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Autore: decimetri    12/01/2017    1 recensioni
In cui Yamaguchi si scopre innamorato del suo migliore amico e decide di riporre tutti i suoi sentimenti in un quaderno nero che porterà tanti guai ma anche tante cose belle!
[YamaTsukki vs. YamaAsahi] [12.922 parole]
Genere: Drammatico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Asahi Azumane, Kei Tsukishima, Tadashi Yamaguchi
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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The Black Note
 

Lo osservava da bordo campo, come al solito.
Avevano sempre giocato insieme, anche se era decisamente il più scarso dei due, gli piaceva la sicurezza causatagli dalla presenza del più alto, anche se non si impegnava.
Dopo la batosta che gli aveva dato il fratello, sembrava essersi ripromesso di non impegnarsi più in niente, gli dispiaceva e lo faceva infiammare insieme.  Prese il suo quadernetto nero dalla borsa prima di scrivere la data di quel giorno e di disegnare velocemente la mano dell’amico mentre riceva la palla. Sotto, in corsivo, aggiunse la solita nota:
“Vorrei che mi toccassi con la stessa delicatezza con cui tocchi la palla”
Poi, svelto, rimise il quaderno nella tasca interna della borsa, non voleva che qualcuno lo notasse, costringendolo così a rivelare il suo segreto.
Il coach fischiò proprio quel momento, mettendo così fine all’allenamento e mandando i ragazzi a cambiarsi. Come al solito Tsukishima era rimasto indietro, non gli andava di interagire con gli altri.
Si cambiò in fretta ed uscì dallo spogliatoio. Mentre aspettava l’amico per percorrere la solita via decise di accendersi una sigaretta. Non era una cosa che faceva spesso e, certamente, non era un vizio per lui, in quanto questo gli avrebbe sicuramente sottratto il posto da titolare in squadra, più che altro gli piaceva vedere la cenere cadere lentamente e volare in picchiata, fino ad adagiarsi sul terreno. Gli ricordava che prima o poi tutto doveva finire, e di non affezionarsi troppo.
Nello stesso momento in cui si decise a spegnere il mozzicone, il ragazzo più basso uscì dalla stanza tutto trafelato, con il borsone grande quasi quanto lui appoggiato sulla spalla. Si era accorto che ormai da qualche mese, durante ogni allenamento, tirava fuori un piccolo quaderno nero e ci scribacchiava sopra qualcosa, nascondendo tutto prima che qualcuno potesse notarlo, aveva però deciso di non invadere la sua privacy e di lasciar perdere.
“Tsukki dovresti smetterla con questa roba…” gli disse l’altro rivolto alla sigaretta che ormai giaceva inerme a terra
“Non importa, con tutti gli idioti che mi circondano, sicuramente non sarà questo a uccidermi”
Non si guardarono, camminarono in silenzio uno di fianco all’altro, non era un silenzio imbarazzato, entrambi erano immersi nei loro pensieri e la quiete che li circondava non faceva altro se non rilassarli. Si salutarono al solito bivio e, una volta inserite le cuffie, Tsukishima si allontanò senza parlare, lo sguardo dell’altro incollato alla schiena.
 
Lo guardò, mentre veniva inghiottito dalle tenebre, prima di dirigersi a sua volta nella propria abitazione, salutò frettolosamente sua madre prima di buttare malamente lo zaino e la borsa degli allenamenti in camera e rifugiarsi sotto la doccia, dove rimase una buona mezz’ora.
Quando finalmente uscì dal bagno l’odore di tempura aveva completamente invaso la casa. Yamaguchi sentì il suo stomaco brontolare e si recò in cucina, il suo piatto era l’unico presente sulla tavola, quando mise piede in sala da pranzo, la cosa lo lasciò abbastanza interdetto visto che di solito lo aspettava sempre per la cena, ma non si preoccupò troppo e si sedette a mangiare in silenzio.
Era squisito, come al solito, e una volta finito andò in cucina per lavare le posate.
Si era appena affacciato al lavandino quando un brivido gelido gli salì per la schiena.
Il suo quaderno giaceva sul ripiano, aperto sulla pagina di quel giorno, non era stato strappato o bagnato o cose del genere eppure la paura si impossessò di lui in un attimo: quel quaderno richiudeva tutti i suoi pensieri più profondi, se qualcuno l’avesse letto, per lui sarebbe stata la fine.
Lo cacciò con poca cura sotto la maglietta prima di andare in cerca di sua madre. Lei stava con le mani serrate alla cornice della finestra che dava sulla strada, non si era accorta della presenza del figlio, così quello fece un passo nella sua direzione, facendo scricchiolare le assi del pavimento.
“Vattene” sussurrò la donna, la voce tradiva il fatto che aveva pianto.
“Vai via da questa casa” disse ancora, questa volta con tono un po’ più fermo.
“Mamma…” provò a dire il ragazzo, al che la donna si voltò di colpo.
“È un ragazzo, Yamaguchi, è il tuo migliore amico, non sai la vergogna che porteresti sulla nostra famiglia se si dovesse venire a sapere.” Quelle parole non se le aspettava, non dalla donna che lo aveva cresciuto, insegnandoli che amore è amore ed è bello in tutte le forme. Era sempre stato un ragazzo incline alle lacrime e, quella volta, non fece differenza. Entrambi piangevano ora, la donna in maniera silenziosa, mentre il figlio tratteneva stento i singhiozzi.
“L’importanza del nostro nome, le regole che tue padre ha sempre rispettato con severità, non ti permetterò di buttare tutto al vento solo perché ora lui non è più con noi”.
“Mamma io… Io farò in modo che nessuno lo venga a sapere” riprovò il figlio con voce tremolante.
“Lo sanno già tutti, Yamaguchi, parlano di noi alle nostre spalle, lo so” disse lei con una nota d’isteria nella voce. Da quando il padre di Tadashi era morto, qualcosa nella sua testa non funzionava più allo stesso male. Il dolore l’aveva resa pazza, al punto di rifiutare qualsiasi contatto col mondo esterno –che fosse una passeggiata o la necessità di comprare qualcosa da mangiare-, si era tappata in casa, l’unica amica di cui aveva bisogno era se stessa. “Ti prego di prendere le tue cose e andartene, ora, sono sicura che il tuo caro Tsukishima non avrà problemi ad ospitarti a casa sua” concluse, lasciando la stanza. Pazza. Eppure, non sapendo come reagire, l’assecondò.
Il ragazzo, singhiozzando, si diresse verso la propria camera, aprì la borsa degli allenamenti prima di riporci la divisa usata la sera stessa, riempendola poi con il resto dei sui vestiti, qualche soldo, fotografie e una coperta. Rimise poi nello zaino le cose di scuola e il maledetto quaderno nero, dal quale proprio non riusciva a separarsi. Richiuse tutto a fatica, si mise il cellulare in tasca e uscì di casa, l’unica cosa certa, era che non sapeva dove andare.
Dopo aver camminato per un paio d’ore si trovò all’ingresso di un parco, non lo riconobbe subito, ma era lo stesso parco in cui lo portava suo padre prima di ammalarsi, sorrise tristemente ed entrò, alla ricerca di una panchina. Il sole era calato da tempo e, nonostante il freddo, voleva solo stendersi e dormire, dando termine a quell’orribile giornata.
Alla fine rinunciò e si sdraiò direttamente sul prato, estrasse la coperta dalla borsa e contò le stelle, fino ad addormentarsi.
 
Il mattino dopo i suoi occhi si dischiusero che era appena l’alba, si guardò intorno spaesato prima che i ricordi della sera precedente lo investissero in pieno. Si trattenne per non piangere, cambiandosi velocemente d’abito dietro un grosso faggio, recandosi poi a scuola.
Non aspettò il biondino all’ingresso come era solito fare, e si diresse direttamente in aula, poggiando poi la testa sul banco e aspettando così l’inizio delle lezioni.
Il biondo lo raggiunse qualche minuto dopo, facendolo così destare dal dormiveglia in cui era calato e costringendolo a regalargli un sorriso tirato per non attirare sospetti.
Passò il resto della giornata facendo di tutto per comportarsi normalmente e nessuno gli fece domande, cosa che lui interpretò positivamente.
Durante l’allenamento, però, sembrava distratto, si era limitato a sedersi a bordo campo, osservando i suoi senpai giocare con determinazione. Non era mai riuscito a imporsi su nulla, era sempre stato molto timido e l’unica cosa che aveva fatto sì che si aprisse con Kei, trovando finalmente un amico, era stato l’intervento di quattro bulleti che, senza saperlo, gli avevano fatto un grande favore.
Proprio in quel momento lo vide prendere la rincorsa e schiacciare, erano pochi i momenti in cui appariva così deciso, ed ancora meno erano quelli che lo legavano allo sport (di solito si trattava di qualcosa più vicino all’istruzione, come un compito in cui era riuscito particolarmente bene) che il ragazzo sentì il taccuino nero bruciare sotto la sua divisa, dalla voglia che aveva di ritrarlo. Per quanto gli avesse causato così tanti guai, non era riuscito a separarsene, erano troppo le emozioni racchiuse tra quelle pagine.
A fine allenamento, per la prima volta, non aveva neanche toccato la palla, eppure nessuno glielo disse. Una volta cambiato, aspettò Kei fuori dagli spogliatoi.
“Mi passi una sigaretta?” fu la prima frase che gli rivolse in maniera diretta della giornata. Fumare non avrebbe risolto i suoi problemi, lo sapeva, anzi probabilmente avrebbe peggiorato le cose in quanto si trovava già a corto di denaro. Eppure c’era un qualcosa di strano, un’attrazione verso quei piccoli cilindri tossici, che aveva sempre avuto, e che sentiva particolarmente amplificato.
“Sei un idiota, non so cosa ti stia succedendo, ma non voglio che inizi con questo vizio.” Si era accorto di qualcosa. Ma lui era freddo e calcolatore, lo avrebbe stupito di più se fosse rimasto nell’ignoranza.
“Tu lo fai, però”
“Non mi importa di me.”
“Allora fammi fumare, per favore.”
“No.”
“Perché?” disse il più basso con voce piagnucolosa
“Perché di te mi importa.” Detto questo si caricò la borsa dell’allenamento in spalla, prima di dirigersi verso casa, convinto che l’altro l’avesse seguito.
Si separarono al solito bivio, solo che questa volta Tadashi non si diresse verso casa propria, scegliendo una via diversa, si fermò sulla strada giusto il tempo di comprarsi un panino (non voleva neanche immaginare cosa avrebbe fatto una volta finito i soldi) per poi superare l’ingresso del parco, andando a stendersi esattamente sotto lo stesso faggio della sera prima.
Le stelle brillavano tantissimo, e, tra i brividi di freddo, si ritrovò nuovamente a contarle fino ad addormentarsi.
 
