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Autore: Old Fashioned    22/01/2017    15 recensioni
Nel corso della guerra mahdista il tenente Eldred Grosvenor compie un atto eroico e viene proposto per la più alta decorazione conferita dall'Impero Britannico, ovvero la Victoria Cross.
Il capitano Lewis, suo diretto superiore, si occupa di ricostruire la vicenda che ha portato il tenente ad essere candidato al conferimento della prestigiosa medaglia, e così facendo scoprirà tante versioni dell'episodio, ma soprattutto tante sfaccettature del carattere del suo subalterno.
La storia è ispirata al film di Kurosawa "Rashomon", dove varie persone narrano, ognuna col proprio punto di vista, lo stesso episodio e ne vengono fuori storie sempre diverse.
Genere: Avventura, Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Grosvenor'
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VICTORIA CROSS




Abu Klea, Sudan, 17 gennaio 1885. Ore 09,30.

La Gardner si è inceppata di nuovo. Dannato aggeggio, non vuol saperne di funzionare.
Se ne sta lì sul suo affusto, sfacciatamente lucida sotto il sole cocente, come una specie di principessa viziata.
I suoi serventi, marinai della HMS Alexandra, si danno da fare come matti per convincerla a ripartire, ma con tutta la polvere che c’è in giro sarebbe come avere la pretesa di persuadere un gatto a farsi una nuotata in un fiume.
Tutt’intorno c’è l’inferno.
Un groviglio rabbioso di uomini e bestie, pallottole che fischiano, urla, nitriti, fumo, detonazioni. Ufficiali che gridano ordini, il fanatico acclamare di dervisci spiritati.
Allahu àkbar!
Giubbe color kaki, tuniche bianche, bandiere nere e naturalmente ovunque il rosso del sangue.
Momentaneamente disarmati, i marinai dell’Alexandra vengono attaccati con violenza. Uno sciame di mahdisti armati di lance e pugnali piomba su di loro, schizzi vermigli imbrattano la neghittosa principessa, che ancora non si decide a rientrare in funzione.

Il tenente Grosvenor assiste alla scena dall’alto del proprio cammello.
Smonta dalla cavalcatura, per prima cosa. È un fuciliere, e quelle bestie dinoccolate e imprevedibili non gli hanno mai dato un grande affidamento. Si trova maggiormente a suo agio col terreno solido sotto i piedi.
Si guarda rapidamente intorno, adocchia un gruppo di scozzesi della Black Watch. Li chiama e si dirige di corsa verso gli ormai esausti marinai.
Lo scontro è furioso. Il tenente ha la rivoltella d’ordinanza, ma strada facendo ha raccolto anche un moschetto con la baionetta inastata e dopo aver scaricato la pistola assalta i nemici all'arma bianca.
Quello che segue è solo un magma di sensazioni a tratti confuse e a tratti spaventosamente vivide.
Un servente si accascia a terra con la gola squarciata, roche urla di guerra, due dervisci gli si scagliano contro brandendo micidiali scimitarre. Para, scivola, c'è sangue dappertutto. Si rialza, un uomo dagli occhi di folle gli si avventa addosso. Cadono, corpo a corpo violento, il tenente riesce a rotolare via, la polvere imbevuta di sangue è una fanghiglia fetida che prende alla gola.
Si rialza, ha ancora il moschetto. Si terge il sudore dal viso, para un colpo quasi d'istinto, replica con un affondo.
La principessa nel frattempo si è decisa a funzionare di nuovo.
Il tenente sorride, abbassa il fucile, vede che si sta avvicinando di gran carriera il capitano Lewis. Brav'uomo Lewis.
Tutto a posto, i serventi sono salvi.
Il colpo alla spalla sulle prime sembra solo un pugno particolarmente forte. Lo fa barcollare all'indietro alla ricerca di equilibrio. Non sente dolore.
“Santo cielo, tenente!” esclama Lewis precipitandosi verso di lui.
All'inizio Grosvenor non capisce cos'abbia il suo superiore da urlare tanto, poi abbassa gli occhi e si accorge di avere la spalla destra trapassata da una lancia.
Riesce addirittura a stirare le labbra in un sorriso stentato, come se in definitiva si trattasse solo di uno scherzo estremamente originale.
Un rivolo di sangue gli scende da un angolo della bocca.
“Signore, credo di avere un problemino...” dice faticosamente. E si accascia al suolo.

