Serie TV > Elisa di Rivombrosa
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Autore: wolfymozart    12/01/2017    4 recensioni
Sullo sfondo delle prime rivolte contadine antifeudali, si snoda la vicenda che ha per protagonisti Anna e Antonio. Come i rivoltosi si ribellano alle ingiustizie della società del tempo, allo stesso i due protagonisti, sono alle prese con una personale rivolta contro i propri destini segnati dagli errori, dalle incomprensioni e dalle scelte avventate del passato. La giustizia riuscirà a trionfare o prevarrà l'arroganza della sorte?
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Anna Ristori, Antonio Ceppi, Elisa Scalzi, Emilia Radicati
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Trambusto in quel mattino assolato di fine agosto: dicerie, viavai frenetico, notizie che volavano di bocca in bocca, confusione e anche un po’ di curiosità. Si stava infatti diffondendo la notizia di tumulti avvenuti nella capitale qualche giorno prima, una sommossa, si diceva, contro l’imposizione di una nuova gabella sul macinato che andava a gravare nuovamente sui contadini, già provati da un anno non particolarmente felice per il raccolto. Molti erano stati i feriti, erano scappati anche alcuni morti. Le guardie del governatore, senza aspettare il consenso del re, che peraltro non aveva mai manifestato grande autonomia di pensiero, avevano sparato granate sulla folla affamata. Uomini, donne, bambini erano scappati in ogni direzione, accalcandosi, spingendosi e calpestandosi. Insomma, un vero e proprio macello, sotto gli sguardi indifferenti, per non dire compiaciuti della nobiltà cittadina, che aveva imposto alla propria servitù di non aprire per nulla al mondo le porte dei loro palazzi alla gente che, in fuga dalle granate, chiedeva disperatamente aiuto.  

-        Che sia maledetta questa marmaglia insolente!-

-         Per fortuna il governatore è un uomo di polso e li ha puniti come si deve, senza aspettare quell’eterno indeciso del re, che Dio l’abbia in gloria!-

-        Sì, che vengano presi tutti questi facinorosi, che vengano spediti a marcire in galera, è quello il posto che compete a gente del genere.

-        Auguriamoci che venga fatta piazza pulita e che vengano stanati i responsabili che, statene certi, si saranno già rifugiati nelle campagne.

-        A morte questa plebaglia!

Questi commenti, questi auspici, queste minacce serpeggiavano nei salotti dell’alta nobiltà, adirata per la sommossa, ma soprattutto alquanto seccata per il fatto di non poter passeggiare in carrozza per le strade del centro per qualche giornata, costretta alla forzata prigionia nelle stanze dorate dei  propri sfarzosi palazzi cittadini.

 

Anche nella remota  e tranquilla contea di Rivombrosa era giunta a voce delle sommosse e il popolo, come accadeva in tutto il regno,era in subbuglio, incerto tra la volontà di ribellarsi ai propri padroni vendicando i morti della rivolta e la devozione nei confronti dei conti Ristori. I più accesi vennero però isolati e decisero quindi di recarsi nella capitale per aggregarsi ai rivoltosi, non trovando terreno fertile per i loro propositi nella contea. Tuttavia gli animi erano più che mai surriscaldati a Rivombrosa per la cattiva amministrazione del padrone del momento che gestiva la tenuta in assenza del cognato, il marchese Alvise Radicati. In molti, durante una riunione clandestina notturna nelle stalle della tenuta, si erano detti pronti a prendere le armi per spodestarlo e far valere i propri diritti contro i suoi odiosi soprusi, adducendo come pretesto il fatto che la loro devozione era rivolta ai legittimi proprietari, i Ristori, non a quell’arrogante usurpatore. Alla fine però era prevalso il consiglio della saggia Amelia - gli anziani sono spesso ascoltati quando portano con sé l’esperienza e il buon senso – la quale era riuscita a quietare tutti, ricordando come presto il conte Fabrizio si sarebbe congedato dall’esercito e sarebbe ritornato a mettere ordine e a riportare la giustizia.  – Va bene, Amelia, faremo come dici tu - convenne Angelo, sciogliendo la riunione, e congedando tutti, sotto lo sguardo di disappunto di Elisa che avrebbe voluto una risoluzione più drastica della faccenda, senza attendere il ritorno dal fronte del suo amato.

Mentre Elisa e gli altri uscivano silenziosi all’aria fresca di quella notte di fine estate, qualcun altro, ai piani alti del palazzo, non riusciva a prendere sonno. Si trattava della contessa Anna, o meglio, della marchesa Radicati. Chiusa a chiave nella propria stanza, subiva da giorni le angherie del marito, uomo dedito al vizio, violento e spesso ubriaco, che in assenza del cognato spadroneggiava nella tenuta trattando senza ritegno alcuno non soltanto gli umili dipendenti, ma persino la propria moglie e la propria figlia. In realtà non vedeva l’ora di sbarazzarsi di Anna per potersi godere in santa pace la compagnia della sua  giovane e avvenente amante, Betta Maffei, tuttavia la moglie rappresentava per lui una gallina dalle uova d’oro, l’unica possibilità per poter mantenere il controllo sulla tenuta: sarebbe stato sciocco da parte sua sbarazzarsene in quel momento e infatti se la teneva stretta, molto stretta, spesso sotto chiave, per impedirle di parlare con la servitù o cercare l’aiuto esterno di chicchessia.