Kei iniziava a sospettare che qualcosa non andasse, l’amico gli sembrava ogni giorno più pallido, rifiutava qualunque contatto da parte sua o di ogni altro componente del club di volley, non pranzava più da qualche settimana e lo stato dei suoi vestiti sembrava sempre più trasandato.
Per questo si sorprese particolarmente quando, un freddo mattino di metà dicembre, lo ritrovò nel cortile del liceo. Sorrideva anche se i suoi occhi lasciavano intravedere che qualcosa non funzionava.
Si sorprese ancora quando notò che il ragazzo con cui stava parlando era niente di meno che l’asso della sua squadra. Asahi Azumane.
Sentì una strana fitta al centro del petto, come se in quella scena ci fosse qualcosa di sbagliato e fece per interromperli, quando il più alto circondò le spalle di Tadashi con un braccio, accompagnandolo in aula.
Lui, solo, non poté che indossare le enormi cuffie e dirigersi verso la propria classe.
Per il resto della giornata quasi non si rivolsero la parola, il più alto ancora leggermente scocciato dalla scena a cui aveva assistito in mattinata. Il secondo semplicemente sentiva che qualcosa non andava, ma non aveva intenzione di peggiorare la situazione facendo domande.
Quella sera il coach aveva dato loro libero, così i due primini si diressero verso casa fianco a fianco. Ognuno immerso nei suoi pensieri. Il primo a parlare fu Kei:
“Ti ho visto distratto oggi.” La nuvola di condensa che lasciò la sua bocca gli fece venire un’improvvisa voglia di accendersi una sigaretta.
“Ho solo molti pensieri per la testa, scusa Tsukki.”
“No, è bello che tu finalmente abbia imparato a riflettere prima di agire.”
“Uhm?”
“Comunque siete una bella coppia, tu e Azumane.” Sentì la morsa al petto di prima stringersi più intensamente, mentre pronunciava quelle parole.
“Io e Asahi?”
“Ah, avete già iniziato a chiamarvi per nome. Ne sono felice.”
“Kei, tra me e il nostro asso non c’è niente, non capisco cosa possa avertelo fatto credere.” Disse con la testa bassa, e il modo in cui pronunciò il suo nome, sembrò quasi una carezza alle orecchie di Tsukishima, che dovette trattenersi per non allungare un braccio e posargliene una vera sulla guancia.
“Oh, non che mi importi.” La sua morsa era praticamente sparita, e, quando si separarono al solito bivio, il biondo non riuscì a trattenere un mezzo sorriso. Poi si allontanò in silenzio.
Qualche metro più in là, Tadashi estrasse il quadernino nero, ancora ben impressa nella sua mente l’incurvatura delle labbra dell’amico.
 
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La casa di Asahi era grande e profumava di cannella. Poggiò il borsone della pallavolo sul divano, nella camera che i genitori dell’asso gli avevano cortesemente concesso di occupare.
Proprio tutto si sarebbe aspettato da quel ragazzone, tranne che il mercoledì mattina andasse a correre nello stesso parco in cui lui dormiva da ormai un po’ di tempo, e che lo trovasse tremante e infreddolito sotto la chioma, ormai rada, del suo faggio.
L’aveva svegliato dolcemente, proprio come avrebbe fatto una mamma, per poi portarlo in un bar lì vicino e offrirgli un caffè.
Le parole erano sgorgate dalla sua bocca come un fiume in piena, sua madre, il litigio, quell’albero che ormai per lui era diventato un po’ come casa. Solo in quel momento si era reso conto di quanto avesse bisogno di sfogarsi, tenersi tutto dentro era stancante.
Giusto un paio di giorni, il tempo di trovargli un futon e una camera in cui stenderlo, Yamaguchi si era ufficialmente trasferito in casa Azumane.
Aveva però pregato il suo senpai di non dire niente ai compagni di squadra. Non desiderava la loro compassione, e il più grande, che era di animo gentile, aveva detto di sì senza rifletterci due volte.
Da quel momento era cominciata la loro nuova routine.
Tadashi si alzava per primo, si lavava, faceva colazione e usciva, dieci minuti prima del coinquilino, per incontrarsi con Kei al solito punto, senza destare sospetti.
Passavano la giornata insieme, fianco a fianco, spalleggiandosi come al solito. Il biondo però aveva notato che la presenza dell’asso era sempre più costante, sembrava vegliare sul suo amico e gli orbitava in torno come la luna con la terra. La gelosia iniziava a corrodergli l’anima, ma lui, così freddo e razionale, continuava ad ignorarla.
Anche quella mattina, Yamaguchi arrivo poco prima di Kei al solito punto.
Il biondino aveva tagliato i capelli, che ora gli scoprivano meglio il viso rivelando i suoi tratti seri. Da quando viveva a casa dell’asso, seppur non lo sapesse ancora, i comportamenti dell’altro si erano fatti più freddi, quasi a voler instaurare pure con lui quel muro di ghiaccio che lo separava da tutte le altre persone.
Lo raggiunse con tutta calma, seppure l’avesse visto, voleva farlo attendere.
“Ciao.” Disse il più basso, quando furono ad una distanza adeguata, sfoderando un sorriso tutto fossette che gli fece brillare gli occhi. L’ennesima fitta al cuore per il biondo.
“Oggi non ci sarò agli allenamenti.”
“Ah… devo avvisare il capitano?”
“Lo sa già.”
“Torni gli ultimi dieci minuti come l’altra volta?”
“No, non penso riuscirò a passare.” Lo sguardo di entrambi rivolto a terra
“Oh va bene, torno da solo…”
“Puoi farti accompagnare da Azumane, no?” l’odio che sputò pronunciando il nome dell’asso non sfuggì all’amico che rispose con altrettanta enfasi.
“Si, penso proprio che chiederò a lui.”
“Ottimo.” L’ultima parola che pronunciò Kei, prima di infilarsi le grosse cuffie alle orecchie ed aumentare il passo, così come la distanza con Yamaguchi.
La sera però il ragazzo biondo lo aveva raggiunto comunque, aspettandolo fuori dalla palestra –nonostante il freddo gli facesse tremare anche l’anima- e leggendo uno dei tanti libri di seconda mano di cui era entrato in possesso.
Non parlarono, entrambi volevano scusarsi per il comportamento del mattino precedente ma il silenzio creatosi tra i due era così duro e spesso che ci sarebbe voluta una katana per romperlo. Ovviamente fu Tsukishima a mettere fine a quell’imbarazzante situazione:
“Scusami per come mi sono comportato stamattina.”
“No, scusami tu”
“Lo sai che va bene no, se ti fai altri amici?”
“Io voglio essere anche tuo amico però.”
“Noi siamo amici.”
“Noi non siamo il tipo di amici convenzionali, Tsukki, e non voglio iniziare ad esserlo.”
“Ma tu sei un tipo convenzionale, Yamaguchi” doveva calmarsi, non sarebbe scaturito niente di buono da quella situazione, il fatto che fosse geloso dello studente più grande era un problema che riguardava solo e solamente lui. Non doveva tirare in mezzo altre persone. “Mi piace questo tuo esserlo, rende più facile capirti.”
“Mi stai dando dello stupido?” Lo odiava, odiava il fatto che continuasse a sussurrare, voleva sentirlo urlare, voleva che gli mostrasse tutto ciò che provava. La sua non era una freddezza comune, come quella che Kei stesso possedeva –fredda e razionale, un occhio matematico che valutava attentamente tutti i pro e i contro prima di prendere una decisione-, la sua era dettata dalla timidezza, una timidezza che in tanti trovavano adorabile ma che gli aveva posto tanti agguati nel diventare ciò che avrebbe sempre voluto essere.
“Non ti ho mai tenuto nascosto quello che penso di te Yamaguchi, sei troppo emotivo e timido, dovreti imparare a controllarti.” Non aspettò una risposta, ormai erano giunti al bivio, si voltò di scatto e proseguì il suo percorso senza voltarsi. Alla fine era umano anche lui, no? Sbagliava, aveva cambi d’umore improvvisi e si arrabbia con persone che non facevano parte dei suoi problemi.
La parola stupido, sebben non pronunciata direttamente dal biondo, continuava a ronzare in testa a Tadashi.
Che errore stupido.
 
Il mezzo giro improvviso per cambiare direzione gli fece perdere l’equilibrio, ritrovandosi a cadere a gambe all’aria. Per fortuna Kei era già andato via, sicuramente gli avrebbe dato nuovamente dell’idiota.
Stupido. Stupido. Stupido. Di certo in quel momento lo poteva sembrare, sdraiato su un marciapiede con la schiena appoggiata alla borsa di pallavolo, sfogando tutte le sue emozioni, finalmente, lacrime amare e piene di rimpianti gli solcarono il volto. Nulla di tutto questo poteva essere successo davvero, non era possibile si fosse innamorato di qualcuno a tal punto di mentirgli, mentirgli su tutto pur di non farlo stare male.
La sua mano si posò istintivamente sulla giacca della tuta, doveva chiamare Asahi e chiedergli di venirlo a prendere. Non voleva tornare a casa a piedi da solo a quell’ora e con tutti quei pensieri che si agitavano nella sua mente contorta.
Prese il cellulare e compose il numero dell’amico. Uno squillo.
Due.
Tre.
“Pronto?” sembrava preoccupato.
“Sono io.”
“Lo so chi sei, stupido, va tutto bene?” aveva pronunciato quella parola con estrema dolcezza, ma questo non aveva impedito a Tadashi di rilasciare l’ennesimo singhiozzo.
“Puoi passarmi a prendere? Non riesco a camminare da solo a quest’ora.”
“Certo… al bivio dove ti separi da Tsukishima?”
“Tsukki, mi ha lasciato indietro. Percorri comunque quella strada, per favore, io ti vengo in contro.” Non diede all’altro il tempo di rispondere, si limitò a fare leva sulle braccia e rialzarsi in piedi. Si prese un altro minuto. Guardò il cielo. Le stelle. Erano così belle, così lontane, un po’ come Tsukki.
Raccolse la sua borsa e prese a percorrere il percorso a ritroso.
Qualche strada più in là, un ragazzo biondo, alto un metro e ottantotto, guardava il cielo. Le stelle.
Erano così belle, così lontane, un po’ come Tadashi.
Qualche strada più in là, il ragazzo biondo promise a se stesso che non avrebbe permesso al sole di sorgere, prima di aver preso la sua, di stella.
 