§

Il colonnello Turner alza gli occhi dal documento che ha appena terminato di leggere e rivolge al capitano Lewis uno sguardo a metà fra l’incredulità e lo sdegno.
“State scherzando per caso?” gli chiede con voce tagliente.
“No, signore.”
“Quindi devo dedurre che avete seriamente proposto il tenente Grosvenor per la Victoria Cross?”
“Sì, signore.”
Alcuni secondi di silenzio, sembra che il colonnello semplicemente non si capaciti di quanto ha appena udito.
“E come avete maturato questa vostra decisione, se posso chiedere?” domanda poi in tono sarcastico.
Senza lasciarsi smontare, il capitano risponde: “Signore, il tenente Grosvenor è un eroe.”
“Nientemeno!” Manca poco che Turner scoppi a ridere.
“Signor colonnello, Grosvenor ha impedito che la mitragliatrice Gardner cadesse in mani nemiche e ha reso possibile il salvataggio della maggior parte dei suoi serventi. Nel corso dell'azione è rimasto gravemente ferito.”
L'altro continua a fissarlo scettico.
“Come vedete, i criteri per il conferimento di una Victoria Cross ci sono tutti,” aggiunge Lewis. Poi compuntamente recita: “cospicuo coraggio o audacia, o importanti atti di valore o auto-sacrificio, o estrema devozione al dovere in presenza del nemico.”
Il colonnello fa un sospiro infastidito. “Il vostro tenente Grosvenor, che voi definite eroe, non è altro che un cialtrone debosciato. È un insolente e uno spaccone, non sa stare al suo posto, non ha alcun senso della disciplina né rispetto per l'uniforme che porta. Conferire una decorazione come la Victoria Cross a un elemento del genere sarebbe il peggiore esempio che potremmo dare alle truppe.”
“Signore, il tenente Grosvenor merita quella decorazione,” risponde caparbio il capitano.
“L'unica cosa che Grosvenor merita è di essere radiato dall'Esercito.”

