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Autore: lady igraine    10/01/2017    2 recensioni
Demian ha quasi sedici anni, è armato della tragicità di un adolescente e dell’esperienza di vita di un uomo fin troppo intraprendente. La sua esistenza è in costante bilico tra un morboso amore per la propria famiglia, afflitta dal dramma della malattia terminale della madre, ed un mondo più oscuro, di amici poco raccomandabili che gli permettono di sfogare i sentimenti più ombrosi e repressi della sua anima. È in questa fase che lo incontra Arianna, infantile, irrequieta e altrettanto problematica ragazza, dotata di un instancabile sorriso che cela più malinconie e segreti che gioie. Sono tre, i mesi decisivi, quelli che, nel bene e nel male, lasceranno un segno indelebile nelle loro vite.
***
La coscienza era una bestia oscura che divorava da dentro, lasciando sempre l’impressione di facciata che tutto andasse bene.
"Le persone, da fuori, sembrano indistruttibili, perfette come bambole di plastica che non si possono rompere. È il dentro che è una fregatura, un agglomerato di marciume infilato a forza tra gli organi, da qualche parte"
La sua coscienza era terribile più di tutto, le toglieva molte cose, una ad una, con la noncuranza con cui un bambino strappa i petali ad una margherita
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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À Demian


Capitolo quarto (prima parte)

Per caso


Quando la campanella suonò, decretando finalmente la fine di sei ore interminabili di supplizio, Demian chiuse gli occhi e inclinò la testa all’indietro con un sospiro di sollievo, lasciandosi scivolare scompostamente contro lo schienale della sedia. Era stata una mattinata tragicamente lunga e solo le tre ore di modellato erano riuscite a distrarlo un poco. Siccome era ripetente, il professore invece di commissionargli ancora la scultura di un piede, che già si era dovuto subire, gli aveva permesso insieme ad un altro bocciato di entrare nella stanza dove la scuola conservava i modelli e di sceglierne uno autonomamente.

Davanti a scaffali invasi da modelli di diversa difficoltà, Demian aveva optato per una testa di tigre scuoiata. Le fauci aperte in un ruggito sofferente e i muscoli delineati ed esposti lo avevano stregato. Il professor Sala non ne era stato molto convinto, ma era l’unico a vedere in lui un talento e non un fallito perciò lo aveva assecondato con quel suo scetticismo da acido artista e Dem aveva scommesso con se stesso che ci sarebbe riuscito e l’avrebbe fatto in meno di dodici ore. Anche il suo compagno di classe lo aveva imitato, probabilmente per non essere da meno, e su quella scultura si erano dannati tutta la mattina.

Era stato l’unico momento di tregua che aveva avuto.

Leggere gli era risultato impossibile, non era abbastanza concentrato, in due ore era avanzato di una manciata di pagine, si era ritrovato più volte sulla stessa riga e aveva capito che non sarebbe riuscito a sfuggire ai propri pensieri.

Non poteva smettere di pensare al ragazzino della sera prima, come diapositive i ricordi di quel corpo inerme e devastato accasciato a terra gli scorrevano sotto le palpebre ogni volta che chiudeva gli occhi. Non aveva potuto accertarsi di come stesse, era dovuto fuggire come il più vile codardo per evitare problemi, ed ora avrebbe solo voluto sapere se stesse bene, forse sarebbe bastato a lavarsi un poco la coscienza.

Forse.

Ma non ci credeva nemmeno lui.

Troppo preso a rincorrere i propri sensi di colpa, Demian non si accorse subito che il compagno di banco aveva rifatto rapidamente il proprio zaino e si stava già per avviare fuori dall’aula. Dava l’impressione di avere molta fretta, forse non vedeva semplicemente l’ora di allontanarsi da lui, non se ne sarebbe stupito. Allungò comunque una mano verso la manica del ragazzo e gli strattonò bruscamente il braccio, per attirare la sua attenzione.

Il compagno spalancò gli occhi resi enormi dalle lenti e s’irrigidì, un cerbiatto braccato nella prateria. Riuscì, con quel suo stare in guardia fin troppo eccessivo, a strappargli un sorriso, e con quel sottile accenno sulle labbra Dem gli porse la matita.

