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Autore: _ayachan_    08/01/2017    6 recensioni
A cinque anni dalle vicende de "Il Peggior Ninja del Villaggio della Foglia", che ne è stato delle promesse, dei desideri e delle recriminazioni dei giovani protagonisti?
Non si sono spenti con l'aumentare dell'età. Sono rimasti sotto la cenere, al caldo, a riposare fino al giorno più opportuno. E quando la minaccia è che la guida scompaia, quando tutt'a un tratto le scelte sono solo loro, quando le indicazioni spariscono e resta soltanto il bivio, è allora che viene fuori il carattere di ognuno.
Qualunque esso sia.
Versione riveduta e corretta. Gennaio 2016
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'eroe della profezia'
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Penne 43
Capitolo quarantatreesimo

L’ultima alleanza di Chiharu e Baka




«Non sono riuscito a lasciarlo là.»
Minato era una copia in miniatura di Naruto. Vedere il suo capo appoggiato sul cuscino dove di solito c’era suo marito fece sentire Hinata più smarrita che mai. Stesa al suo fianco, gli occhi fissi sul suo viso, gli accarezzò per l’ennesima volta la fronte tiepida.
«Sakura ha detto che non dobbiamo mai perderlo d’occhio» continuò Naruto. Se succede qualcosa, qualunque cosa, mi ha dato il permesso di dislocarmi in casa sua.»
«Posso tornare in ospedale con lui...» propose Hinata.
«Per cosa? Per restare a guardarlo come stai facendo qui, e farlo svegliare in ospedale, dove detesta andare?»
Hinata annuì. Minato odiava l’ospedale dai tempi delle prime vaccinazioni. D’altronde sapere che non sarebbe stata vicina ai mezzi di emergenza le creava ansia.
«Stai tranquilla. Non chiuderò occhio» le assicurò Naruto, seduto su una sedia accanto al letto. «Fidati di me.»
Erano passati pochi giorni dal malore di Minato. In ospedale il bambino si era svegliato, era stato visitato e aveva eseguito tutti gli accertamenti. Sakura aveva detto che non era ancora sicura di cosa potesse avere, ma aveva accennato a un’anomalia nel sistema del chakra, e alle domande di Naruto aveva risposto solo che era una cosa seria, ma voleva informarsi meglio prima di sbilanciarsi.
Minato era spaventato, ma visto che nessuno riusciva a spiegargli cosa avesse era costantemente nervoso. Così Naruto aveva insistito per riportarlo a casa, dove finalmente lo aveva visto crollare in un sonno profondo.
«Naruto... Tu credi che questo abbia a che fare con i problemi alla sua nascita?» domandò Hinata con un nodo in gola.
«Non lo so, ma non importa. Sakura troverà una soluzione... E se non la troverà lei, ci penserò io.»
Hinata si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Naruto lasciò la sedia e si sdraiò al suo fianco, cingendole le spalle con un braccio.
«Ho paura» la sentì mormorare. «Abbiamo rischiato di perderlo già una volta...»
Lui la strinse un po’ più forte. «Non succederà più. Te lo prometto. Io mantengo sempre le mie promesse.»
Hinata singhiozzò sommessamente, posando la mano sopra quella di Minato.
Lei e Naruto rimasero così, abbracciati, a guardare il piccolo che dormiva.