§

L'ospedale da campo è un gruppo di capanne di terra e paglia ombreggiato da qualche palma e circondato da una zeriba. Il posto è piuttosto lontano dall'essere confortevole, ma i dintorni sono troppo pericolosi per spedire una carovana di feriti a Suakin o in altri centri più attrezzati.
È il dottor Owen, il capitano medico, che si occupa delle cure assieme ai suoi assistenti. Ha ricavato una sorta di sala operatoria e un'infermeria nella più grande delle capanne e usa le altre come luogo di degenza per i pazienti.
Eldred Grosvenor è da solo, non si sa se per riguardo al suo blasone, dal momento che è pur sempre un nobile, o per evitare la sua nefasta influenza sugli altri feriti. La capanna dov'è sistemato è un po' isolata, anzi, ed è dotata di una specie di tettoia di foglie di palma che la rende leggermente meno torrida delle altre.
È sdraiato su una branda militare, qualcuno gli ha premurosamente sistemato un paio di cuscini dietro la schiena per consentirgli di leggere, e infatti il tenente ha un libro aperto in mano.
Lewis si ferma a guardarlo qualche secondo prima di dar segno di sé.
Un bel ragazzo dall'aria spavalda, con occhi di un azzurro indubbiamente particolare e il profilo di un cammeo classico.
Si chiede se sia vero quello che alcuni dicono di lui, ovvero che non gli piacciono le ragazze, per usare un eufemismo.
“Salve, tenente,” lo saluta.
Grosvenor si volta, gli sorride. “Capitano Lewis! Scusate se non mi alzo per accogliervi come si conviene, ma al momento temo di essere impossibilitato.”
Accenna al bendaggio che gli immobilizza la spalla destra quasi con noncuranza, come se si stesse scusando perché un precedente impegno gli impedisce di prendere parte a una partita di bridge.
“Non datevi pena, tenente,” risponde il capitano sedendosi su uno sgabello lì vicino. “Come vi sentite, piuttosto?
“Benissimo, signore.”
Il capitano fa una certa fatica a capire come sia possibile sentirsi benissimo in una capanna di fango in cui regna un caldo soffocante, con un buco largo un pollice in una spalla e due galloni di sangue in meno, tuttavia non indaga.
“Ve la sentite di parlare un po'?” gli chiede.
“Ne sarei felice, signore. Qui ho davvero poche distrazioni.”
“Parlare della battaglia, intendo.”
“Certo, perché no? Per caso il signor colonnello sta cercando di scoprire se mi sono nascosto da qualche parte e incidentalmente sono inciampato su una lancia mahdista?”
Rivolge al capitano uno sguardo di vaga complicità, come per dire: io e voi lo sappiamo com'è fatto, vero?
Lewis non può fare a meno di sorridere. “A dire la verità la faccenda interessa a me, tenente. Come siete finito nel British Camel Corps, per esempio?”
“Intendete il Circo del Nilo? Un grande colpo di fortuna del mio precedente comandante, il colonnello Davis. Quando ha scoperto che tutta l'alta società di Londra stava facendo carte false per entrare nel reparto, si è improvvisamente ricordato delle mie ascendenze aristocratiche e non gli è parso vero di rifilarmi al colonnello Turner montato su un bel dromedario.”
Fa una breve pausa e sorridendo con aria vagamente sorniona aggiunge: “Gli ha fatto una bella sorpresina, non credete?”
