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Autore: Piperilla    16/01/2017    1 recensioni
Elisa non era mai stata sola come in quel momento: sola ad affrontare un'illusione distrutta, e delle speranze svanite nel nulla come fumo portato via dal vento.
Solo una cosa era ancora con lei, a farle compagnia: il mostro annidato nel suo petto, e i suoi artigli intenti a squarciarla dall'interno senza pietà. E, forse, Dio.
[Storia partecipante al contest "Magiche emozioni" indetto da Dollarbaby sul forum di EFP]
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’autostrada era immersa nell’oscurità vellutata della notte.
   La luce proiettata dai fari della Citroen C3 rimbalzava sull’asfalto scuro come il cielo, strappando al buio assoluto soltanto una misera porzione di strada: una via infinita in cui le auto erano solo schegge in transito, simili a fuochi fatui impazziti.
   Elisa schiacciò con più decisione il piede sull’acceleratore, incurante dei limiti di velocità: la A24 era deserta, e sebbene questo riuscisse a darle un illusorio senso di pace, percepiva la spinta ad andare sempre più veloce, quasi che quello fosse l’unico modo di seminare i pensieri che le avvelenavano la mente.
   Mentre macinava un chilometro dopo l’altro, la donna si permise di lasciar vagare la propria mente, tornando a quanto era successo solo due ore prima.
   Fabio era stato il suo grande amore, l’unico dopo quella prima, disastrosa relazione in cui si era trovata invischiata da adolescente: per due anni erano stati insieme, tanto da spingerla a mettere da parte sempre di più la paura e la diffidenza che per lungo tempo le avevano impedito di avere un rapporto sentimentale stabile. Lui era stato davvero l’unico: l’unico ad avere avuto la pazienza di rispettare i suoi tempi, l’unico ad avere avuto la voglia di tirarla fuori dal guscio che si era costruita intorno, l’unico a esserle apparso meritevole dei suoi sforzi, e di rischiare di nuovo quel cuore malamente rappezzato che si portava dietro.
   Fabio era stato l’unico a entrarle sotto la pelle tanto da farle ammettere di essersi innamorata.
   Elisa scosse per un attimo la testa mentre imboccava lo svincolo giusto, rallentando appena. Col passare dei mesi, si era convinta che Fabio fosse l’uomo perfetto: si era lasciata andare, ammorbidendosi tanto da stupire chiunque la conoscesse, e la parte di lei più piccola e maltrattata, quella che aveva relegato in un angolo per non soffrire mai più, aveva ripreso gradualmente spazio, persuadendola che magari in un futuro non troppo lontano avrebbe potuto avere ancora di più – che un giorno Fabio sarebbe stato non più solo il suo compagno ma anche il suo migliore amico, suo marito, il padre dei suoi figli; che le sarebbe stato accanto sempre, e che lei sarebbe stata come tutte le sue amiche e conoscenti, nonostante per anni le avesse guardate sentendosi parte di un’altra razza, aliena a quelle gioie che le sembravano precluse da quelle vecchie cicatrici dell’anima mai del tutto rimarginate.
   Dire che era rimasta sorpresa quando, solo tre settimane prima, Fabio aveva bruscamente messo fine alla loro relazione, era un eufemismo. Fino a quel momento era stata convinta che tutto stesse andando bene: certo, il senso di euforia dei primi tempi si era attenuato, ma aveva creduto che dipendesse soltanto dal fatto che ormai si conoscevano bene, e che quello fosse il passo successivo nella loro storia. Così, anche dopo che Fabio l’aveva lasciata senza più farsi vedere né sentire, Elisa si era detta che forse era stato solo un momento di confusione, o di paura, e che sarebbe tornato presto da lei.
   Quella sera, però, anche quell’ultima illusione era andata in frantumi.