Dietro la porta socchiusa, appoggiata con le spalle alla parete, Hinagiku sperò che nessuno sentisse il battito del suo cuore.
Era andata a cercare i genitori per la cena, ma si era trovata a origliare più di quanto avrebbe voluto. A lei e ai suoi fratelli avevano detto solo che Minato non stava bene. Nessuno aveva pensato che la cosa potesse essere seria, tutti avevano dato per scontato che si fosse preso un’influenza o che avesse mangiato qualcosa di strano. Erano rimasti un po’ perplessi dal fatto che Hinata avesse trascurato gli altri figli per alcuni giorni, ma era stata presa come una casualità.
Ci sarei potuta arrivare, si rimproverò Hinagiku. Sono quasi una kunoichi, insomma!
Ma in quel periodo aveva pensato solo e soltanto a Jin, al modo in cui l’aveva trattata quando era tornato, e tutto il resto era diventato insignificante... Di colpo rimise piede nella realtà, nel modo più brusco.
Si sentiva una ragazzina idiota, poco più grande di Minato. Non era da lei essere così distratta, né tenere il muso e sospirare guardando il cielo. Che diavolo le stava succedendo?
Senza fare rumore si staccò dalla parete e tornò indietro verso la sala da pranzo, riflettendo sul da farsi. Non voleva essere il tipo di persona che centrava tutta la sua vita sul ragazzo di turno. Voleva essere una kunoichi seria che si preoccupa del fratello e cerca di aiutare la madre, la primogenita affidabile su cui contare. Tuttavia era anche una ragazzina, e per una ragazzina il ragazzino di turno è quasi tutto. Dunque, riteneva di dover chiarire le cose con Jin una volta per tutte, e solo allora, qualunque fosse l’esito del chiarimento, si sarebbe concentrata su Minato. Sembrava un piano sensato, soprattutto se elaborato da una diretta discendente di Naruto Uzumaki.
Invece di entrare in sala da pranzo deviò verso l’ingresso. Si mise le scarpe cercando di non far rumore, ma una domestica vide la luce accesa e andò a chiederle cosa stava facendo.
«Esco. Non disturbare i miei genitori, non è proprio il momento» borbottò lei in risposta. «Torno subito, tenetemi la cena da parte.»
La domestica esitò, ma, come tutto il personale, era stata informata della malattia del signorino Minato. Chinò la testa e le ricordò di fare attenzione.
E così Hinagiku andò, lungo le strade illuminate della città al crepuscolo. Mentre camminava, due Anbu mascherati, uno con il cappuccio e uno senza, prendevano servizio alla sorveglianza di Chiharu Nara; in quello stesso momento Fay si tormentava ripensando a tutte le insinuazioni che Sai aveva lasciato cadere nella visita a casa Nara, e Akeru si chiedeva se prima o poi sarebbe riuscito ad avere campo libero, o se avrebbe dovuto piazzare un’esca per far muovere Fay. Ma Hinagiku, ignara di tutte le trame che le si dipanavano intorno, camminò dritta fino alla casa di Kakashi, e suonò il campanello per incontrare Jin.
Non dovette aspettare molto: la porta si aprì quasi subito, e quando Hinagiku vide la zazzera grigia di Jin la sua risoluzione si indebolì tutt’a un tratto.
«Ciao» la salutò lui, evidentemente sorpreso.
«Ciao... Sono venuta per... Cioè, l’altra volta me ne sono andata così in fretta... Ma disturbo?» balbettò lei.
Jin si voltò a guardare lungo il corridoio. Dal fondo proveniva una luce e il suono sommesso di due voci.
«Senti, non ho bisogno di entrare» disse Hinagiku, avvertendo nell’aria la sensazione che lui l’avrebbe cacciata di nuovo. «Volevo solo scusarmi per l’altro giorno. Sono stata preoccupata per tutto il tempo mentre eri via, e volevo vedere come stavi... Ma mi sono innervosita subito e ti ho trattato male. Scusa.»
Jin la fissò confuso. Non pensava proprio che Hinagiku si fosse comportata male nei suoi confronti, anzi era ragionevolmente sicuro di essere stato lui quello sgradevole. Nel frattempo si rese conto che gli era mancata, e la cosa lo mise in difficoltà anche maggiore.
«Non ti sei comportata male, è che... è un periodo molto complicato...» disse esitante.
Hinagiku rimase in silenzio, in attesa di un seguito. Ma quello non venne.
Jin si guardò di nuovo alle spalle, prese un respiro profondo e strinse la presa sulla maniglia della porta. Doveva farlo.
«Mi dispiace, Hinagiku. Sono successe tante cose mentre ero via, e io sono cambiato... Non credo di riuscire a tornare quello che ero. Mi capisci?» disse lentamente.
Le parole di Jin le piombarono addosso come una doccia fredda, perché anche se pensava di essere pronta a tutte le risposte, in realtà Hinagiku non era pronta a quella. Cercò qualche segno di intima sofferenza sulla faccia di lui, ma non ne trovò. Allora si sforzò di distruggere tutti quelli che erano sicuramente comparsi sulla propria.
«S-Sì, certo. Capisco» balbettò, arretrando involontariamente.
E avrei dovuto capirlo già la volta scorsa, invece di tornare a farmi dare il colpo di grazia.
«Ci saranno tante cose di cui ti devi... E anche io...» per un attimo pensò di raccontargli di Minato, ma poi pensò che sarebbe sembrato un modo per impietosirlo e lo tenne per sé. «Va bene. Scusa il disturbo. Ci vediamo in giro...» mormorò, sentendo il sangue che oltrepassava le sue barriere e risaliva su per le guance, inarrestabile. «Ciao!» esclamò con voce stridula. E senza aspettare la risposta se ne andò di corsa.
Jin fece per andarle dietro, ma si bloccò. A quel punto lasciò che sulla sua faccia comparissero tutte le emozioni che aveva trattenuto così bene – rabbia, tristezza, dolore – e si passò le mani sul viso da bambino. Inspirò, sbuffò, riaprì gli occhi.
Allora l’aveva fatta finire così, pensò richiudendo la porta. Prima di partire aveva fatto a Hinagiku tutte quelle promesse, le aveva riempito la testa di tutta quell’aspettativa... E poi era tornato e l’aveva scaricata.
D’altronde era vero: lui non era più la persona di prima. Adesso era un soldato che si preparava per la guerra, figlio di una traditrice e con il padre in coma. Cosa poteva dare a una ragazza come Hinagiku, uno come lui? Solo un mucchio di giornate piene d’ansia.
Tornò in cucina riprendendo l’espressione neutra. Sedute al tavolo, di fronte a una cena mezza consumata, c’erano Natsumi e Haruka.
«Chi era?» chiese Natsumi.
«Un messaggio dell’Hokage» mentì Jin. «Un’altra scorta.»
Haruka non fece commenti. Era seduta dove di solito si sedeva Kakashi, ma non lo sapeva. L’avevano liberata quella mattina, dopo averla rivoltata come un calzino in cerca di segni di tradimento; per sua fortuna Morino era stato impegnato con Yoshi e non aveva avuto il tempo di occuparsi di lei, ma chi l’aveva sostituito aveva fatto il suo dovere fino in fondo. Non l’avevano trattata troppo male: Haruka non aveva l’aria smagrita né ferite visibili, però le occhiaie sulle sue guance denunciavano la carenza di sonno.
Per mandarla a casa avevano chiamato Natsumi, che invece di portarla nel suo appartamento l’aveva portata in quello di Jin. Era stato un incontro incredibilmente imbarazzante, ora che non c’era più la necessità di scappare e che Kakashi stava male. Jin, che in viaggio l’aveva difesa a spada tratta e aveva potuto odiare liberamente il padre, adesso si sentiva in dovere di giustificare le scelte e lo stile di vita di Kakashi, quasi come se lei fosse un’intrusa. E poi, anche se non sapeva spiegarsene la ragione, si sentiva a disagio a stare nella stessa stanza con madre e zia.
«Vieni, finisci di mangiare» disse Natsumi. «Mentre eri via tua madre mi stava dicendo che per il momento le affideranno piccoli incarichi amministrativi, quindi sarà a casa. Pensavo di tornare nel mio appartamento.»
Jin si corrucciò per una frazione di secondo: non era sicuro di voler restare solo con Haruka. «Ma là sei sola» obiettò. «Haru... Mamma può occuparsi di tutti e due.»
«Tua madre si è già occupata abbastanza di me.»
«E Natsumi si è occupata abbastanza di te» disse Haruka, e anche se nelle sue intenzioni voleva risparmiare della fatica alla sorella, sia lei che Jin lo presero come l’insinuazione che Natsumi avesse voluto prendere il suo posto.
«Io e Jin siamo stati piuttosto bene» puntualizzò lei infatti.
«Sai cosa intendevo.»
Natsumi si irrigidì. Il vecchio tono di condiscendenza di Haruka la irritò più del previsto.
«Io penso che dovrebbe restare con noi» insisté Jin. «Dove mangiano in due mangiano anche in tre, e comunque sarà impegnata quanto me: non la sentirai nemmeno.»
Haruka passò lo sguardo da Natsumi a Jin, chiedendosi se fossero davvero affezionati l’uno all’altra o se invece si sentissero troppo a disagio restando soli con lei. Alla fine scrollò le spalle. «Va bene» disse semplicemente. Ci sarebbero state comunque le occasioni per stare insieme a suo figlio.