“So che avete cambiato molti reparti,” dice Lewis evitando diplomaticamente di rispondere.
“Di continuo, signore. Sembra che i miei comandanti non gradiscano certe mie innocenti e del tutto inoffensive stravaganze.”
Il capitano rimane di nuovo in silenzio. La lista delle punizioni di Grosvenor, arrivata insieme alle sue note caratteristiche, è un tomo che sembra il Libro di Kells.
“I duelli, per esempio?”
“Un gentiluomo avrà pure il diritto di difendere il proprio onore, no?”
Come sempre la risposta è tra il serio e il faceto. Non si capisce se il tenente sia davvero convinto di ciò che dice o se stia solo bonariamente prendendo in giro il suo superiore.
“E dite...” ancora una volta Lewis ritiene più saggio cambiare discorso, “vi dà molta noia la vostra ferita?”
“Beh, se non altro posso ritenermi fortunato. Almeno non sono stato ferito a El Teb.”
Il capitano sa a cosa alluda il suo subalterno: durante quella battaglia i mahdisti hanno ucciso tutti i feriti inglesi che non erano stati immediatamente tratti in salvo.
“Avete combattuto anche lì, tenente?”
“Sì, signore.”
“Anche a Tamai?”
“Sì.”
“Perbacco, tenente, siete stato in parecchie battaglie.”
“Ritengo che sia un’attività consona ad un militare, signore. Del resto i circoli ufficiali da queste parti sono talmente deprimenti che ci si risolve ad affrontare i mahdisti anche solo per disperazione.”
L’impertinente battuta, che avrebbe senz’altro mandato in bestia il colonnello Turner, strappa invece un sorriso divertito al capitano Lewis. Se quel Grosvenor finirà mai all’inferno, la prima cosa che farà sarà prendere in giro il diavolo. E la seconda andare in cerca di qualcosa da bere.
“Dov’eravate prima di finire qui in Sudan, tenente?”
Grosvenor sorride. “In luoghi quanto mai vari e pittoreschi, signore. La mia prima assegnazione è stata Colonia del Capo, nel 1882.”
“Buon Dio! Cos’avevate combinato di così orribile per finire in quel posto disgraziato?”
“In quell’occasione niente, signore. L’ho chiesta io.”
“Voi?”
“Sì. Diciamo che volevo mettere un paio di continenti fra me e la mia famiglia.”
Lewis lo guarda stupito. “Io… temo di non capire.”
“Non ci amiamo particolarmente,” risponde Grosvenor con la sua solita aria noncurante.
“Mi spiace, tenente.”
“Ci sono guai peggiori,” replica il giovane con filosofia. Sorride al capitano. “Per esempio qui in Sudan non c’è verso di trovare un gin tonic accettabile. Questa sì che è un’autentica tragedia.”
Il capitano sta per rispondere quando si affaccia alla porta l’ufficiale medico dicendo: “Per oggi basta con le visite. Il tenente Grosvenor deve riposare.”
Lewis si alza obbediente.
“Peccato,” sospira il giovane. “Tornerete a trovarmi, signore?”
“Certo, volentieri,” gli assicura il capitano con calore, poi prende commiato. Mentre si allontana capta lo svolgersi del seguente dialogo:
Tenente, è l’ora della vostra medicina.”
Oh, no. Di nuovo?”
La dovete prendere tre volte al giorno se volete rimettervi in fretta.”
Ma è orrenda! Non la si potrebbe almeno sciogliere in un bicchiere di Brandy?”
Tenente!”
Chiedevo.”
Se ne va sorridendo fra sé e sé.