Non gli stava antipatico, era quella la verità, era piccolo e minuto, con il volto un poco segnato dall’acne e l’aspetto dinoccolato e impacciato insieme, come una buffa caricatura di un adolescente qualunque. Conosceva quella postura, un po’ curva, di chi può difendersi solo da sé e cerca di farsi piccolo per poter sparire, era un peso a Demian fin troppo familiare. E, nonostante l’atteggiamento indisposto e scostante e tutto l’impegno che profondeva nel sembrare terribile, Dem non voleva esserlo davvero. Avrebbe solo voluto sapere come sarebbe stato trovare qualcuno a cui non importasse nulla di quella maschera fusa al suo volto, che riuscisse a vedere oltre il suo ridicolo tentativo di essere un rivestimento che aderisse alle idee altrui, per assecondare quella triste idea di sé che tutti avevano, perché a nessuno importava di leggere tra le righe, nessuno glielo aveva mai chiesto, come fosse in realtà, se ci fosse altro oltre a ciò che avevano scelto di vedere in lui.

Ogni suo gesto andava letto tra le righe, ma si era quasi rassegnato al fatto che nessuno parlasse la sua lingua dato che nessuno aveva mai davvero capito.

Non si meravigliò quando il compagno di banco, con aria preoccupata, fece guizzare rapidamente gli occhi da lui alla porta prima di afferrare frettolosamente la matita e allontanarsi quasi correndo, senza dirgli una parola.

Non se ne meravigliò ma non poté esimersi dal provare un leggero moto di delusione.

Abbassò la mano lentamente, assorto, lo sguardo fisso come a cercare ancora una persona che era già sparita.

«Non è come pensi»

La voce sottile e delicata di Giulia lo aveva riscosso, si volse per guardarla mentre con malcelata cautela la ragazza si avvicinava piano al suo banco, come aveva fatto quella stessa mattina. C’era una prudenza diversa ora nel suo rivolgergli la parola che riuscì a infastidirlo. Inarcò un sopracciglio in un’espressione eloquente di perplessità, e incrociò le braccia al petto, rilassandosi contro lo schienale della sedia come a darle un invito implicito a proseguire, per dare un senso alla sua invadente uscita.

Giulia arrossì, chinò appena la testa e prese a giocare distrattamente con una ciocca di capelli «Non è scappato per colpa tua. Barbi intendo, lui fa sempre così quando finiscono le lezioni, scappa sempre. Te lo dico perché mi è sembrato che ci fossi rimasto male.»

Demian si morse l’interno della guancia e deviò lo sguardo.

Che quella sconosciuta avesse colto il suo disagio lo faceva sentire umiliato, ma non l’avrebbe mai ammesso. Rifiutava con tutto se stesso di potersi far ferire da simili sciocchezze, nella vita aveva ricevuto rifiuti come essere umano decisamente più dolorosi, doveva essersi fatto le ossa, era una questione di principio «Non ci sono rimasto male» chiarì, lasciando trapelare involontariamente una nota di infantile testardaggine di cui Giulia sorrise con condiscendenza.

«No, infatti. Non sei il tipo, sei al di sopra di tutto, no?»

Aveva assottigliato gli occhi in fessure ostili di freddo ghiaccio e le aveva scoccato uno sguardo astioso, ma Giulia non aveva smesso di sorridergli, le guance rosse velate d’imbarazzo. Lo aveva salutato agitando la mano, balbettando qualche incomprensibile parola di commiato, e se ne era andata come se la sua collera non l’avesse minimamente sfiorata. Forse, aveva valutato tra sé mordendosi l’interno della guancia, con la fronte corrugata e le sopracciglia chiare corrucciate in disappunto, rispetto al trattamento che le aveva riservato quella stessa mattina l’occhiataccia appena ricevuta doveva esserle sembrata un sorridente biglietto d’invito.

 

Ma che diavolo vuole quella, che all’improvviso deve parlarmi per forza?

 

Non era stato abbastanza sulle sue, doveva essere più scocciato e recalcitrante se voleva sperare di liberarsi di possibili, futuri scocciatori, ma non aveva pensato che nella nuova classe si sarebbe imbattuto in soggetti così seccanti.

