequie di Friederich Meier
c’erano tantissime persone, molte delle quali giovani amici e compagni di
studio, oltre che fratelli d’armi. C’era anche Moblit,
che con Fritz aveva condiviso i tre anni d’accademia, stringendo quella che era
diventato una solida amicizia. Era nata per forza, quella loro intesa, poiché
erano soli in mezzo alle reclute dodicenni. Loro, che ormai avevano quasi
diciotto anni, avevano unito le forze in mezzo a tutti quei ragazzini e alla
fine s’erano trovati.
Berner
era comunque rimasto in disparte, in un angolo del giardino insieme a Reynolds
e a Ravenstein, con gli occhi piantati su un ritratto
ancora fresco del ragazzo in abiti eleganti, civili. Aveva guardato Jara scappare in casa a metà del discorso del padre,
seguita da Matthias, che sembrava a disagio tanto
quanto lei. Aveva quindi spostato gli occhi su un piccolo gruppetto di persone,
sedute in prima fila. La testa rossa di Leopold spiccava, poiché i capelli di
quel ramato naturale unico brillavano baciati dal sole. Alla sua destra c’era Rielke, giunto fin lì per l’ultimo addio al caro amico,
distrutto dal peso del dolore, in lacrime, scomposto sulla sedia col capo tra
le mani e le spalle che, di tanto in tanto, venivano scosse da un tremolio. Leo
gli teneva una mano sulle spalle, mentre l’altro braccio era stretto attorno
alle spalle di Nina.
Moblit
non credeva di averla mai vista così, completamente annientata e impotente.
Vestiva con un abito nero, per rispetto al lutto, con i capelli legati in uno
stretto concio sul capo. Sembrava invecchiata di dieci anni, in quel frangente.
Vennero
rispettate un po’ tutte le tradizioni. Moblit, che
rimase a dormire a casa Meier quella sera e le tre che seguirono il funerale,
spiegò che a Trost era consuetudine in tempi più
antichi tenere il corpo in casa almeno due notti e il parente più prossimo
doveva dormire con lui, nello stesso letto. Ormai quella pratica era stata
quasi del tutto abbandonata, per questo si passava quasi subito alla cerimonia
della pira, dove il corpo veniva bruciato e le ceneri raccolte in vasi colorati
o lavorati. A Stohess e a Mitras,
dove invece solitamente erano consentiti più sfarzi a causa del migliore stile
di vita, il corpo veniva tumulato. Mentre a Stohess
il lutto solitamente era scandito dalla Settimana dei Lamenti, dove per sette
giorni si piangeva il morto prima del riprendere dello scorrere normale della
vita, a Mitras non esisteva una vera e propria
tradizione. Solitamente, si attendevano due giorni e poi il corpo veniva
seppellito, posteriormente a una cerimonia sbrigativa con i parenti e gli
amici. Di rado venivano svolte celebrazioni pubbliche per le persone normali.
Fritz avrebbe avuto una bella lapide, all’interno della cappella della famiglia
Meier, ma non c’era nessun corpo da porvi al suo interno.
Per
quattro notti, tutti insieme, sedevano nella mansarda, cercando di ricordare al
meglio Fritz. Leo, Nina e Rielke raccontavano di ogni
singola volta in cui lo avevano trascinato nei guai, perché dei quattro, Fritz
era sicuramente il più moderato. O il più spaventato delle conseguenze delle
loro azioni. Da parte sua Moblit s’era divertito a
raccontare ogni singola cosa di rilievo successe nel loro ultimo anno
d’accademia, mentre loro s’erano già avveduti di unirsi ai corpi militari di
scelta.
Avevano
bevuto, riso e pianto insieme. Poi, ogni notte, quando tutta la casa si era
addormentata, Nina e Leopold s’erano recati nella stanza di Fritz, avevano
dormito nel suo letto e, in silenzio, lo avevano pianto un po’ di più.
Perché
sentivano che il vuoto nei loro petti era incolmabile.
