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Autore: Vanth    30/05/2009    4 recensioni
Un sogno è un qualcosa di opaco, sfuggente.
C’è e non c’è e, quando pensi di averlo finalmente afferrato, quello ti scivola dalle mani, lasciandoti freddamente vuoto.

Sakura si chiese se gli ci volesse una qualche sorta di concentrazione per provare dolore. Perché non piangeva?
«La guerra comporta vittime. Chi sopravvive va avanti».
[No pairing | Post shippuden ~ SPOILER!]
Prima classificata al "Dream contest" indetto da Erin_Ino.
Genere: Generale, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sai, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha, Un po' tutti
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: Spoiler!
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World of Glass_definitva Disclaimer: Naruto e tutti i suoi personaggi appartengono a Masashi Kishimoto. Nessuna violazione di © è dunque intesa.

Note:
i tre asterischi sanciscono la fine di un giorno, mentre i brani in corsivo indicano un flashback (non sono in ordine cronologico).




World of Glass

Higher than Hope



The hopes were high
the choirs were vast
Now my dreams are left to live through you


«Vediamo… sì, per cominciare direi che ognuno di voi dovrebbe presentarsi».
«E cosa dovremmo dire?».
«Oh, bè, le cose che vi piacciono, quelle che odiate… i vostri sogni nel cassetto, i vostri interessi… cose così, insomma».
«Allora, maestro, che ne dici di presentarti tu per primo?».
«Giusto. Non sappiamo nulla di te».
«Volete che mi presenti? Bè, io mi chiamo Kakashi Hatake. Non ho nessuna intenzione di dirvi cosa mi piace e cosa non mi piace. I miei sogni nel cassetto? Bè, anche se ve li dicessi… e per finire… ho diversi interessi!».
«Sentite, ma in pratica… ci ha detto solo il suo nome».
«Bene. Adesso tocca a voi. Cominciamo a partire da destra».
«Io mi chiamo Naruto Uzumaki! Mi piace il ramen… e mi piace ancora di più il ramen che mi offre il maestro Iruka all’Ichiraku! Ciò che odio sono quei tre minuti in cui aspetto che il ramen sia pronto. E il mio sogno per il futuro… è superare in abilità tutti gli Hokage… e far capire a tutta la gente del villaggio quanto sono forte!».
‘È cresciuto proprio bene…’.
«Il mio hobby è fare scherzi».
‘Capisco’.
«Il prossimo!».
«Mi chiamo Sasuke Uchiha. Odio un sacco di cose e non me ne piace nessuna in particolare. Non voglio parlare dei miei sogni… ma ho un’ambizione! Riportare agli antichi fasti il mio clan… e uccidere chi so io».
‘Immaginavo’.
«Bene. E per finire, la ragazza».
«Io sono Sakura Haruno. C’è una cosa che mi piace… anzi, una persona… ahem… poi non so se dirvi il mio sogno nel cassetto… no! Non ce la faccio! E una cosa che odio è Naruto! I miei hobby, bè…».
‘Mi sa che alla sua età le ragazze… più che ad allenarsi pensano all’amore’.
«Bene! Basta con le presentazioni».

Libertà rubata, speranza perduta.
Per quanto le si implori il proprio corpo rimane imprigionato da fredde catene. Le lacrime scorrono senza fine e poi...

***

«Ecco fatto, Sai. Ora va meglio?», Sakura si alzò dalla sedia dinnanzi al ragazzo, gli diede le spalle e si sciacquò le mani nella bacinella d’acqua, ormai inquinata da troppo sangue, che giaceva su un piccolo tavolo.
Sai abbassò lo sguardo verso la sua mano sinistra e saggiò le bende che coprivano lo spazio dove, fino a pochi giorni prima, si trovavano il suo mignolo e anulare. Non faceva più tanto male.
«Sì. Grazie, Sakura».
Lei sorrise e si asciugò le mani con uno straccio, macchiato anch’esso di sangue, e si voltò, legandosi i capelli.
«Ah, non è che potresti aiutarmi un attimo con Naruto?», chiese, mentre si avviava verso il letto posizionato vicino alla finestra.
«Certo».
Sai si alzò, raggiungendola. Silenziosamente, osservò quello che ormai era solo il mero involucro del suo compagno: immobile, statico nel suo aspetto calmo e sereno, le palpebre abbassate come se stesse dormendo, i fili delle flebo sul dorso della mano sinistra, le macchine che monitoravano il suo battito cardiaco e gli consentivano di respirare, i graffi e le ferite sul corpo.
Era così da tre giorni, oramai. Cominciava a pensare che non si sarebbe più risvegliato.
Durante lo scontro con Danzo aveva voluto combattere per forza, sebbene le ferite che si era procurato combattendo contro Pain e Nagato non si fossero ancora rimarginate; così, era sceso in campo, sprezzante del pericolo che stava correndo. Senza nemmeno rendersene conto, abituato a fare affidamento sul chakra del Kyuubi, una fonte pressoché inesauribile di energia, aveva superato il suo limite. Non era a conoscenza delle regole: un colpo al di sopra delle tue forze e potevi morire – o restare completamente paralizzato. Al terzo rasengan, aveva ceduto, era svenuto e, da allora, era rimasto su quel letto, come morto.
Sakura si occupava di lui come di nessun altro, mettendo nella sua opera tutto il suo affetto; sapeva che le sue condizioni erano gravissime, ma continuava a sorridere, come se andasse tutto bene.

Andrà tutto bene, deve andare tutto bene.
Altrimenti, che senso avrebbe avuto questa guerra?
Ora c’è la pace, no?
Dobbiamo essere felici.

Lentamente, la aiutò a cambiare i bendaggi, disinfettare le ferite e, con un panno, a rinfrescargli un po’ il viso.
Sakura, alle volte, rimaneva seduta al suo fianco, dicendogli qualcosa di tanto in tanto, sperando che sentire qualcuno vicino l’avrebbe aiutato a risvegliarsi. Gli raccontava di quello che avrebbero potuto fare – lei, Sasuke e Naruto, e anche Sai se voleva – una volta che si sarebbe risvegliato; i posti che avrebbero potuto vedere, tutto il ramen che avrebbero potuto mangiare.
Era il suo sogno: vivere con le persone che amava.
La pace era necessaria, una premessa per vivere con loro; pensava. Quante persone sarebbero morte? Sapeva che sarebbero state tante, ma era convinta che loro avrebbero superato tutto insieme, sarebbero sopravvissuti alla morte e iniziato una nuova vita.
Poi, la guerra era arrivata sul serio. Le persone morivano come insetti, non importava se fossero ricchi, poveri, forti o deboli; semplicemente, morivano, senza nessuna distinzione. Forse era questo l’unico lato positivo della guerra: gli uomini erano tutti uguali. Ma si sarebbe stancata presto di pensarlo. Dopo poco tempo, iniziò a odiare la guerra con tutta se stessa, attendendo solo la sua fine.
Non c’era niente di buono in essa, no. Aveva distrutto tutto: le vite delle persone, i legami, le città, i sogni. Non rimaneva più niente, se non una manciata di macerie e terra bruciata.

Sai uscì e chiuse la porta, lasciando Sakura sola a finire di accudire Naruto.
Salì le scale che conducevano al primo piano, dove si trovava la maggior parte delle stanze che erano riusciti a ristrutturare. Lui era in camera con altri tre uomini che non aveva mai visto; avevano perso tutti chi la moglie, chi un figlio, chi l’intera famiglia, e si erano ritrovati da soli.
Lui non aveva nessun familiare, e non poteva capire quello che stavano provando. Ma, ne era sicuro, se Sakura o Naruto fossero morti, avrebbe dovuto provare dolore.
Era quello che si sentiva quando qualcuno a cui tenevi periva, vero?
Si distese sul letto, spossato e stanco, e si addormentò quasi subito.

«Tu!», aveva tuonato Danzo dall’entrata, indicandolo.
«Hai tempo fino a questa sera per tornare alla Radice».