Si potevano improvvisare davvero molte cose con un divano e un tavolino. La curva della schiena di Chiharu si adattava perfettamente all’angolo tra schienale e braccioli, l’altezza della seduta era più o meno delle dimensioni del suo femore. E poi era diventata più leggera dopo l’ultimo ricovero: adesso era ancora più facile sollevarla e sistemarla meglio.
E tuttavia, nonostante la gran quantità di posizioni acrobatiche che uno shinobi era in grado di praticare, la comodità rendeva sempre tutto migliore. Alla fine lo sapeva: averla su di sé, aggrappata allo schienale del divano, e sentire le sue cosce stringersi attorno ai fianchi sarebbe stato ben più che sufficiente.
Certo, era inquietante che ricordasse con tutta quella precisione un divano che aveva visto al massimo tre volte.
Hitoshi si sistemò il ciuffo per la milionesima volta, sentendosi completamente stupido. Era fermo all’inizio del vialetto di casa Nara da un tempo ridicolmente lungo, circondato dai mozziconi di mezzo pacchetto di sigarette.
Il punto era che stava dando di matto. Non riusciva più a dormire bene. Da quando Chiharu era tornata a Konoha niente era andato come si era aspettato: lei non aveva più accennato a quello che era successo a Suna, lui non era riuscito a costringerla a farlo. Le aveva parlato una volta sola, e lei aveva rimandato il discorso vero, poi lo aveva sempre congedato in modi più o meno maleducati. E Hitoshi non era famoso per la sua pazienza. Chiharu gli aveva chiesto tempo, ma non aveva specificato quanto. Considerato che quello che era successo a Suna era successo ormai decine di giorni prima – anzi, a lui sembravano mesi – riteneva che a quel punto poteva anche andare da Chiharu e pretendere il chiarimento a cui aveva diritto.
Anche perché in fondo era convinto che sarebbe potuta finire solo in un modo: esattamente come era iniziata, con Chiharu che faceva la ritrosa e poi si scioglieva tra le sue braccia.
E’ necessario parlarne adesso, si disse per farsi coraggio. Perché con il divano di casa sua ho immaginato di fare l’amore con lei su ogni superficie calpestabile di Konoha, e se non lo rifacciamo davvero dovrò andare da un medico.
Sputò la gomma che aveva masticato fino a quel momento, aggiustandosi di nuovo il ciuffo. Prese un respiro profondo, scrollò le spalle, e avanzò lungo il vialetto.
Quella mattina le finestre erano chiuse, perché l’aria era piuttosto fresca. Il cielo era sgombro di nubi, di un bel blu acceso, e le foglie riflettevano la luce del sole. Nessuno lo vide arrivare; Hitoshi dovette bussare.
Chiharu aprì sorprendentemente in fretta, quasi come se lo stesse aspettando. Altrettanto strano, indossava un marsupio come se fosse pronta per uscire. Ma quando vide che era lui le sue sopracciglia si corrucciarono.
«Cosa ci fai qui?» sbottò.
Partiamo bene, pensò Hitoshi.
«Dobbiamo parlare.»
«Senti...»
«No. Ora basta» Hitoshi avanzò risolutamente, spostandola per entrare in casa. «Mi hai allontanato tutte le volte che ho provato a parlare con te, adesso devi ascoltarmi.»
Chiharu gettò uno sguardo allarmato verso il salotto. «Adesso proprio no!»
«La tua agenda è sempre piena, quando si tratta di me!» inveì Hitoshi piantando i piedi in mezzo al corridoio.
Dal salotto emerse Fay, che li fissò infastidita. «Che succede?»
«Niente» si affrettò a rispondere Chiharu, lasciando la porta aperta con intenzione. «Hitoshi se ne stava andando.»
«Non credo proprio.»
Fay guardò lui e guardò lei, con una smorfia di insofferenza stampata sul viso. Quella notte aveva ricevuto pessime notizie: Neji cedeva alle pressioni del clan e si sposava, glielo aveva detto lui stesso dopo ripetute insistenze. Ora non aveva la forza né la voglia di assistere ai battibecchi amorosi di due adolescenti che non sapevano niente della vita, così fece un verso di stizza e se ne andò in cucina, richiudendo la porta scorrevole con un tonfo. Che Hitoshi la tradisse, se doveva tradirla; a lei quasi non interessava più.
Ritrovandosi sola con Hitoshi, Chiharu trattenne un’imprecazione.
«Adesso siamo soli» disse lui, leggendole nel pensiero. «E non abbiamo impegni. Non c’è niente che ti impedisca di parlarmi.»
Oh sì che c’è!, pensò Chiharu disperata. Fece lavorare febbrilmente il cervello, ma l’unica idea che le venne fu di prendere tempo. Guardò rapidamente fuori dalla porta, poi la richiuse.
«Vieni in salotto» disse. Aveva la netta impressione che questa volta Hitoshi non le averebbe permesso di concludere la discussione come le altre volte. Questa volta lui avrebbe preteso una risposta vera, ma, dei santissimi, non poteva trovare momento peggiore.
«Tu lo sai, vero, che la scelta del momento condiziona anche la risposta?» disse seccamente, mettendo il tavolino tra sé e lui.
«Cos’è, una minaccia? Se faccio il bravo e torno quando ti garba cadrai tra le mie braccia adorante?» disse Hitoshi in risposta.
«Ma fammi il piacere!»
«Lo immaginavo» Hitoshi si lasciò cadere sul divano a braccia conserte, come uno che ha tutte le intenzioni di piantare le tende lì.
Chiharu trasalì. «Non ti ho detto di sederti!»
«Non è che tu mi abbia detto molto, negli ultimi tempi. Da quando mi hai spedito a Konoha durante la missione di Suna non abbiamo più parlato. E ce ne sono di cose di cui parlare...»
Chiharu digrignò i denti. Nemmeno lei era famosa per la sua pazienza. «Va bene. Allora parliamo» sbottò bellicosamente, senza sedersi.
«Ok. Ricordi che a Suna siamo stati a letto insieme?»
Chiharu sussultò. «E tu ricordi che di là c’è gente?» sibilò arrossendo. «Parliamo, ma non pubblichiamo i manifesti, va bene? Abbassa la voce!»
«Dovremmo decidere che cosa fare ora» continuò Hitoshi, ma più piano.
«Cosa fare?»
«Cosa fare. Mi sembra evidente che ci piacciamo, quindi...»
Chiharu alzò entrambe le mani, bloccandolo. «Ti sembra evidente che ci piacciamo?» ripeté, incredula.
«Di solito vai a letto con chi non ti piace?»
No, ma faccio molte cazzate.
«Detesto quando un Uchiha pretende di sapere cosa penso o provo. Lo detesto soprattutto quando l’Uchiha sei tu.»
