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Autore: lady igraine    15/01/2017    1 recensioni
Demian ha quasi sedici anni, è armato della tragicità di un adolescente e dell’esperienza di vita di un uomo fin troppo intraprendente. La sua esistenza è in costante bilico tra un morboso amore per la propria famiglia, afflitta dal dramma della malattia terminale della madre, ed un mondo più oscuro, di amici poco raccomandabili che gli permettono di sfogare i sentimenti più ombrosi e repressi della sua anima. È in questa fase che lo incontra Arianna, infantile, irrequieta e altrettanto problematica ragazza, dotata di un instancabile sorriso che cela più malinconie e segreti che gioie. Sono tre, i mesi decisivi, quelli che, nel bene e nel male, lasceranno un segno indelebile nelle loro vite.
***
La coscienza era una bestia oscura che divorava da dentro, lasciando sempre l’impressione di facciata che tutto andasse bene.
"Le persone, da fuori, sembrano indistruttibili, perfette come bambole di plastica che non si possono rompere. È il dentro che è una fregatura, un agglomerato di marciume infilato a forza tra gli organi, da qualche parte"
La sua coscienza era terribile più di tutto, le toglieva molte cose, una ad una, con la noncuranza con cui un bambino strappa i petali ad una margherita
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ANGOLO AUTRICE

 

Ben ritrovati viandanti lettori!

Ora, provo un leggero imbarazzo per quello che state per leggere, quindi, ehm… beh, ecco… non c’è niente di peggio che balbettare pure per iscritto, come se non lo facessi già abbastanza dal vivo!

Allora, niente, io a scrivere di certi momenti delicati sono un disastro, soprattutto qui dove non doveva essere nemmeno un momento troppo delicato…

Argh, insomma, significa che potrei aver fatto scempio, ma doveva succedere e quindi sto pazientemente cercando di mettermi l’anima in pace e di non seppellirmi in giardino dopo essermi tirata una pala in testa da sola!

Se avete consigli per migliorare quel particolare momento, fatelo, vi prego, perché sono veramente un’inetta. Sarà che nero su bianco tutto sembra sempre terribilmente più volgare, non è incredibile?

Ah, scusate le volgarità, mi ero ripromessa di scusarmi anche in passato per il lessico non troppo candido usato dai personaggi. Normalmente sono contraria alle parolacce nei libri, ma dipende sempre dal racconto e, con i personaggi presenti in questa storia, dialoghi dai toni colti sarebbero suonati troppo fuori luogo.

 

Grazie dell’attenzione!

 

 

 

À Demian


Capitolo quarto (seconda parte)

Per caso

L’ospedale non era lontano dal suo liceo e, più per abitudine e istinto che per scelta, Demian si era ritrovato nel grande parcheggio adiacente al pronto soccorso e lì aveva lasciato il proprio motorino.

Gli Ospedali Riuniti avevano due grandi parcheggi, uno dei quali sul retro del padiglione principale, e vantavano una struttura estremamente singolare, una serie di edifici scollegati l’uno dall’altro raccolti intorno ad un grande cortile centrale e raggiungibili attraverso dei sentieri di sampietrini consumati.

Demian non aveva più avuto bisogno di passare dalla reception per sapere che sua madre era collocata nel padiglione centrale, a volte si fermava lo stesso solo per dare a Marisa un saluto, quel giorno però non ne aveva avuto voglia.

Aveva preso una cioccolata prima di entrare nella camera di maman, e quando lei lo aveva visto aveva smaniato come una bambina.

«Hai già bevuto?»

Le aveva sorriso con condiscendenza «No maman, non ancora»

Allora lei, proprio come se una bambina lo fosse davvero, aveva teso le braccia strizzando le dita «Dammi subito quel bicchiere!»

Rassegnato le aveva consegnato la bevanda e Jenevieve l’aveva assaggiata appena, facendo schioccare le labbra secche con soddisfazione «Ok, puoi berla».