Quando
la polvere della saracinesca abbattuta del Muro Maria si era posata e le urla
erano cessate, non era stato solo il nord a fare i conti con le ingenti
perdite. Nedlay e Briemer
erano piccoli stanziamenti con al massimo venti, forse trenta uomini per
ciascuna sede. A sud, dove erano destinati più del doppio dei legionari, c’era
stato anche il doppio dei decessi. Quando fu ordinato loro di ripiegare, il
Corpo di Ricerca aveva perso inutilmente trentatré persone, per lo più dispersi
o trovati a pezzi così piccoli da non poter essere identificati.
La
conta dei morti, quell’anno, era però ben lontana dall’essere terminata.
Il
quinto giorno dopo i funerali di Fritz, Nina si affrancò dalla famiglia Meier,
salutando Matthias, certa che quel bambino sarebbe
stato trattato bene. Con lei, sulla via del ritorno, c’era anche Moblit che si era intrattenuto per qualche giorno bisognoso
di prendersi una pausa, Pascal che aveva sentito il bisogno di rivedere la
sorella dopo tanta fatica e tanti sacrifici e Hanji,
che era arrivata fino alla corte per poter proporre un piano di contenimento
strutturale per la costruzione di alcune case nel distretto di Trost dove poter ospitare gli esuli. Richiesta che venne
ignorata. Non c’erano i soldi nemmeno per sfamare le persone, non potevano
esserci per ergere edifici.
Cavalcarono
dimessi, parlando solo all’occorrenza, ancora turbati dai fatti recenti, dalla
perdita dei territori di Maria e dei tanti amici che avevano dato la loro vita
per proteggere la popolazione evacuata fino alle poche risorse di cui ora
potevano disporre per il corpo. Come sarebbero sopravvissuti, a pane vecchio e
zuppe annacquate?
Fu
quindi l’ennesima batosta, quella che li attendeva una volta arrivati allo
snodo che portava dal sentiero principale a Trost,
seguendo il corso del fiume a sud oppure a Irsee, più
a occidente.
Un
posto di blocco della Guarnigione era stato arrabattato alla meno peggio e lì,
seduti su due sedie di fronte a una piccola tenda color terra, due guardie
stazionarie parevano attenderli.
“Non
è possibile proseguire, signora” dissero rivolti a Hanji,
la prima della piccola fila. Nina scambiò uno sguardo con Moblit,
mentre Pascal ondeggiava il capo, ribaltandolo all’indietro, perso nel rimirare
il cielo con una canzoncina serrata fra le labbra.
“Come
mai?” chiese col solito tono gioviale il caposquadra, mentre la sua seconda si
accostava col cavallo “Siamo di istanza da Irsee. Il
nostro Comandante potrebbe non essere d’accordo con questa interruzione di
viaggio.”
La
guardia più vicina le rispose teso “Penso capirebbe, se non tornaste.”
“Una
brutta epidemia” fece sapere il collega, con tono mesto “Il vostro quartier
generale potrebbe essere silenzioso come un cimitero, al momento. Abbiamo
sentito che ad Irsee, il villaggio ha preso le
distanze dal castello per contenere il contagio arrivato dalla città.”
“Una
epidemia?!” a parlare, questa volta, fu Nina. Era successo esattamente ciò che
avevano temuto per tutto quel tempo e lei non riuscì a non sentirsi un’inutile
voce inascoltata “Di che natura?”
“A
quanto ne sappiamo, è esplosa tre giorni fa e ancora nessun dottore ha inviato
il dispaccio per far sapere di che male si tratti.”
Tre
giorni erano un significativo periodo di tempo in quelle circostanze.
Tristemente, poteva essere determinante.
“Andiamo”
Nina girò il cavallo, pronta a correre lì, ma nel momento in cui venne
trattenuta nuovamente, ci pensò Moblit ad acquietare
gli animi con un’insolita decisione.
“Secondo
il decreto otto delle linee della condotta militare” disse con tono pretorio,
spingendo avanti il cavallo fino a scansare senza mezzi termini lo stazionario
d’intralcio “Il primo ufficiale medico ha autorità assoluta nelle situazioni di
pericolo sanitario. Nina” guardò l’amica “Se dirai che dobbiamo andare,
andremo.”
Lei
non aveva dubbi “Io devo andare e devo farlo subito.” Tirò le redini,
impaziente di ripartire “Voi però non siete obbligati a seguirmi. Tornate
indietro, mandate antibiotici e state al sicuro.”