   Uscire con alcune colleghe di lavoro le era sembrata una buona idea per smettere di tormentarsi almeno per un paio d’ore: continuare a rimuginare sul suo fidanzato non l’avrebbe aiutata a stare meglio, né a farlo tornare più in fretta sui suoi passi. Per un po’, aveva funzionato: le chiacchiere allegre delle altre e un buon bicchiere di vino l’avevano resa gradualmente più allegra, e un senso di leggerezza, dapprima impercettibile, aveva iniziato a gonfiarsi nel suo petto.
   Era stato solo quando aveva visto entrare Fabio nello stesso locale, sorridente e abbracciato a un’altra donna, che quella parentesi di tranquillità era esplosa come una bolla di sapone.
   Un tremito d’incredulità l’aveva scossa dalla testa ai piedi, e per un angoscioso minuto, aveva comunque cercato di giustificarlo: magari quella sconosciuta era soltanto un’amica, magari il fatto che fossero da soli non significava niente…
   Nel momento in cui aveva visto Fabio baciare l’altra donna con evidente trasporto, Elisa si era dovuta rassegnare all’evidenza: tra loro era davvero finita. Lui non sarebbe tornato indietro; pur volendo concedergli il beneficio del dubbio e non accusarlo di averla tradita, era chiaro che Fabio l’avesse già dimenticata, e con una certa facilità.
   Quella nuova consapevolezza aveva fatto nascere in lei un sentimento del tutto diverso, uno che fino a cinque minuti prima non avrebbe mai creduto potesse esserle suscitato da Fabio: una rabbia intensa e bruciante l’aveva riempita, concentrandosi in un grumo duro e incandescente nel petto. La potenza di quella collera le aveva mozzato il fiato; aveva capito che non sarebbe riuscita a restare lì, come se nulla fosse, a guardare l’uomo di cui era ancora innamorata baciare un’altra. Per questo aveva balbettato una scusa qualunque alle sue amiche con voce distorta dall’ira ed era scappata fuori, lontana da quella scena. Non era bastato: il mostro rabbioso che le si agitava dentro non si era placato, e in un attimo di lucidità, un bisogno inaspettato e insopprimibile si era fatto strada fino alla sua mente: doveva andare ancora più lontano, nell’unico luogo in cui si era sempre sentita in pace con se stessa, e liberarsi di tutti quegli oggetti legati a Fabio che aveva sistemato con cura in uno scatolone, nascosto sul fondo dell’armadio.
   Così, Elisa si era precipitata nella propria macchina, e poi a casa; aveva recuperato in fretta e furia alcune cose e si era di nuovo messa al volante. Aveva percorso varie strade, un tratto del Raccordo, l’autostrada e infine quella strada di montagna tutta curve e tornanti: ormai era quasi arrivata, e poteva già scorgere la sagoma familiare del paesino quasi disabitato in cui trascorreva le vacanze da tutta la vita.
   Arrivata a destinazione, Elisa parcheggiò l’auto sul margine della carreggiata e osservò l’altro lato della strada: giusto di fronte alla via che portava al paese, il grande albero di noce che conosceva bene si ergeva a pochi metri da un dirupo. Da lì, le città nella valle apparivano come agglomerati di luci scintillanti sospesi nel buio totale: l’unica altra cosa a spezzare le tenebre erano le innumerevoli stelle che punteggiavano la volta celeste, raggruppate in modo tale da somigliare a un nastro argenteo circondato da una manciata di diamanti sparpagliati ovunque.
   Il centro dello spiazzo solitamente deserto al cui margine era cresciuto il noce era occupato da una grande catasta di rami e rovi: i residui della pulizia della vicina fonte, lasciati là a seccare prima di essere raccolti e gettati.
   Elisa recuperò una bottiglietta di alcol denaturato, un accendino e lo scatolone che aveva preso da casa prima di mettersi in viaggio, poi andò vicino al mucchio di rami secchi. Posato lo scatolone a distanza di sicurezza, spruzzò l’alcol sulla catasta, prese un pezzo di carta dalla scatola e lo gettò nel mucchio dopo avergli dato fuoco: le fiamme si propagarono rapidissime lungo le sterpaglie, incendiandole. In silenzio, la donna rimase a guardare le lingue ardenti guizzare nell’aria immobile insieme al fumo, le orecchie piene soltanto dello scoppiettio dei rami. Non temeva che qualcuno potesse vederla: salvo che in Agosto, raramente qualcuno transitava lungo quella strada che terminava sulla montagna che incombeva alle sue spalle, e in quel giovedì notte di metà Novembre era certa di essere l’unico essere umano a trovarsi là.