Lasciò cadere la testa a ciondoloni all’indietro e sospirò ancora, un’abitudine per scaricarsi e riprendere il controllo della situazione quando aveva l’impressione che questo gli sfuggisse. Erano usciti praticamente tutti e anche lui si decise finalmente ad abbandonare il proprio banco.

Era una giornata storta, avrebbe voluto raddrizzarla vedendo Sarah, magari portandola a prendere un cellulare, eppure non riusciva a trovarne la voglia.

Più grave, non riusciva a trovarne il coraggio.

Era un bugiardo che mentiva a se stesso, ma aveva solo paura, ciò che gli faceva desiderare di stare lontano da sua sorella in quel momento era la sua vigliaccheria. Sarah era uno specchio in cui scorgeva la propria imperfezione, lo sarebbe sempre stata con quei suoi occhi grandi e limpidi, puliti di un mondo incontaminato che lui non aveva mai conosciuto, uno sguardo sognante nella quale talvolta si smarriva. Quando poi la sua coscienza era più sporca del solito la evitava come fosse il peggiore dei mali perché quel sorriso aperto, quella sua dolcezza adorante da bestiolina che gli riservava, lo facevano sentire tragicamente in difetto, lo costringevano a fare i conti con se stesso e a ricordarsi costantemente che non era e non sarebbe mai stato quello che avrebbe dovuto essere per renderla fiera di lui, per essere degno di lei.

Si sentiva fuori posto e si trovava costretto a mentirle piuttosto che avere il coraggio di sopportare il suo biasimo. Sarah era tutto il suo mondo e ogni cosa che potesse desiderare, come poteva reggere un suo ipotetico rifiuto se non fosse riuscita ad accettare la terribile e imperfetta persona che era?

Come avrebbe sopportato un pomeriggio accanto a lei?

Con che coraggio le avrebbe parlato, con che forza avrebbe potuto sorriderle, fingendo che tutto andasse bene, che fosse felice, che non fosse diventato esattamente come quelle persone che disprezzava dal profondo e che avevano reso la sua infanzia una strada lastricata di tormenti?

Si coprì il volto con la mano, massaggiandosi l’occhio in un gesto di esasperata frustrazione. Gli bastava pensare a quella bambina per lasciarsi cadere in un circolo di paranoie e autocommiserazione, era evidente che anche quel giorno non ce l’avrebbe fatta a vederla, lo sapeva perfettamente, ed era un’autodifesa sciocca e controproducente perché solo la presenza di Sarah in realtà avrebbe riassestato il suo mondo e ridato un senso ad ogni suo gesto.

E, nonostante questo, si sarebbe negato la sua cura, perché Sarah era l’incarnazione della sua coscienza ancora limpida e perfetta, completamente fuori dalla sua portata, non la meritava, non quando era così infangato.

Fuori, l’aria fredda gli pizzicò il naso. Aveva smesso di piovere ed il sole, pallido vessillo riflesso su un cielo cangiante di nuvole, emanava una luce debole e fastidiosa che sembrava rimbalzare da una superficie all’altra. Si ritrovò costretto a strizzare gli occhi più volte, ma non bastò a lenire il bruciore, allontanò i capelli dal viso e rilasciò una boccata di fumo.

Mentre si avviava lentamente verso il retro della scuola, nella sezione del parcheggio nascosta dell’edificio e lontano dall’ingresso perché quella mattina era arrivato tardi e tutti i posti erano già stati occupati, riconobbe delle voci concitate, ma non ne distinse le parole.

A causa della sua inutile fotosensibilità quando la luce era così iridescente diventava più cieco di una talpa, non riusciva a tenere gli occhi aperti e non vedeva a più di un metro di distanza, per cui gli fu impossibile mettere a fuoco i proprietari di quelle voci tanto rumorose. Fortunatamente il suo casco aveva la visiera oscurata o quel giorno sicuramente si sarebbe schiantato contro una pianta prima di raggiungere casa. Non vedeva l’ora che arrivasse l’inverno, con un po’ di fortuna e magari un po’ di pioggia e di neve si sarebbe risparmiato anche le lenti che mal sopportava visto che gli irritavano la sclera rendendo i suoi occhi ancora più arrossati ed inquietanti di quanto madre natura avesse deciso. Sulla sua carnagione risaltavano anche troppo, due gocce di sangue in campo bianco.

