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Autore: Blackvirgo    28/05/2009    8 recensioni
L'"affare della collana" fu l'inizio della fine per molti: per Maria Antonietta che ne fu vittima e per Jeanne Valois che ne fu carnefice. Ma cosa si prova ad aver vinto la sfida più grande che si può immaginare? Protagonista: Jeanne Valois de la Motte.
Partecipa a due iniziative de "I Criticoni": Temporalmente e Diamanti.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Diamanti e carbone
Fandom: Lady Oscar
Personaggio/Coppia: Jeanne Valois
Challenge: Temporalmente  e Diamanti (entrambe made in I Criticoni)

Rating: VM14
Numero parole: 1056
Avvertimenti: angst, introspettivo


"Vi è felicità per chi accetta il proprio destino, vi è gloria per chi combatte il proprio destino."
(Magic Knight Rayearth)



Se la rigirava fra le mani, la collana, ipnotizzata dall’opulenza di quel gioiello, dall’arte e dalla maestria dell’orafo che aveva costruito una tale opera d’arte.  Un monile che solo una donna avrebbe potuto permettersi e che solo poche donne avrebbero avuto il coraggio di indossare. E lei che non avrebbe né potuto permetterselo, né potuto indossare, lo possedeva.
La stanza era illuminata dalle fiamme del camino e dalla candela che, consumandosi, andava ad aggiungere gocce di cera allo sporco del tavolo spoglio. Una bottiglia mezza vuota teneva compagnia alla candela assieme a un bicchiere che, un tempo, era stato trasparente.
Era diventata ricca, Jeanne Valois, ricca e nobile. Una donna piacente, sposata con un buon partito – spiantato, vero, ma capitano della Guardia Reale e conte di nascita – Nicolas de la Motte era suo marito. Era diventata una donna rispettabile, Jeanne, né più né meno di quelle dame di corte che passavano tutto il loro tempo a tramare l’una contro l’altra.  Eppure non le bastava: era la sfida che le piaceva, che la faceva sentire viva. Era giocare con quei nobili che avevano avuto tutto dalla nascita che le procurava piacere, sapere di giocarli, di essere più furba di loro: lei, che da bambina li aveva invidiati con tutto il cuore, che aveva odiato la povertà, che aveva abbandonato sua madre e sua sorella alla miseria e alla malattia, che aveva ricevuto asilo dalla contessa de Brambery e che poi l’aveva uccisa, quando anch’essa aveva finito il suo ruolo.
Li disprezzava, Jeanne, tutti coloro che le avevano attraversato la strada e che erano caduti sotto le sue trame. Perché non avevano saputo fare altro che accettare il loro destino, che viverlo, per poi farselo strappare da chi, il destino lo aveva sempre combattuto strenuamente. Da lei, donna, che non potendo brandire una spada, aveva affilato la sua mente per essere altrettanto tagliente. E letale.
Si divertiva, la contessa de La Motte Valois, a prendere in mano le vite altrui e a mischiarle come un mazzo di carte per poi distribuirle a caso, osservando i giocatori incerti sulla mossa da eseguire, col viso tirato e gli occhi concentrati, mentre lei poteva ridere e controllarli, col mazzo in mano, pronta a cambiare le carte, pronta a cambiare le regole.
Era piacevole quel gioco in cui ogni volta puntava più in alto e ogni volta – irrimediabilmente – vinceva, ma le mancava quell’ordine che le sue pedine sembravano avere: un ruolo nella società unanimemente riconosciuto, un ruolo che non necessitava di un velo per coprire un passato scomodo.
Era come il vino, la sua vita: buono da annusare , da assaporare… ma troppo veloce a scendere nello stomaco, a portarsi via quelle sensazioni gradevoli, troppo necessario riempire nuovamente il bicchiere per riprovarle, fino a svuotare una bottiglia intera e, insieme, la sua mente per poi trovarsi, al mattino, con la bocca amara e la testa pulsante di pensieri e dolore.
