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Autore: Tsukuyomi    25/05/2009    8 recensioni
Salve a tutti! Finalmente prendo coraggio e pubblico.
Questa fanfic mi ronza in testa da tanto di quel tempo che ormai si scrive da sola.
Per il momento avrete sotto agli occhi dei futuri Gold Saint, ancora bambini e innocenti (più o meno), alcuni ancora non si conoscono e altri sì, alcuni sono nati nel Santuario e altri no, alcuni dovranno imparare il greco e, di qualcuno, non si sa per quale recondito motivo, non si conosce il nome. Spero che apprezziate. La storia è ambientata ai nostri giorni, per cui, le vicende conosciute avranno luogo nel futuro.
Genere: Comico, Generale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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capitolo 1 -Dove sono? Perché questo signore mi ha portato qui? Dove sono mamma e papà?
Non sono più tornati a casa … e la nonna? Forse non dovevo scappare quando è caduta,
ma dovevo trovare aiuto a tutti i costi … se fossi rimasto lì, buono, loro sarebbero tornati …
Forse si sono arrabbiati e per questo non sono venuti a cercarmi. Ma chi è questo signore qui? E’ gentile … -

Era estate, il sole splendeva alto sulla città di Atene. Le strade erano colorate dalle vetture in coda e i marciapiedi erano un brulicare
frenetico di persone. Nessuno sembrava sentire particolarmente il caldo, nessuno tranne lui.
Era reduce da un viaggio in aereo di dodici ore e, nonostante la meraviglia dovuta a tante cose nuove e affascinanti, era stanco.
Quando arrivò all’aeroporto, accompagnato da quell’omone gigante che lo aveva portato via dall’orfanotrofio, pensò di sognare.
Guardò divertito e incuriosito gli hangar, le persone che spingevano i carrelli colmi di valige, le hostess con le loro divise eleganti e sobrie,
i capitani nelle loro divise maestose e importanti. Gli sembrò di essere in un’altra dimensione.
L’aeroporto era grande e luminoso. Ancora non aveva capito dove si trovava, non aveva mai visto in vita sua un posto del genere.
Ogni sua domanda e perplessità su quel luogo strano venne fugata quando il gigante, che fino ad allora gli aveva tenuto la mano,
lo prese in braccio per mostrargli gli aerei. Il bambino non riuscì a trattenere la sorpresa e restituì a quell’uomo tutte le gentili parole
incomprensibili che gli aveva rivolto. Non sapeva cosa gli dicesse , però parlava tanto, in continuazione e lo faceva con voce gentile.
Non lo conosceva, lo vedeva per la prima volta, però gli piaceva. Si era mostrato molto gentile con lui premurandosi di portargli
un piccolo dono: una macchinina giocattolo, da corsa, rossa e azzurra.

Mentre i due attendevano che il volo venisse chiamato, il bambino si divertiva a far sfrecciare il suo bolide tra le caviglie degli altri passeggeri,
anche loro in attesa.
Quando furono sull’aereo l’omone lo fece sedere accanto al finestrino e cercò di intrattenerlo indicandogli tutto quello che
scorreva sotto il loro sguardo. Il piccolo vide gli altri aerei diventare sempre più piccoli, il mare, le coste e i contorni della terra che pigramente
cambiavano fino a cedere completamente il passo al mare e poi di nuovo alla terra. L’adulto parlava nel mostrargli tutto il visibile anche se era
cosciente che il piccolo non avrebbe capito neanche una singola parola. Forse fu meglio così, la voce dell’uomo era marcata da una sottile vena
di tristezza che fu comunque colta. Il piccolo doveva salutare la sua terra natale.