Gli aveva restituito il bicchierino di plastica e Demian aveva sbuffato «Lo sai che non è necessario tutte le volte, vero? Va bene che le infermiere non mi sopportano, ma nessuno proverà ad uccidermi nell’immediato futuro… spero»

A Jenevieve non importava niente, era un rituale suo che Demian non comprendeva ma assecondava, perché lei sembrava incredibilmente felice e appagata dopo, e sorrideva con tutti i denti tra sé e sé, una sua piccola e poco chiara soddisfazione personale.

Aveva preso una sedia e si era accomodato accanto a lei, ma maman era stanca e poco dopo si era addormentata, lasciandolo nel suo contemplativo e abituale silenzio davanti alla parete bianca e spoglia. Il letto accanto a sua madre non era ancora stato occupato da nessuno ed il silenzio assoluto riusciva solo ad amplificare il senso di risucchiante vuoto che tutto quel bianco gli causava.

Era una parola strana “bianco”, sbiadita, che si ripeteva all’infinito come un’eco nella sua testa fino a perdere senso, o forse se la ripeteva proprio per non pensare ad altro.

Quando Jen dormiva le stringeva piano la mano e con la punta delle dita leggere ripercorreva il corso delle vene di lei su fino all’incavo del gomito e poi ancora al polso. Sembrava tanto fragile e dolce che non poteva fare a meno di diventare estremamente delicato con lei, sapeva d’indifeso, un corpo friabile di ricordi lontani.

Inizialmente aveva deciso di raggiungerla quella sera, ma al pensiero di non poter vedere la sua Sarah, per ricevere quel perdono che sapeva di benedizione, era stato preso da un tale attacco di nostalgia e solitudine da non potersi impedire di correre da sua madre, come un bambino alla disperata ricerca di un posto sicuro dove rifugiarsi.

Maman era sempre stata il suo rifugio dal mondo e quando la rivedeva, evanescente sotto le coperte di cotone, provava solo un profondo senso di mancanza e capiva con quanta disperata angoscia la rivoleva a casa con sé. A volte era davvero difficile prendersi cura di lei e il peso di quella responsabilità lo opprimeva, ma la verità era che era troppo debole per avere solo se stesso, non riusciva a sopportarlo. Ogni volta che la ricoveravano Demian finiva con il girare a vuoto cercando di restare ovunque meno che in casa sua, dove un silenzio fatto di vuoto e abbandono lo uccideva lentamente, lo demoliva lasciandolo spossato, fragile e insicuro come quando era piccolo.

Era tragicamente facile allora, in quei momenti di debolezza, lasciarsi trasportare dalla corrente per ricadere nel solito baratro di errori e ricordi che voleva seppellire, che fingeva di archiviare senza mai riuscirci davvero, perché lui era un nostalgico e sapeva solo vivere delle proprie ferite e delle cose che aveva saputo perdere, di quelle che avrebbe perso, che non  aveva la forza di affrancarsi a nulla e aveva la sensazione che ogni cosa fosse destinata a cadere oltre il baratro della sua esistenza per lasciarlo solo nel nulla.

Era tragicamente facile allora ricordare la voce di suo padre, ricordare di come fosse tornato a casa un giorno e, semplicemente, papà non ci fosse più su quel divano, con la sua chitarra e una birra e quel volto annebbiato che Demian non riusciva più a tratteggiare nella propria memoria.

Era facile risentire le parole che non avrebbe mai dovuto ascoltare e che gli avevano sfregiato l’anima. Non era colpa di suo padre, Dem se lo era ripetuto spesso, era normale che quell’uomo sconosciuto lo avesse vissuto come un difetto di fabbrica, che parlasse di lui con quel tono accorato per la sua condizione fisica che lo disturbava. Non era il figlio che dei genitori avrebbero voluto e non si era mai fatto illusioni, non più, non dopo aver sentito papà manifestare la propria speranza di una secondogenita sana perché non avrebbe sopportato che anche lei fosse così.

Era stato quel giorno che Demian lo aveva capito con chiarezza, in lui qualcosa era sbagliato, non era normale e non avrebbe mai potuto esserlo.

Era facile poi risentire la mano fra i capelli, in una carezza leggera e labile, quando gli avevano detto con fin troppa tranquillità, come se davvero lui non fosse in grado di comprendere la portata di quelle parole, che Sarah era fragile, era unica e debole e andava protetta.

