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Autore: RivRiv    03/01/2017    0 recensioni
[ Religious!AU; angst; death; dolore fisico e psicologico; sì amo le cose allegre; non voglio spoilerare mannaggia. ]
L'Otonokizaka è il luogo che Honoka sente di chiamare casa; con gli anni sente il proprio affetto rafforzarsi, al punto da voler rilegare la propria anima a quella dimora che via via, senza nemmeno capire perché, si è svuotata dei suoi proprietari. E ci riesce.
Nel peggior modo possibile.
µ’s forever.
Genere: Angst, Dark, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Sorpresa, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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La stanza in cui era entrata, così come il resto dell’abitazione, brillava di un candido bianco. Le pareti irradiavano una luce innaturale, se si considerava che fossero, appunto, delle semplici pareti. Fissò prima quelle, poi il suo abito, o meglio, casacca che stava indossando. Così nero, opaco, che vicino a quell’ambiente non poteva che sembrarne l’ombra ammuffita. Per quanto poco le piacesse il contrasto, quello era il suo lavoro, e nuovamente, quel giorno, le era toccata quella casa.


Doveva finire il lavoro, dopotutto.


Prima di avvicinarsi al suo obiettivo si fermò in uno specifico spazio della stanza, chinandosi a terra per toccare con la mano nascosta da un guanto quello che, apparentemente, era il nulla. Ma sapeva bene, con fin troppa lucidità che lì non c’era il nulla, ma in precedenza era presente un’enorme vasca termale. Come l’avessero rimossa, rimaneva un mistero. Si limitò ad accarezzare, se così poteva chiamarsi quel strusciare silenzioso di dita intangibili, il pavimento lucido, splendente anche quello.


Se qualche umano l’avesse potuta vedere, non avrebbe certo capito il significato di quel gesto. Agli occhi dei mortali, alcune cose sfuggivano, e mai avrebbero potuto capirle. Così innocenti, così sciocchi, le davano la nausea alcune volte, durante i momenti peggiori di sentimentalismo. In effetti, loro non avrebbero mai potuto capirla appieno, così come i sentimenti della Triste Mietitrice non le avrebbero permesso di averne qualche sorta di pietà, o disprezzo.


Portare via le anime era il suo lavoro, ammettere che fosse giusto o sbagliato non toccava certamente a lei, o a chi moriva, dopotutto.


Sapeva che era così che funzionava, non erano permesse repliche o fare rivoluzioni, cose che lei in tutta sincerità non aveva mai provato o anche solo pensato. Se il suo compito era prendere e trascinare le anime nell’aldilà dove poi sarebbero state giudicate per andare o al Paradiso o all’Inferno, a lei cosa importava? Non conosceva né intendeva conoscere nessun umano a cui strappava via la vita. I sentimenti non dovevano esistere durante quei momenti, e lei era riuscita a sopprimerli... in buona parte.


Seppur non li avesse mai conosciuti, il rispetto che nutriva in quei corpi e in quelle anime era difficile da sopprimere, una volta vista la sofferenza nei loro occhi che da vispi e colorati, a causa sua perdevano vitalità e colore.


Non odiava gli umani, ovviamente. Detestava provare tristezza, dispiacere, una sorta di rimorso se si soffermava troppo su quegli occhi che avevano implorato aiuto e tutti, dal primo all’ultimo, da che secolo fossero provenuti, le avevano indirizzato la stessa, tacita domanda.


Perché?


“Yuuki Anju,” sospirò, poggiando il palmo della mano completamente a terra. Anche se indossava un guanto, anche se erano passati mesi, il guizzò di vita che una volta era appartenuto a quella ragazza dai boccoli perfetti e dai modi principeschi le trapassò il corpo, e seppe che la sua anima, dovunque fosse finita (non le era concesso sapere in che luogo fosse stata destinata), l’aveva sentita.


Di lei non rimaneva che un’ombra, il viso angelico era sparito per sempre. Scosse la testa sotto al cappuccio enorme che le copriva il capo, passando per l’ultima volta le dita su quel terreno più gelido di quanto ricordasse.