A
porre fine ad ogni diatriba, ci pensò Hanji. Sorrise
per dar conforto alla giovane donna, appoggiandole una mano sulla spalla mentre
si sporgeva verso il suo cavallo “Andremo tutti. Ci sarà bisogno di una mano.
Penseremo alle provviste mediche quando avrai identificato ciò con cui abbiamo
a che fare.”
La
visione più catastrofista che ognuno di loro quattro poteva aver anche solo
immaginato, non era comunque paragonabile a quello che trovarono di fronte una
volta sorpassato l’ingresso di quella che era sempre stata la loro casa. Aveva
avuto ragione quello stazionario: in quel frangente, assomigliava di più ad un
cimitero.
Così
tante persone in uno spazio così delimitato potevano portare a un epilogo
orribile. Nina appoggiò la mano sulla mascherina che aveva appoggiata sulla
bocca e sul naso, respirando il profumo della menta fresca. Si erano fermati
lungo la via, utilizzando fazzoletti e lembi di stoffa per schermarsi dal
morbo, infilando qualche foglia di quella pianta fra le pieghe. Nina era una
ferma sostenitrice della teoria secondo la quale, alla base di un contagio
epidemico, vi fossero gli odori.
La
puzza, per essere precisi.
E
la pila di cadaveri che giacevano poco fuori dalla base della Legione,
accatastati con poco riguardo sotto al sole di maggio, erano un vero e proprio
focolaio infettivo.
“Questi
vanno bruciati subito” Moblit parve leggerle nel
pensiero, mentre anch’egli osservava l’orribile visione. La mascherina non
ovattava affatto il tono raccapricciato “Potrebbero infettare l’acqua del
pozzo.”
“Mi
chiedo perché non lo abbiano ancora fatto” Nina lasciò i cavalli proprio al
biondo e a Pascal, rifiutandosi di cercare fra i morti qualche volto amico ed
entrando trafelata insieme al superiore. La corte interna e il salone
d’ingresso erano deserti.
Ad
attenderle trovarono una piccola folla stipata in quella che era la mensa. La
dottoressa si guardò attorno, cercando con gli occhi Levi o Erwin, ma trovando
solamente Mike, chino su qualcun altro “Questo non va bene. troppe persone
in un luogo chiuso.”
“Cerco
qualcuno che mi aiuti ad aprire tutte le finestre” sbrigativa, Hanji le girò attorno, lasciandola lì ad esaminare la
scena. Non sapeva da che parte iniziare, il medico. Attorno a lei, civili e
soldati, dividevano le medesime sofferenze e lei non era un epidemiologa. Era
un chirurgo.
Si
diede comunque da fare, perché per quanto ne sapeva, era il medico più navigato
in quella bolgia.
Non
toccò nessuno prima di aver infilato un paio di guanti di cuoio scuri, passando
poi in rassegna una donna con il figlio, i più vicini a dove si trovava lei. Il
giovane, che pareva avere quattordici anni, scottava di febbre e aveva le
ghiandole della gola infiammate, eppure se ne stava chino sulla madre che,
stesa sulla tavolata di legno con una giacca arrotolata sotto al capo a ‘mo di
cuscino, sembrava essere in punto di morte. Era fredda come il ghiaccio, però.
“Una
febbre fredda” soppesò la dottoressa, sentendole le pulsazioni e constatando
quanto debole fosse il battito “Una infezione di qualche tipo che ha preso le
ghiandole, ma che da febbre fredda?”
“Nina!”
La voce di Erwin le fece alzare di botto il capo. La raggiunse in due rapide
falcate, spostando senza troppe cerimonie un uomo che lo ostacolava.
“Come
ti senti?” domandò a bruciapelo, notando il colorito della pelle dell’uomo e le
borse sotto agli occhi arrossati. Non gli diede il tempo di rispondere, ad ogni
modo. Appoggiò il polso scoperto alla fronte, tirandoselo più vicino “Scotti da
morire” fu la sola cosa che commentò amaramente, guardandosi attorno per
cercare un posto in cui farlo sedere.