 
Si incontrano sotto ad un lampione, la luce soffusa risalta le lacrime che solcano le guance del più piccolo. Lo prende per mano –non come farebbe un fidanzato, lui non le sa fare queste cose, ma come farebbe una mamma con il proprio bambino-.
Sa di sicuro chi è la causa di quelle lacrime, se lo sente nelle ossa, eppure non trova niente da dire. Si è avvicinato molto a quel ragazzino, ultimamente, gli piace vederlo ridere, perché ha pianto abbastanza per una vita intera, a suo parere, e si è ripromesso di stargli vicino in caso altre gocce salate avrebbero solcato quelle gote piene di lentiggini. E così fa, quella volta, sta in silenzio e continua astringergli la mano, come a volergli dire “Ehi, io sono qui, ora non piangere più.”
Tornano a casa, ma nessuno dei due ha voglia di entrare. Così si siedono sugli scalini, il più grande fissa il profilo dell’amico.
Tadashi è bello, e si stupisce di non essersene accorto prima. È un po’ una stella, pensa, che ogni notte si dimentica di brillare, presa com’è ad ammirare la luna, rammaricandosi di non essere alla sua altezza.
“Dovresti dirglielo, almeno a lui, lo sai che ti starebbe vicino.”
“Non posso farlo Asahi, non voglio perdere la sua amicizia.”
“Non te ne rendi proprio conto, vero?”
“Di cosa?”
“La sua amicizia, la stai perdendo comunque.” Poi rientra in casa, nel suo cuore rimpianto e soddisfazione lottano per primeggiare. Ma ormai è tardi, e tornerebbe subito indietro se sapesse l’entità del danno che ha appena causato.
 
Yamaguchi mette una mano in tasca, deciso a tirare fuori il quaderno, perché l’attimo in cui ha realizzato che Tsukishima aveva definitivamente sciolto il loro legame proprio non voleva dimenticarlo.
Quella figura nera, che si allontanava a passo spedito e con le cuffie nelle orecchie, non se la levava dalla mente.
Non avrebbe pianto di nuovo.
Poi, panico.
Il quaderno stava nella tasca, insieme al cellulare. Ne era certo, lo sapeva.
Allora perché la tasca era vuota?
Le svuota tutte, una a una, ma niente. Si ricorda del momento in cui steso a terra aveva preso il telefono per chiedere aiuto, si ricordava come si era sentito subito più leggero. Quello che non poteva ricordarsi, però, era il taccuino nero, che, con la vista sfocata a causa delle lacrime, non era riuscito a distinguere dal buio della notte che inghiottiva il marciapiede.
Non aveva la forza di tornare indietro ora, e inoltre, quante possibilità c’erano che fosse proprio lui tra le centinaia di persone che la mattina passavano per quella strada a trovarlo? Poche, infinitamente basse, si disse.
Il dubbio, però, lo tormentava, a tal punto da costringerlo ad alzarsi per andare a recuperare l’oggetto di tutti i suoi problemi. Non chiamò Asahi, non aveva il coraggio di disturbarlo di nuovo, o forse era solo troppo codardo per sentire altre tristi verità. Inoltre non gli aveva rivelato della sua spropositata cotta per il suo migliore amico, e non gli sembrava quello il momento adatto.
Sta di fatto che quando cammini, con la testa bassa, alla ricerca di qualcosa e la mente piena di pensieri, tendi a dimenticarti di ciò che ti circonda.
Non presti più attenzione al fruscio delle foglie, al vento sulla faccia.
Non ti importa più se dal calpestare ghiaia passi al cemento.
Magari, se proprio sei agitato, o particolarmente provato fisicamente, finisci per imboccare la via sbagliata, una volta o due, e sei costretto a tornare in dietro e ricominciare.
Era un po’ per questo che un viaggio che sarebbe dovuto durare dieci minuti finì col tenerlo occupato per qualche ora. E più tempo passava senza tenere tra le mani quel libricino, più tutto quello che lo circondava perdeva di importanza, non sollevava più la testa neanche per leggere il nome della strada che stava imbucando.
Non aspettava più le strisce pedonali per attraversare.
Poi, finalmente, ecco il bivio. Alla sua destra.
La calma prese di nuovo possesso del suo corpo e una nuova fretta, forse adrenalina, si fece strada dentro di lui.
Mi raccomando Tadashi, prima di attraversare la strada, devi guardare in entrambe le direzioni.
Se solo avesse dato retta a sua madre, non si sarebbe ritrovato schiantato via dal cemento, costretto a rotolare giù da una collina, fino a raggiungere una pianura. La schiena a contatto con l’erba umida.
Non aveva paura, per la prima volta in vita sua non aveva paura. In ogni caso, le cose non sarebbero potute andare peggio.
Non dimenticherò mai l’attimo in cui le stelle hanno smesso di brillare.
 
Era stato Tanaka a dargli la brutta notizia, anche se non si sopportavano era stato l’unico ad offrirsi di farlo, gli altri si erano tuti rifiutati per paura della sua reazione.
Non sapeva perché, ma non aveva avuto la forza di dire nulla. Si era lasciato cadere sulle ginocchia e aveva urlato, ma dalla sua bocca non era uscito alcun suono.
Il ragazzo biondo, ora, si trovava all’ingresso del cimitero e le gambe sembravano non rispondere più ai suoi comandi.
Non era pronto, non ancora. Andare lì, entrare, sarebbe stato come ammettere di aver sbagliato, perché nonostante le litigate, le incomprensioni e quella gelosia che aveva fatto sì che si comportasse così male lui gli voleva bene.
Gli voleva bene per tutte le volte che aveva pensato di non farcela e l’amico l’aveva sostenuto.
Per tutte le volte in cui alla fine ci era riuscito e avevano gioito insieme.
Pe tutte le volte in cui invece alla fine falliva e l’altro restava comunque lì, senza dire niente, perché la sua presenza già diceva tutto.
Non poteva perderlo, non ancora, doveva almeno dirgli grazie, dirgli che era proprio uno stupido se pensava di poter andarsene in quel modo, senza salutare.
Aveva bisogno di vederlo sorrider un’ultima volta, uno di quei sorrisi senza motivo che a Kei davano tanto fastidio ma che in fondo erano belli da guardare.
Le gambe ripresero a seguire i suoi comandi. Velocemente superò l’ingresso del cimitero e raggiunse quello dell’ospedale che si trovava lì vicino.
Avrebbe dovuto mandare una lettera di protesta a quel genio che aveva deciso di costruire un ospedale confinante con un cimitero era un po’ come dire “ehi tranquilli, se qualcosa va storto ci limitiamo a far cadere il corpo dalla finestra ed è risolto.” Quasi rise ad immaginarsi un dottore compiere un’azione del genere.
Ridere. Sorriso. Tadashi. Tadashi. Tadashi. Non era decisamente il momento per ridere.
Era stato il primo a raggiungere l’ospedale, neanche Kageyama o Hinata erano riusciti a reggere il ritmo disperato della sua corsa.
Dopo essersi informato sulla posizione della stanza dell’amico all’ingresso, si fiondò in ascensore e cliccò il numero 12. Sorrise. Era il numero della sua maglia.
Non c’erano altri visitatori, in coda, ed era strano perché l’ospedale era lontano da scuola e di sicuro sua madre in macchina avrebbe fatto molto prima.
Si concesse un paio di minuti, il tempo di riprende fiato. Era lì, il suo migliore amico era stato vittima di un incidente. Ma era ancora vivo. E lo fissava attraverso il vetro della sua stanza.
Il suo sguardo? Un chiaro invito a raggiungerlo.
 
Asahi arriva qualche minuto dopo ed ha il fiatone. Sa che molto probabilmente a fare visita a Yamaguchi c’è già il suo compagno di squadra, eppure questo non gli impedisce di sedersi nel corridoio fuori dalla stanza ed osservarli. Non riesce a cogliere l’espressione del biondo, perché è di spalle, ma sembra dire qualcosa di molto divertente. Infatti, l’altro –dapprima silenzioso-  scoppia a ridere.
Non è geloso. No. Per niente. O meglio è geloso ma non nel modo che credeva, non gli causa alcun effetto immaginare i due baciarsi, prendersi per mano o comportarsi come una coppia.
L’unica cosa che lo fa infiammare è immaginare il suo coinquilino col cuore spezzato.
Non vuole vederlo stare male. Sa cosa significa veder andare la propria vita a rotoli e non poter fare nulla se non limitarsi a guardare da lontano.
Piano piano tutta la squadra lo raggiunge, e aspettano, aspettano perché sanno che quei due hanno un sacco di cose da dirsi e proprio non se la sentono di rovinare l’ambiente che si è creato nella stanza.
Un’ora dopo, il ragazzo sul letto, fa cenno loro di entrare. La gratitudine del suo sguardo è più che evidente.
“YAMAGUCHI!” urla l’asso appena mette piede nella stanza “NON OSARE MAI PIÙ FARTI INVESTIRE IN QUEL MODO. LO SANNO TUTTI CHE QUANDO SI CAMMINA BISOGNA GUARDARE DOVE SI METTONO I PIEDI. IDIOTA.” Sono tutti così sorpresi da quello scatto d’ira che scoppiano a ridere. Persino Tsukishima accenna un mezzo sorriso.
Per un attimo, sembra andare tutto per il meglio.
 