§

I marinai se ne stanno per conto loro. Ufficialmente con la scusa di occuparsi della Gardner, ovvero la loro beneamata quanto neghittosa principessa, in realtà perché nel bel mezzo di un deserto non si sentono per niente a loro agio.
Nella moltitudine in kaki e grigio che li attornia le loro casacche bianche appaiono in effetti grottescamente fuori posto.
“Signor Larkin, avrei bisogno di farvi qualche domanda” dice il capitano Lewis avvicinandosi al nostromo dell’Alexandra.
Il sottufficiale abbandona ciò che stava facendo e si mette sull’attenti. “Aye aye, sir!” esclama secondo l’usanza della marina.
“Cosa ricordate della battaglia, nostromo?”
A giudicare dall'espressione del marinaio, la domanda conferma in pieno il suo sospetto che i terrazzani siano gente decisamente strana, tuttavia prontamente risponde: “Ogni dannata cosa, con rispetto parlando, signore!”
“Potreste raccontarmi cos'è successo quando si è inceppata la Gardner, per favore?”
A quelle parole il nostromo si rabbuia, probabilmente pensa che le domande abbiano a che fare con un'inchiesta per accertare eventuali responsabilità nell'incidente.
“Niente di ufficiale,” si affretta allora a chiarire il capitano, “Ho solo bisogno di sapere come sono andate le cose esattamente.”
L’espressione franca di Lewis evidentemente convince il signor Larkin che non ci sono tiri mancini in agguato, per cui l’uomo prende a narrare coloritamente l’episodio:
“Ebbene, signore, ci siamo io e i miei uomini a riva, voglio dire sulla cima di quella collinetta laggiù. Abbiamo il nostro bel tubo da stufa, lucido come alla rivista della domenica mattina, e aspettiamo quella banda di gran figli di buona donna pronti a scaricargli addosso le nostre bordate, per così dire.
Quando comincia la buriana, per un po’ ci diamo da fare come matti, consumando pallottole come alla notte di Guy Fawkes, poi ad un certo punto il nostro macinino si pianta. Niente, nemmeno più un colpo. Non che gli si possa dare torto, con tutta quella sabbia in giro si sarebbe inceppato anche un cannone prodiero dell’Alexandra, ma la bambina è troppo bollente per metterci le mani sopra. Come certe ragazze di Suakin, con rispetto parlando. A quei dervisci dannati non gli pare vero e ne approfittano per saltarci addosso a prua e a poppa. Da tutte le parti, volevo dire,” precisa notando l’espressione perplessa del capitano.
“E poi cos’è successo, nostromo?” chiede Lewis.
“Beh, signore, siamo lì che stiamo dicendo le ultime preghiere, non so se mi spiego, quando vediamo questo tenente che si avvicina a tutto vapore a bordo di un cammello. Salta giù con la pistola in mano e chiama degli scozzesi che sono lì in giro. Quella è gente che non ha paura di nulla, ve lo dico io, signore. Quasi come i marinai. Hanno la gonnella, ma diavolo se picchiano!”
“Andate avanti, signor Larkin, prego. Cos’ha fatto il tenente?”
“Un demonio dell’inferno, signore! Avrebbe fatto paura anche a Satana in persona, parola mia d’onore. Scarica la pistola sulla massa di leccapalle fottuti, poi raccoglie da terra un moschetto con la baionetta inastata e quanto è vero Dio li carica all’arma bianca! Campassi mille anni, non vedrò mai più una scena del genere.”
“Avete avuto l’impressione che quel tenente fosse un vile?”
Il nostromo trasecola. “Vile? Un coraggio del diavolo, signore! E sono pronto a prendere a pugni chiunque osi sostenere il contrario!”
Lewis ha un vago sorriso al pensiero del rissoso nostromo che fa a cazzotti con il colonnello Turner.
“Secondo voi agiva per secondi fini?”
“I fini non li so, signore. So soltanto che se adesso io e voi stiamo parlando lo devo a quell'ufficiale.”
“Sareste disposto a mettere per iscritto quello che mi avete raccontato, nostromo?”
“Si capisce! Questa qui è tutta sacrosanta verità peggio della dannatissima bibbia del reverendo, signore!”