Lui
però le prese il viso fra le mani, mantenendo però una certa distanza per non
infettarla “Levi sta molto peggio di me” le fece sapere senza tatto, spicciolo,
riuscendo a farle tremare la terra sotto alle suole “Da stamattina” aggiunse
quindi, cercando di essere più specifico “Non è debole come molti altri, ma è
bollente e ha i tremori. Ah! E dice di avere molto male alla schiena.”
“Dov’è?”
chiese la sorella, stringendogli i polsi con le mani.
Troppe
cose da fare e c’era solo lei. Dov’era Alana?
“Non
ne ho idea. Era qui poco fa, credo sia andato a prendere qualcosa in
infermeria. Si è ben guardato dal darmi retta quando l’ho spedito a letto, in
ogni caso.”
“Così
come hai fatto anche tu” la dottoressa allontanò le sue mani, mortalmente seria
“Sei il Comandante dell’esplorativa e questa malattia potrebbe essere
potenzialmente mortale. Devi andare via di qui, ora. Va’ nei tuoi alloggi e
rimani lì. Verrò a visitarti tra poco.”
Lo
sguardo di Erwin si irrigidì “Non abbandono i miei uomini.”
Nina
lo sapeva che avrebbe risposto a quel modo, ma doveva trovare un modo per
convincerlo a non rimanere lì in mezzo a tutti quei malati. “Devi farlo ora!”
“Non
puoi darmi ordini, Nina! Visita queste persone e scopri di cosa si tratta,
invece!”
Attorno
a loro, commilitoni e civili osservavano la scena, un po’ col fiato teso. Erwin
sembrava arrabbiato o in qualche modo ferito dal pensiero di andarsene di lì,
come un codardo, che fosse per ordine medico o meno. Quel lungo scambio di
sguardi proseguì per quello che parve un momento sospeso, poi la voce di Hanji li costrinse a voltare lo sguardo nella sua
direzione.
“Moblit, cos’è che hai detto mentre eravamo per strada?
Quella roba sul decreto otto?”
Il
povero ragazzo, sentendosi colto in contropiede nel venir tirato in causa
avvampò, guardando quasi spaventato il Comandante che adesso pareva indirizzare
tutta la sua ira su di lui “Ecco” sussurrò, incerto “In caso di pericolo
sanitario, il primo ufficiale medico ha autorità assoluta.”
“Anche
sul Comandante” gli diede inaspettatamente man forte Nababa,
che contrariamente a lui, non temeva che Erwin potesse avercela o meno con lei
“Non c’è da scherzare con la salute.”
“No,
infatti” Nina sospirò, un po’ nervosa. Andava fatto quel che era giusto
“Comandante Erwin Smith, mi appello al decreto otto delle linee di condotta militare,
ordinando che lei si ritiri nei suoi alloggi immediatamente.”
Non
ci fu niente da fare. Erwin resse quello sguardo incredibilmente risoluto,
almeno quanto il suo, prima di sospirare facendosi piccolo all’improvviso “ Va
bene” esalò in fine, alzando una mano in segno di resa “Ti lascio il comando.”
Quelle
parole furono più terrificanti di qualsiasi altra cosa Nina avesse mai sentito
in tutta la sua vita.
“No,
un attimo.” Lo fermò, tirandolo per una delle cinghie un po’ lente, sulla
schiena “In che senso il comando? Io ho autorità solo sulle faccende di ordine
medico.”
“Rileggi
un po’ meglio il regolamento interno. Con ‘autorità assoluta’ si intende
esattamente questo.”
Ella
deglutì a vuoto, sentendo improvvisamente come quell’incombenza le avesse
asciugato la bocca. “Posso gestirlo” esalò alla fine, ma quella frase aveva lo
stesso peso di una domanda stentata “Lagnar” chiamò infine, risvegliando una
giovane ragazza dal volto coperto di lentiggini scure, la quale faceva parte
della ormai dipartita legione di Shigashina “Va con
lui e occupati dei suoi bisogni. Nel caso in cui dovesse avere bisogno di un
dottore, chiamami.”
“Sì,
signora.” La moretta si battè la mano sul petto,
seguendo il comandante fuori dalla stanza. Nonostante la mensa fosse piena di
persone, non volava più nemmeno una mosca.