I giorni passano e lui resta ricoverato. I compagni di squadra fanno a turni per portargli i compiti dopo scuola e Asahi se riesce passa anche prima delle lezioni.
Kei non si è fatto più vedere. Dopo la loro discussione a cuore aperto, dopo che si sono chiesti scusa per essersi trattati così male reciprocamente non gli ha fatto più visita.
La notte è il momento peggiore: ogni volta che chiude gli occhi riesce a vedere di nuovo i fari di quella macchina, il tentativo –fallito- di frenare all’ultimo momento. Quasi vede il suo corpo percorrere di nuovo quella discesa a peso morto. L’attimo in cui ha chiuso gli occhi pensando che fosse giunta la fine.
Si desta di colpo. Guarda la sveglia. È quasi l’una del mattino.
Si affaccia alla finestra, vuole essere certo che le stelle non hanno smesso di brillare. Infatti sono lì, e c’è anche la luna piena. Osserva il cielo per un po’ quando un movimento in giardino non attira la sua attenzione.
Una ragazza in pigiama, i capelli neri legati in una coda molle, che sembra essere sul punto di sciogliersi. Si guarda in torno come per assicurarsi di non essere stata seguita prima di sedersi sull’unica panchina di pietra presente nel parco. Poi tira fuori dalla maglietta un pacchetto di sigarette. Non può vederla in faccia, è di spalle, ma è quasi sicuro che se ne sia accesa una.
Fuma con calma, senza guardarsi in torno, solo dritto davanti a lei, poi spegne il mozzicone sulla panchina e lo ripone nell’involucro. Si alza e con passo veloce ritorna da dove è venuta. Senza che se ne rendesse conto, è già passata un’ora.
La curiosità lo sta mangiando vivo. Perché esce a fumare a quest’ora? Perché non ha buttato via il mozzicone. Poi si ricorda che è sotto farmaci e che non tutto quello che vede è reale. Non del tutto almeno.
Decide di tornare a letto e si addormenta sotto il bip bip costante della macchina alla sua destra.
Il giorno dopo la stessa storia:
Asahi passa prima delle lezioni, gli lascia una colazione decente (il cibo all’ospedale fa schifo) e se ne va.
Pranza da solo, guardando qualche episodio di un anime su gente che mangia altra gente, cercando di non soffermarsi troppo sul sapore del cibo, e si addormenta subito dopo aver mangiato.
Kyoko –la menager della loro squadra- passa dopo le lezioni, gli spiega che quando tornerà a scuola dovrà recuperare il test di inglese e gli lascia la lista dei nuovi vocaboli da imparare. Lui odia queste cose.
Se ne va, prima ovviamente hanno parlato un po’, ma lui è molto timido e lei non particolarmente loquace, quindi la visita non dura molto.
Per cena lo raggiunge nuovamente Asahi, quel ragazzo lo ha preso proprio a cuore, si ritrovano insieme, in quella piccola stanza almeno due volte al giorno. È l’unico a cui si sente di chiedere di Tsukishima:
“Non lo so, Tadashi… a scuola è normale”
“Ma allora perché non passa a trovarmi?”
“Cosa vi siete detti, quando è venuto qui?”
“Abbiamo parlato, ci siamo scusati reciprocamente per il nostro comportamento e abbiamo riso, mi è sembrato sincero.”
“Non gli hai detto niente della tua situazione attuale?”
“Del fatto che vivo da te? Assolutamente no.”
“Non lo so… con me non ci parla, ovviamente, ma ho notato che anche con gli altri, quando c’è una notizia che ti riguarda o bisogna decidere chi deve venire a portarti i compiti lui si allontana sempre.”
“E se mi odiasse?”
“Vi ho visti, non ti odia, probabilmente deve solo realizzare che il suo migliore amico è stato investito da un’automobile… non è così facile come sembra sai?”
“Mi considera ancora il suo migliore amico? O l’ha mai fatto?”
“Sei l’unico per cui l’ho visto correre a una velocità tale per cui neanche Kageyama o Hinata sono riusciti a mantenere il passo.”
Stava per rispondere, stava per dire che alla fine una corsa era una corsa, ma che era venuto a trovarlo una volta sola, in una settimana, che si rendeva conto che era una persona impegnata, ma che se veramente era così importante per lui avrebbe potuto spendere cinque minuti della sua vita per fare due chiacchere, l’infermiera però bussò alla porta, comunicando loro che l’ora delle visite si era conclusa. Asahi si alzò e abbracciò con delicatezza l’amico prima di lasciare la stanza.
“Potete baciarvi sai? Mica mi scandalizzo!” disse poi lei sorridendo
“Non è il mio ragazzo…”
“Bah… è senza dubbio innamorato di te, hai visto come ti guarda?”
E no, lui non lo aveva visto, ma si limitò a sorridere e ad arrossire mentre la donna lasciava la stanza.
Anche quella sera cenò da solo ed incredibilmente presto, poi si mise a letto e aspetto che fosse quasi l’una di notte, prima di affacciarsi alla finestra.
Lei era lì, e stava fumando, girata di spalle. I capelli questa volta erano sciolti sulla schiena ed indossava il camice dell’ospedale. Non era bella, oggettivamente parlando, non era magra, con i capelli biondi e il sorriso smagliante. No, era più il tipo che attirava l’attenzione ovunque andasse, quel tipo di ragazza che ha di per certo una storia vera, una storia che chiunque vuole sentire.
Questa volta però, dopo aver riposto con cura il mozzicone nel pacchetto, si volta verso le vetrate dell’ospedale, sorride, come se sapesse che qualcuno la sta osservando ma non sa esattamente chi, o forse c’è più di una persona a guardarla. Non lo stupirebbe. Poi rientra in camera col solito passo leggero.
Domani, pensa, voglio uscire con lei.
 
Esce che manca poco all’arrivo della ragazza, la sua camera non è vicino all’ingresso e ci mette un po’ a capire come uscire da lì.
Quando ci riesce lei è già seduta su una panchina. Decide di affiancarla.
“Posso avere una sigaretta?” che idiota. Non ha mai fumato in vita sua, non sa neanche da che parte tenerla.
Lei lo osserva un po’ stranita prima di passargli la paglia senza dire una parola.
“Accendino?” gli dà pure quello.
La mette tra le la labbra. Accende. Ispira. Il sapore fa schifo. Tossisce. Tossisce. Respira. Tossisce di nuovo. Riesce a riprendere fiato. Poi la guarda, aspettando una reazione.
Lei ride.
“Lo sapevo che era la tua prima volta!” ha le lacrime agli occhi e fatica a respirare
“Non era così evidente…” protesta con un filo di voce
“Non prenderla a male ma non hai proprio la faccia da fumatore.” La risata si è spenta quasi completamente, ogni tanto però un piccolo spasmo con le spalle ce l’ha ancora.
“Neanche tu se è per questo” parla a tono così basso che deve sforzarsi di sentirlo attraverso il fruscio del vento
“Ma io sono particolare, no?”
“Cosa ci fai qui?” cambia argomento perché dire di no sarebbe mentire, ma dire di sì sarebbe come dargliela vinta;
“Qui fuori o qui in generale?”
“In generale.”
“Non lo so… devo ancora decidere.” Si interrompe un secondo, guarda in alto “Devo decidere se salvare me o tutto ciò in cui credo…È meno evidente di quanto possa sembrare credimi.” Lui non risponde, non ha capito del tutto le parole della ragazza ma non vuole sembrare stupido o indiscreto.
“E tu?” È lei a rompere il silenzio
“Incidente d’auto, ma è stata colpa mia, in parte, avevo perso un quaderno.” La frase non ha un minimo di senso, ma se ne rende conto solo dopo averla pronunciata.
“Un quaderno?”
“Si, stavo cercando il mio taccuino da solo, di notte, per strada e mi sono dimenticato di guardare i semafori.” La cosa, detta così, è talmente ridicola che ridono entrambi. Poi un rumore meccanico interrompe la conversazione. Lei guarda la sveglia che giace sull’erba umida. Le due del mattino.
“Devo andare… tra dieci minuti vengono a controllare che stia dormendo.” Si alza, ripone il mozzicone nel pacchetto, prende anche quello di Tadashi e gli offre lo stesso trattamento.
“Perché?”
“Perché cosa?”
“Perché li conservi tutti?”
“Nel caso si trattasse del mio ultimo pacchetto, voglio conservare tutti i mozziconi, così se mai dovessi aver voglia di ricominciare mi basterebbe guardare quanto impegno ci ho messo a conservare tutti questi per farmela passare.” Anche questo non ha senso, pensa lui, ma dal tono in cui l’ha pronunciato ci sono sicuramente motivazioni più profonde, quindi non dice niente.
“Domani stessa ora?” chiede lei.
“Tanto non riesco a dormire comunque.” Risponde con un sorriso.
Non si salutano, imboccano vie diverse per ingressi diversi. Tanto si rivedranno tra un giorno.
 
La sera seguente scopre che la ragazza si chiama Shizuka –che è un bellissimo nome, secondo lui, composto dalle parole tranquillo, estate e profumo, che un po’ la rispecchiano-.
Scopre che non è malata, ma che vive in ospedale per far compagnia al fratellino, che ha contratto la leucemia, al quale serve un trapianto di midollo osseo e che lei è l’unica a poterlo fare. Lo fa volentieri, dice, ma ha paura che il corpo del bimbo non lo accetti e in quel caso si riterrebbe personalmente responsabile.
Poi è il suo turno di parlare, e racconta un po’ di tutto: racconta del quaderno –che ormai è perso-, di Tsukki e di Asahi, dell’incidente e delle sue mille paranoie.
“Secondo me gli piaci.” Dice lei alla fine
“A chi?”
“A entrambi, o almeno ad Azumane, insomma chi ti accoglierebbe in casa senza un secondo fine e senza fare domande?” prende un tiro dalla sua sigaretta e quando butta fuori, il fumo si mescola con la condensa
“Asahi ha un grande cuore.” Perché infondo si, quel gigante gentile non gli farebbe mi niente contro il suo volere.
“E allora buttati, no? Da quel che ho capito l’altro non ti si fila neppure, magari scopri un qualcosa di nuovo, magari ti piace di più.”
“E se non mi ricambia?”
“Si vive una volta sola no? Tu buttati.”
“Si, e io questa volta sola la vivo a casa sua, ti immagini l’imbarazzo se mi dovesse rifiutare?”
“In quel caso puoi venire a stare da me.” Sta sorridendo, lo sente mentre parla, ma potrebbe essere seria.
“E chi mi dice che anche tu non sei una serial killer o qualcosa del genere?”
“Oh mi hai scoperto! Adesso sarò costretta ad ucciderti fuori dall’ospedale.” Scoppiano tutti e due a ridere, perché lei è così strana che sarebbe fin troppo normale e ordinario vederla uccidere qualcuno, o, almeno, lui di certo non si stupirebbe.
Quella sera si scambiano i numeri di telefono e vanno via qualche minuto prima che suoni la sveglia. Tadashi torna in camera e si sistema a letto senza far rumore, poi manda un messaggio ad Asahi. In fondo alla fine si vive una volta sola, no?
Grazie per tutto quello che fai per me! Buonanotte <3
Preme invio e si pente quasi subito. Come gli è saltato in mente di metterci quel cuore? Qualche minuto dopo arriva la risposta dell’amico.
Sono qui per questo! Ci vediamo domani mattina, vedi di non morire nel frattempo Xx
Si addormenta sorridendo, ma, quella notte, l’unica cosa che sogna è un viso imbronciato, incorniciato da una famigliare zazzera di capelli biondi.
Durante la colazione Yamaguchi dice ad Asahi che tra due giorni sarà dimesso dall’ospedale, ma che per un altro paio di settimane non potrà allenarsi a pallavolo. Sono tutti e due felicissimi.
Mangiano e ridono, gioiscono del fatto che tra poco tornerà tutto alla normalità, poi Azumane si alza. È in ritardo e deve correre a scuola. Lascia un leggero bacio sulla guancia dell’amico –che diventa bordeaux- ed esce a passo di corsa.
 