Le voci attirarono ancora una volta la sua attenzione e Demian, tenendo la sigaretta tra i denti, si sforzò di mettere a fuoco la situazione facendosi ombra con le mani per vedere più lontano, ingoiando l’umiliazione.

Gli occhiali da sole erano la soluzione, sciocco lui che quel giorno li aveva dimenticati a casa.

Finalmente riconobbe il suo compagno di banco mingherlino e goffo proprio mentre veniva spintonato da un ragazzo che, a intuizione, era almeno il triplo di lui e il doppio di Dem. Vide “Barbi”, se questo era il suo nome, cadere a terra, dritto in una pozza. I suoi occhiali scivolarono sul suo naso e caddero a terra, mentre il suo aguzzino gli urlava contro qualcosa.

Demian si ritrovò a rallentare il passo fino a fermarsi, per poter assistere alla scena.

 

Perché cavolo deve succedere proprio mentre passo io?

Non poteva succedere dieci minuti prima?

O anche dopo, putain, ma non mentre io sono nei paraggi!

 

Rosicchiò il filtro della sigaretta, combattuto sul da farsi. O almeno, avrebbe voluto essere combattuto, ma in verità si era fermato solo per darsi del cretino per ciò che stava per fare e per cercare di convincersi a non andare e a starne fuori.

Ovviamente, dopo le etiche azioni della sera prima, gli sarebbe stato impossibile far finta di nulla o davvero stavolta si sarebbe dannato l’anima per tutta la vita.

«Lascialo stare!» si era sfilato la sigaretta dalla bocca e lo aveva urlato prima ancora di rendersene conto. Aveva gettato il mozzicone a terra e a passo deciso avanzava verso l’armadio a due ante che sovrastava il piccolo Barbi. Non sapeva se fosse o meno uno studente, se lo era doveva essere come minimo del quinto anno, al contrario di lui sembrava già un uomo, un adulto e non un ragazzino. Più l’immagine dell’energumeno si definiva ai suoi occhi più una parte di lui si pentiva di non essersi fatto gli affari propri. Non che non avesse esperienza nell’andare alle mani con soggetti all’apparenza più prestanti, ed infatti allo sconosciuto Demian mostrò solamente la sua aria spavalda e provocatoria che, sapeva, avrebbe fatto arrabbiare quel gigante solo di più.

«E tu chi cazzo sei?»

Ormai a pochi passi di distanza Demian si accorse che il ragazzone non era più alto di lui, erano solo le braccia e i pettorali pompati a farlo apparire più ingombrante, nulla che fosse ingestibile. Portava i capelli cortissimi e in quella cortina di pochi millimetri compariva una svastica rasata grande tutta la nuca. Un naziskin era esattamente quello che gli serviva per dare il giusto brio alla sua giornata.

Anche il suo compagno di classe stava assistendo alla sua comparsa con altrettanta confusione, come fosse un’apparizione sovrannaturale, e a Demian venne spontaneo pensare che forse, con quella luce cangiante, doveva sembrare un rilucente fantasma.

Sorrise ferino, mostrando con la sua smorfia provocatoria il canino storto «Ti rigiro la domanda, bestione. Sei uscito dalle pagine di Mary Shelley, per caso?»

L’energumeno rasato si accigliò, mostrando quella che doveva essere probabilmente la sua espressione più brillante, da un neonazista non si aspettava di certo picchi di folgorante intelligenza.

«Frankenstein!?» rincarò Dem, ironico, sperando che almeno cogliesse la battuta, ma ne seguì solo un momento di perplesso silenzio.

«È amico tuo?»

Il naziskin si rivolse al suo compagno di banco ancora sdraiato a terra senza occhiali, e quello prontamente scosse la testa.

 

Eh, ti pareva. Aiuti un idiota e quello ti pianta in asso proprio mentre gli tendi la mano.

Piccolo vigliacco

 

Non che gli importasse davvero del supporto di quello smidollato, non si era messo in mezzo per lui, non davvero. Lo stava aiutando solo per poter avere una ragione valida con se stesso per guardare di nuovo negli occhi la sua bestiolina, senza dannarsi l’anima e desiderare di spaccarsi la testa contro il primo spigolo utile.