§

“Capitano, questa vostra iniziativa sta cominciando a diventare decisamente fastidiosa,” dice il colonnello Turner.
Ha davanti a sé la deposizione del nostromo Alfred Larkin, e seppure con qualche fatica per il linguaggio non esattamente convenzionale, ha appena terminato di leggerla.
“Signore, non vi farebbe piacere che un vostro ufficiale venisse insignito della Victoria Cross?”
“Tanto per cominciare, quello non è un mio ufficiale,” dice schifato il colonnello. “È uno scarto del colonnello Davis, che il diavolo se lo porti. Garantito che la prossima volta mi informerò meglio quando mi parlerà di un brillante giovane ufficiale proveniente dalla migliore società di Londra.”
“Se posso esprimere un parere, signore, mi sembra una descrizione abbastanza obiettiva del tenente Grosvenor.”
Il colonnello sbuffa. Quel vecchio filibustiere di Davis si era comportato esattamente come un sensale di cavalli che deve vendere un brocco: gli aveva nascosto accuratamente tutti i numerosi difetti dell'esemplare e si era inventato dei pregi inesistenti per convincerlo ad accollarselo.
“Quello è uno scapestrato senza principi morali, altro che brillante giovane ufficiale,” brontola Turner risentito.
“In battaglia ha avuto una condotta decisamente eroica, signore,” insiste imperterrito il capitano Lewis.
“Sarà stato un caso.”
Il capitano tace.
Sotto lo sguardo di muta riprovazione del suo subalterno, il colonnello Turner si sente in dovere di portare ulteriori elementi in favore della sua tesi. Va ad uno schedario ed estrae il famoso Libro di Kells delle punizioni di Grosvenor.
Lo apre a caso.
“Colonia del Capo,” legge, “8 novembre 1882. In un locale denominato La sirena ubriaca situato a Cape Town nei pressi del porto l'allora sottotenente Eldred Frederick Grosvenor, Visconte di Belgrave, attacca briga con un gruppo di Royal Marines sostenendo, testuali parole, che si spacciano per fucilieri ma non sanno neppure trovarsi il buco del culo con due mani. Un linguaggio decisamente consono ad un ufficiale e ad un aristocratico, direi. Naturalmente risulta essere in stato di grave ebbrezza etilica. Viene arrestato da una pattuglia della polizia militare e trascorre il resto della notte in cella.”
Lewis si stringe nelle spalle.
Turner gli rivolge un'occhiata in tralice, sfoglia il Libro di Kells e spietatamente prosegue: “Colonia del Capo, 27 novembre 1882. Il sottotenente Grosvenor si presenta all'adunata in costume locale. Sostiene di non sapere dove sia la sua uniforme. La stessa viene ritrovata alcuni giorni dopo tra gli effetti personali di un oste di dubbia reputazione che gestisce la sua mescita in un sobborgo di Cape Town. L'oste in questione, un indigeno che risponde al nome di Nkosana Mbali, riferisce che l'uniforme gli è stata offerta in pagamento di svariate bevande alcoliche che sono state consumate dal tenente e da un gruppo misto di civili e militari impegnati in una gara di braccio di ferro.”
La vicenda è così comica che a Lewis viene spontaneo sorridere.
“Capitano, il vostro entusiasmo mi pare del tutto fuori luogo,” lo ammonisce Turner con voce tagliente.
“Scusate, signore.”
“Volete sentire altro?” chiede il colonnello. Poi senza attendere risposta sfoglia qualche altra pagina e legge: “Lagos, 15 gennaio 1883. Invitato con alcuni colleghi ad una cena presso l'abitazione di un delegato della Royal Niger Company, il ventenne sottotenente Grosvenor sfida a duello il quarantacinquenne fratello del suo ospite per una non meglio specificata questione di onore. Lo scontro si svolge la sera stessa e termina con entrambi i contendenti feriti, tra scene di panico delle signore presenti e imbarazzo dei colleghi di Grosvenor.”
Nuovo fruscio di pagine.
“Il 5 luglio 1883, a Calcutta, il tenente Grosvenor nasconde un giovane esemplare di tigre del Bengala nello studio del suo comandante. L'animale, che pesa circa duecento libbre, per prima cosa divora l’amatissimo Fox Terrier e i due gatti siamesi dell'ufficiale, quindi sfonda la finestra, balza in strada e fugge per la città seminando il panico tra i civili. In stato di ebbrezza etilica, il tenente non è in grado di motivare le proprie azioni in maniera coerente.”
Il colonnello chiude il fascicolo con un gesto secco che quasi fa sobbalzare Lewis. “Questo è il vostro eroe,” dice con una sfumatura di disprezzo nella voce. “Un cialtrone vanaglorioso e debosciato. Potrei leggervi decine di episodi del genere. Risse, duelli, atti di insubordinazione, insolenze, provocazioni fini a se stesse. Nell'arco di due anni è stato a Città del Capo, a Lagos, a Calcutta, a Galle e a Hong Kong. Vi siete domandato come mai abbia cambiato tante destinazioni in così poco tempo?”
Il capitano non risponde, il motivo è fin troppo evidente. Tutti trasferimenti punitivi.
“Davis ci aveva già provato una volta a disfarsene,” prosegue Turner. “Dopo la battaglia di Tamai l'ha trasferito ad Aden. All'inizio il comandante della guarnigione se l'è preso, là ci sono i pirati e un ufficiale in più fa sempre comodo. Nel breve volgere di tre mesi l'ha rispedito al mittente, pirati o non pirati.”
Il Libro di Kells viene allontanato con vago disgusto.
“Questo è il personaggio di cui stiamo parlando, capitano Lewis,” dice Turner fissando il subalterno negli occhi, “un bellimbusto borioso e depravato convinto che le Forze Armate siano il suo parco giochi personale. Premiare con una decorazione questo individuo equivarrebbe ad insultare tutti i bravi soldati del Regno che invece fanno il loro dovere con disciplina e dedizione.”