La scuola senza Yamaguchi è noiosa, ma non lo ammetterebbe mai. Gli manca il suo tono irritato a lezione di inglese, quando lo supplica di dargli una mano perché non capisco niente quando parla il professore mentre tu sei così bravo Tsukki, ti prego aiutami. Gli manca fingere di essere seccato, rispondendo con un no secco, che tanto sanno entrambi che nel giro di dieci minuti sarà già chino sul foglio dell’amico per aiutarlo.
Quella mattina va a scuola in bicicletta, ci mette molto meno, soprattutto ora che ha preso l’abitudine di passare davanti all’ospedale tutte le mattine.
Oggi poi, è particolarmente in ritardo. Mentre passa a tutta velocità davanti all’ingresso dell’ospedale volta la testa per un secondo. Rischia di cadere di sella.
L’asso della Karasuno sta lasciando l’edificio proprio in quel momento. L’unica cosa che vuole fare è proseguire il più veloce possibile, come se non l’avesse visto, ma sembrerebbe un comportamento immaturo, soprattutto agli occhi del più grande. Decide quindi di porgli un cenno di saluto
“Tsukishima aspetta! Ci stiamo in due sulla tua bici? Sono un po’ in ritardo!” si gratta il collo, imbarazzato.
“Dai muoviti” Sbuffa “Oppure farai arrivare tardi anche me.”
Durante il tragitto non parlarono, l’atmosfera è molto tesa e il più grande non sa minimamente perché.
Scesi dalla bici, il biondo, con una forza che non sapeva neanche di possedere, spinge il più grande contro il muro, lo blocca appoggiandogli un braccio sul collo.
“Se osi fargli del male, io ti ammazzo.” Sussurrò poi al suo orecchio, prima di allontanarsi, come se non fosse successo niente.
L’altro si lascia scivolare a terra: era il momento che quei due chiarissero le cose una volta per tutte.
 
Come gli era saltato in mente di farsi prendere da uno scatto d’ira del genere? Non devi farti sottomettere dalle tue emozioni.
Il suo migliore amico era in ospedale da una settimana, eppure aveva resistito e non era andato a trovarlo.
Stargli vicino gli faceva male.
Aveva sempre saputo di non essere attratto dalle ragazze, fin da quando in seconda media la sua prima “fidanzatina” aveva provato a baciarlo e lui si era tirato indietro disgustato. Era una femmina.
L’idea di essersi innamorato, o almeno di essere infatuato, del suo migliore amico, lo metteva estremamente a disagio. Era l’unico a cui aveva consentito di superare quella sottile barriera di indifferenza che lo separava da tutti, convinto che l’altro non lo avrebbe mai ferito comunque. Un approfondimento del rapporto avrebbe significato un esponenziale aumento delle possibilità di disfatta.
Entravano in gioco molti nuovi fattori: imbarazzo –soprattutto se si parlava di Tadashi-, tradimento –questo decisamente meno plausibile da parte sua-, perdita di interesse, litigate, incomprensioni, una rottura brusca, e altre mille cose estremamente più gravi. Kei, si sapeva, non amava particolarmente il rischio, ma ancora meno amava l’idea del più piccolo affianco ad altre persone. Solo immaginarlo gli faceva venire un’improvvisa voglia di vomitare. Il cling del suo cellulare lo informò dell’arrivo di un nuovo messaggio.
Domani mi dimettono. [21.12] Si parla del diavolo…
Sono felice [21.13]
Ci possiamo vedere? [21.13]
Siamo nella stessa classe… mi stupirebbe di più il contrario. [21.13]
Intendevo da soli. [21.14 visualizzato]
“Non rispose. Non lasciare che le tue emozioni prendano il controllo. E poi lui è troppo timido per trovare qualcun altro che lo ami. Probabilmente quando sarò pronto a dichiararmi lui ancora mi aspetterà.”
Lo disse ad alta voce, come per autoconvincersi. Poi, si addormentò.
 
 
Era stato dimesso quella mattina.
La notte precedente lui e Shizuka si erano salutati con la promessa di mantenersi in contatto. Poi era andato via con Asahi.
Gli aveva chiesto come stava, aveva risposto bene e poi avevano iniziato a parlare del più e del meno. I silenzi con lui erano molto diversi da quelli con Tsukki, che al contrario erano pieni di emozioni. Quelli con l’asso erano solo imbarazzanti.
Dopo aver lasciato le cose in casa Azumane si diressero verso scuola. Tsukishima non aveva più risposto ai suoi messaggi, e lui non aveva insistito. Se non voleva parlare con lui nessuno lo costringeva a farlo, e se, come sosteneva Shizuka, si sentiva a disagio solo con lui perché stava realizzando di essersene innamorato, tanto meglio.
Le lezioni furono noiose come sempre; nessun trattamento speciale da “Ehi sono appena stato investito da un auto e ho passato quasi due settimane rinchiuso in un ospedale”. Dovette recuperare il famigerato test d’inglese, però. Ovviamente fece schifo.
Il biondo, che se ne stava seduto tranquillamente due file davanti a lui, non si degnò neanche di voltarsi per guardarlo. Neanche un tutto bene? Niente di niente.
In compenso ad ogni cambio dell’ora si ritrovava un qualche suo senpai a chiedergli come stava e quando avrebbe ripreso ad allenarsi. Niente di così eclatante per essere il suo primo giorno.
La sera, nonostante non potesse partecipare all’esercitazione di volley, Asahi non lo lasciò andare a casa. A quanto pare avevano organizzato una piccola festicciola di ben tornato. Stava per calare la sera, non aveva voglia di stare in giro, ma non se la sentiva di sprecare gli sforzi che i suoi amici avevano fatto per lui.
“Ci sarà anche Tsukki? È da un po’ che non lo sento.”
“Certo che ci sarà, sei il suo migliore amico dopo tutto, no?”
“Non so se lo sono ancora.” Gli sfuggì una nota di tristezza nel tono della voce.
Ma allora buttati no? Magari scopri qualcosa di nuovo, magari ti piace di più, gli tornarono in mente le parole di Shizuka. Ci avrebbe provato, si vive una volta sola, giusto?
“Asahi, posso farti una domanda?”
“Certo”
“Io ti piaccio?” Ma come gli era saltato in mente di dirlo sul serio? Che idiota.
“Ovvio che mi piaci, sennò non ti avrei mai invitato a stare da me.”
“Non intendevo questo.”
“E allora cosa?” Era decisamente confuso, il più grande, possibile che non capiva.
Camminava qualche passo davanti a lui, e si trovò costretto a prenderlo per il polso e a tirarlo verso di se, per poi alzarsi sulle punte e gettarsi sulle sue labbra. Tutto in torno, silenzio.
“Questa cosa.” Sussurrò poi. Imbarazzatissimo, era stato il suo primo bacio e di sicuro non era stato male, insomma non aveva paragoni e wow, magari aveva fatto schifo, non sapeva neanche se al suo amico piacessero i ragazzi, figuriamoci lui.
Le sue paranoie furono messe a tacere da un paio di morbide labbra che si posarono sulle sue, altrettanto insicure.
“Non mi è mai piaciuto nessuno nel modo in cui mi piaci tu, Yamaguchi, non so se mi piaci come un fidanzato, come un amico, come un qualcuno che devo proteggere. Non voglio farti stare male, ma, se ti va, possiamo provare a scoprirlo insieme.” Aveva detto, sorridendo.
Per tutta risposta gli aveva preso la mano. Camminarono così fino alla palestra.
Yamaguchi ripensò a quel momento, quei due baci condivisi con il suo senpai, in fondo, nel suo cuore, sapeva che qualcosa non andava.
 
 
 