Che se non fosse stato attento l’avrebbe persa, e l’avevano detto così, pacificamente, senza rendersi conto di quanto in realtà gli stessero facendo male in un modo nuovo da cui non poteva ancora difendersi.

Era tragicamente facile ricordare Il Giorno Più Brutto e pensare ogni volta che suo padre era solo questo, una raccolta di frammenti sfocati dalla nebbia dell’età e marciti per il risentimento di dieci anni di amarezza.

Si soffermò sulla pelle morbida e sottile come carta velina del polso di maman e ascoltò il pulsare lento del sangue a ritmo con il suo cuore. Era ancora bella come durante l’estate appena passata, sul suo viso c’erano ancora tracce di delicato sole e a Demian sembrava quasi di vederla nel giardino di casa, sul dondolo usurato con una bandana vivace in testa mentre guardava Jean che litigava con il vecchio tagliaerba e rideva.
Ci si aggrappava al suo sorriso, alla tenerezza con cui le dita affusolate di maman sfogliavano libri di poesie, ma se lei non c’era quel ricordo non bastava, e i bocconi amari tornavano e restavano incastrati in gola ed il senso d’inadeguatezza lo attanagliava.

Come poteva non vedere Sarah per giorni?

Si sentiva ridicolo e meschino ad avere sempre un bisogno tanto disperato di lei che era troppo piccola.

Bussarono piano alla porta, più per attirare l’attenzione di lui che per chiedere il permesso visto che Jenevieve dormiva.

Demian alzò lo sguardo da sua madre per incontrare le iridi d’oro liquido di zia Claire.

Ed eccola, la nostalgia, Claire era una fotografia vivente di maman ringiovanita di qualche anno, quando ancora la malattia non l’aveva sfibrata. Erano cresciute come gemelle e come gemelli i loro volti si ricalcavano. Gli stessi incredibili occhi dal taglio obliquo e indagatore, ornati da pesanti ciglia che quando si abbassavano lasciavano appena intravvedere stralci d’ambra, gli stessi tratti magri, levigati nella mandibola, la stessa linea della bocca, ma le labbra di Claire erano piccole, rosa pastello, mentre maman era come lui, aveva labbra carnose e piene.
Entrambe erano bionde, una colata di miele denso, il medesimo che screziava anche la chioma un poco più scura di Sarah, solo che la zia aveva i capelli mossi e ribelli, con qualche buffa ciocca che si arricciava in molle e che lei tratteneva con forcine e fermagli, mentre quelli della sorella maggiore erano lisci e disciplinati.

Si alzò senza far rumore e si avvicinò piano alla zia, per salutarla con un bacio sulla guancia. Dovette chinarsi per poter arrivare a lei, che era tutta contenuta in una botte piccola che sfiorava il metro e sessanta.

La mano di Claire corse subito al viso, tastandogli lo zigomo, e Demian sussultò per la sorpresa e il leggero bruciore «Che cosa ti sei fatto?»
Era sbiancata e non si contenne nel manifestargli tutta la sua apprensione. Continuò ad esaminargli il livido, premendo verso l’esterno, come se così le fosse stato possibile capire quanto fosse estesa la lesione e se si fosse rotto qualcosa. Un brivido di dolore lo obbligò a chiudere gli occhi, le afferrò i polsi e la costrinse con delicata fermezza ad abbassare le mani, scuotendo il capo «Ne parliamo dopo» sillabò con le labbra, e le sorrise con affettata serenità prima di uscire e di chiudersi la porta alle spalle.

Si appoggiò alla superficie di legno con tutto il corpo, liberando un pesante respiro. Doveva andarsene prima che Claire avesse finito, quella era una spiegazione scomoda che non avrebbe mai dato a sua zia. Certe cose non poteva condividerle con Sarah come con un qualunque altro membro della famiglia, visto che nessuno s’immaginava davvero che genere di vita facesse o che tipologia di persone avesse preso l’abitudine di frequentare negli ultimi due anni.

Si avvicinò alla finestra bianca in fondo al corridoio e la spalancò, accogliendo a pieni polmoni l’aria fredda d’inizio autunno. Era una brezza leggera ma il contrasto con il calore dell’ambiente interno gli intorpidì comunque il viso, Demian si sporse oltre il davanzale per poter respirare a fondo quel clima umido.