«Va bene, allora. Tu mi piaci. Io, presumo, ti piaccio?»
«Tu presumi
«Beh...»
Il campanello suonò di nuovo.
Chiharu sbiancò visibilmente. «Non ti muovere» sibilò a Hitoshi, e corse all’ingresso per aprire. Arrivò nel preciso momento in cui Fay sporgeva la testa dalla cucina. Innervosita, le fece cenno di sparire e ottenne in risposta un’occhiataccia. Allora aprì la porta di una spanna e cacciò la testa fuori.
Era Akeru.
«Ciao!» la salutò lui tutto allegro.
«Non è il momento» ribatté lei in un sussurro ansioso.
Il sorriso di Akeru scemò leggermente, ma non scomparve. «Credo proprio che lo sia, invece» insisté, alzando le sopracciglia con intenzione. «A proposito, l’ora più buia è prima dell’alba.»
«No, l’ora più buia è proprio ora, credimi» lo corresse lei. «Mi serve... mezzora. No, dieci minuti. Ti prego
«Chi è adesso?» domandò Fay, facendo un passo lungo il corridoio.
«Sono Baka Akeru, signora» disse lui da dietro la porta. Chiharu sentì una colata di ghiaccio scivolare giù per la colonna vertebrale, e si voltò di scatto verso il salotto. «Sono venuto a portare a Chiharu gli esiti delle ultime analisi» e poi abbassò la voce a un sussurro, perché lo sentisse solo Chiharu. «Credo anche di aver dimenticato una cosa.»
«Sarei passata a prenderli io» disse Fay avvicinandosi.
Tremando, Chiharu fu costretta ad aprire la porta e lasciar entrare Akeru, dicendosi che non era ancora proprio finita.
«Ero di passaggio in ospedale» spiegò lui con un sorriso affabile. «Pensavo anche di spiegargliele...»
«Lo posso fare io» borbottò Fay tendendo la mano.
«Ehm...» Akeru esitò, guardando Chiharu in cerca di aiuto.
«Scusate» si intromise una voce dal salotto.
Hitoshi comparve sulla porta, e Chiharu seppe, seppe distintamente che quella era una cosa terribile. Come al rallentatore, vide la mano di Hitoshi alzarsi per mostrare qualcosa. Con orrore si accorse che era un marsupio. Un inconfondibile marsupio Anbu.
Tutti restarono immobili per un lunghissimo secondo.
«L’ho trovato incastrato nei cuscini del divano» disse ancora Hitoshi. La sua voce produceva lo stesso sgradevole effetto del gesso sulla lavagna, e sì: adesso era finita.
Akeru fissò il marsupio e scambiò un’occhiata con Chiharu. «Lui perché è qui?» sussurrò.
«Penso che sia più interessante sapere perché il tuo cazzo di marsupio è qui, invece» sbottò Hitoshi, gettandoglielo di scatto.
Fay inarcò le sopracciglia fino all’attaccatura dei capelli e arretrò lentamente. «Torno in cucina» mormorò saggiamente.
Chiharu chiuse gli occhi per un istante, arrendendosi al fallimento dei suoi tentativi per uscirne indenne. Ormai avrebbe dovuto sapere che tutto quello che faceva aveva delle conseguenze, ma si illudeva sempre di poterle evitare in qualche modo.
«Ho detto» riprese Hitoshi, avanzando fino all’ingresso e piantandosi di fronte ad Akeru. «Che non riesco proprio a immaginare come questo sia finito sul tuo divano, Chiharu.»
Chiharu non riuscì ad aprire bocca. Akeru invece sollevò il mento in atteggiamento aggressivo. «Scommetto che se ti sforzi ci arrivi.»
Chiharu richiuse gli occhi. Avrebbe dovuto sapere che Stupido non sarebbe riuscito a trattenersi dal vantarsene, ed essendo Stupido ovviamente lo aveva fatto nel modo peggiore.
Hitoshi non ebbe bisogno di altri suggerimenti per arrivare alla verità; si rivolse a Chiharu, sconvolto. «Sei stata con lui?»
«Vedi che ci arrivi se ti impegni?» Akeru gli regalò un sorrisino di trionfo, rimettendo il marsupio. «Grazie, lo stavo giusto cercando.»
Negli occhi di Hitoshi passò un lampo furibondo, che attraversò Chiharu e poi tornò ad Akeru. «Ah sì? E allora, come medico non ti sei accorto di non essere il primo?»
Il sorriso di Baka si spense bruscamente. «Cosa?» chiese, sconvolto quanto Hitoshi. «Lui è stato il primo?»
Chiharu si passò una mano sul viso, fermandosi alla bocca. Le dita le tremavano.
«Ad occhio e croce, una manciata di giorni prima di te» calcolò Hitoshi. La fissò, con un’espressione mista di disgusto e orrore. Ora capiva. Ora era facile comprendere perché non aveva mai voluto parlarne... E lui era stato davvero cretino a pensare che lei fosse solo in imbarazzo.
Chiharu si costrinse a riprendere fiato per arrestare la discussione prima che degenerasse. «Oh, ma per favore. Datevi una calmata. Non sono la fidanzata di nessuno di voi, e con chi vado a letto sono fatti miei!» esclamò, fissando un punto vago all’altezza dei gomiti di Hitoshi e Baka.
«Non se lo fai tre giorni dopo averlo fatto con me!» esclamò Hitoshi furibondo. «Ora capisco perché dopo non hai più voluto parlarne. E io coglione che mi bevevo le tue palle su quanto stavi male... Non voglio più saperne niente di te. Porca puttana Chiharu... Vai all’inferno!»
Con una spallata ad Akeru, Hitoshi attraversò la porta e uscì di casa pestando rumorosamente i piedi.
Chiharu non provò a fermarlo. Akeru lo guardò allontanarsi, poi, confuso, fissò lei. «Ma che cavolo... Tre giorni dopo? Che senso ha?»
Chiharu scrollò nervosamente le spalle, perché in realtà nemmeno lei sapeva che senso avesse, e disse la prima cosa che le venne in mente: «forse mi piace il sesso?»
«Forse ti piace il sesso?»
Chiharu inspirò ed espirò bruscamente. Sentì Fay che apriva il rubinetto in cucina e immaginò che presto sarebbe tornata in corridoio per controllare la situazione. Allora compose i sigilli e in una nuvoletta di fumo prese le sembianze di Akeru.
«Che stai facendo?» sibilò lui irosamente. «Scordati di andare da Yoshi adesso. Scordatelo!»
«Avevamo un piano» ribatté lei, bloccando la sua ombra sotto i piedi. «Se fossi in te ora mi trasformerei in Chiharu Nara, o dovrai spiegare a Sakura un mucchio di cose.»
E uscì di casa, lasciandolo bloccato finché non fu a distanza, quasi fuori dalla proprietà.
Akeru tornò padrone dei suoi movimenti soltanto pochi secondi dopo, appena in tempo per trasformarsi in lei prima del ritorno di Fay. Compose i sigilli rabbiosamente, e dentro di sé giurò che mai, mai, mai più avrebbe dato fiducia a Chiharu Nara. Mai più!