Aveva scrollato svogliatamente le spalle «Nessuno sarebbe amico di un omuncolo» chiarì scoccando al ragazzino occhialuto un’occhiata indifferente «Ma gli devo una matita» sfidò Frankenstein con il suo sorriso più beffardo «Mettiti in coda se ne vuoi una anche tu»

L’espressione dubbiosa del suo brillante interlocutore lo fece ridere di sottile scherno, voleva restare impassibile ma proprio non ci era riuscito, quello sguardo vacuo era solo la conferma che non si trovava di fronte un genio, non che avesse nutrito dubbi a riguardo.

Gli occhi di Barbi ora erano immensi sul suo viso smunto anche senza gli occhiali che ne deformavano l’immagine.

«Mi stai prendendo per il culo?»

Demian si schiarì la gola per far scemare la risata e assunse il suo atteggiamento inflessibile e senza traccia di timore, anche se da qualche parte ne provava «Quindici secondi per capirlo, non sei così stupido! Pensavo ce ne avresti messi come minimo trenta»

Nonostante fosse estremamente prevedibile, Dem non fu abbastanza svelto da schivare il pugno che, preciso e veloce, lo colpì in pieno volto, sullo zigomo. Il contraccolpo lo fece vacillare, già sentiva il sapore ferruginoso del sangue che si diffondeva in bocca, ma non ebbe il tempo di soffermarcisi. Frankenstein gli si avventò contro, caricando ancora il destro che Demian scansò prontamente, deviò il braccio dell’energumeno e gli assestò un pugno nello stomaco. Lo vide dilatare gli occhi per la sorpresa, mentre la bocca si apriva e gocce di saliva restavano sospese fra di loro. Fu solo qualche secondo esteso, poi Demian mirò a quella faccia larga e informe da ominide sotto steroidi. Ne seguì un grottesco “croc” quando il naso di lui si accartocciò come argilla sotto le sue dita, il naziskin si lasciò sfuggire un guaito animalesco e si allontanò velocemente di qualche passo.

Aveva colpito bene, il ragazzo si portò le mani sul volto e imprecò chinandosi, come a contenere il male che provava mentre un rivo di sangue colava dalle narici e gli bagnava le labbra e il mento.

Il viso di Demian pulsava terribilmente, ma strinse i denti e ingoiò gli spasimi di sofferenza usando tutta la forza di volontà di cui disponeva per mascherare il dolore e restare dritto, sprezzante e impassibile. Aveva imparato molto tempo prima ad incassare ed aveva sviluppato una certa resistenza che forse era solo troppo orgoglio.

«Sparisci cazzo, sparisci o giuro che ti ammazzo, ti spacco la faccia!»  urlò Frankenstein, gli occhi iniettati di collera e le vene del collo e della tempia che palpitavano come piccoli bruchi grassi, era talmente sfigurato dalla collera che Dem non dubitò nemmeno un istante che l’avrebbe fatto, ma non ne fu minimamente preoccupato.

«Facciamo che te ne vai tu. Oggi sono stanco e ho altri impegni, trattare con voi bestioni non è il mio passatempo preferito» gli sorrise sfacciato, ignorando il dolore che si spandeva dallo zigomo al resto del volto. Era più inquieto per lo stato della sua faccia che per l’innocuo bestione domestico che sapeva solo sbraitare ma non aveva i denti.

«Questo stronzo mi deve dei soldi!» urlò ancora il ragazzo rasato. Era frustato ma non accennò ad avvicinarsi più.

Demian si passò stancamente una mano fra i capelli appiccicati alla fronte per l’umidità, si soffermò prima sul gigante, poi sul piccolo Barbi ancora seduto a terra come incredulo. In un primo, astruso pensiero, tutto passò in secondo piano e riuscì a domandarsi solo il perché di quello stupido soprannome: giocava con le bambole? Lo prendevano in giro perché era gay? lo avevano beccato al Toys Center nel reparto bambine?

Gli ci vollero un paio di secondi buoni per focalizzarsi sulla questione importante, la più paradossale: Frankenstein in versione mansueta che cercava quasi di intenerirlo per portarlo dalla sua parte. Ci voleva un certo coraggio, Dami gliene dava atto, considerando che probabilmente aveva reso la sua faccia abbastanza malconcia da non poter nemmeno pensare di mostrarla alla sorella.