Avrebbe voluto che Julian fosse già di ritorno perché era l’unico a cui avrebbe potuto parlare con onestà dei propri turbamenti o almeno l’unico con cui avrebbe potuto condividerli in silenzio. Quando lo avesse rivisto non glielo avrebbe detto però, che aveva sentito la sua mancanza. Doveva solo stringere i denti, sopportare e sopportare ancora un poco, con più pazienza, poi sua madre sarebbe stata dimessa, Jules avrebbe ricominciato a girargli intorno e il suo mondo si sarebbe riassestato. Solo un altro poco ancora, prima della prossima tregua.

Prese una sigaretta dal pacchetto custodito nella tasca dei jeans e la posò mollemente fra le labbra, tornando a guardare fuori il cortile interno di magnolie moribonde. L’autunno non gli dispiaceva, bastava che non ci fosse troppo sole per farlo, se non felice, almeno vagamente contento, aveva un rapporto conflittuale con la luce che fin dall’infanzia lo aveva perseguitato.

Notò allora, distrattamente, una macchia arancione comparire come un fiore in campo verde, e senza accorgersene iniziò a seguire quel colore inaspettato con la coda dell’occhio, quasi sorpreso, ché lì in ospedale c’era solo bianco e tutto era pesante, eppure in quei movimenti c’era una strana leggerezza che aveva già conosciuto e mai compreso.

Quell’unica nota di vita tra gli alberi nudi e scheletrici si traduceva nella fragile e sottile figura di una ragazza, troppo sfocata dalla distanza. Soffiò fumo e si sporse istintivamente un poco più fuori, per soddisfare la curiosità che quella buffa creatura, vestita da zucca matura che si muoveva candidamente su un letto di foglie morte, aveva appena risvegliato. Riconosceva del celeste nella gonna che le si agitava leggera attorno alle gambe, parzialmente nascosta da una grande felpa arancio violento, metteva a stento a fuoco una matassa di capelli probabilmente ricci che si agitava come la coda a batuffolo di un coniglietto esagitato. Tutto di lei dava quell’impressione naturale di buffo e tenero, come di bambina.

Come Sarah, gli veniva da pensare, ed era un pensiero strano e nostalgico, perché in quella sconosciuta riconosceva come un’intuizione, un inspiegabile impulso ancestrale, quella delicatezza ingenua che amava tanto nei gesti e nell’esistenza stessa di sua sorella.

Stonava, nella tristezza apatica che gli aveva sempre trasmesso l’ospedale, in quel mondo bianco e vuoto di cespugli secchi e natura in declino sapeva solo provare sensazioni stantie e si sentiva vecchio e stanco, sfibrato da una spossatezza così prevaricante da lasciarlo inerme. In tutto questo lei era una nota di colore fuori dalle righe, un contrasto inadeguato e tanto assurdo da rasserenarlo.

Non si accorse subito di aver appoggiato la testa piano al telaio della finestra, si era adagiato con la pacatezza con cui riposava sul seno di sua madre talvolta, quando voleva solo essere cullato e sentiva il cuore svuotarsi di ogni oppressione. Non si accorse nemmeno di aver inclinato le labbra nel primo accenno spontaneo di sorriso mentre la guardava chinarsi, forse per cercare qualcosa, Demian non riusciva a capire cosa ma non gli importava.

Un blocco di cenere cadde senza rumore dalla sigaretta che stringeva tra le dita e che andava consumandosi, ma non aveva più voglia di nicotina, voleva restare immobile a respirare la vita labile di quella ragazza che riusciva a stordirlo anche solo da lontano.

Avrebbe voluto avvicinarsi forse, per vederla meglio, per sapere la sua espressione e conoscere la linea del suo viso, per sentire quel peso sullo stomaco sciogliersi in una nuvola di nulla e scivolare via, perché era quello il vuoto che provava, un vuoto sereno che sapeva di cielo terso dopo settimane di tempesta.

Spense il mozzicone e richiuse la finestra con lentezza, ancora avvolto dalla calda coperta di un sentimento inspiegabile e familiare che aveva conosciuto solo attraverso la sua piccola bestiolina.