La musica si sentiva provenire già da fuori, non sapeva bene cosa aspettarsi, doveva essere un ricevimento piccolo, solo per gli amici della Karasuno, tutto quel casino non era normale.
Aprì con un po’ di fatica la pesante porta, ma non voleva assolutamente essere aiutato.
La prima cosa che vide fu Tooru Oikawa ballare avvinghiato a Kuroo (che dal canto suo non stava facendo niente per levarselo di torno, al contrario rideva come un pazzo sul suo collo e lo abbracciava altrettanto stretto), poi, una palla di pelo rossa corrergli in contro e saltargli addosso.
“YAMAGUCHI SEI TORNATO!” urlava Hinata col suo solito tono esaltato, era la prima volta che lo abbracciava e l’altro si sentiva abbastanza in imbarazzo.
Fu salvato da Kageyama che prese il rosso per la divisa, staccandolo da Tadashi.
“Scusalo, è solo che ha bevuto un po’ troppo” disse semplicemente, per poi avvicinare di più il viso a quello dell’amico “Non pensavo reggessi così poco.” Concluse ridendo.
“Kageyama?” Yamaguchi stava tendendo ancora la mano di Asahi, si sentiva abbastanza spaesato.
“Dimmi tutto.” Rispose, ignorando completamente il rosso che lo stava tirando per una manica, piagnucolando qualcosa sul fatto che volesse ballare.
“Cosa ci fanno qui la Neko e le altre scuole?”
“Oh, Suga-senpai ha pensato fosse carino invitare anche alcune altre scuole della prefettura e dare un piccolo party in tuo onore.”
“Okay, e posso sapere perché sono tutti ubriachi?”
“Il coach Ukai ha detto che una festa non può essere tale se non si beve.” Concluse sorridendo.
Intanto, lì vicino, Kuroo e Oikawa avevano iniziato a baciarsi con ardore, mentre Kenma a qualche passo di distanza sembrava più apatico del solito.
Tadashi decise di non farsi altre domande, se l’ospedale gli aveva insegnato una cosa nella vita era che si viveva una volta sola, così strinse più forte la mano di Asahi e lo trascinò in pista.
I corpi sudati che si toccavano, la musica a palla a rendere impossibile qualsiasi conversazione, le mani di un molto impacciato Azumane sui suoi fianchi mentre lasciavano che i loro corpi ondeggiassero in sintonia erano sensazioni che Yamaguchi non aveva mai provato prima, ma non gli dispiacevano affatto. Continuarono a muoversi fino ad avere il fiatone, poi si allontanarono dal casino per prendere qualcosa da bere.
Quando vide il ragazzo biondo che stava seduto da solo vicino al banco alcolici, il suo cuore perse un battito. Fu un riflesso spontaneo, ma lasciò la mano dell’asso per avvicinarsi al suo migliore amico.
“Ciao” fu l’unica parola che riuscì a pronunciare, e quasi non la sentì per colpa del battito del suo cuore che non voleva saperne di smetterla di rimbombare nelle sue orecchie.
“Ciao.” Di poche parole, come sempre.
“Come stai?”
“Yamaguchi, sei appena stato dimesso da un ospedale e chiedi a me come mi sento? Sul serio?” quanto gli era mancato quel tono seccato.
“Scusa”
“Non scusarti idiota, tu come stai piuttosto?”
“Io tutto bene, speravo di riuscire a vederti prima però.” E speravo rispondessi la mio messaggio.
“Scusa, ho avuto da fare.” Rimasero tutti e due in silenzio, che presto diventò imbarazzante, fino a quando l’arrivo di Yuu Nishinoya non li interruppe.
“Yamaguchi! Sei tornato!” era, stranamente, più pacato del solito.
“Noya-senpai, sì per fortuna, spero di poter tornare presto anche in campo!” sorrise.
“Sono sicuro di sì.” Sorrise anche lui “Ti va di accompagnarmi un attimo fuori? Devo assicurarmi che non ci siano in giro persone che possano causarci problemi ma proprio non me la sento di uscire da solo a quest’ora.”
Okay, si trattava palesemente di una scusa: primo, Noya non avrebbe mai, mai, chiesto aiuto a qualcuno per una cosa del genere e secondo sicuramente non lo avrebbe chiesto a lui (che oltre ad essere un fifone come pochi era appena stato dimesso dall’ospedale). Accettò comunque ovviamente, per quanto avrebbe voluto restare ancora per un po’ con Tsukki sicuramente quello che doveva dirgli Yuu era più importante.
 
Si sente proprio che è dicembre. Fu la prima cosa che pensò Tadashi una volta uscito dalla palestra.
Fecero un giro dell’edificio, ma quando stavano per raggiungere di nuovo l’ingresso (non si erano parlati per tutto il tempo del breve percorso), il suo senpai tirò fuori dalla tasca della giacca un quadernetto nero, e glielo porse. Seguirono attimi di silenzio che parvero quasi interminabili. Poi il più grande parlò:
“Io non so cosa sia, davvero, ma la tua scrittura è la tua scrittura e l’ho trovato vicino al luogo dell’incidente.” L’altro non disse una parola.
“Non so cosa provi per Asahi, ma sono sicuro che questo quaderno non sia dedicato a lui. L’ho letto tutto, Yamaguchi, e mi dispiace se sono stato invadente, era sicuramente una cosa che volevi tenere segreta. Non sapevo neanche che tu fossi gay, ma non voglio che tu prenda in giro il mio migliore amico.
Se hai cambiato idea, se ti sei accorto che Asahi è meglio della persona a cui hai dedicato tutto ciò ti chiedo scusa per averti mancato di rispetto, ma sai meglio di me che Azumane è una persona fragile, quindi ti prego, non giocare con i suoi sentimenti.”
“Io non lo so” Tadashi ormai faticava a mantenere un tono di voce normale “Non lo so cosa provo in questo momento, non so cosa voglia dire essere innamorati. So solo che Asahi mi è stato vicino quando nessun altro c’era, non è sicuramente mia intenzione illuderlo o fargli del male.” Poi gli mancò la voce.
Yuu sorrise, un sorriso riflessivo, molto diverso da quelli che regalava di solito ai suoi amici: “Allora, forse, ti conviene restare un po’ da solo e scoprirlo.” Poi rientrò in palestra.
Nessuno dei due si era accorto di Kei, il quale pochi minuti prima era uscito per fumarsi la sua sigaretta.
Nel suo corpo una miriade di emozioni si stavano mescolando, facendogli provare sensazioni delle quali non conosceva ancora l’esistenza.
A chi era dedicato quel quaderno non lo sapeva ancora, ma era intenzionato a scoprirlo.
 
Era stato un’idiota, davvero, non gli piaceva esporsi e non lo aveva mai fatto così spudoratamente.
Non sapeva precisamente come o cosa lo avesse spinto a farlo, ma ormai era una settimana che piattonava Yamaguchi senza una minima interruzione. Voleva, no anzi, necessitava, impossessarsi di quel quaderno. Aveva bisogno di risposte.
Quella sera faceva particolarmente freddo, ma ciò non lo aveva spinto ad eludere il compito di spiare l’amico. Lo aveva visto, dopo le lezioni, aspettare il suo amico speciale –pensare ad Azumane con termini come fidanzato o ragazzo di Tadashi gli faceva venire i conati di vomito- fuori dallo stabile scolastico, le mani in tasca che ogni tanto portava davanti al viso per riscaldarle un pochino. Ovviamente non aveva chiuso la giacca, non lo faceva mai e si sarebbe sicuramente preso presto una polmonite o qualcosa di peggio.
Stava per accendersi una sigaretta –ultimamente aveva incrementato questo suo piccolo vizio- quando l’imponente figura di Asahi fece la sua comparsa, abbracciando l’altro ragazzo da dietro. Irritato ripose la camel blu nel pacchetto. Proprio in quel momento aveva deciso di farsi vedere, il suo senpai.
Parlando tra di loro la coppia si indirizzò verso l’uscita, seguiti a ruota dal biondo. I tre passeggiarono per un po’ nel parco.
“Come è andata oggi la giornata?” il tono che Azumane usava con Tadashi era diverso da quello che usava con tutte le altre persone, sembrava volergli dire ehi, stai tranquillo, con me puoi parlare in ogni singola parola che pronunciava. Lui non sarebbe mai riuscito a parlargli in questo modo, e un po’ ne era geloso.
“Tutto bene, Tsukki ancora non mi rivolge la parola.” Sentire il più basso chiamarlo in quel modo gli fece perdere un battito, rimase comunque in ascolto.
“Non preoccuparti, vedrai che gli passerà.” Un altro sorriso rassicurante, ma davvero quei stavano insieme? sembravano più madre e figlio. “Torniamo a casa adesso, mia madre ha preparato il tonkatsu* per cena.” Quasi gli venne da vomitare, già aveva conosciuto la famiglia dell’altro? Mancava solo una proposta di matrimonio. Bleah. “Possiamo camminare ancora qualche minuto, non riesco a dormire bene se non passeggio una mezzora almeno, lo sai.” La voce di Tadashi suonava ovattata, ostruita dalla pesante sciarpa che il maggiore si era affrettato a passargli quando lo aveva visto aspettarlo in cortile col collo completamente scoperto.
“Ah, va bene, sennò finisce che ti agiti ancora tutta la notte e poi non dormo neppure io.”
Dopo aver udito quella frase Tsukishima poté sentire distintamente il suo cuore uscirgli dal petto ed infrangersi al suolo. Convivevano? No, Yamaguchi glielo avrebbe sicuramente accennato. Ma poi, perché avrebbe dovuto farlo? Non si parlavano quasi più, non tornavano più a casa insieme, non erano più vicini di banco, non studiavano più nelle pause pranzo, non si sentiva più seguito ovunque. Perché mai avrebbe dovuto confidargli una cosa del genere? Non gli aveva neanche detto di essere gay o bisessuale –anche se da quel che ricordava, Tadashi mai in vita sua era stato con una ragazza, alla festa del diploma delle scuole medie si era presentato con sua cugina-.
Ma non poteva essere vero. Non potevano aver già raggiunto un così profondo livello d’intimità da decidere di stare insieme tutto il giorno e tutta la notte. Non era vero.
Quella sera, per la prima volta, non si limitò a seguirli per un’ora o due e poi tornare a casa propria, al caldo, gli accompagnò fino a sotto casa dell’asso per poi sedersi a una distanza minima ed aspettare. Alle nove di sera, ancora non era uscito.
Alle dieci aveva perso le speranze.
Alle undici si alzò con calma da terra, come se tutto questo non lo toccasse minimamente. Ignorò il dolore al petto fino a quando non raggiunse casa propria, a sua madre disse che era rimasto a scuola a studiare dopo un allenamento che si era prolungato più del solito. Poi si buttò sul suo letto, esausto fisicamente e mentalmente. Si addormentò tardi, le cuffiette nelle orecchie e un sapore amaro in bocca.
Aveva ripetuto questa routine malata anche il giorno dopo, e quello dopo ancora, avanti così per una settimana prima di dover fare i conti con se stesso ed accettare che quei due convivessero.
Non aveva idea di come prendere la notizia, ma il fatto che Tadashi non gli avesse detto niente lo faceva stare molto peggio della loro convivenza in sé. Aveva sbagliato a fidarsi di nuovo di qualcuno, le persone possono sembrare innocenti quanto vuoi ma in fondo ti feriscono sempre. Era stato così per suo fratello e ora la storia si stava ripetendo col suo migliore amico.
Non gli interessava più, non gli importava più niente di tutto quello che avevano condiviso negli anni passati, delle sarete film quando erano alle medie, delle risate –seppur fossero state poche da parte di Kei- e di tutti quei piccoli gesti che avevano reso una persona così ordinaria come Yamaguchi, speciale per lui. Tutto quello di cui aveva bisogno ora, era parlargli un ultima volta, solo per sfogarsi, solo per dirgli addio.
 