Erano le cinque e al tramonto mancavano pressappoco due ore.
Sai era seduto su uno dei letti di fortuna che avevano costruito. Con sguardo spento, osservava un punto del pavimento, senza vedere davvero.
Avrebbe dovuto dimenticare tutto e lasciare quel posto, lo sapeva.
Era sempre stata solo una missione, era naturale che un giorno sarebbe dovuta finire.
Eppure, sapeva che ‘Sai’ non voleva abbandonare i suoi compagni di squadra.
Danzo l’aveva richiamato alla Radice per farlo combattere contro di loro. Quelli erano i suoi piani fin dall’inizio: uccidere l’Hokage, ridurre la popolazione alla fame e poi procedere con il colpo di stato.
Ma Danzo sapeva bene che i pochi sopravvissuti non l’avrebbero mai accettato come Hokage, e gli alleati di Suna non avrebbero permesso che si svolgesse un colpo di stato sotto i loro occhi. Quindi, molto probabilmente, le sue intenzioni erano: annientare i pochi superstiti e gli alleati che erano accorsi sul campo.
Poi, come gli aveva sempre detto, si sarebbe seduto sulla poltrona dell’Hokage e avrebbe ammirato la totale devastazione. Sai si chiedeva, però, che senso avrebbe avuto governare un pugno di ninja a lui devoti in un paese che non esisteva più.
Il sogno di quell’uomo era folle.
Ma Sai era un suo soldato e ai comandanti bisognava obbedire, così gli avevano insegnato.
Se avesse potuto, sarebbe rimasto lì, con loro. Se.
Il suo sguardo si posò sullo zaino già pronto che giaceva in un angolo della stanza e sugli strumenti da disegno che aveva lasciato su una specie di piccolo comodino.
Chiuse gli occhi e inspirò profondamente.
Allora, la porta si aprì, e Sakura fece il suo ingresso, il volto turbato. Sai la salutò con un gesto della mano e sorrise. Lei non ricambiò.
«Finiscila di fingere e spiegami cosa diavolo sta succedendo», disse, con un tono che non ammetteva repliche. Sai sospirò: non poteva rispondere.
«La mia missione con voi è finita, devo tornare alla Radice». Capì subito che la sua risposta non sarebbe servita ad alleviare i sospetti di Sakura, ma la prima regola della Radice era non divulgare informazioni su di essa e qualunque cosa la riguardasse.
«Questo l’avevo capito – incominciò lei, prendendo un’ampia boccata d’aria –, ma che intenzioni ha Danzo? Perché ti ha richiamato?». Si guardarono per qualche istante: Sai era indeciso su come rispondere, mentre la rabbia cominciava a inondare veloce il volto di Sakura.
«Non lo so». Sakura fece alcuni passi verso di lui, i pugni stretti lungo i fianchi; ormai gli era davanti.
«Non dire cretinate, Sai!», lo afferrò per la maglietta, furiosa. Sai rimase immobile, lo sguardo vacuo.
«Vuole ucciderci?», la voce di Sakura si incrinò e si fece poco più che sussurrata; gli occhi leggermente lucidi. «Noi dobbiamo vivere e poi potremo iniziare una nuova vita… lo sai… io…», continuò, la voce flebile e fragile, come se stesse confessando un segreto.
Un silenzio glaciale si impadronì della stanza.
«Almeno ora, rispondimi! Vuole ucciderci? Parla!». Sai espirò profondamente e socchiuse gli occhi per un attimo, prima di rispondere. Dopotutto, lui non aveva svelato niente, Sakura ci era arrivata da sola.
«Sì», la guardò sussultare, mentre una lacrima scendeva solitaria lungo il suo volto. Poi distolse lo sguardo, che andò a posarsi di nuovo sullo zaino. «Perché…?», il piccolo sussurro si disperse nell’aria, senza una risposta. Il silenzio la fece da padrone per qualche istante.
Delicatamente, si liberò dalla sua presa, oramai senza forza, e si alzò. «Devo andare ora». Sakura non lo guardò, a testa bassa, si fece da parte.
Sai prese lo zaino e si avviò verso la porta; la aprì. «Cosa proverai quando massacrerai i tuoi compagni, Sai?», la domanda era stata posta con odio, disprezzo. Sai non si voltò e uscì, in silenzio.

Il pomeriggio era scivolato via sereno e ora che la sera scendeva lenta con la sua invocata tranquillità, la piccola comunità cominciava ad organizzarsi per la cena. Avevano deciso, dopo un’accesa discussione, che quella sera si sarebbe mangiato riso bollito e della selvaggina catturata nel pomeriggio. Niente di speciale, ma, in quella situazione, un vero banchetto.
Sakura stava cominciando ad apprezzare il momento della cena più di quanto si rendesse conto: le piaceva il clima di condivisione e allegria che si creava.
Ora camminava nella foresta, alla ricerca di Sasuke, che era andato ad allenarsi da qualche parte – a quanto aveva detto – e non si era più visto. Sakura non voleva che si perdesse il pasto.
Camminò ancora per qualche minuto e, accortasi di essere vicina alla radura in cui si trovava la lapide dedicata agli eroi di Konoha, decise di farci un salto, prima di continuare la ricerca. Si fece spazio tra i rami degli arbusti e stava per entrare nella radura, quando si accorse di un’altra figura che era in piedi davanti alla lapide. E, prima che potesse capire esattamente cosa Sasuke stesse facendo lì, lui rese noto di essersi accorto della sua presenza.
«Cosa c’è, Sakura?», le chiese, senza nemmeno voltarsi per appurare che lì ci fosse davvero lei, continuando a fissare la lapide, lo sguardo impenetrabile.
«Bé… ci stiamo organizzando per cena giù, volevo-», cominciò. «D’accordo. Tra poco vengo», la interruppe lui.
Sakura, da parte sua, si aspettava una risposta del genere, anche se avrebbe voluto che tornasse con lei. Pazienza.
«Ok». Si voltò e tornò dagli altri velocemente.
Quando arrivò, il pasto era già pronto; era arrivata proprio poco prima che tutti si mettessero a tavola. Bè, tutti a parte Choji, che era già intento a divorare tutto quello che gli capitava davanti, sotto lo sguardo sconcertato di alcuni.
Trovò Temari in cucina, intenta a fare le porzioni di riso.
«Oi, posso darti una mano?», chiese.
«Oh, sì. Ci sono le altre scodelle lì», le rispose, riconcentrandosi subito sul suo compito.
Sakura prese le scodelle e si accostò a Temari.
«Quel vassoio per chi è?», disse, notando un vassoio con due piatti di riso e due porzioni di carne che era alla destra di Temari.
«È per quell’idiota di Shikamaru e suo padre – cominciò –; certo, eh, tale padre tale figlio! Non accennano a staccarsi da quel cavolo di letto. Oggi ho avuto seriamente l’impulso di buttarli giù a calci», finì, con un tono che poteva essere considerato serio. Sakura scoppiò a ridere. Magari un giorno l’avrebbe fatto davvero.
Temari si finse offesa e continuò. «Ehi, non c’è niente da ridere! È davvero stressante, credimi!», e cominciò a ridere anche lei per rendere più vero quel fittizio scambio di battute felici e spensierate, mentre prendeva il vassoio e si avviava verso le scale.

La porta della loro stanza era socchiusa come l’aveva lasciata. Entrò piano e si crogiolò per un momento nel silenzio assoluto che regnava nella camera, appoggiando la cena su un piccolo comodino che c’era fra i due letti. Guardò Shikaku, che dormendo le dava le spalle, e sospirò: non voleva svegliarli.
«Di nuovo qui?».
«Non stavi dormendo?», chiese di rimando al ragazzo che ora la guardava, visibilmente assonnato. Lui si coprì gli occhi con un braccio.
«No. Ogni volta che chiudo gli occhi vedo mia madre».
«Ho portato la cena», disse lei, cambiando discorso. Le faceva male vedere il suo volto contratto in quell’espressione che le ricordava troppo quella di Kankuro e il fatto che aveva dovuto lasciarlo a Suna, ferito in modo serio nel corpo e nella mente, per seguire i suoi doveri di neo-Kazekage. Shikamaru guardò per un attimo il vassoio, per poi rivolgere lo sguardo al soffitto. Poteva dire di aver imparato a memoria ogni singola crepa, ormai.
«Non ho fame. Voglio solo dormire, sono stanco».
«Devi pur mangiare qualcosa, avanti». Lui la osservò per un attimo, annoiato e vagamente infastidito.
«Lasciami in pace, Temari».

‘Lasciami in pace, Temari! Non lo capisci? È morto! Mor-to! È colpa mia… è solo colpa mia’.

Le parole di Kankuro le si conficcarono in testa come degli aghi. Lo sapeva che Gaara era morto, sapeva cosa voleva dire perdere una madre. Sapeva che era necessario andare avanti, e che tormentarsi, come faceva Kankuro, rimuginando su imprese impossibili che avrebbero potuto salvare i propri cari era inutile. Sapeva che faceva tremendamente male, questo più di ogni altra cosa.
Indurì lo sguardo, mascherando ogni emozione che potesse fuoriuscirne; si chiuse in se stessa per un attimo e strinse i pugni.
«So benissimo che stai male. Lo so come ci si sente quando tua madre viene uccisa e tu non hai potuto fare niente perché eri troppo piccola e insignificante, quanto soffri a vedere tuo fratello sacrificarsi per il Paese che ama più di ogni altra cosa e morire, mentre un altro fratello muore dentro per colpa del rimorso», si fermò per un attimo, soppesando quello che aveva appena detto, con voce bassa ma ferma, piena di sottile rancore e altre cose che in quel momento non aveva voglia di identificare.
«La guerra comporta vittime. Chi sopravvive va avanti».
Shikamaru la guardò per un attimo, vagamente sorpreso e cosciente di essere stato colpito nel punto giusto. Rimase immobile per una manciata di secondi, poi sbuffò e fece un mezzo ghigno.
«Che fai, ricicli battute, Mendekouse?».
Temari ghignò a sua volta, sapendo che quello era il suo modo di ringraziarla e farle capire che aveva afferrato il concetto; ancora leggermente seccata dal comportamento dell’altro.
«Tu ricicli errori, cry-baby, siamo pari».
«Mancano i fazzoletti», disse lui, indicando il vassoio. Temari si accorse che era vero, se li era dimenticati.
«Che c’è, vuoi che esca così puoi piagnucolare in pace?», chiese acida. Shikamaru la guardò malissimo, come ad affermare che lui, un uomo forte e coraggioso, non potesse piangere. Come no.
Temari sbuffò e si diresse verso la porta.
«D’accordo, d’accordo, vado. Buon pianto!».

La serata passò tranquilla, cadenzata dalle risate causate da Kiba e Rock Lee, che facevano a gara a chi riuscisse a interpretare quello che Choji ‘diceva’ mentre mangiava.

***

Era immerso in un’oscurità liquida e densa, si sentiva affondare sempre di più. Tuttavia non provava dolore, non sentiva proprio niente, ora che ci pensava bene.
Ogni tanto, un ricordo bussava alla porta del suo cervello intorpidito, facendoglielo rivivere come un sogno. Alcune volte pensava di sognare sul serio ciò che vedeva; altre gli sembrava addirittura di sentire delle voci ovattate e distorte, ma non capiva quello che dicevano.
Non ricordava chi era, non ne sentiva nemmeno il bisogno. Voleva solamente affogare in quelle calde e soffocanti tenebre; anche se così sarebbe… cosa?
Un dolore lancinante al petto. Aprì gli occhi.