Era l’apparente spensieratezza che l’aveva ingannato, non aveva potuto fare a meno di sovrapporre alla figura sfocata di un’estranea Sarah, perché era lei che aveva desiderio di vedere ed era lei che avrebbe voluto osservare giocare.
Non riusciva mai a pensare a sua sorella adulta, e questo lo tormentava terribilmente, più di quanto volesse ammettere con se stesso, la paura di perderla lo ancorava al presente e il domani non esisteva, nulla gli faceva più male di questo. Non sapeva contenere il terrore primordiale di non poterla rivedere ed ogni volta che era troppo in difetto con se stesso, forse per fatalismo, non riusciva a non essere sopraffatto dall’ansia, come se non potesse incontrarla più se avesse perso anche solo una minima occasione di trascorrere del tempo con lei.

In quella ragazza però, per la prima volta, aveva intravisto come avrebbe voluto che fosse Sarah da grande, ancora leggera, ancora spontanea, piena di un’innocenza mai sporcata.

Era sempre terribilmente in ansia se si trattava di sua sorella e troppo irrazionale, il suo naturale pessimismo lo abbatteva sempre prima che riuscisse a costruirsi delle speranze e il suo traballante equilibrio interiore vacillava al punto che bastava una semplice sconosciuta vestita da zucca che gliela ricordasse per fargli tirare un’insospettata boccata d’ossigeno tra il malessere.

Decise di andarsene mentre la zia era ancora impegnata nella camera di maman, per risparmiarsi una scenata che avrebbe intaccato il suo fin troppo instabile buon umore.
Si sentiva ridicolo ma non voleva ammettere di star decisamente impazzendo, voleva illudersi ancora un poco di essere abbastanza forte da poter sopportare quella situazione a lungo, ché la forza doveva inventarsela se non c’era e lui di scelte alternative non ne aveva. Sapere di non avere possibilità però non lo aiutava a restare lucido, e niente a suoi occhi era più drammatico del diventare irragionevole e ingestibile.

Non voleva spezzarsi.

Non voleva anche quell’umiliazione, controllarsi era ciò che gli aveva permesso di restare in piedi e non riusciva nemmeno a concepire cosa ne sarebbe stato di lui se non ci fosse più riuscito.

Raggiunse la hall e cercò da lontano Marisa, ma l’infermiera non era nei paraggi e dietro al banco informazioni, a parlare con una donna bionda dall’aria sfatta, c’erano solo volti poco noti.

Si rassegnò a non vedere la signora per quel giorno e fece nuovamente per uscire all’aperto, quando due braccia si serrarono con inaspettata decisione attorno al suo collo.

Riconobbe il familiare profumo d’ibisco e la morbidezza di quella pelle di caramello sciolto, così in contrasto con la propria, candida.

«Sei di buon umore oggi?» gli sussurrò sfiorandogli l’orecchio con le labbra grandi. La sua cadenza veneta gli parve la cosa più scontata e ovvia del mondo e ne provò un affilato fastidio, un disagio insopprimibile di cui non riusciva a sbarazzarsi.

Sentiva il seno soffice e abbondante contro la schiena e le mani di Elena aprirsi sul suo petto, facendolo sussultare.

«Dami, sei più distante del solito» avvertì il sospiro caldo di lei sul collo e si morse l’interno della guancia per non rabbrividire «So che non lo facciamo spesso, ma puoi anche parlarmi»

«Non servi per parlare» rispose pacatamente, e lei s’irrigidì contro di lui per un breve istante, il tempo di ferirla e che quelle parole attecchissero.

Poi Ellie annuì «Hai ragione» le mani dalle dita lunghe, quelle dita da pianista mancata e infermiera fallita, scivolarono lentamente verso il bordo dei suoi jeans e lì si insinuarono accarezzandolo con esasperata lentezza «Se ne hai voglia allora…» gli prese il lobo tra i denti e lo succhiò e lambì con la lingua, in una provocazione che lo fece eccitare.