 Le sarebbe piaciuto avere un posto fra quei nobili superficiali e stolti, che continuavano a guardarla come un’intrusa nella loro società falsa e patinata, come ognuno di quei diamanti aveva il proprio posto su quella bellissima collana: anche il più piccolo serviva a renderla così splendida, a renderla di una meraviglia tale che poche donne sarebbero state disposte a metterla. Perché quella collana di diamanti non era fatta per esaltare la bellezza di una donna, ma per rubargliela, per mettersi in mostra suo malgrado.
Forse era per questo che Maria Antonietta non l’aveva voluta: la regina di Francia non si sarebbe mai abbassata a riflettere la luce di una collana. Lei era il sole, non la pallida luna.
Diamanti. Li avrebbe venduti uno per uno e lei e Nicolas avrebbero avuto così tanti soldi da poter vivere fra gli agi per tutta la sua vita. Ma neppure questo voleva.
Jeanne Valois, contessa de la Motte, gettò la collana sul tavolo e si prese la testa tra le dita: sapeva che nella trasparenza perfetta di quei diamanti, nelle linee eleganti e arzigogolate dell’oro che li racchiudeva, aveva toccato il fondo. Quell’affare non sarebbe passato inosservato: aveva colpito la regina austriaca. Lei, Jeanne Valois, nobile di nascita, cresciuta in un sudicio sobborgo di Parigi e riammessa tra la nobiltà solo grazie alla sua furbizia, aveva osato sfidare Maria Antonietta.
Riempì un bicchiere e lo tracannò senza annusare il vino, senza assaporarlo.
Aveva appena concluso la sfida più grande che aveva potuto escogitare, eppure non era felice. Non aveva ottenuto il rispetto che voleva, non aveva ottenuto il riconoscimento che meritava.
Non aveva ottenuto la felicità.
Aveva vinto tutte le sfide che ventura o sventura le avevano posto davanti e aveva piegato tutto e tutti alla propria volontà, ma non avrebbe mai potuto cambiare il proprio destino, non in quella Francia all’antica che non era mai riuscita ad accettare la propria regina solo perché austriaca. Che non avrebbe mai accettato una popolana come lei, figlia di una nobile decaduto, lei, Jeanne Valois che, arrivista e intelligente, si era fatta strada eliminando, uno per uno, amici e nemici. 
Solo Nicolas viveva ancora. Nicolas: l’uomo che l’amava, complice ancor prima che amante, mercenario prima che soldato. Nicolas che l’aveva sempre assecondata, che l’aveva aiutata, che sarebbe morto con lei.
Rise sguaiatamente, Jeanne Valois, ubriaca di vino, di trionfo e di amarezza. Rise fino alle lacrime, fino a non saper distinguere se scendevano per la troppa ilarità o la troppa tristezza. E mentre rideva staccava a uno a uno  i diamanti dalla collana, come i petali di un fiore senza vita, come piccoli specchi che le mostravano quanto la sua anima fosse nera, che le mostravano i suoi innumerevoli delitti e tutta la sua infelicità. Ma la contessa de La Motte Valois non era portata al pentimento: non aveva mai amato guardarsi indietro. Non c’erano più lotte da combattere nel passato, non c’era stata gloria nel suo passato. Eppure lei si sentiva un’eroina: bistrattata dalla sorte, ma mai sconfitta, mai piegata, mai spezzata. Continuò a ridere e a distruggere finché ebbe davanti agli occhi solo un mucchio di diamanti e di fili d’oro, una bottiglia vuota e un bicchiere rotto. E quando non trovò più nulla per cui ridere o per cui piangere crollò sul tavolo, con la testa sulle mani e un pensiero logorante nella mente: era carbone lei, era volgare carbone  e mai sarebbe stata trasparente, preziosa e perfetta come un diamante.


   
 
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