I giorni passavano monotoni, ora Yamaguchi non si svegliava più prima di Asahi, ma spesso era proprio il maggiore a ricordargli che dovevano andare a scuola con un bacio a fior di labbra.
Kei aveva instaurato tra di loro il solito muro di ghiaccio che lo separava da tutte le altre persone, certo, lo faceva stare male, ma cosa poteva farci in fondo se non evitare di pensarci?
Dell’inverno gelido che li aveva perseguitati fino ad ora non restava che un qualche sussurro di vento nelle notti più fredde.
Solo una cosa era rimasta la stessa: il quadernino nero, diligentemente riposto nella tasca più interna e nascosta della borsa del club di Volley.
Quella mattina, non ci fu niente di insolito: si vestì di fretta –come al solito, era in ritardo-, prese il bento del pranzo che la signora Azumane gli preparava tutte le mattine, la borsa di scuola ed uscì. Durante quel tragitto lui e il ragazzo più grande si tenevano sempre per mano, era una cosa loro, li rendeva più sicuro, sembrava voler dire finché ti tengo la mano non puoi sfuggirmi.
Si separarono davanti all’aula di Tadashi con un abbraccio –ancora non se la sentivano di baciarsi a scuola, poi iniziarono le lezioni.
Come sempre non rivolse la parola a nessuno, si limitava a stare in ultima fila, un po’ osservava Tsukki, che come al solito era attentissimo e prendeva diligentemente appunti, un po’ l’orologio, sperando di non essere chiamato a rispondere a una qualche domanda prima della fine dell’ora –faceva schifo in inglese-.
Finalmente la campanella mise fine alle sue agonie, i benedetti cinque minuti di cambio d’ora non gli erano mai sembrati così irraggiungibili.
Stava per tirare fuori il suo nuovo manga –quanto aveva aspettato per avere il nuovo volume di as the god will non se lo ricordava neanche- quando vide una famigliare nuca bionda voltarsi nella sua direzione.
“Torni con me dopo scuola?” Ovviamente non sapeva che lui conviveva con l’asso della Karasuno da ormai più di un mese, voleva dirglielo, ma quella richiesta l’aveva scioccato talmente tanto da farlo annuire. Tsukishima non sorrise, non sorrideva quasi mai, e quelle poche volte in cui l’aveva fatto in sua presenza erano come fotografie, impresse per sempre nella mente di Tadashi. Basta pensò sei fidanzato, non puoi fare certi pensieri su altri ragazzi. La campanella suonò di nuovo, Kei riprese ad ascoltare con attenzione le parole del professore di fisica –che quel giorno, particolarmente arrabbiato, era entrato in aula comunicando che a fine dell’ora avrebbe interrogato-.
Non si soprese più di tanto, Yamaguchi, quando prese il voto più basso della sua vita. La sua mente era occupata da qualcosa di infinitamente più importante dei numeri.
 
Gli era mancato svolgere quel percorso col suo migliore amico. Anche se non parlavano, quello era il tipo d’ambiente che non era in grado di ricreare in nessun’altra situazione. Il primo a parlare, fu Tsukki:
“Grazie per aver accettato di accompagnarmi.”
“Tanto devo passarci anche io di qua.”
“Non è vero.” Si stava sforzando di mantenere un tono pacato e di non lasciare trasparire la rabbia.
“Cosa stai dicendo, lo sai dove vivo.” Risata nervosa.
“Esatto, so dove vivi, e so per certo che è lo stesso posto di Azumane.” Silenzio.
“Io… Io posso spiegare...” Le lacrime gli pungevano gli angoli degli occhi. Come diavolo aveva fatto a scoprirlo?
“Non mi interessano più le tue spiegazioni, Yamaguchi, hai avuto un sacco di tempo, un sacco di occasioni per spiegarmi cosa ti stava succedendo, cosa ti succede, eppure hai preferito affidarti ad una persona con cui non hai mai parlato prima.” Il tono della sua voce si stava piano piano alzando. L’altro restava in silenzio.
“Che significato hanno per te tutti questi anni passati insieme? Tutte le cose che mi hai detto? Io mi fidavo di te, e tu non hai fatto altro che pugnalarmi alle spalle.” Aveva iniziato a urlare “IO VOLEVO SOLO CAPIRE COSA TI STAVA SUCCEDENDO. QUANDO CI SIAMO PARLATI IN OSPEDALE PENSAVO FOSSE TUTTO A POSTO. MI HAI DETTO CHE ORMAI ERA TUTTO FINITO. MI HAI DETTO CHE TI ERO MANCATO E CHE TI DISPIACEVA. EPPURE QUANDO È ENTRATO AZUMANE NELLA STANZA IO SEMBRAVO COME ESSERE SCOMPARSO PER TE.” Yamaguchi ormai piangeva, Kei però non riusciva più a fermarsi “COSA SONO IO PER TE? UNA PERSONA CON CUI PUOI STARE SOLO FINCHÈ NE HAI BISOGNO? IO NON SO COSA HO FATTO PER MERITARMI UN AMICO COME TE, NON SO COSA HO FATTO. MI HAI DETTO CHE NON CI SERVE ALTRO OLTRE ALL’ORGOGLIO, E SAI UNA COSA? ALLORA NON TI SERVE NIENTE, PERCHÉ DI ORGOGLIO TU PROPRIO NON NE HAI, E VORREI SOLO SAPERE PERCHÉ…”
“PERCHÉ TI AMO.” Quelle parole gli erano scivolate di bocca prima che potesse fermarle. Lo amava, lo amava da sempre eppure se ne era accorto da poco, oppure lo amava da poco ma lo sapeva da sempre. Sta di fatto che proprio non avrebbe dovuto dirglielo, non così, non in quel momento e non mentre piangeva. Aveva immaginato una giornata di sole, solo loro due al solito bivio, si sarebbero salutati come al solito, ma prima di salutarsi gli avrebbe preso la mano e gli avrebbe semplicemente detto “Comunque ti amo” con tutta la calma del mondo, e l’altro avrebbe sorriso, un sorriso di quelli a metà, quelli che solo lui sapeva fare e che scombussolavano completamente il suo corpo e la sua testa. Ma non tutte le fantasie sono fatte per diventare realtà.
Il silenzio era calato su di loro come un velo, oscurando tutto quello che li circondava. Stettero in quelle condizioni per secondi, che divennero minuti, prima che Yamaguchi, come in uno stato di trans, tirasse fuori dalla borsa un piccolo quaderno nero e lo lasciasse cadere a terra, per poi allontanarsi a passo sostenuto.
Kei lo raccolse da terra e con mano tremante lo aprì.
21.01.2016: forse sono innamorato di lui. Seguiva lo schizzo di una figura di spalle che si allontanava.
22.01.2016: mi piacciono le piccole rughe che si formano agli angoli dei suoi occhi quando sorride. Lo schizzo di un occhio, anche se in bianco e nero.
23.01.2016: gli occhiali gli danno un’aria così intelligente. Una montatura nera malamente appoggiata su di un tavolo.
Proseguiva così per mesi e mesi, pagine fitte di scritte e disegni, alcuni si ripetevano ma era chiaro che fossero tutti riferiti alla stessa persona.
Ce n’era uno più grande, occupava una pagina intera, l’ultima, era datato a metà novembre.
Quelle labbra, quel mezzo sorriso, non potevano che essere i suoi, sorrideva talmente poco che lui stesso avrebbe saputo distinguere l’incurvatura delle proprie labbra rispetto a quella di tutti glia altri.
16.11.2016: questa è l’ultima volta che ti scrivo, e se stai leggendo, se hai visto tutto questo, saprai per certo che sto parlando di te, non è stato facile accettare questa condizione, questo sentimento che ancora non so se è amore, ma che spero capirò presto. Non sono come te, che riesci a vedere tutto in bianco e nero, con una razionalità che mi fa quasi paura. Ma questo sono riuscito a vederlo chiaramente anche io, non provi quello che provo io, e continuare a sperarci è quasi inutile, questo quaderno mi ha fatto passare tanti guai, con me, con la mia famiglia, con i miei amici. Eppure quando lo guardo sorrido, sorrido perché mi ricordo di tutte le belle cose che mi hai fatto provare, anche se spero ce ne saranno delle altre, ora posso dire con sicurezza che non le vivremo nella condizione che speravo. Ma va bene così, se sei felice, lo sono anche io.
Ti prego solo di non istaurare anche con me quel muro che ti costruisci intorno, perché non voglio rimanere tagliato fuori dalla tua vita, ma non so se avrò la forza per demolirlo ancora.
Ti voglio bene, o ti amo, o forse qualcosa d’altro che non so neanche io
Comunque sono grato di esserti amico
Tuo,
Tadashi.
 