Le bloccò subito il polso e si voltò di scatto, guardandosi attorno per controllare che nessuno avesse notato i giochetti istigatori di Elena e quella sceneggiata da denuncia per atti osceni in luogo pubblico, il personale però era completamente dedito alla signora bionda e non aveva prestato loro nessuna attenzione. Per il resto, le seggiole della saletta d’attesa davano loro la schiena e sembrava che le poche persone sedute non li avessero notati.

Allora si concentrò su Ellie, che dai pochi centimetri in meno che aveva lo studiava con i grandi occhi da cerbiatta liquidi di desiderio, i corpi che si sfioravano. Avrebbe voluto baciarla, ma con cattiveria, avrebbe voluto morderla fino a ferirla e sentirla lamentarsi e sopportare e trattenere il pianto con quelle sue immense iridi lucide di voglia e dolore.

Avrebbe voluto e se ne vergognava.

 

Perché, perché le permetto ancora di toccarmi?

 

Eppure non riusciva a farne a meno in qualche modo, anche se non la sopportava e la trovava sì bellissima, ma in maniera così superficiale da risultarne scialba. Non sapeva nemmeno come avrebbe dovuto considerarla.

A volte la vedeva come un’amica o almeno s’imponeva di crederlo, ma lei era la prima e l’unica con cui avesse fatto sesso e l’unica da cui accettasse di essere toccato e per questo si ritrovava ad odiarla la maggior parte delle volte.

Gli piaceva, il tocco di Elena, era sensuale e eccitante. Gli piaceva quel tipo di rapporto che avevano sviluppato, in cui non doveva aspettarsi o desiderare di più: semplicemente lei era bella, disponibile a sopportare i suoi malumori in silenzio e disponibile anche in molti altri sensi.

Provava per lei solamente attrazione e i loro bisogni s’incastravano perfettamente, che poi Ellie fosse sciocca e indisponente non contava, che la odiasse, che lui fosse solo un altro della sua lista da femme fatale, non doveva importargli, andava bene lo stesso.

Elena lo conosceva molto bene ed era brava a leggerlo, gli si spalmò addosso e gli prese la mano libera, quella che non le stava trattenendo il polso, per portarsela fra le gambe.

Dem riuscì a stento a deglutire e si accorse di essersi indurito.

«Quando vuoi» gli ammiccò maliziosa, un sorriso soddisfatto sul volto da strega. Avrebbe voluto sbatterla contro il primo muro accessibile e scoparsela, che tutti vedessero che dannata, prevedibile stronza era e di come nascondesse sotto il sorriso affabile e dolente e il suo aspetto avvenente tutto il suo egoismo e la sua superficialità da prostituta d’alto borgo.

Ritrasse la mano e, continuando a tenerla saldamente per il polso, attraversò le porte scorrevoli e abbandonò il padiglione principale. Aveva paura di non riuscire a frenare il proprio istinto e di finire veramente con il compiere un’azione riprovevole davanti a tutti, perché quello era l’effetto terribile che Elena aveva su di lui e non era mai riuscito a combatterlo. La trascinò malamente sul retro dell’edificio, stringendo con più forza del dovuto e ignorando le lamentele di lei che piagnucolava con scarsa convinzione.

«Dami mi fai male»

La spinse contro il muro e la congelò con un’occhiata furibonda che la zittì all’istante. Ellie deglutì a fatica, ma poi gli sorrise e Demian pensò ancora, con rabbia, che tutto il male che desiderava farle lei lo meritava sempre, sapeva solo distruggere tutto e rovinare la sua perfetta bolla di pace. Le infilò la mano fra i capelli e la baciò con cattiveria, schiacciandola contro la parete e mordendole le labbra fino a farla gemere per il dolore. Le mani di Elena gli aprirono la felpa e la gettarono da qualche parte, poi s’infilarono sotto la sua maglietta. La pelle fredda di lei che seguiva il percorso degli addominali gli dava brividi di freddo e piacere. Demian interruppe il bacio e le aprì la bocca con le dita perché le succhiasse. Quando furono abbastanza umide, con poca grazia le scostò l’elastico dei pantaloni di cotone della sua divisa e il bordo delle mutandine, per infilare poco gentilmente due dita dentro di lei.