Erano nudi, forse stupidamente nudi, ma erano anche diciottenni in una casa vuota e avevano appena fatto sesso.
Chiharu era stesa contro Akeru, scomodamente incastrata su un divano che non era stato progettato per far dormire due persone, e lui le solleticava la schiena con le dita. Le scostò i capelli dal collo, sfiorandole il lobo dell’orecchio.
«Non mi ero mai accorto che avessi un tatuaggio» le disse, accarezzando gli ideogrammi disegnati sulla sua nuca, fino alle prime vertebre dorsali. Non erano parole che lui conosceva, ma gli davano uno strano fremito sotto le dita e sembravano essere tenuemente fosforescenti.
Chiharu si mosse e spostò i capelli per coprire il tatuaggio.
«Ti aiuterò» disse contro la sua spalla, dove un altro tatuaggio, quello da Anbu, faceva mostra di sé. «Cercherò di far parlare Yoshi come hai suggerito tu.»
«Cosa ti ha fatto cambiare idea?» domandò Akeru in tono lievemente sarcastico, scivolando con la mano fino alla sua coscia e stringendola con intenzione.
«Non quello. Cretino.»
Era solo che aveva già deciso di farlo, ma prima non aveva trovato il modo per dirlo. Sapeva che era arrivato il momento di ricambiare tutti i favori che Akeru le aveva fatto.
«In fondo non sei tutta marcia» ridacchiò lui, abbracciandola e facendola rotolare sopra di sé.
«Non sono marcia neanche un po’!» ribatté lei offesa, cercando di tirarsi su, ma lui la tenne contro il petto e le accarezzò la testa.
«Lo so» disse, la voce soffocata contro i suoi capelli. «Sei solo scema.»
Chiharu sbuffò, ma si lasciò andare e accoccolò la testa sotto il suo collo.