Barbi sembrava un cucciolo passivo e spaventato.

«È vero?» gli chiese soltanto, senza particolare interesse. Stentava a crederlo possibile, ma il compagno di classe annuì titubante.

«Da un mese» rincarò Frankenstein, strappandogli un altro, ironico sorriso.

Gli era difficile pensare che un ragazzino come Barbi, dall’apparenza innocua e cheta, un tipo tutto “casa e chiesa”, avesse comprato delle droghe di qualunque tipo. Se l’apparenza ingannava però, allora la sua teoria sulla possibile perversione che spiegasse quel soprannome femmineo prendeva corpo.

Si massaggiò la radice del naso con il pollice e l’indice, prima di decidere «Senti, ti pagherò io. Passa stasera nel parco vicino alla stazione, dal lato del parcheggiò dell’Edonè e avrai quanto ti deve»

Il naziskin s’irrigidì e si drizzò come fulminato. Lo sguardo vacuo si era ad un tratto illuminato di consapevolezza «Tu sei quel fottuto albino, quello che gira con Niko»

Non era una domanda, la vena di rispetto e timore che aveva permeato la sua voce era un chiaro segnale che lo conoscesse, in molti lo conoscevano. Nicolas era noto nell’ambiente e così lui, che lo accompagnava ovunque ed era il suo protetto, lo era di rimando. Inoltre il suo bizzarro aspetto non gli permetteva di passare inosservato.

Abbassò le spalle «Sono io»

Voleva solo sussurrarlo, ma la vergogna gli grattò la gola in un ringhio ostile.

Frankenstein si pulì con la manica il sangue che si stava seccando sulla barba e le labbra e annuì cauto «Se non ci sarai stasera, verrò a cercarlo ancora. E troverò anche te»

 

***

 

 

L’asfalto era ancora umido di pioggia ma Barbi era rimasto accasciato a terra, anche dopo che il suo aguzzino se ne era ormai andato. Gli tremavano le mani, era troppo agitato perché Demian potesse lasciarlo solo in quello stato così, senza dirgli una parola, lo aveva aiutato a rialzarsi, aveva raccolto i suoi occhiali e alla bell’e meglio li aveva puliti nella sua felpa prima di renderglieli.

Barbi si era trascinato fino al muro del retro della scuola e lì si era seduto. Quasi rannicchiato, colto da brevi spasmi.

Pur non volendo, Demian si era seduto accanto a lui, in silenzio.

Con il passare dei minuti il compagno di classe sembrava essersi calmato, ma non parlava e restava con le ginocchia tra le braccia, come un bambino spaurito, e Dem proprio non sapeva che fare. Non era mai stata la persona giusta per dare conforto, non lo aveva mai realmente ricevuto, lo aveva sempre rifiutato e quindi, per assurdo che fosse, non era all’altezza di confortare a sua volta.

E allora si mordeva l’interno della guancia e con ostentata indifferenza studiava quel piccolo secchione mingherlino mangiato dai vestiti troppo larghi, un chiodo dai capelli neri, corti, e l’aria da bambino sperso, con il naso dalla linea morbida e gli occhi chiusi.

Come era possibile che un’esistenza dall’apparenza tanto fragile avesse deciso di appoggiarsi ad un ragazzo pericoloso e dall’aria evidentemente poco raccomandabile?

Dove lo aveva trovato il coraggio Dem proprio non se lo spiegava. Anche avesse voluto drogarsi, non si spiegava come fosse entrato in contatto con quel decerebrato poco di buono.

Chinò il capo, oppresso dalla malinconia di un pensiero che non voleva prendere consistenza perché sarebbe stato troppo svilente, eppure che gli piacesse ammetterlo con se stesso o meno la verità non mutava: lui stesso non era diverso, non aveva nulla di raccomandabile, non era migliore di Frankenstein, persino quell’energumeno senza cervello aveva esitato quando aveva capito chi fosse.

Nella catena alimentare di quel sistema, Demian sapeva di essere persino peggiore e se ne vergognava al punto di non sopportarsi.