Elena mugolò, con quella nota dolente che Dem aveva sentito troppo spesso. Poi l’infermiera s’inarcò in avanti tra le sue braccia e cercò ancora le sue labbra, in un bacio che Demian non riuscì a non ricambiare, anche se non avrebbe mai voluto darle della tenerezza. Quando Elena sospirava nella sua bocca la sua eccitazione in quel modo la sua erezione pulsava in maniera dolorosa e la desiderava con un tormento inaccettabile.

Non aveva smesso di lubrificarla e di giocare con le dita durante quello scambio, e quando si accorse che il respiro di Elena si stava facendo troppo pesante ed era ad un passo dal piacere, Demian ritrasse la mano suscitando in risposta un ringhio di disappunto.

Allora le sorrise ironico, mostrandole il canino «Tocca a te» le sussurrò all’orecchio, mordicchiandole poi la pelle del collo per lasciarle un vistoso segno.

Sapeva di non doverlo fare, Elena era sempre stata chiara, non dovevano restarle dei segni o Simone avrebbe dubitato di lei, ma non gli importava niente, trasgrediva ogni volta e lei alla fine non opponeva resistenza. Ed infatti ancora una volta Ellie inclinò il collo per facilitargli il compito.

«Sei un viziato, ti ho abituato troppo bene» si lamentò.

S’inginocchio davanti a lui e gli abbassò la cerniera dei jeans senza esitare, ma non fece in tempo nemmeno a sfiorarlo, entrambi si bloccarono nel sentire un urlo improvviso alle loro spalle.

Demian allontanò Ellie facendo pressione sulle sue spalle, richiuse i jeans e si volse con sgomento, sperando di non essere stato beccato. Lo sgomento si trasformò in orrore quando riconobbe poco lontano una ragazza con la felpa arancio e la gonna celeste e una matassa di riccioli. Si sentì per un istante così svuotato che pensò davvero sarebbe svenuto, le gambe erano molli e probabilmente doveva essere più bianco di un cencio.

Di tutte le persone che avrebbero potuto imbattersi in quello scabroso spettacolo, quella sconosciuta era l’unica da cui non avrebbe mai voluto essere visto, perché sembrava ingenua e tanto sciocca e sembrava Sarah… e gli veniva da vomitare.

La ragazza però non li stava nemmeno guardando, Demian ci mise qualche secondo per realizzare questo dettaglio. Era caduta a terra, il ginocchio magro e spigoloso le sanguinava e lei, a così pochi metri da un momento tanto inopportuno, era concentrata solamente a tamponare, con le labbra arricciate in malumore, la piccola ferita.

L’orrore scomparve rapidamente e Demian rimase perplesso a studiare quella rara creatura ignara del resto del mondo mentre con uno sbuffo si rialzava, spazzolandosi gambe e gonna, e poi si chinava a raccogliere delle foglie sparse a raggiera intorno a lei. In un lampo di comprensione Demian capì che poco prima, nel cortile, era probabilmente questo quello che stava facendo, stava raccogliendo le foglie cadute.

Valutò che non doveva essere un genio, ma era terribilmente carina, così corrucciata e assorta.

Finalmente la ragazza alzò il viso permettendogli di vederla per davvero e Demian, che aveva pensato di avvicinarsi, di aiutarla forse, si ritrovò immobile e senza parole, con le ghiandole salivari che lo avevano abbandonato e la bocca arida come il Sahara.

I due boccoli scuri sfuggiti alla coda riccia incorniciavano un volto candido di porcellana e in contrasto con la pelle chiara e i capelli scuri, le labbra morbide sembravano rosse come lamponi. Era alta e la sua magrezza la faceva apparire ancora più sottile ma non goffa, quasi aggraziata nonostante l’imbarazzo infantile che caratterizzava ogni suo gesto.  Ciò che più lo aveva spiazzato di quell’incredibile volto dall’aria distratta e serena erano gli occhi grandi dal taglio orientale. La distanza non gli permetteva di distinguerne il colore, ma erano abbastanza espressivi da manifestare tutta la perplessità e l’imbarazzo che l’avevano colpita.