   Sempre con gli occhi fissi sul falò, Elisa si chinò e prese dallo scatolone il primo oggetto che le capitò sottomano: era una maglia rossa, il primo regalo di Fabio. Ricordava ancora con quali parole il suo ex fidanzato aveva accompagnato quel dono.
   “Il rosso è il colore più vistoso di tutti, e attira subito l’attenzione: ti costringe a voltarti, a seguire quella macchia vivace finché puoi. Per me, è come se tu fossi sempre vestita di rosso; con questa maglietta, tutti ti vedranno come ti vedo io.
   Elisa gettò la maglia nel fuoco senza alcun rimorso. La stoffa venne divorata all’istante, generando una fiammata più alta delle alte che, una volta terminata la sua opera, fu subito riassorbita dalle sue sorelle.
   Quel gesto distruttivo la fece sentire inaspettatamente bene. Si era imposta di non rendersi ridicola di fronte agli occhi del mondo, soprattutto a quelli di Fabio; non aveva lasciato trapelare nulla, fingendo di essere superiore, e che quel distacco improvviso non l’avesse ferita tanto in profondità, ma la rabbia e la sensazione di essere stata tradita erano sempre lì, ad agitarsi appena al di sotto della sua maschera indifferente. Dare alle fiamme quella maglietta le procurò la stessa soddisfazione che avrebbe potuto ricavare dall’urlare in faccia a Fabio quello che stava provando, o dal prenderlo a schiaffi; sapere che non restava più nulla di quell’oggetto che in qualche modo la legava ancora a lui la riempì di una ferocia e una soddisfazione tali da inebriarla. Per un attimo si sentì libera e potente, quasi una divinità.
   Mentre l’esaltazione si mescolava al rancore, Elisa pescò un paio di scarpe dalla scatola e le spedì tra le fiamme. Anche quelle in poco tempo vennero ridotte in cenere, subito seguite da una sciarpa e da un libro, e vedere il fuoco impennarsi, alimentato da quell’inaspettato combustibile, la riempì di una gioia perversa.
   Ridendo amara, la donna afferrò un mucchio di foto e lo lanciò proprio nel cuore della catasta: fiammelle colorate si levarono mentre l’inchiostro bruciava, e con un grido rabbioso e allegro al tempo stesso, Elisa afferrò la scatola con tutto quello che ancora conteneva e la buttò sul fuoco.
   Ansimando come se avesse corso per chilometri, rimase a guardare le fiamme ingrandirsi e ondeggiare, intente a divorare la loro ultima vittima. Lentamente, il calore distrusse ogni cosa: gli ultimi rovi bruciarono quieti, crollando in un mucchio confuso, e il fuoco rimpicciolì sempre più, fino a quando anche l’ultima particella legnosa non fu consumata. L’ultima fiamma si spense e a terra rimase soltanto una distesa di cenere e braci morenti, unici testimoni del banchetto sacrificale appena consumatosi.
   D’improvviso, Elisa si sentì svuotata di tutto e l’ira che l’aveva spinta fin là tornò ad agitarsi prepotente dentro di lei, colmandola per intero. Mentre il fuoco bruciava, alimentato dalle sterpaglie e da quella catasta di oggetti di cui s’era voluta liberare, tutta la furia che provava era passata dallo schiacciarla al sostenerla; le fiamme e la loro opera distruttrice avevano preso sottobraccio la sua rabbia per guidarla in una danza macabra, selvaggia, e tanto stordente da far nascere un distorto senso di gioia da tutto quel rancore. Ma nel momento in cui l’ultima fiammella s’era spenta, mettendo tutto ciò che restava della sua vita in un piccolo guizzo ostinato, la danza era cessata; la rabbia era stata lasciata sola, senza nulla che la distraesse; e il senso di oppressione era tornato.
