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Autore: bubblekush23    29/12/2016    1 recensioni
Corinna ha diciannove anni ed è rimasta impigliata nelle preoccupazioni di una quarantenne.
Felix di anni ne ha ventinove, non vuole pensare alla tappa dei trenta ed è un irrimediabile romantico.
Si incontreranno per caso, con la scusa di una sigaretta e finiranno per rivoluzionare la visione della vita che hanno.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Mi sveglio disorientata dal sogno che ha soggiogato la mia mente nelle ultime ore di sonno. 
Quello che ricordavo del volto di mio padre impresso nella mente. 
È curioso come il cervello si ricordi parti del volto, ma non riesca a rielaborarle in una faccia. 
Ripenso a Felix e alla notte scorsa, cercando goffamente di scacciare via un moto di pensieri a cui non ho proprio voglia di badare. 
Non oggi almeno. 
A tastoni cerco il telefono abbandonato sul materasso e noto con gli occhi ancora impastati dal sonno la notifica di un messaggio. 
È Felix che mi da il buongiorno e spende parole su quanto sia bello il ristorante dove mi porterà stasera, mi chiede anche l'indirizzo. 
Passerà a prendermi alle otto. 
Sorrido e digito lettere. 
Mi giro sul cuscino e il letto di Noah è vuoto, il piumone accartocciato ai piedi del letto. 
Starà tenendo la mano di Maya con le unghie smaltate, guardando a destra e a sinistra prima di attraversare e lasciandola davanti al cancello di scuola, ma posandole lo sguardo addosso finché non varcherà il portone principale. 
Quasi mi sento in colpa per non essermi svegliata stamattina e averla almeno avvisata che oggi non sarebbero stati i miei occhi a vigilare su di lei. 
Abbandono il tepore del letto che sono le nove passate e mi inginocchio sulla moquette color vino. 
Afferro un barattolo di caffè, contenente i miei risparmi, e lo svuoto al suolo. 
Non avrei scroccato altre sigarette a Felix e mi sarei portata abbastanza soldi per pagare la mia metà del conto, non sapendo se avrebbe offerto lui. 
Afferro una delle tre banconote da cento, la infilo nel reggiseno e ripenso a quando ci mettevo tocchetti di hashish. 
Avevo cominciato a fumare a sedici anni per provare, un po' come fanno tutti e poi, era diventata una vera e propria dipendenza mentale. 
Sentivo sempre la necessità di rifugiarmi nel mio piccolo mondo fatto di risate e pensieri inconcludenti. 
A pranzo mangio davanti al frigo, qualche avanzo del cinese ordinato la sera pima. 
Delle volte mi improvvisavo cuoca, cucinavo piatti elaborati e apparecchiavo la tavola, fingendo di aspettare qualcuno. 
Mentre faccio partire la lavastoviglie sento una chiave girare nella toppa e la porta aprirsi. 
«Cori, sono a casa!». 
È la voce cristallina di mia madre. 
«Mamma? Che ci fai a casa?» le chiedo, affacciandomi dalla cucina. 
Posa la sua borsa, piena da sembrar che stia scoppiando, e si sfila il cappotto in lana cotta. «Solo mezza giornata oggi, per fortuna! Questo pomeriggio Maya ha danza?». 
Annuisco. 
L'avevo avuta io quest'idea, Maya e la danza. 
L'avevo iscritta al corso che la scuola proponeva senza chiedere il permesso a nessuno, ripensando a quando a due anni s'infilava un tutù rosso e vorticava in salotto. 
Mamma sprofonda sul divano. «Bene, vado a prenderla io dopo». 
Mi siedo accanto a lei con le gambe incrociate ed accendo la tv. 
Non le piaceva il silenzio, le facevano compagnia da tempo le voci di quella scatola ed era la prima cosa che faceva una volta arrivata a casa accenderla. 
«Vuoi qualcosa da mangiare?». 