Si alzò, evitando ancora per qualche istante di terminare quell’ennesimo fardello, stanca ma non spossata da quei secoli di caccia e morte. Si diresse a passi inaudibili nella camera affianco, bianca e accecante come la precedente. A differenza dell’altra, però, qui i mobili non erano stati coperti da lenzuoli altrettanto bianchi, ma lasciati all’aria aperta, come se attendessero il ritorno del loro possessore da un momento all’altro. Erano perfettamente spolverati e lasciati in ordine, come se quelle poche settimane di vuoto non fossero mai passate.


Ricordava bene, però, di essere passata di lì all’inizio dell’estate, e per quanto si sforzasse non riusciva a capire perché prendersi tanto fastidio nel tener in ordine un luogo appartenente ad un morto. Quella ragazza doveva davvero tenere tanto alle sue ex coinquiline. Probabilmente se fosse tornata indietro e avesse alzato le lenzuola avrebbe trovato il mobilio perfettamente pulito e lucido. Era convinta che i panni distesi su di esso servissero a mantenerlo lontano dalla polvere e dalla corrosione del tempo, piuttosto che a nasconderli. No, quella ragazza non aveva paura della morte, né di ricordare. Le faceva timore, in verità, perché tanta testardaggine a non arrendersi non la vedeva da secoli.


Respirò a pieni polmoni e l’odore della ragazza che un tempo abitava lì le inondò le narici, il suo profumo forte e al contempo dolce le fece storcere il naso.


Senza perdere ulteriore tempo si avvicinò al letto perfettamente riordinato. La sagoma della ex studente della UTX poteva ancora essere vista ad occhio nudo, umano e spiritico.


Trattenne inconsapevolmente il fiato stavolta e fece un breve inchino. Piccolo, quasi impercettibile, un semplice cenno del capo forse, ma le parole che pronunciò furono cariche di solennità.


“Toudou Erena.”


Rivolse un ultimo sguardo alle coperte perfette, troppo candide per i suoi occhi ancora nascosti dal cappuccio. Con passo lento, come se stesse portando una processione di disperazione e condanna, si allontanò dal giaciglio, scomparendo velocemente e senza essere notata così com’era apparsa.


In mezzo a tutto silenzio e abbandono lo spirito di Erena era ridondante, le riempiva la testa e le faceva male nel petto. Digrignò i denti e batté le mani con eccessiva forza, anche se nessun rumore udibile riecheggiò tra quelle mura maledette.


Aveva portato all’aldilà tantissimi tipi di persone: bambini ancora in fasce, donne che tornavano dal mercato, uomini in battaglia, anziani sulla sedia secolare... l’ansia e il timore non decidevano a smorzarsi, e quando per la terza volta le era stata assegnata la prestigiosa scuola UTX un orribile fastidio le aveva scosso le interiora.


Aveva sempre falciato via le anime di persone che non aveva mai visto e mai avrebbe potuto rivedere negli occhi e nei tratti dei familiari risparmiati da quella lama fatale, ma questa situazione era assurda. Tre volte, nella stessa scuola, nello stesso appartamento?


---



Quando il sorriso dolce come miele e gli occhi carichi di speranza di Anju erano stati spazzati via durante il suo usuale bagno termale aveva sentito le urla disumane delle sue migliori amiche. Era stata veloce a scappare, avere un’anima umana addosso era l’unica debolezza per una Mietitrice; un errore, un secondo di ritardo e avrebbero scoperto la sua identità e le sarebbe toccata la punizione divina: il Limbo. Se qualcuno fosse finito lì, non sarebbe mai tornato in nessuna forma possibile, l’anima costretta a rimanere dannata per l’eternità senza né pace né condanna.


Però, da lontano, camuffatasi in modo impeccabile da viandante, anche con la manciata di secondi a sua disposizione, vide con chiarezza, forse fin troppa, le due ragazze correre verso Anju. Ormai irrimediabilmente irrecuperabile dalla morte, aveva la testa sprofondata nell’acqua, le pupille grigie e la bocca divenuta un ghigno di terrore e rimorso. La ragazza più alta, con i capelli lunghissimi legati per poter entrare nella vasca comune fu quella che urlò più forte, stringendo a sé il corpo senza vita di Anju. La voce flebile della più bassa le comunicò che il suo nome era Erena ma non riuscì a vedere il suo viso. Lo teneva abbassato, i pugni chiusi, i capelli corti le nascondevano il poco visibile.