«Grazie»

La voce di Barbi era labile e consumata, leggera di un sussurro stentato.

Demian seguì il profilo del suo corpo in tralice, per leggervi anche solo un segnale che gli facesse capire cosa avrebbe dovuto fare o dire, ma il compagno restava rigido. Ne dedusse che doveva essere ancora molto scosso e perciò si sforzò di abbozzare un sorriso di circostanza.

Non sapeva come muoversi, era consapevole di essere lui stesso, per quel ragazzo, una presenza minacciosa, e questa realtà lo rendeva imbarazzato e reticente.

«Te lo dovevo» borbottò altrettanto piano, stringendo e tirando la manica della felpa per coprirsi le dita pallide, la pelle arrossata e spaccata sulle nocche.

Barbi aveva corrugato la fronte e finalmente si era voltato per guardarlo negli occhi, non con timore, solo con una muta domanda.

«Sai, la matita» spiegò arricciando le bocca nell’angolo destro «Prima non stavo scherzando»

L’espressione di Barbi si distese lentamente, lasciando spazio alle labbra socchiuse in un cerchio di perfetta sorpresa «Per una cosa così sciocca? Non è un gran debito» lo apostrofò.

Demian s’incupì, risentito a causa di quella leggerezza che sminuiva uno dei pochi gesti che aveva apprezzato davvero «Lo è per me. Mi serviva» disse lapidario.

Al suo sguardo gelido seguì un breve attimo di silenzio, come ponderato. Poi, con sua sorpresa, la postura di Barbi si rilassò e il ragazzo iniziò a ridere, quasi istericamente, come una liberazione.

«Non ci credo, non è possibile. Dicevano che sei un mostro, quando quegli stronzi mi hanno costretto a sedermi accanto a te ho temuto di dovermela vedere con un altro bullo… ero terrorizzato! E invece…» continuò a ridacchiare e si asciugò una lacrima di divertimento e tensione rilasciata «E invece tu sai pensare solo ad una matita!» concluse, riversando nel riso che stemperava tutto il suo sollievo.

Demian accennò un sorriso mite scrollando le spalle «Beh, senza avrei dovuto segnare il libro. Non sopporto di rovinare i miei libri»

Il compagno di classe lo ponderò senza esprimersi tanto a lungo che Dem iniziò a provare disagio. Non era abituato ad essere studiato in quel modo, come se nemmeno si vedesse il colore delle sue iridi o la sua apparenza. Si sentiva scrutato fin nelle ossa e si ritrovò quasi costretto, per sua personale umiliazione, a deviare lo sguardo.

Alla fine Barbi gli porse la mano, il volto contratto in un’espressione seria e solenne, e Demian non capiva e non ne era sicuro, ma afferrò comunque quella mano da artista come lo era lui stesso, che qualcosa in comune lo avevano, non erano troppo diversi.

«Mi chiamo Diodoro Barbadico» disse tutto d’un fiato e le orecchie gli divennero assurdamente rosse «Grazie mille per il tuo aiuto, senza di te sarei stato nei guai sul serio»

Diodoro Barbadico, lo ripetè mentalmente, per esserne sicuro. Almeno ora capiva l’origine di quello stupido soprannome.

«Quando ho sentito che ti chiamavi Barbi, ho pensato fossi un pervertito dei giochi per bambine» commentò involontariamente ad alta voce, dando suono a quell’immagine per lui buffa del ragazzino fanatico conciato da Sailor Moon. Nel complesso trovava quel nome altisonante e terribile, una punizione crudele di genitori spietati.

Diodoro arrossì e fece una smorfia «No, mi prendono solo in giro. Sai non sono esattamente virile. E i miei con i nomi sono un disastro. A me ovviamente è andata peggio che alle mie sorelle»

A sentire la parola “sorella”, Demian sussultò.

«Com’è la mia faccia?» quasi lo aggredì, cambiando all’improvviso atteggiamento e tono di voce, tanto che Diodoro incespicò un momento, vittima della sorpresa, prima di riuscire a raccogliere le parole.

«Direi viola» valutò piano, osservandolo con aria critica.

E Demian desiderò sprofondare piuttosto che accettarlo «Molto?»