Quel giorno il cielo era coperto da una spessa coltre di nubi, che non permetteva ai raggi del sole di penetrarvi e far evaporare la schiacciante umidità, che rendeva l’aria appiccicosa e stagnante.
Camminavano da quelle che sembravano ore, attraversando quella che una volta era la loro città, alla ricerca di corpi rimasti sotto le macerie, o di qualcosa che poteva tornare utile. Si erano divisi in gruppi per eseguire l’operazione il più velocemente possibile, ma non in modo meno doloroso.
Shikamaru era di qualche passo più indietro degli altri, il suo cammino reso più difficile dalle stampelle e dalle macerie che gliene rendevano arduo l’uso. Sua madre l’avevano trovata un numero non specificato di ore prima, sotto le macerie del negozio della famiglia di Ino, insieme alla madre di Choji e della sua stessa amica. Suo padre non aveva retto alla raccapricciante vista ed era dovuto tornare all’ospedale; lui invece era rimasto, vuoto e incredibilmente stanco.
Non aveva potuto fare niente.
Si ritrovarono davanti all’ennesimo cumulo di calcinacci; resti di quella che una volta era la prestigiosa Accademia di Konoha. Quella scuola incarnava il sogno del suo maestro e di suo padre; era un simbolo per ricordare loro ogni giorno per cosa vivevano e combattevano: mantenere vivo e pulsante il cuore di Konoha. Un giorno, anche lui avrebbe voluto seguire le loro orme.
E ora?
Ora quel cuore era stato strappato via, vivo e pulsante, gettato nella polvere e calpestato.
Davvero, non c’era più niente per cui lottare.
‘Scaccomatto’.

You choke a scream
crushing a dream
made the scheme real

Sakura si svegliò di soprassalto, ansimante e madida di sudore, dall’orribile incubo che stava avendo.
Se il giorno sorrideva ed era sempre pronta a distribuire speranza come niente, di notte tutte le sue paure, i rimpianti, il dolore prendevano corpo e la tormentavano, sotto forma di incubi, facendole vedere tutti i peggiori scenari che potevano verificarsi. In quei momenti le mancava qualcuno a cui aggrapparsi, era sempre e completamente sola tra le sue ansie più cupe. Non era raro vedere vividamente il corpo di Naruto, coperto di sangue e freddo, che si arrendeva al destino come non aveva mai fatto, rinunciando al suo sogno; e nemmeno sentire la pressante assenza di Sasuke, troppo ossessionato dal suo sogno di vendetta per vivere davvero; oppure vedere Sai uccidere i suoi compagni di Konoha senza provare niente, perché il suo unico obiettivo era completare la missione. Poteva scorgersi mentre, piangendo, posava dei fiori sulla tomba del maestro Kakashi e su quelle dei suoi genitori.
Ma lei aveva un sogno, e cosa c’era di più bello? Eppure non sognava mai di rimproverare Naruto per l’ennesima idiozia e non vedeva Sai e Sasuke sorridere leggermente ai loro quotidiani battibecchi, Ino sgridare Choji per la sua ingordigia, i suoi genitori sereni. Mai da quando tutto questo era iniziato aveva sognato davvero o c’era stato il sole in lei; solo un cielo cupo e senza speranza.

Scacciò via quei pensieri e si alzò, preparandosi, sia fisicamente che mentalmente, ad affrontare la nuova giornata.
Dopo una colazione frugale, passò a prendere il necessario ai medicamenti di Naruto, e poi salì nella sua camera. Aprì piano la porta e, quando si ritrovò osservata da due occhi cerulei, quello che teneva fra le braccia le cadde miseramente.
«Naruto!», esclamò, incredula. Sentiva già le lacrime scendere calde sul suo viso, ma non se ne curò. Corse verso il capezzale del suo compagno e gli si gettò praticamente sopra, singhiozzando.
Naruto, dal canto suo, era relativamente sveglio da poco e piuttosto rintronato. Non sapeva dov’era né perché. Aveva provato a muoversi, ma non sentiva altro che un fastidioso formicolio ovunque. Magari erano i farmaci, pensava.
La vista di Sakura l’aveva rassicurato, come sempre. Avrebbe voluto tranquillizzarla con qualche carezza, una pacca sulla spalla, ma non riusciva a muoversi, se ci provava sentiva solo più forte il formicolio.
«Cretino, pensavo che non ti saresti più risvegliato! Ma come cavolo ti è saltato in mente di… di… razza d’idiota!». Sakura non si rese conto di stare dando dei piccoli pugni sul petto dell’amico, come una bambina, finché non alzò lo sguardo, incrociando quello vagamente divertito e confuso di lui. Si mise subito a sedere e si asciugò le lacrime, mormorando un ‘idiota’ sottovoce.
«Sakura… cos’è successo? Io ricordo di stare combattendo… poi più niente».
L’interrogata rimase silenziosa per un attimo, raccogliendo le idee. Poi gli spiegò tutto: perché era svenuto, Sai che gli aveva salvato la vita, la breve convalescenza, infarcendo il tutto con insulti e rimproveri più o meno coloriti qua e là.
«Quindi il formicolio che sento e il non riuscire a muovermi sono dovuti al fatto che ho superato il limite?», chiese quando lei ebbe finito.
«Sì».
«Ed è… permanente?». Eccola là, l’unica domanda a cui Sakura non voleva rispondere.
«Non ti preoccupare, andrà tutto bene», rispose lei. Ma il sorriso era troppo tirato, gli occhi chiusi con troppa enfasi, il volto troppo contratto, perché Naruto potesse credere a quelle parole. Tuttavia, sorrise debolmente; non voleva farla preoccupare più di quanto non stesse facendo.
«Bene!».
Passò un minuto di silenzio tra i due, prima che Sakura si alzasse a raccogliere le cose che prima le erano cadute.
«Ora ti cambio le fasciature», affermò. Naruto annuì appena.
«Sasuke dov’è?», chiese all’improvviso lui, mentre Sakura cominciava ad adempiere il suo compito.
«Non l’ho ancora visto oggi, probabilmente ad allenarsi da qualche parte», rispose lei, senza interrompere il suo lavoro. Naruto guardò il soffitto, assente.
«Bene, ho finito!», proruppe lei, dopo un po’, sorridendo, mentre si girava per andarsi a sciacquare le mani nella bacinella sul tavolino.
«Ora vado a riferire la bella notizia agli altri, vedrai che ti verranno a trovare! E più tardi ti porto il pranzo», affermò poi, rivolgendosi di nuovo a Naruto, che sorrise.
Quindi Sakura raccolse le bende da buttare e si diresse verso la porta.
«Grazie, Sakura», uscì e chiuse piano la porta; poi corse velocemente nella sua stanza, presa da un’improvvisa nausea.
Avrebbero celebrato un funerale per tutte le vittime, quella mattina, ma non gliel’aveva detto, non ce l’aveva fatta. La paralisi di Naruto era permanente, ma non gli aveva detto nemmeno questo. E dire che odiava la gente vigliacca e bugiarda.
Si sentiva disgustosa.

Let's celebrate the modern end
Let the world begin again
Celebrate the Renaissance man

Il sole picchiava forte in quel momento, i suoi raggi incapaci di sciogliere il gelo nei cuori e un vento troppo leggero per spazzare via l’odore di sangue rappreso e morte e lacrime che stagnava nella piana aleggiava quieto.
Li avevano seppelliti nella stessa pianura dove Pain aveva perso la vita, perché era l’unico luogo abbastanza grande da contenere tutti i corpi e non c’erano macerie; avevano messo vicine le famiglie e gli amici, cercando di mantenere intatti quei legami anche nella morte. Il silenzio regnava sovrano, interrotto ogni tanto da qualche singhiozzo troppo forte. Sakura poteva vedere quasi tutti i sopravvissuti presenti chinati sulle tombe dei propri cari a vuotarsi di tutte le lacrime e di tutto il dolore, per poi incominciare a sperare nell’inizio di una nuova vita.
Si asciugò invano il viso per l’ennesima volta, volgendo il suo sguardo a Sai. Lui non piangeva. Se ne stava in piedi, le braccia lungo i fianchi, da una parte, distaccato dagli altri e dal loro dolore, il volto atono, vuoto. Perché non piangeva?
Distolse lo sguardo da lui quasi immediatamente, presa da un’improvvisa rabbia. Nessuna di quelle persone significava niente per lui? C’era qualcuno per cui avrebbe pianto?
I sentimenti che giorni prima l’avevano attanagliata quando lui se n’era andato cominciarono a riaffiorare violenti, inondandola, e non riuscì a fermarli.
«Perché non piangi per i caduti?», glielo chiese senza nemmeno pensarci, gli occhi fissi sul mucchio di terra davanti a lei, rifiutandosi di guardare l’espressione spaesata che sicuramente c’era sul volto dell’altro. Non provava niente?
«Io… non li conoscevo», rispose Sai dopo qualche istante, un po’ riluttante.