§

Il sole picchia.
Sotto il casco coloniale di sughero, al capitano Lewis sembra di avere una fornace al posto della testa.
Chi è dunque Eldred Grosvenor? Un combattente feroce animato da un coraggio che va ben oltre l'incoscienza? Uno scanzonato e simpatico giovane ufficiale? Un arrogante figlio di papà che pensa di potersi far beffe di regole e convenzioni a suo piacimento?
L'ha visto coi suoi occhi rischiare la vita per salvare i marinai dell'Alexandra. Gli ha parlato, traendone l'impressione di un giovane cortese, dalla conversazione gradevole e spiritosa.
Ma c'è il Libro di Kells.
In tutta la sua carriera non gli era mai capitato di vedere una sfilza di punizioni come quella. Anzi, non pensava nemmeno che fosse umanamente possibile collezionarla, prima di imbattersi nel tenente Grosvenor.
Così ragionando arriva all'ospedale del dottor Owen.
Il luogo gli pare ancora più inospitale della volta precedente, più caldo e con più nugoli di mosche.
“Capitano Lewis!” lo accoglie il tenente, placido come se fosse sdraiato sulla sua chaise longue in una spiaggia della Costa Azzurra.
Contro la zanzariera della finestra ronza un compendio di entomologia. L’aria torrida che proviene dalla piccola apertura dà l’impressione di trovarsi davanti alla bocca di un forno.
“Scusate se neppure stavolta mi alzo per accogliervi,” prosegue il giovane ufficiale con il consueto tono scanzonato, “ma temo che se ci provassi mi affloscerei al suolo in maniera indegna di un militare.”
Lewis constata che in effetti nonostante la leggerezza con cui gli si è rivolto il tenente ha l’aria piuttosto provata. La ferita deve dargli parecchio fastidio.
“Non sentite il caldo?” gli chiede sedendosi sul solito sgabello.
“Il segreto è non farci caso, signore. Se a Calcutta non avessi fatto così penso che sarei impazzito. Un caldo spaventoso, faceva sembrare gradevole persino il clima di Colonia del Capo.”
“A proposito di Calcutta,” Lewis si schiarisce la voce con fare imbarazzato, “che mi dite della storia della tigre, tenente?”
“Oh, la tigre.” Grosvenor assume l’espressione di chi si aspettava una stretta di mano e invece ha ricevuto uno schiaffo. “Il colonnello vi ha detto di Big Joe, vero?”
“Big Joe?”
“Sì, volevo addestrarlo. L’avevo comprato da un fachiro, o almeno mi sembrava che fosse un fachiro.”
“Ma perché l’avete chiuso nello studio del vostro comandante?”
Pausa meditativa.
“Francamente non mi ricordo, signore,” ammette infine il tenente, “probabilmente non ero del tutto sobrio.”
Diciamo pure che eri ubriaco fradicio.
Per la prima volta da quando lo conosce, il capitano Lewis prova una punta di fastidio di fronte all’atteggiamento noncurante del suo subalterno. “Non vi interessa proprio la considerazione degli altri, tenente?” gli chiede.
“Ho dovuto imparare a farne a meno abbastanza presto, signore.”
“Che intendete dire?”
Eldred Grosvenor sorride come chi sta per raccontare una spassosissima barzelletta. “Volete sapere una cosa divertente, signore? Io non sarei nemmeno dovuto nascere.”
“Prego?”
“È così. Sono uno sbaglio.”
“Intendete dire… che siete figlio illegittimo?” chiede cautamente il capitano.
“Niente di così romantico, signore. Figlio di mio padre al cento per cento. Però dopo mio fratello maggiore mia madre aveva stabilito che la gravidanza non faceva per lei, e così ha fatto del suo meglio per non restare più incinta.” Fa un teatrale sospiro. “Qualcosa dev’essere andato storto per la pauvre maman.”
“E così siete nato voi?”
Maman ha cercato in ogni modo di convincere la Natura a liberarla dell’intruso. Cavalcate, cacce alla volpe, passeggiate in posti impervi, balli sfrenati fino all'alba. Purtroppo però l’erba cattiva è notoriamente difficile da estirpare, quindi eccomi qui.”
Lewis lo fissa esterrefatto. “E voi come lo sapete?”
“Me l'ha detto lei. A onor del vero l'ha fatto in una circostanza in cui l'avevo particolarmente esasperata con le mie marachelle. Ero un ragazzino assolutamente pestifero, per usare un eufemismo.”
“Capisco.”
“Oh no, non potete capire. Mi meraviglio di non essere stato ucciso da piccolo, con tutto quello che ho combinato.” Sorride fra sé e sé con vago compiacimento.
“E vostro padre?” chiede allora il capitano.
“All’inizio era contento di avere un altro figlio. Aveva già un erede a cui lasciare il titolo, ma è sempre meglio averne uno di ricambio, non credete? Nel caso al primo capiti qualche incidente. Poi sono certo che abbia cambiato idea.”
“Vostro padre è il duca di Westminster, giusto?”
“Esatto. E il mio caro fratello Archibald lo sarà dopo di lui.”
“Beh, voi siete pur sempre visconte di Belgrave,” considera il capitano.
“Sì, sono fortunatissimo. Fa decisamente un’ottima figura sui biglietti da visita,” risponde il tenente Grosvenor, e rivolge al suo superiore uno sguardo ironico.
“Mi dispiace, tenente.” Il classico titolo nobiliare attribuito al fratello minore giusto per non lasciarlo completamente a bocca asciutta.
“Poteva andarmi peggio, signore. Potevo nascere brutto e povero per esempio.”


(fine prima parte)
   
 
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