«Se ne sono andati?» chiese Fay, aprendo la porta della cucina con un sospiro.
«Sì. Ma io sono il peggior essere umano che abbia mai camminato sulla terra» rispose Akeru trasformato in Chiharu, accartocciando i fogli degli esami tra le dita. E cancellò dalla memoria gli ultimi brandelli del ricordo della notte con lei, perché ora erano rovinati dalla brutta faccia di Hitoshi che gli diceva di essere stato il primo.
«E’ la prima volta che ti sento esprimere un’opinione sensata» borbottò Fay. «Chiudi la porta e vieni in salotto... Leggiamo gli esami che hanno creato questo disastro.»


Chiharu raggiunse il dipartimento di polizia con le sembianze di Akeru e una frequenza cardiaca di duecento battiti al minuto.
Si sentiva una spia in territorio nemico, un traditore della patria, un farabutto in procinto di fare una strage di bambini... Aveva una paura terribile. Perché mai aveva pensato che il piano di Akeru fosse un buon piano? Andare nella fossa dei leoni con un cosciotto di manzo sotto la maglietta non poteva essere un’idea brillante, ed era proprio quello che stava facendo.
Avrei dovuto far saltare tutto, si disse nervosamente. Perché diavolo mi sono fatta prendere dal panico e mi sono trasformata in Stupido?
Perché il panico, per definizione, fa fare cose imbecilli. E perché l’inaspettata risoluzione del suo triangolo con Akeru e Hitoshi l’aveva sconvolta molto più del previsto.
Comunque ormai era lì, tanto valeva fare qualcosa di utile e seguire il piano per filo e per segno. La sua unica speranza di cavarsela era comportarsi come si sarebbe comportato Akeru: quella notte lui le aveva fornito tutte le istruzioni per arrivare alla sala degli interrogatori senza farsi notare, bastava attenersi alle sue indicazioni e non avere colpi di testa. Quella notte, dopo tutte quelle cose interessanti sul divano...
Nonostante i pensieri confusi, Chiharu riuscì a trovare senza fatica le scale che portavano al seminterrato, e le scese con la sensazione di una trappola spaventosa che si spalancava sotto i suoi piedi. Arrivata alla fine della rampa trovò le prime due guardie, che riconoscendo Akeru si limitarono a fare un cenno e andarono avanti a giocare a shogi.
Chiharu avanzò, continuando a ripensare a tutte le cose che avrebbe potuto dire a Hitoshi per farlo andare via prima che arrivasse Akeru, e che non aveva detto. Man mano che proseguiva l’odore delle celle si faceva sempre più fastidioso, ma a questo Baka l’aveva preparata. Si rese conto che i sotteranei erano molto più ampi del palazzo sovrastante, e un paio di volte temette di aver sbagliato strada. Ma poi si trovò nel corridoio con le celle singole e capì di essere nel posto giusto.
In fondo, dove c’era un neon freddo e una singola porta di metallo, vide un uomo di guardia con la divisa della polizia. Non sembrava amichevole come i due giocatori di shogi. Anche quando lei gli fu di fronte, quello rimase immobile e silenzioso. Chiharu smise di pensare a Hitoshi e Akeru.
«L’ora più buia è prima dell’alba» mormorò nervosamente.
L’uomo annuì e si fece da parte. Lei prese un respiro profondo – il che si rivelò un errore, con tutti i vasi da notte che venivano riempiti nel sotterraneo – ma si affrettò ad aprire la porta prima che la guardia si insospettisse.
Nella stanza degli interrogatori c’erano già due persone: una era Morino, l’altro, sotto gli strati di sporcizia e le tumefazioni, doveva essere Yoshi. Di colpo Chiharu fu concentratissima.
«Sei in ritardo!» abbaiò subito Morino.
«Mi dispiace» sussultò lei.
«Fa niente! Tanto non parla, non parla e non parla!» con il tono esasperato di chi ha recitato la scena troppe volte, gettò contro la parete qualcosa di metallico, che rimbalzò sulle piastrelle e ne scheggiò un paio. Chiharu intuì che doveva essere qualche orribile strumento di tortura, ma non riuscì a vederlo bene. Su un tavolino pieghevole accanto alla porta c’era un’intera valigetta piena di attrezzi dalle forme raccapriccianti.
A quel punto sorse il primo problema: non aveva più la collaborazione di Akeru, e quindi non sapeva se sarebbe riuscita a far uscire Morino. Guardando la valigia degli orrori e la bandana che nascondeva il cranio dello shinobi, pensò che stava rischiando davvero troppo, ed ebbe un fremito.
Se non lo condanna a morte il Consiglio, Yoshi lo ammazzo io, pensò.
In quel momento il ragazzo era legato mani e piedi alla sedia inchiodata al pavimento. Teneva il capo reclinato in avanti, come se riposasse, e non sembrava particolarmente impensierito dalle tracce di sangue sul tavolo.
Morino si avvicinò alla porta e frugò nella valigetta, in cerca di chissà quale diavoleria. Chiharu si spostò impercettibilmente, ricordando che Baka di solito interveniva soltanto quando Morino glielo chiedeva. Si accostò alla parete, stringendo le mani dietro la schiena, e le tornarono in mente le parole di Akeru: se accetterai di seguire il mio piano, vedrai cosa fa Morino agli uomini che interroga. Allora capirai.
Nei minuti successivi, capì davvero.
Dovette farsi violenza per non chiudere gli occhi né vomitare. Morino era esperto, spietato ed evidentemente pazzo, ma l’ultima cosa doveva essere una conseguenza della prima. Usò molti degli strumenti nella valigetta, in modi che Chiharu non avrebbe osato immaginare nemmeno nei suoi momenti peggiori, e li usò con una naturalezza che le fece contrarre lo stomaco fin quasi a farle lacrimare gli occhi. Come faceva Akeru a resistere? Come escludeva dalle orecchie le voci, i rumori che facevano molti di quegli attrezzi, le reazioni di Yoshi? Era possibile? Era umano? Certo che impazzivi, facendo quel mestiere: non poteva finire in altro modo.
«Basta, basta!» gridò Morino a un tratto, allontanandosi dalla sedia di Yoshi.
Chiharu si costrinse a guardarlo e lo vide sudato quanto lei. Doveva averci provato davvero intensamente, ma Yoshi non mollava.
Allora sorse il secondo, più grave problema: Morino le chiese di curarlo. E Chiharu non poteva farlo, naturalmente.
Sentì un’ondata di gelo risalire dalle mani al collo e fino alla testa, oscurandole la vista per un momento. La cura con il chakra non era qualcosa che si poteva improvvisare. Fece lavorare rapidamente il cervello, ma aveva troppa paura di Morino per riuscire a trovare una soluzione. Si staccò dal muro con enorme lentezza, avvicinandosi al tavolo al centro della stanza senza guardare gli strumenti sparsi sulla sua superficie.
«Prima o poi mi sbaglierò, e il medico che ti ricuce non sarà più sufficiente» ringhiò Morino dal fondo della stanza. «Feccia schifosa.»
Chiharu si accovacciò accanto a Yoshi, che sollevò una palpebra gonfia e le lanciò uno sguardo opaco. Sembrava abituato a quell’iter, ma non particolarmente grato. Lei esitò, schiarendosi la voce. Lui alzò leggermente la testa.
«Dove... Da dove inizio?» chiese sottovoce, con un’occhiata nervosa a Morino. «Dove senti più male?»
Yoshi non rispose, ma aprì entrambi gli occhi per guardarla meglio. Poi sorrise – un’immagine davvero agghiacciante con i denti sporchi di sangue – e raddrizzò la schiena.
«Era ora.»
«Che c’è?» chiese Morino. Un attimo dopo roteò gli occhi all’indietro e perse conoscenza, scivolando a terra con un tonfo.
Yoshi ebbe una specie di fremito, e le ferite sul suo viso si riassorbirono a vista d’occhio, lasciando pallidi segni più chiari là dove una persona normale avrebbe avuto delle cicatrici. Accadde così velocemente che Chiharu si rialzò e fece un passo indietro, stupefatta e un po’ spaventata.
«Non fare così, lo insegnerò anche a te» disse lui, muovendo la mandibola e il collo per assicurarsi che fossero in ordine. A quel punto la guardò, con lo sguardo brillante di chi ha fatto una bella notte di sonno, e Chiharu iniziò a temere che la situazione fosse meno sicura di quanto lei e Akeru avevano pensato.
«Sciogli la trasformazione, mi fai impressione» disse Yoshi.
Chiharu riprese le proprie sembianze, ma si tenne sulla difensiva. «Baka ha detto che avresti chiarito tutto» mormorò cauta.
«Sì, la cattura è stato un intoppo fastidioso... Sarei arrivato a te molto prima, se solo non mi avessero preso. Così immagino di averti dato l’impressione sbagliata.»
«Non farmi perdere tempo» lo interruppe lei. «So che vuoi tirarmi in mezzo a questa storia, ma non capisco perché. Sai che non c’entro niente.»
«Invece tu c’entri. Tu sei il centro di tutto! Non la guerra, e non la Roccia, che è un Paese di persone poco intelligenti. La guerra non ha mai avuto niente a che fare con tutto questo, e nemmeno l’Hokage. Si è sempre trattato di te.»
Chiharu non seppe cosa rispondere, a parte che le sembrava di intravedere in Yoshi la stessa scintilla di pazzia che aveva visto in Morino. Nel dubbio rimase in silenzio, con la mano vicina alla cintura dei kunai.
«Haru, io sono qui per te» continuò Yoshi tendendo il collo verso di lei, visto che le mani erano ancora legate dietro la sedia. «Sono venuto a portarti via.»