Ancora silenzio e Barbi che si mordeva le labbra prima di annuire «Sufficientemente per capire che ti sei beccato un bel pugno in faccia»

Dem si stropicciò il volto con la mano in un gesto di stanchezza prima di sollevare gli occhi al cielo e liberare l’ennesimo, pesante sospiro. Si lasciò scivolare scompostamente contro il muro in un moto di sconforto. Non sapeva cosa fare, di certo era consapevole di non potersi presentare alla sua bestiolina con il viso devastato, sorriderle e dirle ancora “tranquilla amore, sono solo caduto e mi sono beccato uno spigolo infido in piena faccia”. Sua sorella non era una sciocca e tantomeno una sprovveduta, non gli avrebbe creduto e lui non voleva spiegarle nulla, voleva tenerla fuori da certi aspetti della sua esistenza, da certe sue tendenze che la bambina ignorava.

Si alzò per guardare il proprio riflesso, appena accennato, nella finestra di un’aula del piano terra. Il vetro smerigliato gli rimandava un’immagine poco definita, ma abbastanza nitida per identificare la grande macchia violacea che occupava parte del suo viso. La sfiorò con le dita e riconobbe al tatto il profilo in una lacerazione poco profonda ma comunque sanguigna.

Una ferita banale che non gli era però possibile nascondere in alcun modo.

«Maledizione» imprecò tra i denti, tastandosi piano la guancia per non farsi male. Contemporaneamente recuperò il cellulare dalla tasca della felpa e iniziò a digitare un messaggio veloce per avvisare sua zia della buca che avrebbe dato a Sarah.

La collera che provava nel dover dare alla sua petite peste un’altra delusione la stava sfogando con fin troppa foga sui tasti del cellulare, e il suo cipiglio doveva essere davvero terribile perché Diodoro, rimasto in silenzio durante tutte le sue manovre, domandò cauto «Tutto bene?»

Demian lo incenerì con tutta la collera e l’astio che i suoi occhi obliqui dal taglio affilato potevano trasmettere. Era indisposto al punto che, per quel livido, avrebbe preso a calci anche la Barbi se non si fosse tolto rapidamente dai piedi.

«A te cosa cazzo sembra?» ringhiò in un impeto d’irritazione «Dimmi quanto devi a quel fottuto stronzo e facciamola finita» rimise il cellulare in tasca e continuò a osservarlo con ostentata rabbia dall’alto in basso, tanto che Barbi la sua risposta la mormorò appena, intimidito.

 «Non sei costretto a fare quello che hai detto» aggiunse poi, sempre a voce sussurrata, ma Dem si limitò ad alzare di nuovo gli occhi al cielo «Se non lo faccio quello ti pesta per davvero. E comunque non è un regalo, è un anticipo. Almeno a me potrai ridarli con calma. Ma domani mi dovrai dare parecchie spiegazioni che ora, sinceramente, non me ne frega un cazzo di sentire» si caricò lo zaino in spalla e si avviò al proprio motorino.

«Tutto qui?» gli urlò dietro Diodoro.

Ma Demian scrollò ancora solo le spalle e non gli rispose.

 

 

 

ANGOLO AUTRICE

 

Oggi è una giornata un po’ insolita e quindi non sono in grado di trovare parole.

Non mi succede spesso, ma quando non ho voglia di fare nulla non faccio proprio nulla, ed infatti non ho ancora incontrato un essere vivente che non sia Eldry (il mio cane), né ho comunicato con alcunché. Per tirare le somme, questo è il mio primo contatto con il mondo oggi, e non so che dire, tantomeno sul capitolo.

È solo una metà, tra l’altro.

Credo che tornerò a fissare il soffitto, la verità è che mi è stata fatta una proposta insolita che non so se accettare, ma stimo molto il lavoro della persona che me lo ha chiesto e per questo sono in dubbio. E quando sono in dubbio, vegeto in attesa che lo spirito santo o chi per lui mi dia in mano il senso della vita.

Evviva!

Sarebbe bello se aveste voi qualcosa da dire a me, perciò chiedo un favore ai nuovi lettori silenziosi, sarebbe un vero onore sentire anche le vostre voci, e comunque grazie di esserci, una storia ha valore solo in relazione a chi la segue.

 

Nell’apatia generale mi ritirerò, a presto!

  
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