Nina
sgranò gli occhi sul pavimento, parendo intenzionata a permanere nel mutismo.
Fu
Sankov a risvegliarla da ogni voce malevola che le
tormentava i pensieri, guardandola dall’alto verso il basso attraverso il suo
sguardo composto “Ora che hai mandato a letto il Comandante del corpo di
ricerca come un lattante, quali sono i tuoi ordini, Comandante provvisorio Müller?”
Suonava
così strano da farle effetto, ma Sankov aveva
ragione. Il tempo stringeva “Per prima cosa, vanno bruciati i morti” disse
meditativa, portando la mano al collo, come se sentisse effettivamente il peso
di quelle decisioni. Se prendeva quelle sbagliate e lasciava morire delle
persone, sarebbe stata solo colpa sua. “Sankov,
organizza una squadra di uomini forti, anche civili, che ti dia una mano a
farlo. Tieni due registri separati, segnando i nomi dei morti, dividendo i
soldati dagli altri.”
“Agli
ordini” l’uomo si voltò subito, iniziando a chiamare in fretta qualche nome e a
indicare chi l’avrebbe aiutato.
“Nababa, Mike, Ness e Thoma” proseguì quindi la dottoressa, riuscendo finalmente
ad adocchiare anche Alana e sentendosi
incredibilmente grata di averla lì. Ogni medico sarebbe stato prezioso “Voi
occupatevi delle persone in questa stanza. Gli ufficiali nelle loro stanze
private, i soldati nei dormitori. Qui voglio solo i civili e che ci siano
almeno un paio di metri di distanza tra uno e l’altro o sarà impossibile girare
fra le persone per prestare le cure mediche. Bossard!”
la recluta sobbalzò. Oluo guardò verso il sergente
con gli occhi sgranati, in attesa di ordini “Va al villaggio di Irsee, alla locanda di Rheva.
Dille che c’è bisogno di qualcuno che cucini delle zuppe. Procurati anche delle
galline per il brodo, senza della carne, qui non guarirà proprio nessuno.”
“Non
troverai mai nessuno disposto a venderti delle galline” le fece sapere poco
speranzosa il Caporale Marlene.
“Lo
so” rispose Nina, “Vai con lui e porta qualcuno dei tuoi uomini. Rubatele se
necessario.” Nemmeno si preoccupò di abbassare il tono, a quel punto. Avrebbero
pagato ogni cosa alla conclusione di quel tremendo momento “Il team medico e
quello scientifico devono preparare l’infermeria e lì spostare i più gravi. Moblit, occupati di questo”.
“Lo
farò subito” le fece sapere il castano, guardandola allontanarsi “Tu che
farai?”
“Devo
trovare Levi. Vi raggiungerò in infermeria prima di quanto pensi” rispose, non
voltandosi ma alzando semplicemente la voce. Fece sedere una donna, mentre si
allontanava “Prendete ogni libro di medicina che ho e iniziate a sfogliarlo.
Dobbiamo capire con cosa abbiamo a che fare!”
Aveva
trovato Levi sulle scale, piegato su se stesso, contro al muro.
Non
era mai arrivato in infermeria, colto probabilmente dalla spossatezza del
morbo.
Appena
Nina l’aveva toccato, s’era accorta che bruciava di febbre.
L’aveva
aiutato ad arrivare fino alla camera, liberandolo delle cinghie
dell’attrezzatura che erano state montate alla meno peggio dalle mani tremanti
dell’uomo che non faceva altro che offendersi da solo e offendere qualsiasi
cosa gli venisse in mente, lucido nonostante la malattia e frustrato dal
sentirsi così debilitato.
L’aveva
visitato a dovere, era stato il primo su cui si era concentrata, segnandosi
ogni minimo sintomo: l’uomo aveva la gola infiammata, la sentiva ‘grattare’
ogni volta che deglutiva e, a parte la febbre alta con conseguente dolore alle
articolazioni, non sembrava soffrire di null’altro. Forse una leggera
tachicardia, ma Nina non poteva escludere che fosse data dal suo caratterino
così tanto accomodante.
Erwin
era tutt’altra storia.