Dopo un po’ guardare fuori dal finestrino diventò noioso e il piccolo trovò più interessante disegnare mentalmente dei percorsi sul sedile davanti
a lui, sul finestrino, sulle sue gambe e sulle gambe di quel signore che lo accompagnava e che accettò di buon grado i suoi giochi partecipandovi
a sua volta. Sistemò i braccioli dei due sedili per fare una piccola rampa di lancio, in modo che la macchinina potesse saltare nuovamente sul sedile
di fronte al bambino.
Il pargolo dava l’impressione di divertirsi un mondo e commentava sprezzante e allegro quel gioco, suscitando la risposta e l’ilarità dell’accompagnatore.
Se solo fossero riusciti a capire quello che si dicevano.
Trascorse un paio d’ore dal decollo fu servita la cena e i due mangiarono con gusto, giocarono un altro po’ con la macchinina e poi il bimbo
crollò in un sonno beato e tranquillo. Il gigante, un ragazzo portoghese dall’altezza e dalla muscolatura spropositata, con i capelli scuri e la pelle
annerita dal violento sole greco, allungò una mano per fare una carezza al bambino che ormai vagava per meravigliosi mondi. Si addormentò
a sua volta.
Arrivarono ad Atene attorno alle nove del mattino e salirono su un taxi che li portò dentro la città. Il viaggio in vettura durò quasi un’ora e mezza,
trascorsa a mostrare gli scorci della città al bambino. Il gigante interruppe il discorso che stava facendo al piccolo e pagò il tassista.
«Tenga il resto. Arrivederci. »
«Arrivederci. Buona giornata. »
Scese dal taxi giallo portando giù dalla macchina il bambino con la pelle chiarissima e delicata, i capelli biondi e due occhi grandi, azzurri e profondi.
Aspettò che il taxi ripartisse e prese il bambino per mano. Lo tirò a sé con delicatezza e gli disse con voce allegra:
«Hai visto? Siamo stati fortunati. Non abbiamo impiegato molto per arrivare al Grande Tempio. Ti troverai bene qui. Il Gran Sacerdote dice che
sei un bambino speciale e che molto probabilmente, sempre che ci abbia visto giusto, diventerai un cavaliere. Magari diventerai un cavaliere d’oro,
chi può dirlo? Certo, l’allenamento è duro e tu sembri così delicato, ma mai sottovalutare nessuno. Per ora resterai un po’ di tempo al Santuario,
ci sono altri bambini come te e ne arriveranno altri, magari ne troverai qualcuno che parla la tua lingua. Sai che il Santuario è una specie di comunità
multietnica? Ci sono un sacco di persone di tutto il mondo, io per esempio sono portoghese. Naturalmente dovrai imparare il greco. E’ indispensabile
Ma sono sicuro che ci metterai pochissimo. Noi stiamo andando lì – l’uomo si fermò per indicare al bambino il luogo dove erano diretti - povero piccolo,
sei tutto rosso. Hai caldo vero? Tranquillo, siamo quasi arrivati. Non capisci una parola di quello che ti sto dicendo, vero? »
Il piccolo si voltò verso quell’uomo, enorme e statuario con la pelle scura, colorata da quel sole crudele.
Dopo averlo fissato per qualche istante il bambino aprì bocca, e con la voce resa un po’ roca dall’arsura parlò.
«Jag förstår inte. [Non ti capisco.]»
«E’ il tuo nome? » chiese l’uomo, sempre più incuriosito dalla musicalità di quella lingua a lui totalmente sconosciuta. Sperava ardentemente
che il bambino riuscisse a capire che voleva sapere il suo nome. Infatti, incredibilmente, nessuno sembrava conoscere il nome di quel bambino.
«Jag förstår inte! »
«Ti chiami "Iogfestinte"? »
«Vad?
»
«Ah, ti chiami Vad?! E’ un bel nome, suona bene. Lo sai che puoi cambiarti il nome? Se ti va puoi inventartelo oppure puoi chiedere al
Gran Sacerdote qual è il tuo nome celeste. Ognuno di noi ne ha uno, ma non interessa a tutti conoscerlo. Dopotutto non è il nome che fà
la persona, o forse mi sbaglio? Tu che dici piccolo vichingo? »
«Vart tar du mig? [Dove mi stai portando?]»
«Ehi piccolo, quanto parli! »

Il bambino aveva avuto una risposta alla sua domanda, ma non capiva cosa gli dicesse quell’uomo e l’uomo non capiva quello che diceva lui.
Era stanco dal viaggio, ma soprattutto stava morendo di sete. Era tutto sudato. I capelli lunghi gli si appiccicavano fastidiosamente sul collo e
sulla fronte, le gote erano rosse dalla calura e si stava innervosendo, non riusciva a comunicare. L’eccitazione del battesimo dell’aria era svanita.
Provò a parlare di nuovo.
«Var är mina föräldrar? Där ska vi? [Dove sono i miei genitori? Dove andiamo?]»
«Piccolo, mi dispiace davvero tanto. Non ho la minima idea di cosa tu mi stia chiedendo.»
«Jag behöver vatten. Jag har varma och törstiga. Kan jag få ett glas vatten? [Ho bisogno d'acqua. Ho caldo e sete. Posso avere un bicchiere d'acqua?]»
«Guarda! Siamo arrivati, sei contento?»

