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Autore: michael enea    22/01/2017    0 recensioni
«Questo è un acero».
«No, non è vero. Vedi, le foglie di un acero sono tutte diverse. Ne ho ancora una, in un'enciclopedia a casa mia. L'avevo messa tra le sue pagine per ricordarmela. E invece l'ho dimenticata lì» disse lui, appoggiandosi al tronco, spossato. Si accese una sigaretta, me ne offrì una che, come sempre, rifiutai.
«Ti dico che è un acero. Ne sono sicuro». Non ne avevo mai visto uno in vita mia. L'unico ricordo che avevo degli aceri era una ricerca che feci da bambino per la maestra di scienze naturali, in cui ricordavo di aver scritto un lungo paragrafo sullo sciroppo. Qualcosa di un me che non c'era più stava saltando fuori, mentre quello che c'era ora pareva sparire.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Campo del paesaggio


 
«Da ragazzo, amavo sedere sopra un albero maestoso del mio giardino: era un acero, imponente, altissimo, tanto che arrivavo con fatica soltanto al primo ramo, gli altri mi erano totalmente inaccessibili, e avevo la sensazione lo fossero per chiunque. Sensazione che, a dirla tutta, terminò il giorno in cui vidi sulla seconda fronda il mio gatto. Se ne era restato lì, in silenzio, per almeno tre ore, finché non chiamai mio padre che andò a prenderlo con una scala. Non aveva mai cambiato posizione, probabilmente perché altrimenti sarebbe caduto. Comunque, poco tempo dopo, ironia della sorte, mio padre investì il gatto con la macchina, e da allora più nessuno era riuscito ad avere un contatto più stretto del mio con l'acero» il mio amico buttò giù qualche sorso di birra, poi si perse a guardare il bancone del bar, apparentemente dimenticandosi del suo racconto. O forse, voleva solo dire qualcosa, senza puntare a nessuna parte. Ho sempre avuto quest'idea che qualsiasi cosa debba essere per uno scopo: le parole lasciate andare nell'aria impastata dall'alcol di un locale mi lasciano sempre un sapore stantio, come quello della ruggine. Mi sentii così, come quando appoggiai le mani su una ringhiera piena di amianto, e le dita continuarono a pizzicarmi per l'intera giornata nonostante le avessi lavate. Non voleva saperne di andarsene, ed il suo persistere era per giunta corrosivo. Decisi di non lasciare lì la cosa.
«Perché ti piaceva sederti sull'acero?»
«Non lo so. Non l'ho mai capito». Domanda sbagliata. Lasciai crollare l'argomento nel vuoto, ormai sarebbe stato inutile portarlo avanti. Avevo soltanto una possibilità, e l'avevo buttata via. Chiamai il barista e gli chiesi di portarci dello scotch. Chivas Regal, invecchiato di dodici anni. A dir la verità, non è che mi piacesse molto, ma insieme l'alcol si trascinava un forte calore e un gusto a tratti legnoso che mi risuonava familiare. Sapeva di famiglia, di una vecchia nonna che prepara gli alcolici in casa assieme al marito.
«Di' un po', i tuoi nonni lo facevano l'alcol?»
«So che dalla parte di mio padre si faceva il limoncello. Me lo ricordo perché mi frustrava non me lo facessero mai provare. Capisco fossi un bambino, ma in tutti i film fanno sempre assaggiare un goccio al figlio maschio, avevo delle convinzioni che non sono mai state soddisfatte» rispose il mio amico, sforzandosi di non divagare. Era impressionante il modo in cui forniva centinaia di informazioni sul suo passato soltanto nel rispondere ad una domanda cui, personalmente, avrei risposto con sì o con no. D'altronde, però, mi dicono tuttora di essere un tipo di poche parole, ed ogni volta mi stupisco di ricevere complimenti per il mio lavoro da sceneggiatore, quando realmente non ho idea di come si dialoghi.
«Be', meglio così» gli dissi, cautamente.
«Che significa? Ci ero rimasto male, io! Meglio così per niente».