«Perché?» domandò lei cautamente.
«Come perché? Perché è quello che vuoi!» Yoshi lo esclamò quasi ridendo. «Tu non sei fatta per restare qui, non lo sopporti.»
«No?» Chiharu lo fissò stralunata, ma lui non sembrò turbato dal suo scarso entusiasmo.
«Non mi hai mai riconosciuto, vero?» le chiese.
«Avrei dovuto?»
«Certo che no. Il nostro incontro non ha significato niente per te, allora. Io ero solo una spia di poca importanza, e tu avevi ben altri problemi...»
Chiharu corrugò la fronte, in cerca del ricordo a cui si riferiva Yoshi, ma non lo trovò.
«Cinque anni fa, Haru. Io ero una spia infiltrata, e il tuo gruppo era incaricato di riprendermi. Quella volta che hai scatenato quel terremoto, e subito dopo hai detto di voler lasciare la carriera di kunoichi... Mi chiamavo Ariyoshi Tsuda.»
All’improvviso Chiharu ricordò. Ma erano avvenimenti che sembravano accaduti un’intera vita prima, quando ogni piccolo incarico era importante e lei era ancora sana, boriosa e incosciente: c’era stata una missione, avevano scoperto una spia infiltrata a Konoha, catturarla era stato uno dei suoi test per capire se poteva restare kunoichi... Ricordava vagamente la faccia del ragazzo della Roccia con cui si erano scontrati, e che poi, a causa sua, era fuggito. Forse nei suoi occhi c’era qualcosa di familiare, ma i capelli tinti di Yoshi erano troppo fuorvianti per esserne sicura.
«Non è possibile. Hai un’identità, ci sono persone che ti conoscono da prima... Quella volta al tempio di Juka!» ribatté parlando veloce.
«Non è difficile crearsi un’identità. La famiglia di Yoshi esiste davvero, come tutta la gente che li conosce a Juka. E sì, avevano un eroico figliolo che aveva studiato tra i ninja... Sfortunatamente mi serviva morto. E mi serviva morto anche il fratellino minore, mandato a studiare a Konoha al suo posto. Un’intera famiglia di solide origini mi sembra una copertura sufficiente.»
«Ma perché?» alitò Chiharu.
Yoshi sospirò spazientito. «Te l’ho detto: per te. Ti ho osservata per tutto questo tempo, e quando ho visto che avevi preso da Konoha tutto quello che potevi, ho agito. Certo, gli avvenimenti degli ultimi giorni hanno un po’ complicato la situazione... Ma grazie a quel buon cuore di Baka sono riuscito a farti venire fin qui in ogni caso.»
«Non capisco...»
A quel punto Yoshi sbottò proprio: «Non è complicato: l’ho fatto per darti quello che Konoha non ha; perché qui per una come te non c’è più niente!»
«Ma che ne sai?»
Yoshi sorrise con l’aria di chi sapeva molte cose. Chiharu provò l’istinto di fargli arrivare un pugno in mezzo al naso, ma si trattenne.
«A Konoha c'è tutto quello che mi serve... sono io che non ho niente da dare a loro» disse invece.
«Sì, so che da quando sei tornata la situazione è un po’ peggiorata. Ma sono tutte sciocchezze. Io ho visto il tuo potenziale, ho visto quello che puoi fare...»
«Non più» lo interruppe lei. «Mi sono giocata tutto quel potenziale facendo un mucchio di cazzate, e adesso sono una cardiopatica.»
Il sorriso di Yoshi si fece più insolente. «Fuori da Konoha ci sono cure che neanche immagini. Guarda la mia faccia, pensa a come era ridotta pochi minuti fa; prova a pensare a cosa si potrebbe fare per il tuo cuore.»
Senza volerlo Chiharu fremette. Quello era l’unico argomento che potesse incrinare la sua determinazione a tornare una brava ragazza. Guardò nervosamente il corpo addormentato di Morino, poi di nuovo Yoshi.
«Anche se...» deglutì. «Anche se fosse possibile, non me ne faccio niente di un cuore in salute con una condanna per alto tradimento sulla testa.»
«Non limitarti da sola, andiamo! Il mondo non inizia e non finisce alle porte di Konoha. Te l’ho già detto, questo Villaggio non fa che tarparti le ali: hai visto così poco del mondo là fuori! Voi shinobi della Foglia siete così sottomessi, sempre tanto bravi a scattare al primo ordine... Mai un passo che non sia stato ordinato dall’Hokage, mai un’iniziativa. Vieni con me: ti mostrerò cosa vuol dire non dover rendere conto a nessuno.»
Chiharu si alzò in piedi e fece un giro del tavolo, massaggiandosi il viso con le mani sudate. Ricordò la voce di Yoshi che le elencava una serie di meraviglie oltre i confini, meraviglie di cui lei non sapeva niente. Era successo prima della missione di Loria, quando tutto era ancora normale, e allora l’idea l’aveva infastidita, ma non attratta.
Eppure se là fuori ci fosse una cura..., si trovò a pensare in quel momento.
Smise di camminare, scosse la testa. Guardò di nuovo Yoshi, che sembrava a suo agio nonostante fosse ancora immobilizzato.
«Qui sei sprecata» insisté lui. «Vieni con me, posso mostrarti la via per diventare grande.»
Chiharu serrò le labbra. «No grazie» si costrinse a dire. «Qui ho ancora molte cose da fare. Qualunque cosa ci sia oltre le mura di Konoha, posso arrivarci anche senza il tuo aiuto.»
Il sorriso di Yoshi si spense lentamente, ma non scomparve del tutto.
Per un minuscolo istante il tempo rimase sospeso, in bilico tra due possibili soluzioni.
«Chiharu...» disse poi Yoshi, con voce gentile. «Davvero pensi che avrei rischiato cinque anni della mia vita in un piano che ti lasciasse scelta?»
Una vibrazione scosse il pavimento piastrellato.
Le gambe inchiodate del tavolo cigolarono con un rumore fortissimo, ripiegandosi fino a strapparsi via. Le gambe della sedia si spezzarono con uno schiocco metallico, le catene che immobilizzavano Yoshi esplosero in mille frammenti.
La vibrazione del sotterraneo aumentò, diventando fastidiosa per le orecchie, aumentò e aumentò finché le piastrelle non iniziarono a frantumarsi con piccoli scoppi striduli. Chiharu corse verso la porta, ma prima che potesse raggiungerla la vide deformarsi ed ebbe paura che il metallo si stesse sciogliendo.
«Cosa stai facendo?» gridò a Yoshi, che si massaggiava i polsi guardando verso l’alto.
«Io niente» rispose lui. «Ma a questo punto dovresti aver intuito che non ho organizzato tutto da solo.»
Con un crack assordante un’enorme crepa circolare si aprì lungo le pareti della cella, e contemporaneamente la luce saltò. Una pioggia di scintille si liberò dalle estremità dei cavi recisi dell’elettricità; Chiharu afferrò Morino per una caviglia e lo trascinò lontano.
Annaspando nella polvere e nel buio, Chiharu compose disperatamente i sigilli per riprendere le sembianze di Akeru, appena in tempo: il tetto della stanza degli interrogatori e almeno metà delle pareti si sollevarono nel cielo, scoperchiando il sotterraneo e aprendo una voragine nel cortile del dipartimento di polizia. A quel punto il cemento si sgretolò, franando ai lati del cratere, e Chiharu sentì le voci dei poliziotti che uscivano urlando dall’edificio. Nell’aria si diffuse un penetrante odore di zolfo e polvere, che danzava nelle strisce di sole.
«Andiamo» disse Yoshi, tendendole una mano. «Non credo proprio che esista un modo per spiegare ai signori di sopra che tu non c’entri niente.»
E all’improvviso la trasformazione di Chiharu si sciolse, come se qualcuno le avesse rovesciato addosso una secchiata di acqua gelida. Chiharu ansimò, sentì il cuore accelerare, spaventato e orripilato. Vide le teste dei poliziotti iniziare a sporgersi oltre i detriti ai margini del cratere, vide le dita di Yoshi che si agitavano per incitarla a seguirlo, e fu travolta dalla consapevolezza che era appena stata incastrata nella sua fuga.
Allora capì che c’era solo una cosa da fare: riacciuffarlo prima che si allontanasse dal Villaggio.
«Non sottovalutarmi!» gridò, afferrando una manciata di kunai con entrambe le mani.
Yoshi la vide lanciarsi contro di lui e alzò le braccia appena in tempo per afferrare i suoi polsi.
«Con un cuore in quelle condizioni?» le chiese. «Io non lo farei» di colpo la tirò più vicina, affondando le dita nella carne delle braccia con una forza che lei non si aspettava. «Sei solo un girino in uno stagno, Chiharu. Un minuscolo girino ignorante.»
E la scaraventò a terra come un sacco di foglie secche. Poi, senza più guardarla, in un balzo fu oltre i bordi del cratere.
Dal pavimento ingombro di macerie Chiharu vide i poliziotti che cercavano di fermarlo; fallirono. Provò a tirarsi su, ma le gambe le tremavano troppo.
Cosa ho fatto, cosa ho fatto, cosa ho fatto..., si ripeté disperata. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime mentre elaborava una decina di scenari diversi: non ce n’era nessuno in cui se la cavava. Non solo era fisicamente presente sulla scena dell’evasione, ma era anche fuggita alla sorveglianza di Fay. Non sarebbe stata la sola a finire nei guai: anche per Akeru sarebbe stata una condanna definitiva. Yoshi se l’era studiata bene: o adesso lei alzava il culo e lo seguiva prima che la arrestassero, o l’unico futuro che la attendeva era dietro le sbarre.
«Merda!» gridò, battendo un pugno a terra.