Distoglie lo sguardo color miele da una puntata di Criminal Minds, annuisce e: «Ma come mai sei in pigiama?». 
«Noah ha portato a scuola Maya oggi» le spiego, aggiundo dell'acqua in una confezione di noodles e mettendola nel microonde. 
«Ah». 
È sorpresa come me la notte scorsa. 
Né io né lei nutrivamo molta fiducia nel genere maschile in generale e Noah non faceva eccezione sebbene fosse mio fratello, suo figlio. 
Il microonde suona e io le porto il suo pranzo per oggi. 
Tra un grazie e un accidenti, si era scottata il palato con una cucchiaiata di brodo rovente, mi dice: «È bello che ti voglia alleggerire un po' il carico, che ci sia finalmente arrivato». 
A mia mamma piace dirle così le cose, non dicendole. 
Pretende che tutti ci arrivino prima o poi a delle conclusioni, che nella sua mente sono scontate. 
Quando posso io le cose le dico e basta, se non feriscono troppo. 
A mia mamma infatti non dicevo quasi mai quanto mi pesasse questo ruolo di figlia responsabile. 
Mi piacerebbe ogni tanto fare una cazzata, farle mettere le mani tra i capelli e buttar fuori aria incandescente dalle narici. 
Lasciavo questo ruolo a Noah e a Maya, rimanendo spettatrice silenziosa di litigate e castighi. 
Mi siedo vicino a lei, annuso il suo profumo fruttato e la guardo passarsi un mano tra i capelli tinti di biondo. 
È sempre stata bella. 
Da piccola ero gelosa di lei. Quando veniva a prenderci a scuola tutti i nostri compagni avevano occhi solo per lei, sghignazzavano tra di loro e le guardavano le forme. 
Il telefono vibra nella tasca della tuta, lo afferro e leggo un messaggio di Felix. 
Un sorriso spontaneo piega le mie labbra carnose, l'unica eredità sul mio corpo di Eleni, mia madre. 
«Come mai quel sorriso?» chiede, aggrottando le sopracciglia pinzettate e guardandomi furba. 
Le guance prendono fuoco. «Quale sorriso?». 
Ride beffarda. «Il sorriso che hai appena fatto!» esclama per poi aggiungere: «Come si chiama?». 
Beccata in flagrante. 
Lisciandomi la frangia color caffè mormoro il suo nome.
Mamma mi rifila un sorriso dolce. «E com'è?». 
Com'è? È bello, mamma, di una bellezza oggettiva, sembra simpatico con la battuta sempre pronta ed è così sicuro di sè al punto di schernirsi da solo. 
Ha anche dieci anni in più di me, mamma, ma nonna Myrsini dice che gli uomini maturano più tardi e di cercamene uno più grande come ha fatto lei. 
Questo mi piacerebbe dirle, ma non posso. 
So già quale associazione mentale farebbe: dieci anni in più equivale nella sua testa a uno squilibrio nel cercare quel cane di suo padre in un partner.
L'ho imparato a dodici anni quando entrando in camera aveva arricciato le labbra vedendo il poster di un attore sulla quarantina e intavolato una conversazione che m'aveva fatto sentire un mostro. Dopo quel giorno avevo buttato il poster, dimenticato persino il nome dell'attore e ricoperto il mio pezzo di muro con le facce dei Jonas Brothers. 
«Cori» pronuncia, richiamando la mia attenzione. 
«Ehm... Scusa, ero sovrappensiero» farnetico.
«Allora? Com'è?». 
«Carino... Stasera mi porta a cena fuori».
I suoi occhi ambrati s'illuminano. «E dove ti porta? Hai già deciso cosa metterti? Ho sentito alla radio che pioverà». 
È proprio questo quello che volevo evitare dall'inizio. 
Questa raffica di domande che mi infastidiscono da sempre. 
È normale che mi chieda queste cose; è mia madre, è curiosa e vuole sapere dove starà sua figlia stasera. 
Sono io quella strana a seccarmi. 