Sudava
moltissimo e, nonostante la febbre fosse molto più bassa di quella di Levi,
sosteneva di vederci doppio.
Il
terzo a sentirsi male e ad essere costretto a letto fu Mike. Nina stava uscendo
dalla stanza del fratello quando Gelbert corse a
chiamarla per avvertirla di ciò che era successo. Aveva avuto un giramento di
testa mentre faceva spostare un paio di reclute dalla mensa al dormitorio del
terzo piano ed era andato lungo e disteso in terra creando anche un certo
boato.
“Più
sono grossi più fanno rumore quando cadono” aveva sdrammatizzato mentre Nina lo
visitava, non riuscendo a farla ridere.
I
suoi sintomi erano ancora diversi. Aveva mal di gola come Levi e la vista
sdoppiata come Erwin, ma era freddo come un morto. Faticava addirittura a
parlare senza balbettare in modo strano.
Confrontando
queste analisi con quelle fatte sommariamente a tanti altri pazienti, Nina si
ritrovò a pensare che poteva essere davvero qualsiasi cosa.
“Forse
potrebbe essere labirintite.”
Dopo
più di due ore e mezzo sui libri, iniziarono quasi a tirare ad indovinare.
Nina
non poteva biasimare nessuno per questo, nemmeno Alana,
che si era sbilanciata e aveva buttato la prima cosa che le era venuta in
mente. La giovane Klein però non era un dottore e quella ne era la prova.
“La
labirintite non fa salire la febbre” le rispose Nina, continuando a camminare
avanti e indietro per l’infermeria. Era la sola a non aver sotto un manuale,
perché tutto ciò che c’era bisogno di sapere lo conservava bene in una scatola
nella mente, “Senza contare che ho le orecchie a tutti e tre e non hanno
infiammazioni. Se fosse labirintite, l’avrei notato così.”
Hanji
sospirò, greve “Pensiamo a tutte le malattie che possiamo escludere, allora”
propose iniziando ad alzare le dita “Non è Morbo Nero, né polmonare né
bubbonico o lo avremmo trovato visitando i malati. Non è nemmeno febbre tifoide
o avremmo notato delle macchie sulla pelle.”
“Non
è nemmeno febbre emorragica” proseguì per lei Moblit,
passandosi le mani sugli occhi che bruciavano per lo sforzo, mentre accanto a
lui Pascal prendeva nota di le Mura solo sanno cosa “Nemmeno colera. Forse le
prime fasi della lebbra?”
“Il
Male degli Indigenti è diverso” gli rispose Alana,
appoggiandosi con le braccia incrociate al libro e guardandolo “Ci vogliono
anche cinque anni perché i sintomi si manifestino, il decorso della malattia è
troppo lungo.”
“Dobbiamo
stringere il campo a qualcosa che abbia bisogno di un periodo di tempo di
incubazione molto breve” esordì a quel punto Pascal, parlando velocemente,
senza smettere di scrivere ma riuscendo comunque ad alzare i grandi occhi
pervinca per guardare verso la dottoressa. Il risultato fu inquietante “Siamo
partiti meno di dieci giorni fa per Mitras e stavano
tutti bene.”
“Pensavo
alla meningite” soppesò Nina, scambiando con lui uno sguardo “richiede dai tre
ai dieci giorni e come sintomo comune c’è il mal di testa, che provano sia Levi
che Erwin. Mike, però, no.”
“Sarebbe
coerente però con la differente temperatura dei soggetti” Alana,
sfogliò rapida il libro, leggendo qualche riga “Non è necessaria la presenza di
febbre, ma è ricorrente.”
“Molti
non hanno né febbre né dolore alla testa” disse Nina, appoggiandosi alla
finestra “Senza contare che gli altri sintomi principali non sono compatibili
con la maggior parte dei pazienti.”
“Quali
sono questi sintomi?” chiese Moblit.
Alana li
lesse a voce alta “Irritabilità, dolore articolare, letargia, eruzioni cutanee
e convulsioni.”
“Per
l’irritabilità non possiamo usare Levi come campione di riferimento” ridacchiò
sotto i baffi Hanji, decisa a non farsi abbattere
dalle circostanze “Il vaiolo e l’impetigine?”