La vibrazione che aveva scosso il sotterraneo si era sentita per tutta Konoha, fino alla residenza dei Nara.
Dalla porta spalancata, Akeru, trasformato in Chiharu, vide la colonna di polvere levarsi in corrispondenza del dipartimento di polizia. Il sangue abbandonò completamente il suo viso, mentre Fay lo raggiungeva all’esterno.
«E’ il dipartimento!» la sentì esclamare ansiosamente.
Lui deglutì, sciogliendo la trasformazione. «Ok, ho una confessione da fare...» sussurrò con un filo di voce.





Il fuoco circonda gli attori.
Tutto è pronto per finire in fumo.






* * *


Un anno dopo la ripresa di Penne
arriviamo al capitolo centrale
(in termini di importanza, non di lunghezza. Calma).

Cosa ho fatto.
La HinaJin. Il triangolo HitoHaruBaka.
E Yoshi, finalmente,
che sembra il piùffigo in circolazione
e dunque non ci si spiega perché sia fissato con Chiharu,
che al momento vale due pacchetti di gomme sul ninjamercato.

Insomma, fuoco alle polveri.
Nel prossimo capitolo ci saranno botte, sangue e violenza,
flashback e un Uchiha dall'orgoglio molto ferito.

In questo, c'è il disegno di Baka che mi avete chiesto mille anni or sono.
http://it.tinypic.com/r/k4t2td/9
Piccolo, lui.
Un po' mi sento in colpa.

A risentirci al prossimo capitolo!
Buon anno a tutti!

Susanna






Questo capitolo ti avrebbe fatto arrabbiare, lo so.
Ma in questo modo avresti messo le mani su Jin,
e presto ti saresti consolata.
Un altro anno.
Ti voglio bene.



  
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