«Tanto, sei cresciuto alcolizzato comunque» conclusi, buttando giù lo scotch. Lo sentii sospirare di fianco a me e, senza bisogno che mi girassi, lo immaginai a scuotere la testa nei confronti della mia affermazione. Diceva spesso di non riuscire a capirmi, e io gli rispondevo che mi trovava indecifrabile perché mi sopravvalutava; in realtà, molto semplicemente, mi piaceva sentirlo parlare, senza dargli nessuna replica, e senza prendere particolari posizioni. Lui, d'altro canto, doveva aver bisogno di qualcuno cui dire ogni cosa senza nessun giudizio, o senza che l'argomento si spostasse da qualche altra parte che non fosse lui stesso. Così era nata la nostra collaborazione: uscire a bere insieme un paio di volte la settimana, fermarsi fino a tardi con una bella sbornia, sentirgli raccontare diverse storie senza un apparente filo logico, tutto questo mi aveva aiutato molto nel mio lavoro. Scrivevo nel modo in cui lui parlava, perché a me affascinava, e consideravo i miei gusti sufficientemente interessanti per essere accolti di buon grado anche dal pubblico che visionava le mie opere. Lui non sembrava nemmeno accorgersi che il suo strano modo di comunicare agli altri era stato messo sotto i riflettori da decine di diversi registi ai quali avevo fornito i copioni. Anzi, sosteneva di essermi inutile, perché non scrivevo mai riguardo gli argomenti che mi esponeva, ma di tutt'altro; insomma, non si rendeva conto di essere se stesso e, col tempo, grazie al mio mestiere, ho visto che è una cosa che capita a tantissime persone. Afferrarsi e riconoscere il proprio naturale talento nell'esistere per me è sempre stato facile, sia ora sia all'epoca dei fatti, perciò non ho mai capito come fosse possibile che lui non si accorgesse dell'eloquenza delle sue parole. Era una cosa che non poteva essere altrimenti, e basta; di nuovo la sensazione dell'amianto. Ad ogni modo, quella serata finì come tutte le altre, con noi ubriachi ad uscire dal locale verso le tre di notte, senza una meta ben precisa, a sostenerci con lo sguardo perché non ci conoscevamo abbastanza per sorreggerci l'uno all'altro. Era paradossale, eppure sapevamo fosse così: io potevo dirvi che sua madre era una maniaca dell'ordine, e che era la presenza più forte in casa, voleva collaborazione, pulizia, e poche parole, ma non lo conoscevo abbastanza da aiutarlo a camminare dritto su un marciapiede la notte. Chissà che cosa ci vuole per poterlo fare. Ogni persona ha un suo ruolo ben definito nella vita di un'altra, e credevo che nessuno avrebbe mai chiesto al proprio psicologo di dargli una mano a camminare dritto da ubriaco. Il mio rapporto con lui era un po' quello; nessuna risposta, solo domande, lui che parlava a dirotto e io che soddisfacevo il mio interesse per la sua conversazione. Però era proprio quello il punto: chiunque avrebbe chiesto al proprio psicologo di aiutarlo a camminare, se no, che collaborazione era? Non ci ho mai saputo fare con le persone, probabilmente.