Camminarono ancora per un po’ tra rovine e turisti curiosi. Finalmente si addentrarono nel Santuario, che sembrava fosse una zona preclusa
alle altre persone. In quel luogo strano, sembrava che il tempo si fosse fermato. Il biondo si guardava intorno, pensava a quanto fosse diverso
quel posto dalla sua Luleå, certo il mare c’era anche se lontano, ma c’era anche quel caldo asfissiante che gli aveva tolto tutte le energie.
Non aveva mai sentito un caldo del genere, non credeva neanche che potesse esistere. Voleva tornare a casa dai genitori e continuare la vita
che aveva condotto fino a qualche mese prima.
Non si sentiva minacciato ne da quel mistico luogo ne dal gigante che gli teneva la mano. L’uomo si era dimostrato gentile e oltre a instillargli
sicurezza gli dava l’impressione di non essere troppo sveglio.
Il bambino scrutava attentamente il paesaggio strano nel quale era immerso, senza capire dove fosse, e gli piaceva: era tutto così bello, così antico,
così maestoso...così grande.
«Vieni con me, ti faccio conoscere il Gran Sacerdote in persona. E’ un grande onore sai?»
«Skulle du ge mig lite vatten?[Mi daresti un po' d'acqua?]»
«Poi ti porterò un po’ d’acqua, sembri affaticato.»
Entrarono in un tempio gigantesco dove trovarono due uomini vestiti con delle lunghe tuniche scure. Portavano delle maschere e degli elmi terrificanti.
Cominciò a tremare.
«Kalimera. Gran Sacerdote, Cavaliere dell’Altare. Ho portato quel bambino svedese. Eccolo.”

L’uomo che lo aveva condotto in quel luogo sciolse la mano da quella del bambino e gliela posò su una spalla, in segno di incoraggiamento,
spingendolo delicatamente a fare un piccolo passo in avanti.
Il bambino si rese conto che sarebbe rimasto solo con quei due mostri e si aggrappò con tutte le sue forze alla gamba del suo gigante,
sussurrò «Jag är rädd.[Ho paura.]» e scoppiò in un pianto inconsolabile e disperato. Tra i singhiozzi pronunciava qualche frase incomprensibile e
cominciò ad urlare a pieni polmoni.
«MAMMA! VAR ÄR DU? [Mamma! Dove sei?]»
Le escandescenze del bambino erano dovute alla vista di quelle due figure alte, imponenti e inquietanti. Vestivano degli elmi terrificanti,
ornati con fregi e immagini di draghi. Il portoghese cercava di calmare il bambino, provava a parlargli e a staccarlo dalla sua gamba.
La tenacia del bambino fu grande, resistette all’uomo che, dopo qualche tentativo, decise di desistere dall’impresa a causa del timore
di far del male al piccolo.
«Mi dispiace, non capisco. E’ stato buonissimo per tutto il viaggio. Ha parlato un sacco ma non so cosa mi abbia detto. Inoltre ha giocato
sereno con una macchina che gli ho regalato, perdonatemi se non vi ho chiesto il permesso prima, ma mi è sembrato un gesto carino, non
mi conosceva e…»
«Hai fatto benissimo João, te lo sei fatto amico. » lo interrupe uno degli uomini.
Le due figure si stagliavano prepotenti all’interno di quella sala un po’ spartana, ornata da fregi
e colonne, rischiarata da una tenue luce.
«Ha ripetuto spesso ‘Vad’, ma non so cosa voglia dire. Magari è il suo nome, ma non ci spero. »
Per pochi istanti sembrò che la quiete calasse nel tempio. Lo sguardo terrorizzato del bimbo non accennava a staccarsi da
quelle due figure terrificanti e ansimava, in silenzio, indeciso se riprendere ad urlare e piangere o lasciarsi andare in balia dei futuri eventi.