Anche quella sera la marchesa si trovava chiusa nella sua stanza, dopo aver dovuto assistere insieme alla figlia allo squallido spettacolo del marito e della sua amante che sedevano alla loro stessa tavola. Anna era esasperata: questa era la parola esatta per esprimere lo stato d’animo di una donna privata della propria dignità ed espropriata dei propri beni  da un marito arrogante e vizioso, sola e con poche speranze di veder tornare presto l’adorato fratello, l’unico della sua famiglia che le era rimasto. Anna, stringendo in una mano il cuscino e nell’altra il crocefisso, pregava con voce sommessa e intanto tendeva l’orecchio al minimo rumore, con la paura che il marito facesse da un momento all’altro irruzione nella sua camera per insolentirla o peggio ancora per malmenarla. Un tempo non era così, era un donna forte, risoluta e decisa, ora invece sembrava del tutto spossata da questa lotta immane contro tutti, sembra quasi rassegnata al proprio triste destino, non aveva alcuna ragione di speranza in un futuro migliore, l’unico suo desiderio era quello che la figlia Emilia riuscisse presto a scappare dalle sgrinfie del padre e a costruirsi una vita più felice della sua, nonostante il pensiero della lontananza della ragazzina, suo unico affetto in quella casa, le straziasse letteralmente il cuore. Ogni tanto faceva capolino nei suoi pensieri l’immagine di Antonio, si chiedeva che cosa facesse il medico; si domandava se mai un giorno sarebbe passato da Rivombrosa per una qualsiasi emergenza, se mai lei, Anna, sarebbe riuscita a parlargli, per la prima volta senza rancore, a scusarsi con lui per come l’aveva sempre trattato negli ultimi tempi, ad ascoltare la sua voce risponderle, ad indagare i suoi profondissimi occhi chiari. Ma era solo un attimo. Sapeva bene, la marchesa, che non le era consentito covare troppe speranze a riguardo: la vita, il destino li aveva separati tanti anni prima, nessuno sarebbe più riuscito a ricucire quel che era stato strappato, tanto più che il medico doveva odiarla per il modo indisponente con cui lo accoglieva alla tenuta. Questi erano i pensieri che le affollavano la mente, mentre il sonno tardava a venire e dal cortile provenivano uno strano tramestio e flebili voci. Ma Anna non aveva la forza né la curiosità per alzarsi ed andare alla finestra, rimase piuttosto a fissare la luna quasi piena che era appena sorta e illuminava la stanza con la sua luce argentata.

 

 

- Dottore, dottore! Vi prego, aprite! – gridava con foga un giovane, assestando vigorosi colpi alla porta del medico. – Dottore, si tratta di un fatto grave, vi prego! – insisteva.  Ed ecco apparire un lume tra le inferriate della finestra, ed ecco il cigolio del chiavistello nella toppa.

- Che succede? – il dottor Ceppi, in maniche di camicia e con una candela nella mano che gli illuminava il volto, fissava, con lo sguardo assonnato e insieme allarmato di chi sia stato svegliato di soprassalto nel cuore della notte, il giovane che aveva di fronte, la giacca a brandelli e un occhio pesto.

-E’ da prima del tramonto che siamo per strada, non sapevamo a chi rivolgerci in città. Lì è un inferno! Voi ci aiuterete,non è così? – chiese supplichevole, scrutando gli occhi del medico in cerca di un briciolo di compassione.

- E’ certo che vi aiuterò. Non dubitate nemmeno. Ma di cosa si tratta? Dov’è il ferito? –

- Sono due, dottore. Li ho portati io col carretto, è lì in fondo –  rispose indicando con la mano un sagoma che si distingueva appena in un angolo buio dell’aia.

- Presto, portami da loro. Non c’è tempo da perdere! –

Si avvicinarono con passi rapidi, alla sola luce della luna e della misera candela che il medico reggeva. Non  fu però difficile al dottore capire che si trattava di ferite di arma da fuoco. E che quelli avevano tutta l’aria di essere degli scampati alla sommossa: un ragazzo che poteva aver massimo vent’anni e un uomo corpulento e barbuto, che tra i due sembrava quello messo peggio.

- Fate luce, presto, reggetemi la candela! – ordinò Ceppi. Pur nella concitazione, non perse la calma e riuscì a trovare la ferita da cui originava l’emorragia dei feriti. Riuscì a tamponarle alla bell’e meglio con alcuni stracci: forse era già troppo tardi per uno dei due feriti, erano passate diverse ore.