Intanto le persone cominciavano ad andare via, sembravano tutte terribilmente stremate. Alcuni cominciavano a pensare dove avrebbero potuto ricominciare a vivere, magari in un altro villaggio, altri non volevano staccarsi dal passato; come un bambino, che Sakura avrebbe potuto vedere, se solo avesse alzato lo sguardo, che non voleva abbandonare la tomba del padre, mentre sua madre, distrutta, cercava di portarlo via.
Ma Sakura era troppo impegnata a cercare di controllarsi, che fare troppo caso a quello che accadeva intorno a lei.
Non li conosceva.
Come ‘non li conosceva’? E, anche se fosse, non erano suoi compagni? Persone del suo stesso villaggio per le quali valeva sacrificare la propria vita?
Sai guardava la ragazza mentre lei stringeva inconsciamente i pugni, chiedendosi se avesse detto qualcosa di sbagliato. Ancora non era riuscito a capire bene quando le sue parole erano fuori luogo, errate, cattive e quando invece servivano a consolare, rassicurare oppure se erano dolci o gentili. In ogni caso, non voleva ferire Sakura e sapeva che se si faceva qualcosa di sbagliato bisognava chiedere scusa in modo molto gentile, soprattutto se la persona era irascibile e assurdamente imprevedibile come Sakura.
Forse non avrebbe dovuto dire che non li conosceva. Ma era vero, perché non essere sincero?
«Non erano tuoi compagni, Sai? Ino Yamanaka, Kakashi Hatake, Shino Aburame, Hinata Hyuga, Gai Maito, Neji Hyuga, TenTen… non erano tuoi compagni? Non li conoscevi?», la voce di Sakura si faceva via via più alta e impregnata d’odio e dolore mentre pronunciava quei nomi di persone che non avrebbe più visto, se non in una vecchia foto.
Sai restò immobile, mentre la sua mente annaspava in cerca di una risposta sincera – perché non gli piaceva mentire – che allo stesso tempo non avrebbe fatto infuriare l’amica ancora di più.
Lui considerava compagni Naruto e Sakura, sapeva di provare per loro un sentimento che i più chiamavano amicizia, quindi un compagno era un amico; ma non si sentiva legato allo stesso modo con quelle persone che magari aveva visto solo un paio di volte e con cui non aveva nemmeno mai parlato veramente, di cui a malapena ricordava i volti. Era sbagliato? C’era qualcosa che non andava in lui se non sentiva niente per loro?
Non sapeva come rispondere, certo che, qualunque risposta avesse dato, non sarebbe riuscito a calmare Sakura.
Lei, nel frattempo, era tornata a guardarlo, pronta a scorgere ogni più piccola crepa sulla maschera che, sapeva, Sai portava. Ma non c’era niente di quello che voleva vedere: dolore, rimorso, andava bene anche solo dispiacere; invece non c’era niente di tutto questo. In compenso sembrava pensieroso, e Sakura si chiese se gli ci volesse una qualche sorta di concentrazione per provare dolore. Era una semplice macchina che faceva quello che gli veniva ordinato e che ora tentava di provare un benché minimo quanto falso dolore?
Poi, Sakura finalmente capì che la risposta era che no, non li considerava suoi compagni, magari nemmeno ricordava chi erano, e si chiese se lo stesso valeva per lei e Naruto: contavano qualcosa per Sai o erano semplicemente come dell’inchiostro su uno dei suoi disegni? Anonimo, insignificante?
Si alzò un piedi lentamente, finalmente rivolgendo il suo sguardo al ragazzo, che si maledisse, certo di aver sbagliato di nuovo. Non c’era un modo per capire, prima di sbagliare, come si doveva agire?
La ragazza abbassò la testa, improvvisamente interessata alla terra vagamente smossa.
«Non siamo niente per te, vero?», disse sussurrando, tanto che Sai dovette fare qualche passo in avanti, avvicinandosi a lei, per sentire. Avrebbe voluto ribattere, ma la ragazza non gliene diede il tempo.
«A Ino piacevi, sai? – continuò, mentre il viso le si bagnava di nuovo ricordando i suoi amici – Diceva che eri strano e ‘assurdamente carino’, come ti definiva, però ti trovava simpatico, soprattutto quando te ne uscivi con qualche stupidaggine… il maestro diceva che promettevi bene, era contento di averti nella sua squadra… tutti gli altri ti avevano accettato di buon grado… ma tu, tu non provi niente?», le ultime parole erano accusatorie, risentite, e Sai non potè fare a meno di maledirsi di nuovo, mentre cercava di ricordare le persone nominate da Sakura e afferrare i ricordi che le riguardavano.
«Non lo sapevo…», riuscì a dire.
«No che non lo sapevi! Di noi non te ne importa niente! Niente!», controbatté lei, guardandolo nuovamente.
Sai rimase un attimo spiazzato: non era vero. Fece un paio di passi in avanti, allungando un braccio per raggiungerla.
«Non è vero, Sak-», provò a dire, ma lei gli schiaffeggiò via la mano con forza.
«Non mi toccare! E non mentirmi! Avanti, dillo che di noi non te n’è mai importato niente, che sei solo…», che sei solo una spia di Danzo, che ci hai ingannati tutti con la tua recita. Non poteva finire la frase, non in presenza di altre persone, perché era certa che se lo avessero saputo per Sai non ci sarebbe stata alcuna speranza di vivere. E no, non stava scherzando.
Il ragazzo le sembrò quasi offeso, ritrasse il braccio quasi con stizza, non l’aveva mai visto così, e in fondo si dispiacque per quello che stava per dirgli, ma non abbastanza. Si sentiva in colpa e furiosa come non mai allo stesso tempo, non sapeva che fare.
Sakura esitò per un momento, prima di rendersi conto che non sapeva davvero che cosa fosse Sai. Una macchina? Una vittima?
«Sei solo… solo… – ripeté, incerta – si può sapere cosa diavolo sei? Prima-», non finì la frase, perché Sai la interruppe.
«Sono Sai».
Si sentiva ferito. Non aveva mai provato quel sentimento, ma ora che Sakura continuava a ribadire che lui non provasse niente nemmeno per lei e Naruto si era sentito in qualche modo tradito, incompreso, perché era certo che Sakura avesse capito quanto significassero per lui; invece sembrava di no.
«E cos’è ‘Sai’?», insistette Sakura, la voce aspra, sapendo di colpire a fondo. Si sentiva male per quello che stava dicendo, eppure non riusciva a fermarsi; sentiva di dovere sfogarsi, esternare tutta la frustrazione che da troppo dimorava in lei. Perché proprio in quel momento, proprio con Sai, non lo sapeva.
«Non lo so», rispose lui, glaciale e ferito. Perché non capiva?
Sakura gli rivolse un ultimo sguardo, prima di correre via, urtando leggermente Temari, che stava venendo proprio in quel momento per vedere se c’era qualcosa che non andava. Evidentemente era arrivata troppo tardi.
Sai guardò il cielo, perso nei suoi pensieri.
Chi era lui? ‘Sai’ era un nome falso, che serviva solo per la durata della missione; non aveva un passato e non ne aveva mai voluto uno, non aveva sogni né obiettivi che non fossero completare la missione e tornare vivo alla Radice. Ma ora la Radice non esisteva più, e lui era soltanto un foglio vuoto in attesa che qualcuno vi scrivesse sopra qualcosa, qualunque cosa.
Quindi, lui chi era? Non era nessuno, perché aveva cominciato, in qualche modo, a cambiare, ma non era nemmeno una persona, perché non era vivo abbastanza.
Chi era?

C’era stata una piccola processione in camera sua, quel pomeriggio.
Si erano presentati tutti i suoi amici; sembravano essere reduci da una lunga giornata di intenso lavoro, ma cercavano di non darlo a vedere, mantenendo un fastidioso sorriso di circostanza. A lui non dissero niente di tutto quello che era successo nei giorni precedenti, se non lo stretto necessario quando lui si faceva insistente con le domande; tuttavia si premurarono di augurargli ‘una pronta guarigione’ in tutti i modi possibili.
Guarigione.
Più Naruto ci pensava, più si convinceva che Sakura gli aveva mentito e, in realtà, per lui, non c’era alcuna speranza.
Ma era davvero vita quella che l’attendeva? L’eterna permanenza in un letto, impotente e incapace di fermare la vita che inesorabilmente l’avrebbe lasciato indietro, come i suoi compagni?
Qualcosa in lui s’incrinò, mentre rifletteva.
Girò la testa quel tanto che bastava per guardare il cielo cominciare ad imbrunire, oltre i vetri della finestra; sorrise amaramente.
«Pare che io abbia un sogno irrealizzabile…».

Non era andato al funerale, le lacrime le aveva già versate per chi doveva. Era di nuovo lì, in quella radura, dove la lapide riluceva degli ultimi raggi di luce, la pietra tinta di riflessi caldi e rassicuranti. In certi momenti aveva l’impulso di farla a pezzi, gettando sui nomi incisi sulla pietra la colpa di quello che gli era successo, in altri la guardava quasi con rispetto, ricordando le gesta che erano insignite lì dentro.
Si sentiva stranamente leggero, ma non in senso di felice, come invece sarebbe dovuto essere, dato che aveva realizzato il suo sogno. In compenso era vuoto, senz’anima e senza uno scopo.
Un sogno era un qualcosa di opaco, sfuggente.
C’era e non c’era e, quando pensavi di averlo finalmente afferrato, quello ti scivolava dalle mani, lasciandoti freddamente vuoto.
E Sasuke questo l’aveva imparato a sue spese, accecato dal desiderio di Vendetta: quando aveva ucciso Itachi, per un attimo aveva assaporato la pura felicità, il compimento di un sogno portato avanti da una vita, per poi sprofondare nei più cupi meandri del rimorso; perché tutto quello che aveva fatto non era servito a niente, aveva addirittura peggiorato la situazione, e aveva sbagliato tutto. Poi, però, era arrivato Madara e gli aveva ridato la vita con le sue informazioni; ma, soprattutto, aveva di nuovo qualcuno da vendicare ed espiare così il senso di colpa che lo attanagliava. Non chiedeva di meglio.
E ora era di nuovo vuoto e, per giunta, solo. Si sentiva assurdamente inutile e fuori luogo, sebbene avesse accolto di buon grado le intenzioni di Sakura e Naruto di integrarlo di nuovo in quello che rimaneva del villaggio. Gli avevano offerto una nuova luce, e lui aveva seriamente provato a seguirla, con tutto se stesso; ma non era abbagliante e invitante come quella rossa come il sangue della Vendetta, che si era ormai spenta per sempre.
Lui era un Vendicatore e, appunto, se non aveva nessuno da vendicare la sua esistenza era totalmente inutile.
«Quale sogno inseguire, ora, Itachi…?».