Non se ne curò tanto e senza essere notata andò via, Anju che si muoveva frenetica nella sua lanterna.


“Erena doveva volerti davvero bene, tch. La rivedrai, insieme a quell’altra, ovvio.” Quale fosse il nome di “quell’altra” non le interessava. Allora.


Quando mesi dopo le fu comunicato di trascinare via da questo mondo anche Erena (una delle poche vittime di cui sapeva il nome, oltre ai pezzi grossi della società) non poté fare a meno di sospirare, sconfortata. Sapere con perfezione chi uccidere le faceva senso, quasi stesse uccidendo un suo amico o parente. Ed era la cosa più stupida per una come lei: lei non aveva né uno, né l’altro. Ridicolo, che ti prende?


Poi si ricordò le sue stesse parole di quelli che sembravano solo pochi istanti, e non riuscì a bloccare un moto di risa isteriche. Le coincidenze, nella vita e anche oltre, non mancano mai. Quando è destino è destino, e a cuor pesante accettò l’incarico con amarezza. Le si prospettava una esistenza praticamente infinita, perché discutere di cose del genere, per di più così idiote? Eppure...


---



Erena stava dormendo nel suo letto, sul comodino una foto di lei, Anju e la terza ragazza abbracciate e felici, prima della sua venuta. In un’altra, lì affianco, c’erano loro tre che cantavano. Indossavano bei vestiti, all’avanguardia per quell’epoca, e sembravano seriamente divertirsi un mondo. Deve essere stato scioccante interrompere la loro festosa vita così, da un inspiegabile affogamento in una vasca da bagno. Se non fosse consapevole di ciò che era veramente accaduto, avrebbe riso sonoramente, decretando il fatto come assurdamente ridicolo e patetico. Ma Anju non era davvero affogata, così come Erena non morì soffocata nel sonno.


La sua anima nella lanterna non fece storie, né proteste. Ma prima di morire aveva visto i suoi occhi aprirsi di scatto, e seppur non sapesse cosa la stava attendendo, insieme al terrore naturale la accompagnò un timido ma riconoscente sorriso. Rimase praticamente pietrificata da quella visione. Come poteva una ragazza di soli diciassette anni sorridere alla Triste Mietitrice come se fosse l’unica cosa che le permettesse di star bene?


Aveva lasciato indietro genitori, parenti, amici, e quella ragazza. Era così impaziente di rivedere quella maledetta Anju? Forse era per questo che era stata rimandata lì, per peggiorare la sua confusione e rabbia verso gli esseri umani. Idiota Erena, come osi sorridere a me?! L’urlo di pochi mesi prima si scontrò con quell’espressione e il suo stomaco si contrasse dolorosamente.


Fu costretta a fuggire via con quell’anima insolitamente tranquilla ma, oh, così terribilmente forte.


Non notò Tsubasa che era uscita dalla sua stanza e l’aveva vista scappare dalla finestra. A causa di questo fu costretta a ritornare in quella casa per la terza, ma non ultima volta.


---


“Ti stavo aspettando, ehe.”


Si bloccò sul suo posto, le gambe improvvisamente molli e il cuore in gola. Batté le palpebre un paio di volte velocemente e stette immobile. Forse aveva capito male. Forse il fruscio del suo cappuccio le aveva fatto immaginare quelle parole inesistenti. Forse quella casa sarebbe stata la sua maledizione.


“Come stanno? Loro, Anju ed Erena. Sono andate in Paradiso. Non è una domanda, ne sono convinta, ma una sicurezza in più non fa mai male ai tempi d’oggi.” Tsubasa era in ginocchio nella veranda dell’ormai troppo grande appartamento non più condiviso. Sorseggiava nella calma più tranquilla una tazza di tè all’apparenza costoso, dalla ceramica al liquido. Fissava a volte il tè, girandosi la tazza nelle dita piccole e pallide, a volte il cielo terso su di sé. Stava aspettando seriamente una risposta. Deglutì a vuoto, il pericolo di essere stata scoperta ormai divenuto tangibile.


Oh, al Diavolo, le mezze misure non le sono mai piaciute. Capì il motivo di quella terza visita mortale, tuttavia. Era stata graziata da entità superiori grazie al suo ottimo operato. Beh, ottimo finché non fu scoperta, a quanto pare.