Demian non ne comprese il motivo, se non fosse stato che fino a pochi attimi prima era lui quello in procinto di compiere atti osceni in luogo pubblico, avrebbe giurato dalla reazione che la ragazza aveva avuto che era lei ad essere stata colta in flagrante mentre stava facendo qualcosa che non avrebbe dovuto.
Come a supportare quest’impressione, la vide arrossire fino quasi a sfiorare il colore della propria felpa.
«Non è come sembra!» esclamò nascondendo dietro la schiena le foglie che aveva appena raccolto «Cioè io… non…»

Demian era troppo sconcertato per andarle in aiuto, riusciva solo a esaminarla con le sopracciglia aggrottate ed una notevole confusione di congetture in testa. Lei si guardò attorno rapidamente, come alla ricerca di una qualche giustificazione che non le veniva, e Dem comprese dall’aria spaesata e innocente che non si era resa conto di aver interrotto qualcosa.

«Io devo andare!» balbettò imbarazzata e senza permettergli di ribattere qualunque cosa, quasi con un pirouette, si volse e corse via. Rimase immobile ancora per un momento e si sentì uno sciocco. Ellie che si schiariva la gola lo risvegliò dalla catalessi nella quale era caduto. Si era dimenticato della presenza dell’infermiera, altrettanto confusa ma decisamente meno affascinata di quanto non fosse lui dalla ragazzina appena scomparsa. Decise di non guardare più Elena in volto, recuperò invece la sua felpa e se la rimise senza chiuderla, prima di raggiungere il punto dove la ragazza era caduta. Era rimasta una foglia a terra, una foglia rossa che sfumava nel giallo. La raccolse e rigirò il gambo sottile tra le dita, facendola ruotare.

Era bella, non sapeva perché ora questo pensiero lo stesse folgorando come una verità assoluta, non gliene era mai importato nulla e non erano mai state altro che un elemento di corredo dell’autunno, le foglie, eppure ora la fissava e ci credeva davvero, che fosse bellissima. Ché se tutti gli alberi avessero avuto quella gradazione il cortile di quell’ospedale sarebbe stato meno triste, eppure forse quella sfumatura l’avevano avuta per tutto il tempo e lui per abitudine e noia non ci aveva mai prestato attenzione.

Nondimeno gli bastava pensare a quella ragazzina che come la peggiore delle bambine di cinque anni si dedicava ad un passatempo tanto sciocco e ci trovava un senso ed una bellezza che gli erano sempre sfuggiti. Disorientato si guardò attorno come se fosse potuta ricomparire da un momento all’altro.

Raccoglie foglie, non deve essere sicuramente un genio. Anzi, sembra non aver nemmeno capito in che razza di situazione è incappata. No, non è un genio.

 

E, nonostante questo, gli piaceva il suo volto, era bella in modo anticonvenzionale, anche con quel corpo spigoloso. Era bella per quegli incisivi che aveva notato essere divisi, per come in pochi secondi aveva mostrato venti espressioni diverse e aveva arricciato le labbra in modi astrusi e ridicoli, era bella per quegli occhi dal colore sfuggente, perché nell’insieme era una presenza tanto luminosa da risultare abbacinante. Davanti a persone come lei Dem sapeva solo chinare lo sguardo, erano come l’estate e lui non riusciva a sopportare la presenza del sole, non riusciva più a vedere nulla. L’aveva intuito già da quella finestra, che lei era questo, lo aveva capito perché con la sua sola presenza lo aveva riempito in qualche maniera di lei, di quel modo di essere che era l’opposto del suo.

Aveva su di lui un effetto stordente.

«Dami?»

La voce di Ellie ancora una volta lo riscosse. La vide appena, d’un tratto l’ascendente che con un solo sguardo aveva sempre esercitato su di lui non lo scalfì, al contrario quasi si meravigliò di trovarla ancora lì quando lui già l’aveva scordata.

«Dami stai bene?»

Infilò la foglia nella tasca della felpa e annuì distrattamente.

«Ci vediamo» bofonchiò, e se ne andò dedicandole uno sbadato gesto della mano.

La verità era che si sentiva stranamente bene e non voleva vedere Ellie, non voleva rischiare che di nuovo distruggesse la quiete che stava provando da quando aveva incrociato il volto di quella ragazzina troppo bella per essere vera.

  
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