Stavamo proseguendo molto lentamente lungo la costa. Ripercorrevamo le stesse strade ogni volta che ci incontravamo, perché io non ero del posto, e nemmeno lui. Avevo potuto permettermi un appartamento lì solo dopo aver raggiunto una discreta fama nel lavoro, e ora ero sul punto di comprare una casa personale ma, nonostante fossi lì da qualche anno ormai, non mi ero mai scollato dagli stessi soliti luoghi. E nel frattempo pensavo alla mia casa nuova di zecca, completamente vuota. Nessuno con cui condividerla. Però ne avevo bisogno, era un traguardo personale, mi ero finalmente stabilito lì, nessuno mi ci poteva più allontanare con l'affitto. Riguardo al mio amico, aveva un accento che non riuscivo a definire chiaramente. Di certo del sud, ma non avrei saputo dire di dove, e non avevo nemmeno idea del perché si fosse trasferito in città. Era triste, la città. Le strade erano gremite di gente durante il giorno, mentre di notte c'era soltanto la costa, attraversata da due ubriachi che non avevano il coraggio di rompere il confine tra conoscenza e amicizia. Il mare era quasi sempre calmo, non c'era la brezza che faceva scatenare onde particolarmente vivaci, in più il clima era mite, insomma, non era né una metropoli né una città turistica, e in più i prezzi erano piuttosto alti. Non vi avrei trovato nessuna attrattiva, non fosse stato per il lavoro, si intende. Tutto era così anonimo e senza importanza che mi trovai a riflettere sulla mia stessa personale utilità. Utilità per me. Avevo sempre dato tutto per gli altri. E io? Io, chi ero? Ero un sasso lungo quel marciapiede vicino la costa, spinto via dalla scarpa del mio amico, una persona senza nome, con cui uscivo un paio di volte la settimana solo per eccellere in quello che dovevo fare. Ero un negozio di dischi che chiudeva perché a nessuno interessavano più i vecchi vinili in un posto simile, dove tutto scorreva nella stessa magnifica lentezza che assumeva il tratto cittadino di velocità. Ero il turista che rimaneva scontento. Ero l'uomo che camminava a stento accanto a me, con tanto da raccontare, senza che nessuno lo conoscesse. Ero la notte intorno a lui, che lo rendeva invisibile persino ai miei occhi. Durò un paio di minuti, questa sensazione opprimente, finché non ritrovai il suo sguardo. Non so da quanto tempo mi stesse fissando, perché io, fino a un attimo prima, non riuscivo a distinguerlo. Pareva preoccupato.
«Tutto bene? Ti sei fermato qui, in mezzo al nulla».
«Sì, tutto bene. Scusa, ero nei miei pensieri». Fece spallucce. Perché, c'era qualcosa in qualsiasi altro angolo di quella città? In mezzo a quale nulla?
«Non lo so. Io, nella vita, non so niente» disse lui, come se avesse potuto percepire i miei pensieri. Lo guardai un attimo, ma non riuscivo a cogliere nient'altro se non la sua silhouette e la lucentezza dei suoi occhi scuri.
«Non è che io sappia molto di più».
«Sì, ma io non so nemmeno perché mi piacesse arrampicarmi sull'acero. Lo capisci? Io non so nemmeno quello. È come se tutta la mia vita avessi fatto qualcosa che non fosse mio, senza sapere quello. Era fondamentale per me, era il mio mondo. E non so perché lo fosse. E non dirmi che non serve un perché, io a queste cose non ci credo» dichiarò, con tono serio, un po' cocciuto. No, non lo potevo capire. Non era quello il mio problema. Sapevo perché mi piacesse essere me, ma non ero sicuro di chi fossi. O forse lo capivo, ma non lo volevo ammettere, perché è difficile accettare di condividere qualcosa con uno sconosciuto. Ci si sente più imponenti pensando di essere i soli al mondo a provare determinate cose. Cercavo quello, bramavo la maestosità, che però aveva lui; io ero nulla, proprio come quel luogo, nel quale stavo per comprare una casa vuota. Con all'interno soltanto il mobilio del vecchio proprietario.