One last perfect verse
It's still the same old song
Oh Christ, how I hate what I have become

***

For my dreams I hold my life
for wishes I behold my nights
a truth at the end of time
losing faith makes a crime

Quando Sakura si alzò dal letto, la mattina dopo, si sentiva già orribilmente stanca. Non aveva chiuso occhio, rimuginando su quello che aveva detto, fatto, pensato il giorno prima, disgustandosi del comportamento che stava avendo, e allo stesso tempo giustificandolo.
Aveva troppa paura di chiudere gli occhi, temendo i tremendi sogni che sicuramente l’attendevano, intrisi di rimorso e rancore malcelato, di una miscela di sentimenti che non voleva affrontare.
Sbuffando osservò le occhiaie che si potevano scorgere appena sotto i suoi occhi, e, senza nemmeno fare colazione, si avviò verso la camera di Naruto.
Aveva notato, il giorno prima, che non riusciva a restare sveglio a lungo, e spesso si addormentava senza nemmeno accorgersene, o restava in una specie di perenne dormi-veglia; sperava che con l’andare dei giorni sarebbe migliorato.
Sperare, sperare, non faceva altro; ma niente di quello che desiderava diventava realtà, ma non poteva perdere la speranza, o sarebbe stata davvero la fine. Alcune volte, però, non poteva fare altro che maledire se stessa e la speranza che tanto la illudeva.
Arrivata alla stanza di Naruto fece un bel respiro e poggiò la mano sul pomello per aprire la porta, ma sentì delle voci provenire dall’interno. Accostò l’orecchio alla porta e per un attimo le parve di sentire Naruto e Sasuke parlare, ma si accorse che c’era Sai con Naruto.
Non voleva vederlo.
Sentiva che doveva chiedergli scusa, ma una parte di lei, orgogliosa e rancorosa, non glielo permetteva. Perché scusarsi? Quell’idiota non faceva altro che confonderla: prima tradiva Konoha, come se per lui non contasse niente. Ma, durante lo scontro con Danzo, quando Naruto era collassato e nessuno pareva riuscire ad arrivare in tempo per salvarlo da un ninja della Radice che stava approfittando della situazione per finirlo, correva in suo aiuto e lo salvava. Tuttavia, Sakura era sicura di averlo visto ferire alcuni ninja di Konoha che poi non sarebbero più guariti, ma non l’aveva detto a nessuno. Non capiva: da che parte stava?
Si allontanò in fretta, prima che Sai uscisse o si accorgessero della sua presenza, tuttavia non poteva fare a meno di chiedersi cosa si stessero dicendo.
Decise che quando sarebbe ripassata da Naruto, dopo colazione, gliel’avrebbe chiesto e si diresse verso la cucina.

Sasuke aveva un brutto taglio sulla spalla sinistra, che richiedeva cure giornaliere a cui, anche se di malavoglia, doveva prestarsi.
Di solito era Sakura a cercarlo per medicarlo, ma quel giorno, poco prima dell’ora di pranzo, era stato lui a chiederle di farlo. Che strano.
Ora erano nella stanza di lui, al piano terra, che si trovava, se non ricordava male, pressappoco sotto quella di Shikamaru e del padre.
La conversazione non era molto vivace: ogni tanto Sakura gli poneva qualche domanda – come stava, dove si recava per allenarsi, se era andato a trovare Naruto – e Sasuke rispondeva con un cenno della testa oppure con delle risposte brevi e concise. In questo non era cambiato, come in molte altre cose. Sakura aveva notato con piacere che il suo comportamento era pressoché lo stesso di quando era a Konoha, e questo non poteva che renderla felice, perché almeno una cosa era come la desiderava. Certo non poteva andare a pensare che le apparenze, troppo spesso, ingannano. Oh, non ci avrebbe mai pensato!

Resurrection of a horrid dream
Blend of hate and intense desire
Putrefy
Vile... surreal

D’un tratto, mentre stava per chiedere al ragazzo cosa avesse intenzione di fare quel pomeriggio, sentì un tonfo provenire dalla stanza sopra di loro. Molto forte; poi delle urla.
Guardò in alto, preoccupata e vagamente curiosa, quasi a voler provare a vedere quello che stava accadendo attraverso il soffitto; anche Sasuke alzò il capo, più infastidito che altro.
Finì di rifare la fasciatura e raccolse le sue cose in fretta.
«Sasuke-kun, corro a vedere quello che è successo di sopra, magari hanno bisogno del mio aiuto!», disse, mentre cominciava a dirigersi verso la porta.
«D’accordo», rispose l’altro, atono, mentre si ricopriva la spalla ferita con il kimono.
«Sakura–», la chiamò, proprio quando lei stava aprendo la porta per uscire.
«Sì?», chiese, sorridendo.
«Grazie», e non importava se il suo sguardo fosse più umano e la parola più colma di significati di quanto lui stesso avrebbe voluto quando lo disse.
«Prego».

Salendo le scale, di fretta, incontrò Choji che faceva la sua stessa strada, ma in senso inverso, con calma.
«Choji! Ma cos’è successo di sopra? Quel rumore di prima…».
«Il solito, niente di grave. Non c’è da preoccuparsi», disse lui, e per un attimo le sembrò che sogghignasse. Alzò un sopracciglio: niente di grave?
Lo stomaco del ragazzo brontolò rumorosamente e lui ci si passò una mano sopra, come a rassicurarlo. Brutta similitudine, decisamente. Rassicurare uno stomaco…
«Scusa, ma ho una fame da lupi, vado a vedere se qualcosa è pronto…». C’era un momento in cui non avesse una fame da lupi?
Sakura sorrise divertita.
«Ok».

Quando arrivò in camera di Shikamaru e aprì la porta, cercò quasi invano di trattenersi dal ridere davanti alla situazione che si trovava davanti, sembrava uscita da un libro comico: Shikamaru era per terra, che si strofinava la nuca – probabilmente l’aveva battuta – con la gamba ingessata attorcigliata al lenzuolo e un po’ rialzata e urlava contro Temari.
Lei lo sovrastava, minacciosa e un po’ sporta in avanti con le mani sui fianchi, e gli gridava contro di rimando; mentre Shikaku, sdraiato sull’altro letto, se la rideva tranquillamente.
«Tutto bene qui?», chiese, la mano ancora sul pomello della porta. La sua espressione tentava di essere, se non seria, almeno normale, ma senza successo.
Shikamaru e Temari si girarono contemporaneamente verso di lei e la guardarono per un attimo, silenti.
«No! Quest’idiota–», risposero all’unisono, rigettandosi immediatamente in un’altra sessione d’insulti.
«Prima le donne!».
«Guarda che tu di donna hai solo le sembianze!».
«Come se tu fossi un uomo!».
«Ma io lo sono, Mendekouse!».
«E io ho un fottuto nome, maledetto misogino-con-la-testa-ad-ananas!».
«Anche io, dannato essere-che-tenta-di-assomigliare-ad-una-femmina!».
Sakura sospirò profondamente e si riavviò i capelli, totalmente ignorata.
«Posso sapere cos’è successo qui…?», chiese, quasi esasperata, guardando speranzosa Shikaku. Questi si alzò, sorridendo, e le si avvicinò – non si sarebbe sentito niente se fosse stato più lontano.
«Shikamaru voleva dimostrare a Temari che sarebbe riuscito anche senza ‘l’aiuto di una dannata donna’ a scendere giù a mangiare. Il che implicava alzarsi dal letto e cercare le stampelle – non ricorda dove le ha messe, probabilmente sono finite sotto al letto. E, come vedi, non c’è riuscito», rispose, divertito.
«Ah. E quanto andranno avanti?», disse, indicando i due che continuavano imperterriti nella loro discussione.
Shikaku rivolse a sua volta il suo sguardo verso di loro e alzò le spalle.
«Non ne ho idea, ma non voglio essere nelle vicinanze quando scoppierà la rissa, perché scoppierà. Credo che andrò giù».
Sakura sospirò di nuovo, sconsolata.
«Vengo con lei, Shikaku-san».
Uscirono e chiusero la porta, lasciando gli altri due all’ennesimo round della gara a chi insultava di più.

For years I’ve been strapped unto this altar.
Now I have only three minutes and counting.
I just wish the tide will catch me first
And give me a death I always longed for.

«Va tutto bene, Sasuke?», chiese piano, cercando di rompere il ghiaccio. Sentiva il torpore avanzare inesorabile; probabilmente si stava addormentando di nuovo. Sakura gli aveva detto che erano le medicine che gli facevano quell’effetto.
«Bene», rispose l’altro, quasi sussurrando. Il clima che c’era in quella stanza lo stava lentamente soffocando; voleva uscire e scappare dai sentimenti e dalle cose non dette che lì vorticavano violenti.
Naruto cercò di sorridere.
«Ah, meno male. Io invece sono bloccato qui – provò a ridacchiare, senza successo –; mi annoio, sai? Non posso fare niente! Ma quando guarirò voglio combattere con te; ti sta bene, teme?», disse, con il tono di sfida migliore – come quello di una volta, sperava – che gli riuscì.
In realtà si sentiva amareggiato per vari stupidi motivi.
Perché Sasuke era il suo rivale e lui doveva ancora sconfiggerlo.
Perché non poteva neanche prenderlo a pugni a poi piangere dalla felicità per tutto quello che gli aveva fatto patire.
Perché aveva sempre detto a tutti che sarebbe diventato Hokage e un fortissimo ninja; invece era rimasto bloccato su un dannato letto per tutta la vita, mentre Sasuke era riuscito a raggiungere i suoi scopi, senza guardare in faccia nessuno.
Era tutto distrutto.
L’espressione di Sasuke si incupì e guardò fuori dalla finestra, incrociando le braccia sul petto.
«Fa’ come ti pare». Forse voleva aggiungere qualcosa, forse. Ma non lo fece.
Sakura bussò piano alla porta e fece capolino nella stanza, sorridendo radiosa.
«Tutto ok?».
Naruto mise su un sorriso di circostanza, mentre Sasuke si limitò semplicemente a rispondere con un cenno della testa.
«Sì, Sakura-chan – la chiamò come faceva una volta –, va tutto bene».

Oh, quanto avrebbe voluto che tutto finisse.


The end.