Non mi piaciono queste chiacchierate alla Gilmore Girls perché implicano delle aspettative, e non ne voglio! 
«In un ristorante vicino alla Queen's House e no, non ho ancora deciso cosa mettermi». 
Quella seccata adesso sembra lei, non ho saziato affatto la sua voglia di particolari e sorrisi melensi. 
«Potresti mettirti il vestito verde, quello del battesimo di Isidora» propone. 
Non mi sarei rimessa quell'orrore verde pastello neanche m'avessero pagato! 
E poi, che figura c'avrei fatto affianco a Felix? 
«Sembrerei una bambina con quello, mamma» rispondo in tono di rimprovero. 
Lei mi avvolge tra le sue braccia, schiocca baci e: «Tu sei una bambina, la mia bambina!». 
Ogni tanto le prendevano questi momenti di nostalgia in cui abbracciava me o Noah dal nulla; con Maya era più facile, era lei a richiederli e anche quando non lo faceva li accettava di buon grado. 
È pomeriggio inoltrato quando seduta in balcone a fumare mi soffermo sul cielo bianco di nubi cariche, ma silenziose. 
Distolgo lo sguardo e lo poso sul palazzo dirimpetto al mio, una signora dalla pelle d'ebano ritira le lenzuola asciutte cantando qualcosa in francese. 
Rientro e mi piazzo davanti alla rella che mi fa d'armadio. 
La passo al setaccio sfiorando con le dita la stoffa dei vestiti appesi accuratamente,  sfilo una gonna midi in demin e un body nero con la scollatura ricamata in pizzo. 
Avrei trafugato un paio di tacchi a mia madre quando sarebbe uscita a recuperare Maya. 
Indosso i vestiti scelti e zoppico sulla moquette quando infilo un paio di calze in lana nera. 
Esco dalla stanza sbucando in salotto pronta per la radiografia e il parere di Eleni. 
«Allora?» domando innervosita davanti al suo mutismo. 
Sorride vittoriosa, ha vinto la sua personale battaglia contro di me. «Stai benissimo, ma non avrai intenzione di metterti le tue solite scarpe». 
Mi rendo conto di non essere la persona con più gusto in questo mondo, ma mi sento offesa ugualmente. 
Mia mamma mi considera forse una specie di primate? 
Chi mai si sarebbe messo un paio di scarpe da tennis per un appuntamento del genere?! 
Le rivolgo uno sguardo truce. «Pensavo di prendere un paio delle tue». 
Annuisce vigorosamente, scuotendo la cascata di capelli biondi. «Ti conviene se non vuoi farlo scappare dopo dieci minuti» mi canzona. 
Sbuffando raggiungo il piccolo bagno e comincio a ispezionarmi la faccia alla ricerca di qualche brufolo da coprire. 
Noto con piacere che la pelle è ancora ambrata dal sole della Grecia, patria di mia madre e luogo in cui trascorrevo le vacanze. 
D'estate sguazzavo nel Mediterraneo, aiutavo mia nonna a preparare la moussakà e fumavo nei bar sorseggiando caffè ghiacciato. 
È una realtà differente quella di Athene rispetto a questa di Greenwich, partendo dal sistema monetario per arrivare alla visione della vita. 
In volo durante il viaggio di ritorno, sorvolando  il mare da cui spuntavano isolotti, piangevo con indosso gli occhiali da sole e la voglia di rimanere lì. 
Mia mamma non voleva tornarci, ad Athene. Lo vedeva come un fallimento, tornare a vivere con i suoi genitori. La pregavo per ore e lei s'appigliava al fatto che Maya andava a scuola qui e che lì non avrebbe trovato lavoro con la crisi che c'era.  
Guarnisco i lobi con un paio di orecchini a cerchio e tracciando una linea di eyeliner continuo a pensarci, alla mia Grecia. 
Se solo mia mamma ci fosse rimasta ora non ci saremmo noi, ma di sicuro sarebbe più felice e sosdisfatta della sua vita. 
