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Autore: Marge    07/01/2017    3 recensioni
Questa è una storia particolare, diversa dalle solite, un’idea che mi è venuta qualche anno fa ma solo ora ha trovato la via della luce.
L’umanità – o almeno quel che ne resta – vive in Navi organizzate in una grande Flotta spaziale. La Terra è perduta per sempre a seguito di una grande Catastrofe Naturale, e il Gran Consiglio controlla e coordina la vita delle persone, portandole alla ricerca di un nuovo pianeta dove vivere. Ma questo succede ormai da quattrocento anni, e Shui è depresso e triste di questa vita; Mahi invece sogna la terra e l’erba e il sole sulla pelle, con testarda speranza; oltre a loro una professoressa single quarantenne che forse ne sa un po’ di più degli altri, una quindicenne in piena crisi adolescenziale, navi spaziali, universo profondo, lotte di potere, e, ovviamente, i Domini. Ma che fine ha fatto l’Avatar? Come mai da secoli nessuno ne sente più parlare?
Una storia particolare per la quale serve un po’ di fiducia iniziale; non so dove arriverò, ma vi prometto un autentico stile Avatar; pubblicherò un capitolo a settimana e offro biscotti pieni d’amore a chi vorrà farmi avere il suo parere :)
Genere: Avventura, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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LIBRO PRIMO: ACQUA



I
Il sole nascente



Che poi, a dirla tutta, Shui non avrebbe mai ammesso di essere estremamente scocciato solo perché era dovuto uscire dal piumino caldo. Se Mahi avesse continuato a chiederglielo sarebbe stato perfettamente in grado di difendersi grazie alla sua nota capacità con le parole; avrebbe senz’altro affermato che il problema era che lei credeva che bastasse passare due ore a settimana a guardarsi allo specchio eseguire tutte quelle stupide mosse, per stare senz’altro meglio, quando lui sapeva perfettamente che il Tai Chi era uno stupido palliativo moderno al mal di vivere, che quello di cui aveva veramente bisogno era vedere uno, ma uno molto bravo, e farsi prescrivere un paio di pilloline azzurre la sera.
Mahi a quelle parole inorridiva. Cominciava a blaterare di contatto con la natura, di spirito e anima, di riconnettersi con l’universo.
“L’universo ha veramente rotto le scatole, visto che non vediamo altro da quando siamo nati” ribatteva sempre lui. Mahi continuava citando gli studi di famosi dottori, secondo i quali le ultime cinque generazioni, nate e vissute sulle astronavi nello spazio, mostravano segni di depressione e disturbo d’ansia molto più frequenti e marcati rispetto alla popolazione che aveva abitato la terra. Sembrava che perfino le persone che, almeno per brevi periodi, erano vissute su altri pianeti (prima di ripartire perché nessun pianeta era stato in grado di ospitare l’essere umano, fino ad allora), stessero meglio rispetto a loro.
“Che fortuna, allora, vivere su una Nave per la quale non è previsto mai l’atterraggio” borbottava lui.
Mahi passava molto tempo immersa nelle attività ricreative offerte sulle Navi; aveva perfino fondato una specie di club, che si chiamava “Il sole nascente”, i cui adepti praticavano praticamente qualsiasi arte marziale ritrovata sui vecchi testi terrestri, ovviamente digitalizzati, meditavano, facevano yoga ed erano vegetariani (cioè, ingurgitavano esclusivamente barrette energetiche composte da molecole sintetiche clonate da modelli vegetali e non animali). Lui trovava tutto questo estremamente stupido. Preferiva di gran lunga godersi la sua depressione da essere umano che non è mai uscito dalla Nave spaziale su cui è nato (“Presto inventeranno un nome, sindrome qualcosa”, diceva), starsene sotto al piumino nella sua cuccetta, leggere i libri (ovviamente altrettanto digitali) a disposizione della biblioteca comune e adempiere i suoi doveri.