The songwriter's dead.
The blade fell upon him
Taking him to the white lands
of empathica,
of innocence
Empathica
Innocence

Entrò nella radura.
La lapide riluceva dei primi raggi di luce lunare, argentata e sinistra.
Tutto intorno i sussurri della foresta erano appena udibili, il vento soffiava sommesso.
Un urlo, poi un altro, un altro e un altro ancora.
Singhiozzi e lacrime.
Cadde in ginocchio.
Era un sogno. Sì, era uno dei suoi incubi.
Guardò disgustata gli schizzi di sangue che splendevano sulla pietra, il nome ‘Itachi Uchiha’ inciso con cura sotto agli altri nomi, il corpo di Sasuke riverso a terra nel suo stesso sangue.
Avrebbe vomitato, lo sapeva. Ma quello era un sogno, vero? Non era possibile, era troppo assurdo. Lei era solo andata a cercarlo per la cena. Solo per quello. I suoi incubi le stavano sicuramente facendo qualche scherzo.
Ingenuamente provò a pizzicarsi la guancia per svegliarsi – quello era un incubo.
Niente.
Perché non riusciva a svegliarsi?
Provò ancora, ancora e ancora, ma quell’orripilante quadro rimaneva sempre al suo posto.

«Quale sogno inseguire ora, Itachi…? La Morte?».

I know I will die alone, but loved.

***

Loro erano felici e su questo non poteva transigere. Doveva essere così, per forza: la guerra era finita, Sasuke era tornato a casa, erano vivi. Avrebbero dovuto essere felici.
Ma allora perché?
Perché Sasuke si era ucciso?
La loro vita doveva tornare come prima. Ora era impossibile. Perché aveva dovuto rovinare ogni cosa? Andava tutto bene, dannazione!

Sakura non chiuse occhio nemmeno quella notte, continuando a rivivere il ritrovamento del corpo di Sasuke, ancora e ancora.
Quante volte aveva vomitato? Quanto aveva pianto?
Non si era convinta del tutto che non stesse sognando, non aveva perso la speranza di risvegliarsi; perché il mondo non poteva essere così infernale.
Cercò di trovare un motivo, una qualche assurda ragione, inutilmente. Non poteva chiedere a nessuno se sapesse qualcosa, perché Sasuke non parlava con nessuno, tantomeno agli altri membri dell’Hebi, a meno che non volesse provare a fare una seduta spiritica per ricondurre indietro Juugo e quell’odiosa Karin. L’altro, Suigetsu, se l’era svignata da qualche parte dopo la fine della battaglia.
Ma, se ci pensava bene, non aveva mai veramente parlato con Sasuke da quando era tornato. Non sapeva niente di come avesse passato gli anni senza di loro, di perché fosse venuto a Konoha, perché era rimasto.
L’unica cosa di cui era certa era che Danzo doveva avergli fatto qualcosa – che non sapeva, non aveva voluto parlarne –, per questo voleva così disperatamente ucciderlo, come aveva fatto.
Ma cosa?
Stava sprofondando nelle sue paure, tutte le sue certezze vacillavano e poi si infrangevano miseramente, come vetro, lasciandole il vuoto intorno.
Avrebbe dovuto dirlo a Naruto. Un brivido la scosse a quel pensiero: non aveva il coraggio né tantomeno la benché minima idea di come comunicarglielo; non voleva farlo soffrire ancora di più, ma era impossibile. Di sicuro lui avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vederlo, anche strisciare fino al cimitero, e non poteva permetterlo.
Possibile che al mondo ci fosse solo dolore?
Si girò a pancia in sotto e affondò la testa nel cuscino, soffocando l’ennesimo singhiozzo troppo forte.

Il trillo fastidioso e acuto del monitor cardiaco l’accolse immediatamente quando aprì la porta della stanza di Naruto. Terrore e panico si dipinsero nitidi sul suo volto, mentre gettava le cose che aveva a terra e correva verso il letto.
Era un gioco, le stava facendo qualche scherzo, come sempre. Aveva staccato la macchina da solo e quindi quella agiva come se fosse morto. Era così.
Peccato che fosse paralizzato e non potesse fare niente.
«Naruto! Naruto? Non fare l’idiota, svegliati! Ehi!», urlò, mentre cercava di concentrarsi sul massaggio cardiaco e non guardare il suo viso, freddo come il ghiaccio e olivastro. Avvicinò l’orecchio al cuore, come aveva fatto anche poco prima: nessuna pulsazione.
No, no, no.
«Naruto! Ti prego, svegliati… ti prego…», provò a chiamare di nuovo, la voce roca e rotta dalle lacrime.
Provò in tutti i modi a farlo riprendere o, per meglio dire, resuscitare.
Nessuna risposta, nessuna pulsazione.
E quel volto freddo, gli occhi socchiusi che sembravano osservarla di nascosto, il corpo rigido come pietra. Sentì un conato di vomito colpirla prepotentemente, scappò dalla stanza e si rifugiò nel bagno più vicino, lasciando la porta della ormai camera mortuaria aperta.

Don’t you die on me
You haven’t made your peace
Live life, breathe! Breathe!

«Sakura… come stai?», domandò con gentilezza Temari, mentre le porgeva una scodella di riso.
Quando Sakura era uscita dal bagno qualcuno si era già accorto della morte di Naruto, aiutato dalla porta spalancata della stanza, che rendeva la scena vagamente pittoresca. La notizia si era diffusa veloce come il vento e ora tutti la trattavano con quel velo di pietà e ostentata gentilezza che la faceva infuriare come non mai. Non aveva bisogno della loro pietà, del loro conforto, della loro gentilezza; voleva essere lasciata in pace.
Normalmente sarebbe stata grata della gentilezza di Temari, perché sapeva che capiva come si sentiva; magari sarebbe anche passata sopra a tutto il resto. Ma si era stancata, di tutto. Non le importava quello che provavano gli altri, voleva solo far sparire il dolore e avere almeno qualche dannata risposta.
Non sapeva perché Sasuke si era ucciso. Non sapeva chi aveva ucciso Naruto né il movente.
Quando era tornata in camera, poco prima di raggiungere gli altri per pranzo, aveva ripensato più lucidamente a quello che era successo: le macchine che lo tenevano in vita erano staccate e quindi non era più stato in grado di respirare autonomamente ed era morto nel sonno. C’era un piccolo problema: Naruto non poteva staccare le macchine, perché era paralizzato e non c’era modo di recuperare la sua condizione. Allora chi era stato? E perché l’aveva fatto?
«Odio le domande retoriche, Temari», rispose, e, anche se cercava di sorridere, la sua voce era comunque intrisa di scherno.
L’altra ragazza aggrottò le sopracciglia, infastidita dal comportamento di Sakura. Se non fosse stata in una situazione così difficile di sicuro gliene avrebbe dette quattro.
«Donna, vuoi muoverti con quel riso?», la domanda, gentile e pacata come al solito, di Shikamaru la distolse da Sakura, che intanto aveva cominciato a mangiare.
«Se tu riuscissi a stare in piedi potresti anche fare da solo», lo rimbeccò, stuzzicandolo su quanto accaduto il giorno prima.
Shikamaru borbottò qualcosa sottovoce e sbuffò, ma in compenso si zittì.
«Sai non viene a pranzo oggi?», chiese Choji tra un boccone e l’altro, a nessuno in particolare.
Sakura si sentì osservata e alzò lo sguardo infastidita.
«Che ne so io di cosa fa quello?», chiese acida, per poi ricominciare a mangiare.
Gli altri si guardarono sorpresi, perché non era assolutamente da Sakura rispondere in quel modo. Pensavano che sarebbe stata triste, addolorata, infelice, ma non intrattabile, rabbiosa e schiva.
«Ma non siete…», provò Kiba.
«Compagni di squadra? Ma non farmi ridere. Non siamo niente, lui non è mai stato niente», lo interruppe lei. Finì il riso, si alzò e se ne andò, senza dire una parola.
Cominciò a dirigersi verso la sua camera.
Non vedeva Sai dal giorno del funerale, quando gli aveva urlato contro. Non che volesse vederlo, certo, e non si sentiva nemmeno più in colpa; o almeno di questo tentava di convincersi.
Poi, un pensiero la fulminò: due giorni prima Sai era stato in camera di Naruto, prima che lei arrivasse e, quando aveva chiesto a Naruto di cosa avessero parlato, lui aveva risposto in modo vago. Che fosse… ma perché? E poi in camera di Naruto c’erano stati praticamente tutti i sopravvissuti e nessuno di loro – Sai incluso – potevano avere un movente.
Mentre entrava nella sua stanza e si sdraiava sul letto ci ripensò: e se si fosse trattato di un ordine contenuto in una missione che Danzo poteva avergli assegnato prima dello scontro? Sai avrebbe potuto davvero uccidere Naruto a sangue freddo?

Sai era fermo sulla soglia della camera che fino a quella mattina aveva ospitato Naruto, una mano sullo stipite della porta.
Quel pomeriggio avevano dato sepoltura a lui e Sasuke con una piccola funzione dedicata interamente al primo. Si erano presentati quasi tutti, molti avevano pianto; Sakura più di tutti. Lui era rimasto un po’ in disparte e se ne era andato solo quando a piangere sulle loro tombe era rimasta Sakura, consumata dal dolore.
Si chiese se potesse rimediare agli errori commessi e aiutarla, mentre osservava assorto la penombra della stanza; ogni traccia di chi l’aveva abitata già scomparsa. Bastava così poco a cancellare l’esistenza di un essere umano?
Si portò una mano alla guancia e si sorprese di trovarla umida. Stava forse piangendo per la prima volta?
Chiuse gli occhi e si abbandonò alla nuova sensazione che si stava impadronendo del suo corpo, quella che i più chiamavano dolore.