Comunque, come è facile intuire, non dissi nulla. Non so dire se si aspettasse qualcosa o meno, probabilmente al momento sì, ma un attimo dopo se ne doveva essere già dimenticato grazie allo scotch. Incredibile come l'alcol in certe situazioni possa aiutare. Proseguimmo ancora, senza dire una parola. Camminammo per un'oretta circa, finché non trovammo un vecchio falò ancora acceso e gli chiesi se ci potessimo sedere un attimo. Cominciavo a sentirmi debole. Mi sarei addormentato lì, sul momento, ma tentai di mantenere la menta lucida per non crollare così lontano dal mio appartamento. Non volevo che si prendesse cura di me più di quanto già facesse, raccontandomi le sue storie, spolverando i vecchi mobili vuoti. Mi resi conto, lì, di fronte ad un falò morente, di non avere passato. Le fiamme andavano spegnendosi, si alzavano e diminuivano, finché non si sarebbero spente del tutto. Come ogni cosa. Mi dispiacque pensare che il mio amico si sarebbe spento senza l'ombra di un aiuto. Provai un forte senso di dolore, che mi lacerava il cuore, a quel pensiero. Cosa avevo fatto per lui? Nulla. Cosa avevo fatto per me? Niente. Aiutarlo voleva dire aiutare me. Risolvere un lato di me che avevo sempre ignorato, sommerso nel lavoro e nel farmi mettere i piedi in testa dal regista. Nel venire ignorato per sentire elogiare soltanto lui. Il trovare un amico, il cercare una donna, erano cose talmente fuori dalla mia portata che mi sembravano futili. Cantavo d'amore nei miei copioni, e non avevo la più pallida idea di che cosa fosse.
«Senti» gli dissi, d'un tratto, «io e te dobbiamo fare una cosa».
Mi lanciò uno sguardo annebbiato dal quale traspariva ugualmente un grosso punto di domanda. Gli chiesi soltanto di seguirmi e, sapete cosa? Lo fece. Non me l'aspettavo. Mi sentii ricaricato del tanto necessario per fare quello che volevo, chiamare un taxi e tornarmene al mio letto. Riprendemmo lo stesso marciapiede, andando indietro, verso il bar. Camminava svogliatamente, era stanco, non me la sentii di afferrargli un braccio, ma non cercai nemmeno di superarlo; volevo sapesse che ero lì, presente, a pochi passi da lui. Che poteva toccarmi. Che poteva distinguermi nel buio. Avevo un obiettivo ben preciso, ovvero il mio ufficio. Lo so, strano che uno sceneggiatore non troppo famoso avesse un ufficio, ma è proprio così: mi vergognavo di accogliere registi, attori o interessati nel mio squallido appartamento, e quindi affittavo per un prezzo modico una stanza che si affacciava sulla piazza. Era molto piccola, ma l'avevo arredata sobriamente, senza eccessi, però dietro la sedia, sul muro, avevo attaccato la copia di un dipinto di Schiele, per non sembrare nemmeno monotono. Il quadro in questione era Campo del paesaggio. In realtà, chi veniva in ufficio non si accorgeva nemmeno fosse di Schiele, perché era molto distante dai suoi ritratti caratteristici, ma a me piaceva particolarmente per la rappresentazione ansiosa che aveva anche soltanto di un paesaggio campestre. Le linee erano spezzettate, storte, sproporzionate, il cielo di un marrone scurito e le nuvole praticamente nere. Il terreno, però, era un terreno qualunque. I suoi colori non erano particolarmente macabri, se non la presenza di qualche tocco scuro di troppo nella vegetazione, e tutto sembrava andare bene. Eppure il cielo era terso, e risultava molto più vero nel contrasto tra la felicità e la tristezza. Risultava più tastabile. Per questo mi piaceva. Quando guardavo fuori dalla finestra, confrontavo sempre la copia con quello che vedevo. In piazza c'era sempre tanta gente, una fontana, e un albero, non particolarmente alto. Mi stupivo sempre di come quello fosse chiaro, mentre nel dipinto tutte le piante erano scure. A dir la verità, nessun albero mi sembrava più chiaro di quello, forse proprio a causa delle circostanze. Mi sembrava l'unico che emanasse una luce propria, che ombreggiasse e rischiarasse allo stesso tempo.
Arrivammo in piazza in una ventina di minuti. Ci avremmo messo meno, probabilmente, ma non riuscivamo ad andare più veloci di un certo passo. Gli presentai l'albero.
«Questo è un acero».
«No, non è vero. Vedi, le foglie di un acero sono tutte diverse. Ne ho ancora una, in un'enciclopedia a casa mia. L'avevo messa tra le sue pagine per ricordarmela. E invece l'ho dimenticata lì» disse lui, appoggiandosi al tronco, spossato. Si accese una sigaretta, me ne offrì una che, come sempre, rifiutai.