«Cori, vado a prendere Maya!» m'avverte in un urlo, chiudendosi rumorosamente la porta alle spalle. 
Esco in balcone per un'altra sigaretta. Noah è in piedi, vestito di una felpa verde oliva con i gomiti poggiati sul corrimano. 
Non l'ho sentito rientrare prima, assorta nei miei pensieri. 
«Hai da accendere?» gli domando, affiancandolo con una sigaretta in bocca. 
Nel momento in cui mi passa il clipper i suoi occhi piccoli mi squadrano e: «Che fai, esci?».
Annuisco, aspirando una boccata di fumo acre. 
«Con Sage o...?». 
Sono un po' stranita da tutte queste domande, ma mi fa piacere sentirmele fare da lui. 
«Con uno, l'ho conosciuto ieri sera». 
Lui sbuffa una boccata di fumo. «Bene, bene». 
Rimaniamo per un po' così, in silenzio. 
«Ho rotto con la mia ragazza un paio di giorni fa» sputa con il tono della voce basso. 
Non avevo nemmeno idea che avesse una ragazza, si, sta fuori spesso e anche la notte, ma pensavo per la storia della band. 
Lo guardo stringersi nella felpa che ha indosso e passarsi nervoso una mano fra i capelli color miele. 
«Mi spiace» mormoro, carezzandogli la mano sospesa nel vuoto. 
Mi risponde con una scrollata di spalle e un: «Tanto era una stupida stronza».
Apro la bocca, la richiudo. 
Vorrei chiedergli chi è questa, che se mi capita davanti la guardo male e passandole affianco le dico stronza, ma ho paura di essere indiscreta. 
«Ha detto che che non mi prendo mai una straccio di responsabilità e che non se la sente di starmi sempre dietro» mi confessa, strigendo le mani in due pugni. 
Dobbiamo ringraziare questa stronza, che ha spezzato il cuore di mio fratello, per averlo riportato alla realtà? 
«E tu?». 
Si volta, il viso sciupato e due occhiaie violace a contornargli lo sguardo. «Non ho fatto un cazzo». 
È tipico di lui arrendersi. 
L'anno scorso, per esempio, aveva mollato l'università per un nulla. Studiava per diventare un ingegnere informatico, era uno dei migliori del corso e al primo esame con esito negativo aveva deciso che basta, non ce l'avrebbe mai fatta a laurearsi. 
È stato di una stupidità disarmante, tenendo anche conto della borsa di studio che aveva. 
Adesso lavora come genious alla Apple. 
«Ma da quanto tempo stavate insieme?» gli domando, rendendomi conto del silenzio in cui siamo tombati. 
Sfila dal pacchetto una sigaretta, l'accende, aspira e butta fuori una boccata di fumo. «Tre anni, ma è stato un continuo tira e molla». 
Spalanco gli occhi bronzei e: «Ma davvero?!» esclamo non riuscendo a controllare lo stupore. 
Tre anni sono un sacco di tempo, è metà della vita di Maya, è... Tantissimo! 
«Già» mormora acerbo, guardando la strada sotto di noi. 
Il campanello suona e mi prende una fitta allo stomaco. 
Sono già le otto? 
«Che ore sono?» sussurro come se realmente Felix (sempre che sia lui) dalla strada mi potesse sentire. 
Noah guarda l'ora sull'orologio che porta al polso. «Le sette e mezza». 
Cazzo. 
M'affaccio dal balcone e riconosco il volto di Felix rivolto all'insù, sta sorridendo e salutandomi con un mazzo di rose in mano. 
«Arrivo!» urlo, salutandolo con la mano anch'io. 
«Dio, Cori, lo sanno tutti che devi farci aspettare» dice Noah, guardandomi divertito mentre m'infilo scarpe e giacca. 
Avrei dovuto davvero? 
Cazzo... E io che pensavo fosse una cafonata.