Il Gran Sacerdote fece un passo avanti per avvicinarsi al bambino, ma questi trovò nuove energie e si abbandonò nuovamente ad un pianto
colmo di angoscia e preoccupazione che interrompeva per urlare qualche frase.
«Inte kommit närmare! Gå bort!! [Non avvicinarti! Vai via!]»
Il Gran Sacerdote non si fece intimorire dalle grida ma fermò i suoi passi. Con voce gentile provò a verificare se quella parola ripetuta
dal bambino fosse il suo nome, benché avesse la certezza che fosse qualche intercalare.
«Vad? [Cosa?]»
«Vad? Förstår du mig? [Cosa? Mi capisci?]» il bambino sembrò calmarsi nel sentire quella parola familiare, il pianto si placò un poco, ma solo per il tempo
che gli fu necessario a capire che non avevano la minima idea di quello che stava dicendo. Il Gran Sacerdote fece un altro passo avanti,
seguito dal suo vice, ma dovettero fermarsi nuovamente.
«Nej! Gå bort!! Glida bort det där! [No! Vai via! Togliti quella cosa!]»
«Ma che ha da urlare tanto?
» chiese Arles un po’ stizzito.
«Lo so io. Ha paura, non ci capisce e le maschere non aiutano a farlo calmare. »
Mentre il Gran Sacerdote parlava si sfilò la maschera e l’elmo. Guardò il bambino dritto negli occhi e gli sorrise. Il bimbo arrestò il suo
pianto quando vide che sotto quella maschera tanto brutta e spaventosa si celava un uomo, un uomo con gli occhi di un colore quasi innaturale,
ma dolci. Il volto era severo e i capelli spettinati, lunghi e verdi. Arles tenne la maschera e si allontanò farfugliando qualcosa a proposito della
salvezza delle sue orecchie, ma nessuno ci fece caso.
«Ok, proviamo a ricominciare. Ti spavento ancora? »
Sion non si spiegava per quale motivo non conoscesse il nome di quel bambino. Non era mai accaduto prima. Qualche notte prima,
mentre si trovava all’Altura delle Stelle, vide il volto di quel bambino. Non gli venne detto il nome, ma sapeva che era figlio di una coppia
giovanissima che si era dovuta indebitare fino al collo per aprire una piccola attività, sapeva che erano riusciti ad aprire il vivaio che tanto
desideravano e che erano riusciti a costruire una serra che avrebbe permesso loro di far fiorire ogni tipo di fiore, ma soprattutto le rose.
La madre di quel bambino aveva un profondo amore per le rose e il padre invece era capace di farle fiorire anche nel deserto. Il bambino
aveva ereditato entrambe le caratteristiche dei genitori. La sua peculiarità non era solo legata alle rose, infatti, possedeva anche un'incredibile
resistenza ai veleni. Sion era a conoscenza delle dinamiche della morte dei genitori del piccolo svedese, aveva visto la vettura accartocciata a
bordo strada ed era a conoscenza che la giovane coppia morì sul colpo.
Le stelle gli comunicarono anche che i giovani genitori erano orfani e che nessuno si sarebbe potuto occupare di quel bambino, lo informarono
dove venne portato il bambino, dove era ubicato l'orfanotrofio. Sapeva che il bambino rimase orfano a quattro anni e che trascorse il suo primo
compleanno senza i genitori. Le stelle gli mostrarono anche il volto del pargolo, che riconobbe appena vide. Ora il Gran Sacerdote era intenzionato
più che mai a scoprire il nome di quella creatura delicata, concluse la frase con un flebile suono che doveva risultare uno sprono a parlare ancora.

Il bambino non rispose, alzò la testa a cercare l’approvazione dell’uomo che lo aveva condotto lì. Gli strinse la mano sulla gamba pizzicandogli la
carne e lo fissò implorante. Voleva essere portato via. Arles tornò senza la maschera e con un grosso bicchiere di acqua fresca. Si inchinò in modo
da guardare il bambino negli occhi e glielo porse. Non gli sembrava veroin, finalmente poteva bere. Afferrò il bicchiere dalle mani di quell’uomo,
farfugliò rapidamente «Tack» e bevve avidamente. Aveva tanta sete, dovuta al caldo e alla fatica del pianto.
Quando ebbe finito porse il bicchiere all’uomo che era stato tanto gentile da portarglielo e sorrise.
«Oh, ma sai che sei molto più carino quando sorridi? Quando urli come una volpe isterica ti deformi tutto! »
«Arles – lo rimproverò Sion – lui non ti può capire, ma io sì. E’ solo un bambino, sii clemente…»
«Lo so che è un bambino … un bambino che urla come una volpe isterica. »
Gli adulti si lasciarono andare ad una risata e il bambino li guardava curioso e cominciò a chiedersi se non ridessero di lui.
Ma non gli importava granché.
Dopo diversi minuti trascorsi ad ascoltare quelle parole nuove e a fissare quei volti particolari e così diversi tra loro,
il biondo svedese dovette tenersi lo stomaco che brontolava prepotente. Sembrava che i grandi non avesse sentito i lamenti dovuti ai
morsi della fame, per cui dovette ingegnarsi in modo che la loro attenzione ricadesse nuovamente su di lui. Afferrò il lembo della mastodontica
t-shirt indossata da João e la tirò a se, iniziò a saltellare e disse: «Jag hunger. [Ho fame]».

Gli adulti lo accontentarono e si abbassarono tutti e tre in modo da guardarlo negli occhi. Non sapevano quello che il bambino
dicesse e fu provvidenziale l'intervento di Arles.
«Sembra inglese. Credo abbia fame.»

Sion avvalorò la tesi del vice e decise di portare il bambino alla mensa con loro, congedando il portoghese.


Il Gran Sacerdote e il Cavaliere dell'Altare si recarono nella vasta sala adibita al ristoro tenendo il bambino, tra di loro, per mano.
Si sedettero e attesero di essere serviti. Sion e Arles ripresero i loro discorsi riguardanti al bambino mentre il piccolo ingannò il tempo
giocando con la macchinina.


_____________

Spero che questo primo capitolo sia di vostro gradimento, aspetto critiche, suggerimenti e anche parolacce da chiunque vorrà
sprecare un po' del suo tempo a recensire.

Per quanto riguarda lo svedese, chiedo venia a ogni svedese morto e vivente per aver violentato in questa maniera la loro lingua.
Grazie a chiunque leggerà!


   
 
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