«Ti dico che è un acero. Ne sono sicuro». Non ne avevo mai visto uno in vita mia. L'unico ricordo che avevo degli aceri era una ricerca che feci da bambino per la maestra di scienze naturali, in cui ricordavo di aver scritto un lungo paragrafo sullo sciroppo. Qualcosa di un me che non c'era più stava saltando fuori, mentre quello che c'era ora pareva sparire.
«Mah!» esclamò, contrariato, buttando fuori il fumo. «A me non pare proprio. Secondo me, sei impazzito».
«Non sono impazzito. Se ti dico che è un acero, lo è, e basta» insistetti.
«Prima mi dici che dobbiamo fare qualcosa, poi mi porti da questo qui e pretendi che sia un acero. Io li riconosco, mi ci arrampicavo sempre, da bambino. Se ti dico che non lo è, non lo è, e basta».
«E allora arrampicati». Sperai di far leva sul suo carattere competitivo. Mi guardò stranito per l'ennesima volta, poi iniziò a sfiorare la corteccia, cercando un punto di appoggio. Teneva la sigaretta tra le labbra, cercando di non aspirare mentre aveva le mani impegnate. Scosse la testa, dichiarando che non c'era nulla da fare: lui lì non ci sarebbe salito.
«Allora ci vado io, così poi ti sentirai stupido per non averlo fatto. Reggimi il piede». Sospirando, lasciò cadere la sigaretta per terra, dopodiché mi aiutò a salire sul primo ramo robusto facendomi poggiare sulle sue mani. Al contatto, sbuffò infastidito, perché gli stavo per colpire la faccia nel tentativo di essere il meno indiscreto possibile. Va sempre così, alla fine. Più cerchi di non risultare invasivo, più lo sei. Bisognerebbe stare lì, senza pensarci troppo, mentre si fanno le cose.
Mi sentivo tremendamente in pericolo. Mi aggrappai con entrambe le mani al ramo, enorme, spigoloso, non c'era possibilità che non mi reggesse, quella che temevo era la caduta. In vita mia, non mi ero mai arrampicato su un albero, era la prima volta in assoluto. Per un bel po' stetti lì, senza fare niente, lo sguardo fisso sulle mie mani sudate. Sentii il mio amico accendersi un'altra sigaretta solo grazie allo schiocco dell'accendino. Non riuscivo nemmeno a pensare: era come se, effettivamente, fossi entrato in uno strato che non facesse parte della mia esistenza. Finalmente mi azzardai a guardare in basso, e vidi chiaramente i suoi capelli corvini venire spostati dal leggero vento. Stava fissando le mattonelle della strada mentre era immerso nei suoi pensieri, non produceva il minimo rumore né il minimo movimento. Dopodiché, gettai lo sguardo al mio ufficio. Individuai subito la finestra dalla quale mi affacciavo quasi ogni giorno, e rimasi per un attimo attonito: stavo guardando la mia finestra, e riuscivo anche a distinguere i contorni dei mobili - non erano per nulla vuoti. Non ero affacciato da essa, bensì avevo lo sguardo puntato lì, al mio ufficio. Vidi me stesso seduto sulla sedia, le luci accese, a lavorare su un copione a tarda notte perché vicino al mio appartamento passava il treno, la notte. Vidi me bere da una tazza di caffè di carta presa al bar fuori casa, ascoltare il regista di turno lamentarsi di questo e di quello. Vidi me contemplare Schiele e poi l'albero. Vidi me provare a buttare giù qualcosa che mi rendesse uno scrittore vero e proprio, senza però trovare nulla di abbastanza interessante nella mia vita cui trarre ispirazione.
«Allora?» La sua voce mi giunse ovattata, come se provenisse da molto lontano. «Sei morto?»
«Forse».
«Che significa forse?» Avvertii un innalzamento nel suo tono. «Ma che dici? Se tu morissi ora, io sarei triste. Non voglio tornare a casa al buio» declamò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Però non lo era. Mi misi a ridere, mollando la presa e facendo dondolare le gambe.
