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Autore: Return_to_Nibelheim    24/05/2009    2 recensioni
L’amore di una figlia per il proprio padre è una forza indistruttibile anche se col tempo un insistente stillicidio di delusioni può finire per corromperlo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Riza Hawkeye
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Aforisma del giorno:

Se non ci fosse chi guarda i personaggi che amiamo

con occhi diversi dai nostri

avremmo fan fiction tutte uguali.

 

 

 

SUNDAY

 

For those who wake

With a blind headache

Who must be still

Who will sit and wait
For Sunday, to be Monday[1]

Sia - Sunday

 

 

L’amore di una figlia per il proprio padre è una forza indistruttibile anche se col tempo un insistente stillicidio di delusioni può finire per corromperlo.

 

*

 

Il primo sentimento che ho provato per mio padre fu di incontenibile fierezza, una sorta di riconoscenza per il fatto che proprio quell’uomo fosse mio padre: era il più bello ai miei occhi, il più intelligente di tutti i papà. Sapeva un sacco di cose che non erano scritte sui libri. Imparava a memoria formule guardate per pochi secondi che non entravano nello spazio di una lavagna e ad eseguire a mente computi complicatissimi senza sbagliare un risultato. Era di quegli uomini burberi e scostanti, intransigenti con se stessi più di quanto non lo fossero con gli altri, un maestro severo ma straordinario che non lesinava le punizioni all'occorrenza. Quello che riusciva a fare con la sua alchimia, poi, era un qualcosa di tanto straordinario da sembrarmi una magia, al punto che la prima volta in cui lui, così geloso dei suoi studi da non condividerli neppure con la donna che amava, mi permise di entrare nel suo laboratorio ne fui tanto emozionata che sulla soglia mi misi a tremare.

Ricordo l’orgoglio con cui le prime volte mi aggrappavo a un lembo dei suoi pantaloni, la sensazione di sentirmi piccola piccola, il timore reverenziale con cui presi in mano il mio primo testo di studio: ancora oggi nell’alzare gli occhi da un libro ho vivida in mente della sua schiena curva sulla scrivania alla luce tremula di una candela. A volte, poi, entrando in una stanza avverto l’odore di zolfo che impregnava casa mia.

Anni dopo, all’Accademia, nel vedere quei padri che salutavano i nuovi arrivi con le solite, banali, patetiche parole d’incoraggiamento e orgoglio, avrei dato qualsiasi cosa per un abbraccio.

 

Un lunedì d’inverno come tanti altri, mi pare che avessi non più di una decina d’anni, me ne stavo seduta da sola sul bordo del laghetto ghiacciato, in disparte. Seduta sulla neve morbida con le braccia strette attorno alle cosce e il mento poggiato sulle ginocchia osservavo giocare gli altri bambini, in piccoli gruppi o coi loro genitori, senza nessuna emozione particolare. Non morivo dalla voglia di andare lì con loro e non desideravo neppure che i miei genitori venissero a farmi compagnia: mio padre era ormai assorbito dalle sue ricerche in modo tanto maniacale da saltare spesso e volentieri i pasti, e mia madre neanche si alzava dal letto. L’ultimo dei loro problemi era occuparsi di me, e lo capivo.

Erano noiose, quelle persone. Coi loro bei vestiti e le loro risate spensierate, con le loro corse sul ghiaccio e le battaglie a palle di neve degne di un romanzetto, erano come quei film che non ti emozionano come avresti pensato quando hai deciso di andare al cinema ma che resti a vedere fino alla fine per non perdere i soldi del biglietto.

Poi cominciò a soffiare il vento freddo del pomeriggio inoltrato.

E io, col sedere immerso nella neve e con addosso solo una lunga sciarpa a farmi da cappotto, ebbi freddo. La gente cominciava a tornare a casa, io invece non ne avevo voglia. Fu allora che, nel poggiare una mano per terra alla ricerca di una posizione che mi permettesse di rannicchiarmi di più, notai che la neve era abbastanza compatta da far restare l’impronta nitida del mio palmo.

Come inchiostro sulla carta.

Come gesso sul pavimento dello studio di papà.

In fondo l’avevo visto fare tante volte, non mi pareva complicato.

Tracciai il cerchio alchemico e feci tutto esattamente come l’avevo visto fare mille volte nello studio del seminterrato: ma evidentemente non ero stata abbastanza attenta, o una ciocca dei capelli di papà doveva aver coperto un passaggio fondamentale, perché non so cosa successe esattamente, ma quella spirale di fiamme che si sprigionò contro di me non era davvero prevista. Caddi all’indietro con uno strillo acuto e atterrito, mentre questa piroettò tra i rami del grosso albero che mi sovrastava, scivolò sopra di me con l’eleganza di una pattinatrice, per poi spegnersi in uno sbuffo di niente. E io rimasi immobile lì dove mi trovavo, tremula e ansante, immersa nella neve a faccia in su, con uno strano odore di bruciato nelle narici anche se non sentivo dolore, ad osservare il cielo pervinca della sera. Ero rimasta così sconvolta dall’accaduto che, nel disperato tentativo di rimuoverne il ricordo il prima possibile, avevo cercato di concentrare i pensieri solo sul fatto che “pervinca” fosse una parola molto stupida. Non mi accorsi dell’arrivo di papà finché non mi sentii sollevare brutalmente per le braccia e rimettere in piedi. Me lo ritrovai davanti senza cappotto, con un fiatone che lo scuoteva tutto, e non resistetti.

Gli gettai le braccia al collo e cominciai a piangere.

Per qualche anno fui convinta che il ricordo di quel giorno mi fosse rimasto tanto impresso nella memoria per via della paura, e della sonora e mortificante sculacciata che presi arrivata a casa. La prima e l’unica della mia vita, credo. Poi in seguito capii che quella fu l’unica volta in cui lo vidi comportarsi da genitore.

 

Eppure a dispetto di tutto un padre rimane il primo amore di una figlia, e io ho sempre preso le sue difese: quando le pareti della nostra casa si sono riempite di crepe e la notte rimanevo sveglia perché i tarli mi stavano mangiando il letto. Quando le visite di parenti e amici si sono fatte via via meno frequenti finché l’unico a bussare alla nostra porta fu il signor Mustang. Quando vidi gli occhi di mia madre spegnersi invocando il suo nome, mentre lui portava a compimento i suoi studi. Crebbi, mi feci donna, ma anche quando con l’età della ragione fu chiaro a me e al signor Mustang che il “Maestro Hawkeye” fosse una persona da cui avrei fatto meglio a tenermi alla larga, non riuscivo ancora a smettere di volergli bene.

Dio, per odiarlo non sarebbero bastate tutte le prove del mondo.

Neppure la notte in cui mi trascinò giù dal letto e, con gli occhi smunti e tirati all’indietro che gli brillavano di follia, mi convinse a diventare parte della sua alchimia. - Ora sei parte di me… - mi aveva detto alla fine asciugandomi le lacrime dagli occhi con una carezza affettuosa.

E io avevo pianto più forte.

Per tutto quel tempo non era bastato essere sua figlia.

 

*

 

Il padre è il primo esemplare di uomo con cui una donna interagisce.

Ma se l’esemplare è danneggiato o imperfetto si viene rimborsate in qualche maniera?


 

[1] Per quelli che si svegliano con un mal di testa da scoppiare, che devono star fermi, che si siederanno e aspetteranno che Domenica diventi Lunedì.

   
 
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