- Portiamoli in casa, forza! – disse poi, trasportando i due, uno alla volta, aiutato dal giovane.

Li sistemarono su dei giacigli improvvisati nel laboratorio del medico: lì aveva tutti i ferri del mestiere e poteva intervenire in modo più efficace sulle ferite. Preso dall’eccesso di zelo che sempre metteva nel proprio mestiere, non aveva nemmeno chiesto chi fossero e perché fossero giunti proprio da lui.

Il giovane glielo spiegò:  - Dottor Ceppi, avrete capito come si sono procurati quelle ferite, credo. Abbiamo partecipato alla rivolta in città. Si tratta di mio fratello e di  mio zio. Chiedevamo solo giustizia, solo di non essere spremuti da queste nuove tasse. Siamo mezzadri, lavoriamo giorno e notte ma il raccolto quest’anno non è stato buono. La nuova tassa ci rovinerebbe, faremmo la fame. Non siamo dei violenti, noi. Vogliamo solo giustizia, solo giustizia. -  mormorava, scuotendo il capo.

- Ah! – gridava il fratello, mentre il dottore cercava di disinfettargli l’ampia ferita che aveva sulla schiena- Ah! – ripeteva, senza essere in grado di formulare parole di senso compiuto. – Sta’ buono, abbiamo quasi finito- lo rassicurava Antonio, che nel frattempo rispondeva a quanto il giovane aveva detto : - Capisco, vi capisco. E sono dalla vostra parte.

- Lo so, lo sappiamo che lo siete. Quando le guardie ci hanno attaccato, siamo riusciti a fuggire e a portare via alcuni feriti. Non sapevamo però che fare, dove andare, a chi chiedere aiuto. Nessun medico in città si è mosso per soccorrerci. I nobili ci han sbattuto le porte in faccia, e così anche i medici. Mi son detto: qui bisogna tornare a casa, nelle campagne è più difficile farsi trovare. Siamo venuti da voi, tutti i contadini parlano così bene di voi! –

- Troppo buoni, troppo buoni. Faccio soltanto il mio dovere: prestare cure ha chi ha bisogno. – intanto ispezionava la profonda ferita alla testa dell’uomo più anziano, che aveva perso da tempo i sensi. – Accidenti, è più profonda di quanto credessi! Presto, passami quelle garze! – . La sguardo del medico era molto teso. – Devo dirti la verità, non sono sicuro che ce la farà. – si pronunciò mesto.

- Fate il possibile per mio zio, vi prego. Ha dei bambini ancora piccoli. – lo supplicò il ragazzo.  – Stanne certo – rispose Antonio.

L’alba ormai filtrava dalla finestra del laboratorio. Aveva lavorato tutta la notte per salvare i due feriti, non sapeva se ce l’avrebbero fatta, ma era sicuro di aver tentato tutto il possibile, ora solo il tempo avrebbe dato il verdetto finale. Esausto, Antonio prese a lavarsi le mani e le braccia.

- Dottore, non so come ringraziarvi per quello che avete fatto per noi. Dovete sapere una cosa, però. Non osavo dirvelo prima, avevo paura che non ci avreste aiutato. Sapete in cosa potete incorrere? Siamo ricercati dalle guardie del re. Se ci trovano ci sbattono in galera, forse al patibolo. E sbattono in galera pure voi. Così dicevano in città: chi nasconde i rivoltosi avrà la stessa loro pena. Non posso chiedervi di tenere nascosti mio fratello e mio zio, li porterò a casa nostra oggi stesso. Non abbiamo neppure di che pagarvi, non posso e non voglio mettere in pericolo anche voi! – Era decisamente rammaricato per quello che aveva taciuto. E il rammarico si univa adesso alla gratitudine, che poteva esprimere solo a parole. Teneva il capo basso, non osava guardare in faccia il medico.

- Questo è impossibile. Rimarranno qui, fin quando non lo deciderò io, fin quando non saranno fuori pericolo. E non ammetto repliche! - rispose Antonio, asciugandosi le braccia e le mani e guardando schietto con i suoi limpidi occhi chiari il giovane che aveva di fronte.

- Non so davvero come sdebitarmi, grazie, grazie, che Dio vi benedica, dottor Ceppi, che Dio vi benedica! Ma perché fate tutto questo per noi? Voi non siete come noi, voi siete nobile. Perché fate tutto questo? –

- Nobile lo ero, forse, un tempo, ora non più. Ma sei tu che ti sbagli: io sono come voi, sono come tutti, dal momento che siamo tutti uomini, siamo tutti uguali. – Il ragazzo lo guardava incredulo. Riuscì a malapena a balbettare qualche ringraziamento: mai aveva sentito un nobile esprimersi così.  - E ora va’, va’ a casa dai tuoi. A loro ci penso io – .

   
 
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