«Non sapevo che i cadaveri ridessero».
«Sai, quello lì è il mio ufficio» dissi, indicandolo.
«Sì, e per te ho pure capito quale. La finestra al secondo o al terzo piano?»
«Al secondo. Che cosa vedi?»
«Non lo so. Vedo una finestra. In realtà non è che la veda, però ne distinguo i contorni. Credo abbia le imposte chiuse. Il muro deve essere tinto di bianco, oppure di un colore molto chiaro. Rosa, o giallo sfumato, ma è più probabile sia solo bianco, dopotutto siamo in piazza. Niente cose pazze alla vista di tutti». Mi piacque il suo modo di esprimersi, come ogni volta.
«Sbagliato, le imposte sono aperte. Riesco a vedere il mobilio. Lo sai che ho un quadro di Schiele appeso alla parete? Vedo la cornice in rilievo. Com'è la strada?»
«Deserta. Non c'è un'anima e i rumori scarseggiano, a parte un pazzo che mi fa domande assurde. Ci sono case tutto intorno. C'è una fontana, ma l'acqua scroscia piano. E c'è un albero, che non è un acero. E sopra l'albero c'è il pazzo, ma gli vedo solo i piedi». Buttò a terra la sigaretta, calpestandola, poi prese a giocare con l'accendino. Si sentiva escluso.
«Io vedo la tua testa. Non avevo mai visto la tua testa così. E comunque, questo è un acero. Te lo posso dire con certezza ora che sono quassù. Vedi, tu dai un nome alle cose, ma non ha importanza, ciò che conta è la sostanza. Io non lo so il tuo nome, però so che tua madre lavorava in banca, mentre tuo padre era un pescatore, e i bambini ti prendevano in giro perché avevi la famiglia che, secondo loro, era impostata al contrario. Capisci cosa intendo?» Lo sentii muoversi, cercando nuovamente un punto di appoggio, stavolta più sicuro di sé. 
«Tu hai deciso che questo non è un acero, però io ti dico che lo è. Io riesco a vedere perché ti piacesse startene lì, sul primo ramo. L'identità non è statica, se tu lo decidi io posso essere chi vuoi, la stessa cosa vale per quest'albero. Io ti vedo come una bella persona, tu ti disprezzi, e posso dirlo per diversi motivi. Aggrappati al mio piede per salire, mi sto tenendo» dissi, riagganciando le mani alla fredda corteccia, con forza. Era la prima volta che parlavo così tanto da un bel po' di tempo, se non la prima volta in assoluto, e la sensazione non era nemmeno spiacevole. Però sapevo anche che, in tutta probabilità, non sarebbe mai più successo. Che era una cosa che sarebbe rimasta lì, e basta. Che era il mio aiuto per un mondo che finiva, ma che non volevo finisse. Sentii il suo peso addosso al mio piede destro e, appena avvertii la sua mano tenersi al lato del mio ramo, mi spostai più in là, in modo da fargli posto. Aveva il respiro pesante e sapeva parecchio di alcol ma, tutto sommato, era un odore piacevole. Non disse proprio nulla, stranamente. Rimase lì, per lunghi, lunghissimi minuti, ad osservare ogni singola cosa entrasse nel suo campo visivo. E, alla fine, guardò me.
«Ti vedo come se fossimo entrambi per terra. Sei l'unica cosa a non essere alterata».
«Lo hai capito perché ti piaceva stare sull'acero?»
«No, non l'ho capito. Ne sono inebriato, ma non l'ho capito. Come non ho mai capito perché passi tanto tempo con me, se sono uno stupido».
«Il fatto è che quello laggiù è il mondo senza di noi».
«Il mondo senza di noi! E a me piace il mondo senza di noi? E poi, noi ci siamo».
«Tu ci sei per me, e io ci sono per te. Ma se la gente che passa non alzasse gli occhi, non potrebbe provare la nostra esistenza, mentre noi possiamo provare quella del mondo». Chiusi gli occhi, traendo lunghi respiri. Sorrisi.
«Cazzo, un po' come essere Dio!». 
   
 
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