Nei momenti più romantici sapeva perfettamente che sopravviveva a tutto quello senza nascondersi sul ponte di lancio e lasciarsi risucchiare dal vuoto quando veniva aperto il portellone (la moda dei suicidi negli ultimi anni) solo perché Mahi era con lui. Mahi era allegra, aveva la testa piena della Terra e del sole e delle piante e degli animali, anche se le sue mani non avevano mai neanche toccato qualcosa di vero legno o vera pietra ma solo freddo alluminio e fibre sintetiche; sembrava vivesse due vite, la mente sempre altrove, felice. E quando erano insieme, a volte lui arrivava a credere che sì, sarebbero stati loro, la generazione fortunata a trovare un nuovo pianeta ospitale, che forse avrebbero fatto un figlio facendolo nascere in piena luce, in un prato; che il suo primo odore sarebbe stato quello di terra fresca. Mahi adorava quel sogno e la notte, dopo l’amore, glielo raccontava sussurrando, con gli occhi illuminati che guardavano molto più lontano della parete della cuccetta. E Shui accantonava il suo cinismo per un po’, si lasciava accarezzare dalle sue parole piene di emozione.
Ma non bastava.
E neanche prometterle di provarci, a essere un po’ come lei, sembrava funzionare. Un paio di lezioni di arti marziali (l’antica arte del Tai Chi, secondo il club di Mahi) poteva avere qualche effetto, su di lui. Ma glielo aveva promesso, così ci andava, usciva dal piumino, indossava quella stupida divisa blu (che tra l’altro gli sembrava scomodissima e troppo calda, con quella pelliccia un po’ dappertutto) e passava due ore a volteggiare come uno stupido ballerino dei tempi andati davanti lo specchio.
“Sei in ritardo” notò Goya quel giorno, quando Shui entrò nel locale adibito alle arti marziali. Quando Mahi aveva tentato di richiedere uno spazio nella palestra ufficiale della nave, le era stato rifiutato senza troppe cerimonie; in alto pensavano che fosse una gran cavolata, era quella la verità, ma nel club credevano che fosse una cospirazione. “Ci preferiscono tristi e depressi” decretava Mahi. Shui non trovava alcuna spiegazione logica a quell’affermazione, ma nel club erano così: un po’ fanatici. Gente simpatica, per carità, ma decisamente strana, come se fossero a conoscenza qualcosa di inarrivabile alla gente comune.
Il gruppo era già quasi a metà delle posizioni di meditazione. Shui lasciò cadere in un angolo il borsone con le sue cose e si accinse a raggiungere il suo posto (ultima fila, ben lontano dallo specchio) ma Goya, che quando erano in quel locale amava farsi chiamare Maestro Goya, lo bloccò con un gesto secco.
“La meditazione non può essere cominciata a metà” disse. “Non puoi arrivare a quest’ora e semplicemente unirti al gruppo, non sei spiritualmente preparato.”
“Bingo”, pensò Shui. “Ora me ne torno sotto al piumino.”
“Vai nell’angolo e ripassa le cinque posizioni fondamentali, poi potrai fare la terza serie con noi” aggiunse però il Maestro prima che Shui potesse anche solo allungare di nuovo la mano verso il borsone.
Obbedì solo perché l’aveva promesso a Mahi. Non credeva che tutto quello avrebbe potuto veramente aiutarlo, no di certo, ma aveva promesso di provarci seriamente per qualche mese, prima di andare in cerca di pilloline azzurre, e lui era un tipo leale. Depresso e cinico, sicuramente, ma leale.
Così si infilò nell’angolo in fondo, dove erano appese un paio di foto sbiadite di antichi maestri delle arti marziali terrestri, tra cui una vecchia con così tante rughe che Shui dubitava fortemente potesse muoversi con agilità.
Cominciò la prima posizione con la grazia di un ippoelefante (stando a ciò che dicevano i libri, ovvio, chi aveva mai visto davvero un ippoelefante?). La riprovò una decina di volte, poi passò alla seconda. Si sarebbe scaldato così, e poi le avrebbe fatte tutte di seguito, una dopo l’altra, cercando di sentirsi un valoroso guerriero terrestre e non uno sfigato marziano sospeso in mezzo al nulla dell’universo.