La cena procedeva tranquilla quando Temari richiamò l’attenzione dei suoi commensali.
«Posso avere la vostra attenzione per un minuto?», si alzò, per rendersi più visibile, e si schiarì la voce. Quando vide che tutti gli sguardi erano puntati su di lei procedette con il discorso.
«Come tutti potete vedere è ormai chiaro che Konoha, purtroppo, non esiste più», a questa affermazione seguirono vaghi cenni di triste assenso.
«In qualità di Kazekage di Suna vi offro l’opportunità di trasferirvi nel mio villaggio, dove potrete continuare le vostre professioni mantenendo l’identità di cittadini di Konoha, formando così una piccola comunità, oppure integrandovi interamente diventando cittadini della Sabbia». Si sedette e ci fu un attimo di silenzio generale. Poi i sopravvissuti si lanciarono in un’accesa discussione: alcuni credevano che ricostruire e ricominciare da capo fosse possibile, altri non volevano rimanere un minuto di più.
«Io e mio figlio verremo volentieri con te, Temari», le disse Shikaku, sorridendo appena. Temari annuì e poi velocemente si rialzò.
«Ah, scusate, dimenticavo: dopodomani mattina dovrebbe passare di qui una carovana diretta a Suna. Quindi, dato che ci sono ancora dei feriti pensavo che la cosa migliore fosse aggregarci a essa». Detto questo si risedette, mentre gli altri continuavano a discutere.

***

Shikamaru sbuffò e rivolse lo sguardo al cielo plumbeo, mentre in sottofondo il rumore della mascella instancabile di Choji, vicino a lui, contrastava il picchiettio delle gocce di pioggia, leggere e impalpabili, che scendevano piano, quasi fossero stanche anche loro.
Tutto intorno il mondo era grigio, non un raggio di luce passava. Erano seduti su un blocco di cemento, poco lontani dall’ospedale.
«Che hai intenzione di fare, Choji?».
L’interrogato ingoiò un altro boccone, per poi prendere un'altra polpetta di riso.
«Vengo con te», rispose semplicemente.
«Non avevi dei parenti, da qualche parte?».
«Sì, ma… li avrò visti un paio di volte, non li conosco, non voglio essere di peso; e poi preferivo stare con te». Shikamaru lo guardò, mentre l’altro abbozzava un sorriso e mordeva l’ultima polpetta di riso.
«Uffa, sono finite! Quasi quasi vado a vedere se ce ne sono altre… dici che Temari mi permetterà di finirle?», chiese, poi, rivolgendosi all’amico, che scosse la testa.
«Nemmeno se la preghi in ginocchio». Choji sorrise.
«Non dirmi che l’hai fatto…», lo stuzzicò.
«Ovviamente no, ba–ka», rispose l’altro.
«Ino mi picchierebbe se ne mangiassi ancora», continuò Choji, osservando sconsolato il piccolo vassoio vuoto. Era proprio un peccato che non potesse mangiarne altre, erano così buone, e lui aveva una fame insaziabile.
Shikamaru lo guardò per qualche istante osservare il piatto come se si aspettasse di vedere ricomparire qualche polpetta, vagamente infastidito: aveva detto quelle parole come se fossero ancora in città, su un prato, aspettando che Ino uscisse di casa, dopo aver deciso che sì, era perfetta così com’era e nessun uomo poteva resisterle. E poi, quando li avrebbe visti, li avrebbe sgridati per essere degli ingordi nullafacenti e minacciati finché non si sarebbero alzati. Così era quando tutto andava come doveva.
Ora non c’era niente di tutto ciò.
«Finiscila», esordì poi, alzando di nuovo il capo al cielo.
Choji lo guardò interrogativo.
«Cosa?».
«Smetti di comportarti come se niente fosse», perché odiava il modo in cui faceva finta che filasse tutto per il verso giusto.
Choji abbassò la testa e rimase in silenzio per qualche istante; poi si alzò. «Ma… visto che Ino non c’è ne posso mangiare un altro paio, no?», disse, quasi cercando di fargli capire che aveva afferrato il concetto e si era reso conto della realtà; ma il suo tono era sempre troppo usuale.
Shikamaru sbuffò e lo guardò dirigersi dalla parte opposta all’ospedale, a testa bassa. Andava a mangiare, eh?
«Baka».
Chiuse gli occhi e si concentrò sul rumore della pioggia, non curandosi se stava cominciando a piovere seriamente. Non gliene importava niente.

Let the rain fall, I don’t care.

Per tutto il giorno c’era stato un vivace fermento all’ospedale; Sakura non riusciva a sopportarlo.
Si era chiusa nella sua camera: le piangeva il cuore a vedere le persone che radunavano le loro cose, svuotavano quello che fino a pochi giorni prima era il loro unico rifugio per andare da qualche altra parte e ricominciare. Alcuni erano già partiti, o almeno quelli che dovevano dirigersi in villaggi lontani; altri avevano deciso di restare a Konoha, indecisi se tentare la via della ricostruzione o rimanere fin quando era possibile.
Lei non voleva né andarsene né ricominciare, e non riusciva ad accettare il fatto che l’unica cosa che aveva legato tutte quelle persone e le aveva fatte diventare come una grande famiglia fosse solo la guerra e, ora che era terminata, i legami che si erano creati svanissero nel nulla.
Sarebbe rimasta da sola in quel palazzo, svuotato da qualunque traccia del passato. Non poteva assolutamente accettarlo.

Era uscita dalla sua stanza solo per mangiare qualcosa, a pranzo. Temari era passata una volta, durante il pomeriggio, per chiederle se aveva bisogno di qualcosa, ma non aveva risposto. Non era venuto più nessuno.
Chiuse gli occhi, tentando inutilmente di prendere sonno.
Quando sentì bussare piano, si girò su un fianco, dando le spalle alla porta, sperando che lo scocciatore di turno si sbrigasse ad andarsene.
«Sakura? Sono Sai, volevo–».
Quando sentì quella voce strabuzzò gli occhi e si alzò a sedere.
«Vattene!», gli rispose, avvicinandosi nel frattempo alla porta, quasi per assicurarsi di averla chiusa.
«Io voglio solo parlare, non…», riprovò Sai dall’altra parte.
«Io voglio che tu te ne vada», rispose lei, glaciale.
Sakura sentì il ragazzo sospirare e sperò con tutto il cuore che se ne andasse. Ci fu un attimo di silenzio, prima che ricominciasse a parlare.
«Mi dispiace», disse, poi. Sakura ebbe la tentazione di chiedergli per cosa si stesse scusando, ma resistette e rimase silente.
«Non sentivo – e non sento – le persone che sono morte come miei compagni, ho parlato con loro poche volte, non ho fatto in tempo a conoscerli come conosco te e Naruto», Sakura sussultò quando Sai usò il presente per Naruto.
«Quando hai detto che per me non significate niente mi sono sentito ferito – è stata la prima volta che ho provato quel sentimento –, pensavo che almeno tu avessi capito che non era così. Poi ho pensato che potevi averlo detto perché eri arrabbiata, le persone si sfogano spesso così, vero?».
Sai appoggiò una mano sulla porta, mentre cercava le parole e provava a captare qualunque reazione di Sakura alle sue parole. In quel momento, doveva essere appoggiata con la schiena alla porta.
«Mi dispiace, Sakura. Io…», la sua voce si abbassò e Sakura tese l’orecchio.
«Naruto… mi ha detto che ci avevi sentito parlare. Non ti ha detto di cosa, vero?», continuò, sussurrando.
«Lui stava molto male. Non voleva farti preoccupare, e non te ne ha parlato, però… aveva capito che non si sarebbe più mosso da quel letto; non considerava più la sua una ‘vita’, si sentiva come in una prigione, ha detto così», si fermò un attimo, sentendo i singhiozzi soffocati di Sakura. Se solo fosse potuto entrare…
«Poi mi ha chiesto… di lasciarlo andare ed io… io lo vedevo soffrire e ho pensato che un amico avrebbe…», sentiva Sakura piangere e non riusciva a continuare. Chiuse gli occhi.
«Ho deciso di andare alla Nuvola con il capitano Yamato; hanno bisogno di ninja esperti. Voglio provare ad andare avanti e vedere cosa mi aspetta», affermò dopo attimi di silenzio, sperando che cambiare discorso sarebbe servito a qualcosa. Apparentemente no, a giudicare da quello che sentiva. Sakura doveva essersi accovacciata per terra, continuava a piangere; aveva sbagliato ancora.
Restò immobile per qualche minuto, aspettando invano che Sakura dicesse qualcosa, lo picchiasse, qualunque cosa, pur di non sentirla piangere così disperatamente.
Quando capì che la ragazza non aveva alcuna intenzione di rispondergli, se ne andò, piano, non perdendo del tutto la speranza di sentire la porta aprirsi.

Sakura sentì i passi di Sai allontanarsi lentamente e tirò un pugno al pavimento duro e freddo.

***

«Shikamaru! La Giovinezza è con te, forza!».
Il ragazzo guardò infastidito Rock Lee, che non la finiva di incitarlo. Era euforico e diceva stupidaggini come al solito, ma tutti sapevano quanto la morte del suo maestro e dei suoi compagni di squadra l’avesse colpito; aveva passato la maggior parte del suo tempo, se non ad allenarsi per non offendere la memoria di Gai, sulle loro tombe. Choji gli aveva detto che alcune volte sembrava conversarci, mentre raccontava alla pietra com’era andato il suo allenamento e cosa aveva fatto quel giorno; una vista piuttosto triste.
Lui con la tomba di sua madre non ci aveva mai parlato.
«Sta’ zitto, Lee! Tu non devi scendere le scale con queste dannate stampelle!», gli urlò di rimando, dalla cima della rampa di scale che lo separavano dalla porta.
I preparativi erano quasi completi: i loro pochi averi erano stati raggruppati e li aspettavano, insieme ad altri sopravvissuti, appena fuori dal villaggio. Alcuni erano già partiti, poiché li aspettava un lungo viaggio, altri attendevano che si riunissero tutti per salutare con calma.
Temari stava finendo di organizzare le ultime cose e distribuiva ordini a destra e a manca da quando si era alzata.

Vide uno strano bagliore accendersi negli occhi di Rock Lee: non avrebbe portato niente di buono.
«In nome della Giovinezza, ti porterò sulle mie spalle; non temere, ora arr–», fece per affermare, indicandosi raggiante.
«No, no, per carità, non ti disturbare», lo interruppe Shikamaru, vagamente spaventato. Nessun uomo si sarebbe fatto portare in spalla da un altro. Bé, a parte Kakashi… ma quella era un’altra storia.
Choji e Kiba scoppiarono a ridere, mentre Rock Lee pareva non capire perché l’amico avesse rifiutato una proposta che a lui pareva allettante come non mai.