Non stava piangendo perché piangere non lo avrebbe portato a nulla.
Aveva sprecato la sua occasione, lo sapeva, ma aveva giurato che sarebbe preso la sua stella, e lo avrebbe fatto. Anche a costo di ferire tutto ciò che gli stava attorno.
Non avrebbe buttato via quel quaderno, in cui Yamaguchi aveva fedelmente riposto tante emozioni e parole non dette. Lo infilò nell’elastico dei pantaloni, per averlo a contatto con la sua pelle ed essere sicuro che tutto quello era successo davvero, non era stato frutto solo della sua immaginazione.
Mandò di fretta un messaggio ad Azumane, in cui gli scriveva se potevano vedersi. Se voleva riprenderi ciò che era suo di diritto prima avrebbe dovuto far fuori la concorrenza no?
La risposta dell’altro non tardò ad arrivare.
Quindici minuti dopo, il bar di fronte alla stazione e due tazze di the bollente che nessuno dei due aveva ancora toccato. Fu il maggiore ha interrompere il silenzio:
“Di cosa volevi parlarmi?” come al solito, aveva un tono insicuro.
“Cosa sei tu per Yamaguchi?”
“Non ci siamo ancora definiti: ci piace passare del tempo insieme, baciarci, …”
“E da quanto convivete?” si dovette sforzare per non lasciar trasparire il senso di disgusto che provava ogni qualvolta doveva esporre quel fatto. L’altro rimase in silenzio per un tempo che parve interminabile, si fissarono.
“Cosa ti ha detto lui?”
“È scappato non appena ha saputo che ne ero a conoscenza.” Di nuovo una strana, brutta sensazione ad attanagliarli il petto, al pensiero che il suo più fidato amico non si fosse confidato con lui.
“Penso che dovrebbe spiegartela lui questa situazione, io non me la sento di tradire così la sua fiducia.”
“Non me ne frega niente della fiducia che ha riposto in te o cose del genere, io sono innamorato di lui e se anche c’è una minima possibilità che ricambi ho il diritto di sapere cosa è successo.”
Asahi avrebbe voluto ribattere, dire che loro due si amavano, che non c’era possibilità che lo ricambiasse. Ma sapeva che non era così, si era reso conto di essere solo un ripiego per lui, un premio di consolazione, e si era giurato di farselo bastare, pur di poter restargli vicino. La sua felicità, però, era più importante. Sapeva che con il biondo sarebbe stato sicuramente meglio che con lui.
“Lo ami?”
“Non so ancora con certezza se si tratti di amore. So solo che quando sono con lui, quando è felice, quando mi sorride, mi dimentico delle cose brutte che mi stanno intorno.”
Se questo non è amore, pensò Asahi, io non so cos’è.
“Premetto che non so tutto, di quello che co ha portato fino a qui” iniziò allora sospirando “So solo che l’ho trovato a dormire sotto ad un faggio, e che faceva freddo. Mi ha raccontato di aver litigato con sua madre ha causa della sua omosessualità –anche se questo non me lo ha detto subito-, e che non aveva un posto dove stare. Prima che tu mi interrompa per dirmi che sarebbe potuto venire a stare da te, Tsukishima, concorderai sul fatto che non sei proprio la persona più affabile del mondo. Non si può mai sapere come reagirai o cosa farai, e non biasimo il fatto che Tadashi non sia venuto da te.”
“Ha dormito in quel parco per tutto questo tempo?”
“Ma no! Ci è rimasto solo qualche notte, ho avuto la fortuna di trovarlo quasi subito ed è venuto a stare da me. È stato lui a chiedermi di non dire nulla a nessuno. Non voleva farmi pena.”
Quanto sei stupido Yamaguchi, continuava a pensare il biondo, pensi che ti avrei giudicato per una cosa del genere?
“Poi sul resto tu ne sai quanto me, penso che la maggior parte dei fatti avvenuti siano solo le conseguenze del casino che ha in testa, gli serve un po’ di stabilità, e quando mi ha baciato io ho sentito qualcosa, e non so se me la sento di tirarmi indietro per una persona che ancora non è sicura di…”
“Di cosa? Di quello che provo per lui? Ti sembro il tipo di persona che si fa tanti problemi per chiunque? Non serve amare per tenerci alla sicurezza e alla salute di una delle persone più importanti della propria vita, e se me lo permetti, senpai, dubito che tu abbia pensato a lui in quel modo prima di quel bacio, sapevi a malapena il suo nome…”
“Magari non ho un legame così profondo come il vostro, ma sono sicuro che in qualche anno sarei in grado di dare a Tadashi l’equilibrio che ha sempre avuto bisogno nella sua vita e che non hai mai avuto il coraggio di fargli avere.”
Non ci vedeva più dalla rabbia, non poteva certo mettersi ad urlare in mezzo ad un bar, insomma aveva anche lui un minimo di dignità; così prese il quaderno dalla borsa e lo porse all’altro.
Lui lo afferrò, nonostante lo sguardo confuso sul volto, e prese a sfogliarlo. La sua espressione diventava più fredda ogni pagina che sfogliava. Alla fine sembrava una vera e propria maschera di ghiaccio.
“Questo non cambia le cose, l’ultima cosa che ha disegnato è di metà novembre, noi ancora non ci eravamo baciati e…”
“E allora perché me lo ha consegnato oggi, urlandomi dietro che è innamorato di me?”
Silenzio.
Ancora silenzio.
“Io non mi arrendo. Va da lui e digli quello che provi, se vuoi, ma non ho intenzione di tirarmi indietro. Ho già commesso troppe volte questo errori e sono disposto a combattere.”
L’occhialuto si alzò, un sorriso sfrontato stampato sul volto. Le luci della stanza non permettevano una visione nitida del suo sguardo:
“Combattiamo allora.”
 
Non aveva idea di dove fosse Yamaguchi in quel momento: non rispondeva al cellulare e per ovvi motivi non poteva essere a casa. Aveva persino bussato alla porta degli Azumane, ma gli avevano detto che ancora non era rientrato.
Aveva deciso che sarebbe tornato a casa e avrebbe aspettato il giorno seguente, a scuola, per parlare con lui.
La strada era fredda e le ore di luce erano passate da un pezzo. Ma non gli dispiaceva la solitudine, inoltre la luna quella sera brillava tantissimo.
Stava per svolgere la solita deviazione, che in tutti quegli anni lo aveva separato e ricongiunto al suo migliore amico in ogni singolo giorno dell’anno, quando si rese conto che proprio lì, ad aspettarlo, con la schiena appoggiata al freddo muro di pietra, c’era proprio lui.
Appena lo vide si alzò in piedi e gli si avvicinò con aria circospetta. Kei, per la prima volta, non riusciva a sopportare il silenzio.
“Gradirei riavere il mio quaderno.” Disse il più basso, con il tono di voce calmo ma impastato dal pianto.
Non gli rispose. Calcolò in fretta che erano circa cinque i passi che gli separavano.
Percorrere il primo fu automatico.
“Oggi te ne sei andato, sei scappato.” Era decisamente arrabbiato.
“Mi hai lanciato addosso questo coso in cui hai pateticamente conservato ogni ricordo legato a me.” Percorse il secondo passo.
“Hai detto di amarmi.” Tre erano fatti.
“E te ne sei andato…” Quattro.
“Prima che potessi dirti che anche io ti amo.”
Lo sguardo stupito del più piccolo era impagabile, non si aspettava una cosa del genere.
“Ma non è possibile, tu, tu…”
“Stai zitto, baka*” Cinque. Gli prese il viso tra le mani, e dovette piegarsi leggermente, ma finalmente le loro labbra si incontrarono, scontrandosi e scoprendosi per la prima volta.
Le braccia di Tadashi circondarono le spalle di Kei, come per non farlo andare via. Era tutto così fottutamente giusto. Si separarono dopo un minuto, entrambi avevano il fiatone, ma nessuno dei due voleva allontanarsi.
“Io… io non so cosa dire, A-Asahi…” proprio non ci aveva pensato, all’asso, quando il biondo finalmente lo aveva baciato.
“Non preoccuparti per lui adesso, io non ho intenzione di lasciarti andare. Né adesso né mai.”
Entrambi sorrisero, il sorriso di Yamaguchi, aperto, felice, di chi ha appena realizzato tutti gli scopi della propria vita.
Tsukishima, più pacato. Lui non era bravo a mostrare le emozioni, ma dentro, un uragano stava scombussolando ogni parte del suo corpo.
Lo baciò di nuovo, solo per assicurarsi che tutto quello stava accadendo davvero.
“Altro che luna e stelle… siamo proprio un buco nero, io e te.”
 
Cara Shizuka,
Un po’ mi dispiace non poterti dire tutto questo di persona, ma ho bisogno di confidarmi con te, dopo tutto quello che è successo ultimamente:
Mi rammarico molto del fatto che tu non abbia voluto parlarmi della tua malattia, per quanto capisca (almeno in parte) le tue ragioni, avrei preferito vederti lottare di più.
I tuoi genitori mi hanno dato la notizia solo una settimana dopo che tu te ne sei andata. Avrei voluto saperlo prima.
Avresti potuto dirmelo tu, almeno, invece che inventarti la prima scusa plausibile passata per la tua strana, pazzissima testa. Anche se da una parte sono ancora arrabbiato perché mi hai mentito, tengo con cura i nostri mozziconi e la tua lettera nel mio comodino –nonostante se Asahi dica che fanno puzzare tutta la stanza, è sempre troppo buono con me e non mi chiederebbe mai di sbarazzarmene-.
Il rapporto con lui, ultimamente, è strano. Non che mi aspettassi qualcosa di diverso. Ha preso bene ciò che è avvenuto tra me e Tsukki, non mi ha urlato addosso o chiesto di andarmene, anzi, al contrario, mi ha detto che se mai cambierò idea, lui sarà lì ad aspettarmi. Ovviamente Kei col suo solito tatto da elefante gli ha immediatamente detto che non ce n’è bisogno, che ho già scelto lui una volta e che quindi lo farò sempre.
Anche se si è sforzato di sorridere, il suo sguardo mi è sembrato triste.
Con Tsukki va tutto bene, il nostro rapporto non è cambiato tanto quanto mi aspettavo: ci baciamo –naturalmente- e dio, i suoi baci mi fanno completamente perdere il controllo, la sua bocca sembra essere stata plagiata per congiungersi con la mia.
Ci teniamo la mano, anche a scuola, e nessuno è sembrato particolarmente sconvolto o disgustato in proposito. L’unica nota negativa è che ora i ragazzi della squadra non ci permettono di cambiarci nello stesso spogliatoio. Dicono che li mette a disagio il modo in cui Kei mi mangia con gli occhi.
Quando ce l’hanno comunicato abbiamo riso tutti, è bello sapere che questa novità non ha modificato lo spirito allegro del gruppo.
Comunque, mi manchi tanto, cerco di passare a trovarti almeno una volta a settimana, e spesso mi accompagnano anche Tsukki o Asahi, ma ora, con gli esami in arrivo, non so se riuscirò a continuare a farlo.
Adesso sigillo questa lettera, e la lego al palloncino che ti ho comprato.
Spero che il vento la porterà fino a te.
Con affetto,
 
Il tuo amico Tadashi

 
 
 
Fine


*Il Tonkatsu (豚カツ, とんかつ, o トンカツ, cotoletta di maiale) è un piatto della cucina giapponese. È composto da una cotoletta di maiale alta uno o due centimetri, impanata e fritta in abbondante olio. Una volta cotta la cotoletta viene tagliata in pezzi di piccole dimensioni (per poterli prendere agevolmente con le bacchette) e servita insieme a cavolo cappuccio tritato e zuppa di miso.   (Wikipedia)
 
*Baka vuole semplicemente dire idiota in giapponese.
 
 
Note autrice
 
 
Ehi,
Sono tornata con una TsukkiYama che doveva essere una cosetta da un massimo di mille parole ed è diventata una cosa enorme ma non me la sento di dividerla ahahah, nasce con One shot e resta tale!
Inizio col dire che l’idea di pubblicarla mi fa uno strano effetto, ci ho messo tantissimo a scriverla e wow finalmente posso condividerla con voi *-*
Spero che vi piaccia (se non è così fatemelo sapere tranquillamente :3) e spero di riuscirne a scrivere una specie di seguito basato sul triangolo tra Kuroo, Kenma e Oikawa. Li amo ahahahah.
Perdonatemi anche per eventuali errori, suggerimenti e correzioni sono ben accette!
Ringrazio tantissimo la mia amica Elish perché mi ama anche se le riempio la testa di cagate in ogni momento della giornata, la costringo a subirsi i miei scleri su ogni singolo anime o manga che leggo/ guardo e soprattutto per il bellissimo disegno che mi ha fatto e che rappresenta la bocca di Tsukishima (che è l’amore mio) dal punto di vista di Yama. Sai che ti vi bi :3
Bacioni,
Kat
 
   
 
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