Accanto a lui c’era un secchio in cui gocciolava acqua dal soffitto. Qualche tubatura difettosa, di certo, perché alle arti marziali avevano riservato il peggior scantinato della nave, e nessun tecnico sarebbe sceso laggiù a sistemare la perdita. Per Mahi e i suoi compari quello sarebbe stato un ulteriore segno dell’avversione che avevano per loro ai piani alti. Tic, tac, seconda posizione, mani in alto, dita rilassate, pugno non troppo chiuso. Movimento di lato, mani all’altezza del bacino, spingere l’energia, raccoglierla in una sfera davanti al petto. Tic, tac. Sentiva la voce di Goya guidarlo. Piedi paralleli, all’altezza delle spalle. Tic, tac, le gocce sembravano cadere nel secchio a due a due. Non si accorse di aver adeguato la velocità dei suoi movimenti al ritmo delle gocce. Inspirava nel silenzio, espirava quando avvertiva il suono arrivare, dandosi tempo di incamerare energia, lasciarla uscire come il fiato caldo dalle sue narici.
Si fermò alla fine della prima serie delle cinque posizioni riemergendo dalla dissociazione. Si fissò negli occhi azzurri, allo specchio, e per un attimo non si riconobbe. Scosse la testa. Tic, tac, le gocce cascarono ancora nel secchio accanto a lui e si voltò innervosito, quasi dovessero smettere di cadere solo perché lui era fermo, ora. Non avevano forse agito in armonia finora? Ancora stordito, spostò il piede sinistro avanti, piegò le ginocchia, lasciò che le mani scivolassero in avanti nella prima posizione, svuotando i polmoni. Due gocce si fermarono a mezz’aria.
Rimase così stupito che sobbalzò all’indietro. Udì subito il tic tac, leggermente attutito perché ormai nel secchio si era accumulato un sottile strato di acqua. Tic tac, ancora. Tic tac, secondo un ritmo ben preciso. Provò ancora la prima posizione con le dita verso il secchio, senza successo.
“Che idiota” pensò. Si era estraniato e aveva immaginato tutto, ecco cosa.
Si rimise ben dritto davanti lo specchio, inspirò, espirò, rilassò le spalle. Ricominciò dalla prima posizione, ma all’ultimo, senza averlo pianificato, si girò ancora. Le gocce si fermarono, sospese nell’aria, e Shui cercò di rimanere concentrato ma di non riemergere oltre la superficie della trance in cui navigava. Passò in seconda posizione, fluentemente, e le due gocce si fusero e si allungarono verso l’alto, in una spirale d’acqua vibrante.
E Shui sentì qualcosa dentro, in fondo. Una parte di sé che non sapeva esistesse, che non aveva mai sentito agitarsi ("agitazione" non era la parola più adatta, nonostante la tachicardia, forse era "vibrare", ecco cosa, esattamente come le molecole d’acqua davanti a sé), ma che riconobbe subito. Gli venne in mente il volto di sua madre, di sfuggita, poi gli pizzicarono le dita. Passò in terza posizione e l’acqua formò un piccolo globo che girava su se stesso. Abbassò allora le mani, lentamente, e fece fondere la sfera alla superficie bagnata in fondo al secchio. Solo allora svuotò i polmoni, forte, a bocca aperta.
Rimase in piedi a fissare il secchio per un po’. Sentiva il sangue scorrere nel suo corpo come non gli era mai capitato prima e fremeva per provarci ancora, ma aveva paura e non sapeva di cosa.
“Shui, cominciamo la terza serie!” disse ad alta voce Goya. Non urlava mai, non quando rivestiva il suo ruolo di Maestro, ma fu sufficiente a Shui per destarsi dal sogno. Si voltò e raggiunse gli altri nel suo posto in fondo, lontano dal secchio e dall’acqua.
Doveva riflettere.


  
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