   Una lacrima di esasperazione e disappunto oltrepassò la barriera di ciglia e scivolò senza controllo lungo la guancia, fino al mento. Restia ad ammettere quanto quella rabbia stesse avendo la meglio su di lei, Elisa asciugò quella traccia salata con un gesto brusco: nel farlo si sfiorò inavvertitamente le labbra, sbavando appena il rossetto, e una debole striscia color ciliegia le imbrattò la mano e l’angolo della bocca. Di colpo, sentì di non poter più restare lì: quel calore sprigionato dai resti del falò aveva l’odore soffocante della sua ira, e la faceva sentire schiacciata, come se quei sentimenti la opprimessero contemporaneamente dall’interno e dall’esterno.
   Voltando le spalle al magnifico spettacolo delle luci nella valle, Elisa si diresse verso la strada che conduceva al paese e la imboccò: affrontò la salita con passi regolari, come aveva fatto infinite volte nella vita, e ben presto fu nella piazza deserta; senza rallentare, si inerpicò su un’altra salita e poi su un’altra ancora, ognuna più ripida della precedente, fino a quando non raggiunse la propria meta.
   La piccola chiesetta rinascimentale, abbarbicata sul punto più alto del paese, osservava con quieta indifferenza il mondo che la circondava: con le mura spoglie, segnate dal sole e dalla neve, dava l’idea di poter restare lì, uguale a se stessa, fino alla fine dei tempi.
   Trovarsi lassù – probabilmente il luogo che preferiva in assoluto – non servì a far sentire meglio Elisa: il mostro nel suo petto continuò ad agitarsi, a ferirla e squarciarla coi suoi artigli affilati, alimentando se stesso con ogni colpo che le infliggeva.
   Gli occhi della donna scattarono verso la canonica abbandonata, e un’idea la colpì. Incurante del fatto che fosse proibito, salì sul piccolo sperone di roccia su cui sorgeva quel secondo, minuscolo edificio collegato alla chiesa e si arrampicò agilmente sul balconcino coperto attraverso i vetri rotti da generazioni di adolescenti che si erano intrufolati lì dentro. Riuscire ad aprire la persiana malconcia e la portafinestra rotta fu altrettanto facile: in meno di due minuti Elisa fu nelle stanze spoglie, e facendosi luce col cellulare, andò verso le uniche scale della costruzione. Salendo con attenzione i gradini, ben presto fu in cima al campanile: attraverso le aperture prive di vetri presenti sui quattro lati, poté osservare ogni cosa da una posizione privilegiata. Stare lì era come trovarsi in cima a un piccolo mondo: lo dominava con lo sguardo, poteva lasciar vagare gli occhi in ogni direzione – dalla sagoma nera della montagna che incombeva sul paese alla sua destra, alla valle alla sua sinistra, alla collinetta dietro cui spariva la strada che aveva alle spalle – e da lassù, lo spiazzo su cui aveva celebrato quella sua vendetta simbolica e insufficiente le apparì come un minuscolo riflesso del cielo notturno, in cui però le stelle brillavano, invece che d’argento, di sfumature gialle e rosse ormai quasi invisibili. Mentre era lì, sola in quel campanile rischiarato unicamente da uno spicchio di luna, quel vago senso di onnipotenza la colse di nuovo: forse dipendeva dal trovarsi proprio lì, o magari era stato l’essersi fatta trascinare dalla rabbia al punto da gettare alle ortiche ogni prudenza e fare tutte quelle cose che di solito le leggi e il buonsenso le precludevano. In realtà il motivo non aveva importanza, quale che fosse: per lei tutto ciò che contava era che, dopo tanti anni, in quel momento riusciva di nuovo a sentirsi vicina a Dio.
   Elisa sfiorò l’antica campana con la punta delle dita e, per la prima volta da quando era arrivata, una brezza gentile prese a soffiare, accarezzandole il volto e i capelli; e finalmente, la morsa della sua rabbia si allentò.
   
 
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