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Autore: dreamkath    21/01/2017    1 recensioni
Guardava al futuro e ad esso vi sovrapponeva il passato. Guardava i volti delle donne di cui era attratto e vi scorgeva Anjia. Doveva smetterla. Ne era consapevole, eppure… gli era impossibile.
Chiuse gli occhi, si lasciò cadere sul divano e attese. Lasciò che il buio inghiottisse l’ultima mezz’ora di follia, alzò le palpebre, prese il telefono e digitò un numero.
“Beep, beep…”
“Che cosa vuoi?”
Silenzio.
“Dimenticare”.
Silenzio.
Silenzio.
“Arrivo”.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Stava in piedi, comodamente appoggiato al muro, le mani all’interno delle tasche dei pantaloni, la fronte a sfiorare la vetrata del salotto.
Sotto di lui si estendeva la città: oltre le impronte, lasciate dalle mani gelide sulla vetrata, e al di là dell’effimera traccia del suo respiro sul vetro, i fanali delle auto di passaggio giocavano a rincorrersi, le luci al neon dei bar vicini illuminavano ad intermittenza porzioni di marciapiedi semideserti e, odori di benzina, di alcool e suoni, inudibili all’interno dell’appartamento, si propagavano, ora velocemente, ora lentamente, ad un ritmo del tutto casuale. 
Accanto a lui un bicchiere, uno di quelli colmi di vino pregiato, bevuti solo per lasciarsi trasportare da pensieri, troppo latenti per poter essere ricordati, e da un miscuglio di malinconia e di soddisfazione per la solitudine in cui questo rituale veniva portato a termine.
La città era buia. Buia come il suo appartamento, illuminato a chiazze sparse dalle solitarie lampade da terra che aiutavano il proprietario a muoversi con sicurezza senza rompere l’atmosfera e senza limitare i suoi movimenti.
Alzò la testa e, nel sentire un fievole ticchettio di tacchi sul parquet del salotto farsi sempre più vicino, accantonò l’idea di godersi una serata lontana dalle frivolezze mondane della città, lasciando che le sue labbra si incurvassero nel ghigno tipico di chi assaporava il gusto della vittoria ancor prima di averla definitivamente conquistata.
Un passo. Un altro ancora. Ed eccola lì, seminascosta dalle ombre del salotto, che avanzava lentamente verso di lui. Capelli di un biondo naturale fluttuavano armoniosamente sulle spalle coperte da un cappotto rosso carminio che nella semioscurità appariva bordeaux, e occhi marroni, con lo stesso spirito giocoso del loro primo incontro, lo guardavano in faccia senza alcun imbarazzo. Ricambiò il suo sguardo per poi seguire con gli occhi il moto del cappotto che scivolava lento dalle spalle fino al pavimento. Non si mosse.
Solo dopo che la sua ospite inattesa si accoccolò tra le sue braccia, seppellendo il viso sulla sua spalla, si scostò dal muro, permettendole di affossare le mani tra i ricci dei suoi capelli neri e di esplorare i muscoli della sua schiena fasciati da una camicia appena sgualcita. E alle mani si aggiunsero le labbra con le quali la donna lasciò una scia umida di baci sotto l’orecchio, sull’accenno di barba della mandibola e sulla guancia destra, mancando, intenzionalmente, di poco, la bocca. Ogni suo tocco pretendeva di ottenere attenzione, marchiando a fuoco la sua pelle tiepida con l’alito caldo del suo respiro e la dolce fragranza del suo profumo. Sapeva di muschio, cocco e zucchero. Sapeva di dolcezza, a dispetto del colore intenso del cappotto, al contrario dei suoi gesti provocatori e possessivi. Non era andata al Luxus. Non c’era nessun segno del loro tipico timbro fosforescente sul dorso della mano sinistra, nessuna traccia di fumo di sigaro o di sigaretta sui suoi vestiti, solo un lieve odore di alcool.
Percorse la giugulare della donna con l’indice, senza alcuna fretta, prendendo il suo tempo per esaminare ogni dettaglio del suo collo macchiato da due piccoli nei, distanti pochi millimetri l’uno dall’altro. Osservò il modo in cui aveva iniziato a sbottonargli la camicia alla ricerca di contatto più intimo, come la sua pelle si rilassava al contatto con le sue dita, e come le sue iridi scintillavano di aspettativa e voglia. Ogni sua mossa, ogni sua espressione, non sfuggiva al suo sguardo, e, inevitabilmente, gli restava impressa nella memoria. Le mani che le accarezzavano la pelle registravano ogni sua curva, ogni misura.
“Alex…”
Sovrappose le sua bocca con quella della donna, saggiando lentamente le labbra screpolate dal freddo e la morbidezza e la sensualità della lingua che si scontrava con la sua.
Chiuse gli occhi, giusto in istante, per lasciarsi completamente trasportare dal calore e dalla fame sempre più vorace del suo piacere, ma la mente, come a volergli fare un dispetto, gli proiettò il volto sorridente di una giovane donna dai capelli neri che lo guardava con amore. Digrignando rabbioso, accentuò stretta sulla vita della donna per aggrapparsi alla realtà del momento, cercando disperatamente di non sprofondare nel ricordo di un passato che ormai doveva aver sepolto sotto strati di dolore, volontà e passioni passeggere.  Eppure per quanto volesse scacciare quell’immagine molesta, essa tornava a ripresentarsi sotto innumerevoli forme: la sofficità dei capelli biondi della donna veniva paragonata di riflesso a quella della chioma nera indomabile del suo amore passato, mentre il profumo dolce della donna gli portava alla memoria la sua semplicità e la sua spontaneità.
“Va’. Un'altra volta, Desirèe.”
Indurì la mascella e distolse lo sguardo dalla donna.
“Che cos…” sbatté per qualche secondo le palpebre confusa, per poi replicare: “Sai cosa c’è? Ma vai a quel paese, stronzo!”.
Lo schiaffo arrivò così veloce e così meritato che l’uomo non lo evitò. Rimase immobile e lasciò che il bruciore si diffondesse sulla guancia, sperando che in qualche modo servisse ad alleviare il senso di colpa e a scacciare in modo definitivo il suo passato. La guardò mentre raccoglieva in fretta e furia il cappotto e lasciava la stanza senza mai mostrargli il labbro tremante e le lacrime che ormai le stavano offuscando la vista.
Si sentì lo sbattere della porta d’ingresso e poi più nulla. Silenzio. Tranne che nella mente di Alex, invasa dal ricordo di Anjia, dal suo profumo, dalla morbidezza dei suoi fianchi e dalla sua voce allegra, fin troppo ottimista.
 