«Ciao, Noni, salutami mamma e Maya!» urlo, chiudendomi la porta alle spalle. 
Nell'ascensore ripenso al primo errore della serata: quello stupido arrivo e il fatto che sto arrivando subito veramente. 
Quando apro il portone Felix è lì, un sorriso dolce sul viso e il mazzo di rose in mano. 
Mi rilasso. «Sei in anticipo» gli faccio notare, sorridendo. 
Lui si dondola sulle gambe magre coperte da un paio di jeans a sigaretta. «Hai ragione, piccola Rory, ma te l'avevo detto che non vedevo l'ora di vederti». 
Arrossisco sotto il suo sguardo che perlustra ogni centimetro di me e si sofferma sulla scollatura. 
Si avvicina, mi avvolge tra le sue braccia coperte da un bomber blu oltremare ed io annuso il suo profumo muschiato. 
«Comunque buonasera, Rory» mi sussurra all'orecchio, solleticandolo con il suo fiato caldo. 
«Buonasera» dico, baciandolo sulla guancia. 
Con il volto ancora appoggiato sulla sua spalla vedo Maya con la sua uniforme stringere un palloncino e la mano di nostra madre. 
Ho un tuffo al cuore, l'aria nei miei polmoni sembra azzerarsi e istintivamente stringo Felix con la paura che possa girarsi. 
Lui bisbiglia qualcosa, ma sono troppo concentrata su mia mamma che dice un andiamo, andiamo! a Maya e corre con lei in macchina. 
Il peggio è passato, escludendo che mia mamma vedrà che Felix non è propriamente un ventenne. 
In ogni caso c'è una vena comica in tutto questo e se solo non fossi tesa come una corda di violino riderei pure. 
«Andiamo? Ho parcheggiato la macchina lì» mi dice, liberandomi da quell'abbraccio e indicando un'utilitaria. 
Camminiamo vicini, le nostre braccia ogni tanto si sfiorano. 
Alzo lo sguardo verso il mio balcone e ci trovo Noah a sogghignare.  
Con la coda dell'occhio guardo Felix, che continua a camminarmi a fianco e guardare verso la macchina. 
Una volta arrivati mi apre la portiera e mi invita ad entrare con un prego, signorina. 
Gira le chiavi nel riquadro ed inizia a guidare, tiene lo sguardo fisso sulla strada e ogni tanto lo appoggia sulle mie gambe. 
Io lo guardo costantemente, mi concentro sul suo profilo regolare e la sua barbetta appena accenata. Quando vedo che si sta per voltare distolgo lo sguardo e mi concentro sulla vista fuori dal finestrino. 
«Scegli tu qualcosa, sono curioso di sapere che musica ascoltate voi giovani» dice, guardandomi con aria di sfida. 
«Non penso ti piacerebbe la musica che ascolto» gli rispondo, cominciando a giocare con gli anelli che porto alle dita. 
Con lo sguardo fisso sulla strada mi dice: «Potrei stupirti, bambina». 
Bambina? È così che mi vede? 
Comincio a girare tra le varie stazioni e mi fermo riconoscendo Man di Skepta. 
Rimango in attesa di una reazione da parte di Felix, lui tamburella a tempo la mano sul volante. 
«Skepta, ma dai!, lo conoscono tutti!» esclama diverito, voltandosi con uno sguardo canzonatorio . «Dopo cosa mi farai ascoltare? Drake o A$ap Rocky?». 
«Oh, sta zitto!» dico, fingendomi offesa. 
Lui mi poggia la mano gentile e affusolata sulla coscia, mi carezza piano. 
«Siamo arrivati, Rory». 



N.d.a. 
Holaaa! 
Voglio cominciare con il ringraziare chi ha messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate, mille mille grazieee! (E anche chi ha recensito, ovviamente!)
cos'altro dire? Spero che questo capitolo possa piacervi e spero anche di ricevere qualche recensione in più! ;) 
Vi lascio con Corinna e un bacione. 

   
 
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