Dopo un’imprecisata quantità di tempo, che equivaleva a quella in cui Choji mangiava circa cinque pacchetti di patatine recuperate chissà dove, giunse all’ultimo gradino con un sonoro sbuffo, mentre Temari lo sorpassava come una tempesta, chiedendogli con scherno se dovesse portarlo in braccio lei. Lui in tutta risposta la mandò al diavolo.
«Bene, adesso sbrighiamoci a raggiungere gli altri, la carovana dovrebbe essere qui tra poco, stando alla tabella di marcia. Sicuro di farcela, cry-baby?», disse lei, mentre cominciava a incamminarsi.
«Certo che ce la faccio», borbottò lui.

Sai sedeva su una pietra, apparentemente calmo, lo sguardo rivolto a terra.
«Ne vuoi?».
Il ragazzo alzò la testa, trovandosi il pacchetto di patatine di Choji davanti agli occhi, mentre il ragazzo gli sorrideva leggermente.
«No, grazie», rispose gentilmente, non avendo idea di quale mostruosa gentilezza il ragazzo gli avesse dimostrato.
Choji continuò a sorridere, internamente grato di potersi godere le patatine da solo.
«Ehi, c’è Sakura!», esclamò Kiba dall’alto dell’albero su cui era salito con Akamaru.
A Rock Lee s’illuminarono gli occhi e le corse incontro, sbracciandosi a più non posso.
«Sakura-chan! Anche oggi la Giovinezza ti sorride!».
Sakura lo guardò un po’ imbarazzata e sconcertata da quel che diceva l’amico; portava un piccolo zaino in spalla.
«Grazie, Lee», rispose, evitando l’abbraccio da orso che lui le proponeva e sorpassandolo.
Notò Sai seduto in disparte e Yamato poco lontano che conversava con Shikaku.
«A cosa dobbiamo la tua presenza, Sakura-chan?», chiese Temari scherzando e ponendo l’accento sul vezzeggiativo, in una muta imitazione di Rock Lee.
«Ho deciso di partire con voi», rispose Sakura, e tutto di lei emanava determinazione.
Dopo un’altra notte quasi insonne, aveva deciso che Suna era l’unica via per ‘vivere’.
Konoha era morta, lo sapeva, non avrebbe avuto senso continuare ad annaffiare una pianta ormai secca e appassita, e rivedere quei luoghi così cari e le tombe dei suoi compagni l’avrebbe distrutta lentamente. Non era quello che voleva.
E non immaginava che Sai se ne sarebbe andato. Anche se dopo quello che era successo il suo rapporto con lui era mutato radicalmente, rappresentava un punto fermo per lei; una certezza che ora si sarebbe dissolta, come le altre.
L’unica scelta che le rimaneva era Suna.
«Bene, mi fa piacere. La carovana dovrebbe essere qui a momenti, sei arrivata appena in tempo».
Sakura accennò un sorriso, prima di notare Yamato che raccoglieva il suo bagaglio e diceva qualcosa a Sai, probabilmente dovevano andare. Il ragazzo la guardò per un momento, prima di avvicinarsi titubante.
Temari si spostò vicino ad un gruppo di ninja medici di Suna, capendo che non era il posto adatto a lei.
«Partite ora?», chiese la ragazza, quando furono soli, il tono di voce pressoché normale.
«Sì. Anche se di sicuro serviranno più di due ninja alla Nebbia…», rispose lui, saettando lo sguardo da Sakura al terreno. La reazione di Sakura, la sera prima, l’aveva scosso e fatto sentire ancora più in colpa. Forse aveva sbagliato.
«Scommetto che voi sarete sufficienti».
«Già».
Sai sorrise amaramente. Sakura non gli aveva mai visto un’espressione del genere sul volto. Forse aveva sbagliato.
Ci fu un attimo di silenzio imbarazzato, prima che Sakura parlò di nuovo.
«Sai, io ho capito che quello che hai fatto era nel bene di Naruto. Io… non volevo ammettere che ci fosse qualcosa che non andava, però… non posso ancora perdonarti, perché…», cominciò, guardando il ragazzo negli occhi.
«’Ancora’ vuol dire che un giorno lo farai?», chiese speranzoso lui.
«’Mai’ è un tempo troppo lungo, non trovi?», rispose lei, distogliendo lo sguardo.
Sai abbozzò un sorriso e sentì Yamato chiamarlo.
«Io devo andare ora – cominciò –, ma dovrò venire a trovarti, per vedere se mi hai perdonato».
Sakura annuì impercettibilmente, rivolgendogli un mezzo ghigno.
«Un bel destro la prossima volta non te lo toglie nessuno, però».
Sai sorrise e si voltò, salutandola con la mano.

«Sakura! La carovana sta arrivando, vieni!», la chiamò Temari, mentre gli altri si radunavano attorno a lei.
«Arrivo!».

«Ma che carovana e carovana! Forza, ragazzi: rendiamo felice lo spirito della Giovinezza facendo il tragitto a piedi e impiegandoci non più di due giorni!», esclamò Rock Lee, mentre lei si avvicinava.

I loro erano sogni al di sopra di qualunque speranza; per questo, credevano che la loro realizzazione fosse un atto dovuto.
Ora, non era rimasto nient’altro che un riflesso distorto su uno specchio d’acqua putrida disturbata dal vento, che sarebbe evaporata e riscesa sulla Terra di nuovo limpida, e poi ancora, ancora, ancora…

Soffrire e divincolarsi, esitare e combattere per ciò in cui si crede. La libertà che ci si apre davanti è la prova che si è vivi. Ma la libertà che non sappiamo o non vogliamo usare è una libertà inutile. Ora con questi pensieri che si agitano nel profondo di ciascuno di noi, ci apprestiamo a costruire un nuovo mondo.
La pioggia che incessante continua a cadere laverà via tutto quanto: odio, tristezza, rimorso e persino le colpe.
Il rosso non è più il colore del sangue, ma quello del sole che sorge; un sole che solo i vivi potranno vedere e che li condurrà verso una Nuova speranza per il domani.

Owari.


Credits:
la scena iniziale è ripresa dal primo numero di Naruto, Masashi Kishimoto;
la cit. 1 è contenuta nella canzone Higher than Hope, Nightwish, album Once (2004);
le cit. 2 e 13 sono riprese da Saiyuki, Minekura Kazuya, Square Enix;
la cit. 3 è contenuta nella canzone Crushed Dreams, Tristania, album World of Glass (2001);
la cit. 4 è contenuta nella canzone The modern end, Tristania, album World of Glass (2001);
le cit. 5, 8, 9 e 10 sono contenute nella canzone The poet and the pendulum, Nightwish, album Dark Passion Play (2007);
la cit. 6 è contenuta nella canzone Sleeping Sun, Nightwish, album Oceanborn (1998);
la cit. 7 è contenuta nella canzone Dementia, Tristania, album Beyond the Veil (1999);
la cit. 11 è contenuta nella canzone Dark Wings, Within Temptation, album Mother Earth (2000);
la cit. 12 è contenuta nella canzone Brighter than Sunshine, Aqualung, album A lot like love OST.
Ovviamente ne è consigliato l’ascolto durante la lettura, ma questo dovevo dirlo prima, già.

Link al concorso.

Note sclerate dell’autrice: sì, sono una macellaia sadica, ho fatto morire tanta gente e mi sono pure divertita <3
Ma il mio sgobbamento è stato premiato, e sono felicissima *__* (Grassie, giudiciA XD)
Questo primo posto è del tutto inaspettato! *^*
Bando alle ciance, è stato difficile scrivere questa storia, in primo luogo, perché avevo una certa persona da soddisfare e temevo il Giudizio Supremo, e poi perché dovevo conciliare il tema del contest applicandolo a più personaggi che non avevo mai usato, inserendo una trama decente; è stato stressante <3
È venuta fuori una roba mostruosamente lunga e l’idea, mi duole ammetterlo, è partita da una Sakura-Tarzan che scalava una montagna, purtroppo è così XD
Passando ai personaggi, Sakura e Sai sono stati quelli più difficili da muovere: la prima perché è terribilmente imprevedibile e volubile, non sapevo mai se avrebbe reagito distruggendo il mondo o rinchiudendosi in un angoletto buio, il secondo perché comincia a cambiare e quindi era difficile mantenerlo comunque IC lasciando trasparire il mutamento.
Riguardo agli altri, ho speso molto tempo a cercare di mantenerli con il loro carattere originale, tuttavia almeno leggermente mutato dalle vicende trascorse, visto che – anche se Kishimoto ormai ha buttato al vento il suo lavoro – non sono personaggi piatti e quindi cambiano.
Ah, le ripetizioni, dove ci sono, sono volute, non sono a corto di sinonimi! XD
Inoltre, la frase di Temari “la guerra comporta vittime”, è una rivisitazione della frase “le missioni comportano vittime”, che ha pronunciato nel volume 26.
La storia è divisa in sei giorni e doveva essere una specie di no pairing, visto che credo qualunque romanticismo di sorta avrebbe stonato in una storia del genere; ma qualche accenno qua e là c’è, chi vuole intendere intenda XD
I fatti successi prima della storia li ho ricostruiti e li ho raccontati attraverso flashback diretti e indiretti, talvolta lasciando solo qualche indizio.
Ci sono alcuni riferimenti a Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi qua e là, e di qualcun altro che ora non ricordo…
Bé, non mi pare di aver niente di più intelligente da dire; quindi, addio XD

EDIT ritardatario: ringrazio infinitamente Shatzy che ha segnalato la storia per le storie scelte e con la stessa enfasi ringrazio l’amministrazione che l’approvata! Grazie, grazie, grazie! ;*;
Ho aggiustato anche un po’ l’HTML (_ _)

V

p.s. questo è il banner fatto dalla giudice, grazie! ;*;


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