“Il
vaiolo ci mette quattro settimane a manifestarsi” le disse Nina, “L’impetigine
non porta febbre.”
“Magari
ha iniziato ad incubare un mese fa?”
Nina
scosse piano il capo “Difficile, il muro Maria è crollato appena sei settimane
e mezzo fa. Non c’è possibilità che le condizioni igieniche abbiamo portato a
un’epidemia così tanto rapida di qualcosa come il vaiolo, a mio parere. Poi, se
fosse davvero questo, avrebbero tutti le bocche piene di ulcere, noi compresi
che non stiamo male perché non eravamo qui in questi ultimi dieci giorni.”
“Non
fa una piega” Moblit suonò più amareggiato di quanto
volesse, ma aveva una paura del demonio di ciò che stava succedendo e non
stavano arrivando da nessuna parte. Era frustrante. “Possiamo escludere anche
pertosse, morbillo, sifilide e tigna.”
“Anche
la rosolia” Pascal chiuse il libro che stava tenendo sotto, prendendo quello
che Moblit fiocamente aveva sfogliato fino a quel
momento per rivederlo per bene, strappandogli un’occhiataccia “Che cosa c’è?”
gli chiese, innocentemente sorpreso. Pascal non si sarebbe mai accorto di
parere sgarbato o meno “Voglio rivedere il tuo lavoro perché tu sei distratto.”
“Scusa
se ho paura di morire” gli soffiò in faccia Berner,
ferito dal compagno di squadra.
Lui,
di rimando, gli sorrise “Il corpo è debole, è vero. Ma la mente è forte”
concluse pragmatico, fermandosi su una pagina in particolare che aveva
catalizzato la sua attenzione “Io non voglio ammalarmi e non mi ammalerò.”
“Fosse
così semplice, Von Pedrick.”
“Bambini
basta” li riprese Hanji, prima di guardare Nina.
Trovò la dottoressa a fissare fuori dalla finestra, laddove sapere si
intravedeva la colonna di fumo della pira che Sankov
stava coordinando. Non andava affatto bene “Cosa ci rimane, quindi?” incalzò il
caposquadra, alzandosi per accostarsi a lei.
Nina,
però, non rispose subito. Si concesse un istante di puro sconforto, nel quale
porto una mano alla bocca.
Poi
ingoiando il magone, esternò la sua debolezza.
“Non
so cosa sta succedendo.”
Nda.
Sono
viva! Non sono morta!
Ancora
non ci credo che FINALMENTE sono riuscita ad aggiornare.
Per
cause di forza maggiore – ovviamente l’università –non sono riuscita a finire
questo capitolo prima e mi scuso tantissimo con i pochi ma buoni lettori che
ancora mi seguono.
Per
prima cosa a parte ringraziare voi per la vostra pazienza, è doveroso citare Shige, che non ha solo betato
questo capitolo, ma mi ha anche dato tanti preziosi consigli.
Oltre,
ovviamente, a sparare un sacco di cazzate con me su WhatApp.
Quindi
grazie grazie grazie!
Se
non la conoscete, vi lascio il link della sua storia –che deve continuare *tono minaccioso*- proprio qui:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3416535&i=1
Sta
scrivendo anche due week: una su Erwin e una natalizia.
Passate,
ne vale la pena. Scrittrici brave, in questo fandom,
purtroppo ne abbiamo poche.
Secondariamente,
vi ricordo la storia della nostra RLandH, che scrive
parallelamente a me.
I suoi
personaggi sono miei, i miei suoi.
Sempre
quella storia insomma, solo spostata geograficamente un po’ più a nord: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3529133&i=1
Scrivi
Luna. Hai preso ventinove a medievale, ore scrivi o Arima
discenderà per picchiarti con l’ombrello.
Vi
faccio gli auguri di buon natale, visto che anche quest’anno è finalmente
arrivato.
Vi
penserò mentre leggete e io sto pulendo la casa perché mia mamma a Levi gli fa na…. Carezza.
Diciamo
carezza per non essere volgari.
Jingle
bells a presto con la parte due di questo never a joy!
Un
bastoncino zuccherato natalizio,
CL.