Baci. Un groviglio indistinto di corpi, sudore e lenzuola.
Tenerla stretta tra le braccia faceva in modo che la realtà gli scivolasse addosso, trasformando le loro risa e i loro ansiti in effimeri momenti di pace. I suoi capelli neri, che sembravano ancora più scuri nella penombra del loro letto illuminato a tratti dalle luci artificiali della città, gli solleticavano dolcemente il mento e il collo.
“Amami”. Baciò l’incavo della sua spalla nuda. “Amami, sempre”.
La ragazza rise, per poi farsi seria e accoccolarsi sempre di più sul suo petto.
“Tu credi nell’aldilà?”
“Credo in molte cose: nell’arte, nei numeri, nelle misure, nelle potenzialità infinite racchiuse nel legno, nell’argilla e nel marmo. Dio non l’ho mai messo in questo elenco”.
“Ma credi alla sfortuna ed eviti di leggere le catene che se non portate a termine ti portano iella.”
“Sì, ci credo. Perché ho paura. Paura di perdere cose a cui tengo per circostanze. Perché niente dura in eterno. Anche se non muore, si trasforma. E trasformandosi non è più quello di prima: in un certo senso muore senza mai morire veramente. Dio promette un qualcosa che non può esistere: un’eternità statica che non appartiene alla realtà”.
“Allora, perché per sempre?”.
Soppesò la domanda per qualche secondo, mentre le accarezzava distrattamente i capelli.
“Per un mio capriccio. Perché voglio che lo sia”.

 
“Perché voglio che lo sia”. Si ritrovò a ripetere quelle parole nel buio del suo appartamento ormai vuoto. Che cosa stupida!
Serrò i palmi delle mani in pugni chiusi, stringendo così forte le dita da far penetrare le unghie nella carne. Diede sfogo alla sua frustrazione fracassando il bicchiere di vino sul pavimento, rovesciando sedie, rompendo vasi e distruggendo uno dei prototipi in argilla a cui stava lavorando da settimane. Ma ogni colpo e ogni fracasso non aiutavano a coprire i ricordi e il dolore. Servirono solo a trasformare la rabbia repressa in un’amarezza acuta. A che cos’era servito sperare? A cosa era servito “volere”? Le circostanze, la sfiga, l’ubriachezza l’avevano portata via, sollevata come un fuscello al soffio del vento. E lui non aveva potuto dimenticare. A lui non era stato concesso andare avanti. Era bloccato dai ricordi, condannato a rivivere le promesse, il senso d’impotenza e soprattutto l’incontrollato odio verso se stesso. Era disgustato dalla sua debolezza per non averla potuta salvare e, allo stesso tempo, per la sua incapacità di accettare la morte di Anjia come un tragico incidente.
Guardava al futuro e ad esso vi sovrapponeva il passato. Guardava i volti delle donne di cui era attratto e vi scorgeva Anjia. Doveva smetterla. Ne era consapevole. Eppure… gli era impossibile.
Chiuse gli occhi, si lasciò cadere sul divano e attese. Lasciò che il buio inghiottisse l’ultima mezz’ora di follia, alzò le palpebre, prese il telefono e digitò un numero.
“Beep, beep…”
“Che cosa vuoi?”
Silenzio.
“Dimenticare”.
Silenzio.
Silenzio.
“Arrivo”.
  
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