“Non sono tenuta a risponderti, umana, ma devo essere sincera, nella mia posizione non posso conoscere il reale destino di un’anima. Che fine abbiano fatto quelle Anju ed Erena, io non lo so. Né mi interessa.”


Tsubasa non si mosse, né tantomeno fece lei. Aspettò con rinnovata calma. Tra pochi istanti sarebbe finito tutto, e non sarebbe finita nel Limbo. Morta Tsubasa, tutto si sarebbe risolto. Si abbassò il cappuccio e una chioma di capelli rossi fece la sua comparsa, due occhi freddi e viola scrutarono la schiena della ragazza.


“Ti prego, non chiamarmi umana. Sembra così lontano e distaccato come termine, quando ormai noi due ci conosciamo così bene, non trovi?” Tsubasa emise un risolino, come se la conversazione fosse plausibile e addirittura divertente. Arricciò il naso con fastidio, giocando con una ciocca di capelli con le dita. Non sapeva proprio dove voleva andare a parare con questi discorsi senza senso. Ma per una curiosità che nemmeno lei sapeva di provare, decise di ascoltare.


“Mi chiamo Kira Tsubasa. Migliore amica di Anju ed Erena, di cui tu non sai che fine abbiano fatto ma sai addirittura nomi e cognomi. Evidentemente qualcosa di noi ti interessa, non trovi, signor-?”


“Signorina. Ma chiamami Maki, per il poco tempo che ti è rimasto.” Fredda, glaciale, si avvicinò al suo obiettivo. Una lunga, affilata lancia comparì in una nube di polvere rossa e nera; la impugnò con forza, al suo fianco la infallibile lanterna che avrebbe immediatamente accolto l’anima fresca.


“Maki. Me ne ricorderò, nella prossima vita o altro. Non ti sei chiesta perché puoi parlare con me? Con le altre non lo hai fatto, le hai zittite subito, Maki.” Tsubasa smise di fissare il tè e il cielo, posò la tazza e si rivolse a Maki, sorridendole stancamente. Aveva occhiaie enormi ma i suoi occhi brillavano, ed era incredibilmente bella. Troppo bella per morire, ma così erano Anju ed Erena. Maki si fermò, la presa sulla falce si affievolì impercettibilmente.


“Mi hai visto.”


“Letale e perspicace, e chi se lo sarebbe immaginato da una incantevole bellezza come te!” Tsubasa rise nuovamente ma stavolta si alzò con calma, prendendosi i suoi tempi. Come se non stesse parlando con la Morte in persona. A Maki questo atteggiamento irritò come mai le era capitato, la presa ritornò salda e le pupille persero la scintilla della comprensione. Sulle sue guance si sparse un rossore profondo, ma non si curò di spiegarsi l’origine di quella reazione. Non ora, non qui.


“Umana, la tua vita mi appartiene or-“


“Riportami da loro. Te ne prego, Maki. E, oh, non fare del male a lei. Non lei, giuramelo.”


“Non interrompermi, Tsubasa!” urlò, mossa dall’ira e dallo scandalo e con un movimento secco strappò via l’anima di Tsubasa. Come tutte le volte precedenti non poté far a meno di fissare in viso la sua vittima, e tutto ciò che vi trovò fu perdono.


Lei, Maki, perdonata da una umana. L’unica umana che avesse chiamato per nome e con cui aveva parlato.


---


Il viaggio verso l’Aldilà fu molto più lungo e faticoso del solito. La lanterna era oggettivamente leggera, ma quello che c’era dentro stava portando Maki alla pazzia.


---


“Secoli di servizio, ottimale direi, e proprio tu, Maki, mi viene a rivolgere questa domanda?”


“Vi scongiuro, solo per questa volta, un’unica eccezione: che fine ha fatto l’anima di Kira Tsubasa?”


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Erano settimane che non respirava quell’aria selvaggia ed incontaminata e la mancanza si era fatta sentire, ora che era all’interno del Bosco. Ad ogni passo che faceva e si inoltrava nel bosco era come un balsamo per la sua anima da Mietitrice, e cercava di contenere al meglio la voglia di correre verso il Lago.


Mancavano poche centinaia di metri e quel pensiero che non la lasciava più in pace rifece capolino nella sua mente, unica zona che non poteva purificare.


Chi è lei?


   
 
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