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Autore: Belle_    24/01/2017    7 recensioni
«Ami...», pronunciò roco.
Lei alzò lo sguardo, mentre prendeva tra le braccia la bambina di appena tre anni, e aspettò che parlasse. Gli rivolse uno sguardo carico di dolore.
«La voglio», continuò a dire, confuso. «Voglio adottarla».
Gli occhi scuri di Ami si spalancarono per un attimo, in preda all'incredulità e allo sgomento, e poi sorrise mestamente.
Chissà cosa aveva pensato, si era chiesto.
«Sei sicuro, Mamoru?», fu una domanda incerta.
«Non la riporterà indietro», provò a dire Ami, timida. «Xia non è Chibiusa. Non è giusto nei confronti della piccola».
[...]
Mamoru ha abbracciato, ormai a malincuore,la realtà di una vita senza Usagi e tutto ciò che gli era stato promesso. Con uno schiocco delle dita si è visto privato del futuro da padre, marito e regnante. Tutto a causa di una scellerata scelta di Usagi, della sua paura di sorreggere un peso ingombrante sulle proprie spalle: il mondo.
La voragine che ha nel cuore sembra essersi placata, ma l'incontro con una bambina risveglia i suoi peggiori incubi.
Riuscirà, insieme alle ragazze, a sopportare il peso insopportabile dello ''scambio equivalente''?
La promessa della libertà per una vita innocente. Ogni magia ha il suo prezzo da pagare.
Genere: Angst, Drammatico, Erotico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inner Senshi, Mamoru/Marzio, Outer Senshi, Usagi/Bunny, Yuichiro/Yuri | Coppie: Mamoru/Usagi, Rei/Yuichiro
Note: AU, Lemon, Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Dopo la fine
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Sedici anni e troppe battaglie vinte alle spalle.
Ventidue anni e una glaciazione sventata,
una corona pesante a richiamare la sua testolina bionda e la sua dedizione.
Ventidue anni e un cuore impaurito, scoraggiato,
spaccato dal destino che l'ha voluta regina ad ogni costo.
Sopra il Giappone, sopra tutto il mondo.
Ventidue anni e un passo indietro, verso la rinuncia, il timore.
Verso l'abbandono.
Ventidue anni divenuti ventotto in un soffio.
Senza Chibiusa e senza corone.




* * *







 
Scambio equivalente





























1) Mamoru




Era successo di nuovo.
Il mondo gli era caduto ancora addosso, portandosi dietro il suo cuore spezzato ed ogni sogno appartenuto.
Era da tempo, ormai, che il mondo non smetteva di crollargli sulle spalle e di ricordargli che dentro la sua gabbia toracica aveva un cuore diviso. Era come se voleva ricordargli che a cuore spento non si può vivere, così metteva a dura prova Mamoru giorno per giorno.
Era solo una forma di difesa, la sua, e non lo si poteva giudicare troppo se avessero saputo il dolore che lo svegliava nella notte, dentro un incubo, come un mal di denti vendicativo.
Con l’affanno, con le urla soffocate nella gola.
Ma tutti gli altri non sapevano nulla della roccia Mamoru Chiba.
Era affidabile, sorridente, responsabile, pignolo e molto bello.
Era questo che sapevano le sue segretarie e i suoi colleghi pediatri, e tutti lo ammiravano. La sua gentilezza con i bambini, lo sguardo così dolce, il sorriso tenero e il tatto con il quale trattava i neogenitori.
Tutto in lui risvegliava un senso di riverenza, di gentilezza e una grandissima stima.
A volte, però, sembrava un uomo vuoto, un insieme di espressioni sterili e convincenti, arti e palpiti resi inutili senza un sentimento a muovere tutto. Sembrava perennemente diviso da un unico pensiero, sembrava un uomo segnato, affranto, perso. Senza speranza.
A lui, però, non importava cosa gli altri pensassero, a lui importava solo fare i conti con l'inferno ogni notte, a lottare contro quei fantasmi che non lo lasciavano in pace e risanare le sue ferite di giorno.
Ma, a quanto pareva, l'inferno aveva trovato il modo di tormentarlo anche di giorno.
Sbatté più volte le palpebre, era incredulo e addolorato, e si passò una mano dalle dita affusolate tra i capelli scuri, come se quel riflesso gli avesse risparmiato di cadere nell'inferno che sotto i suoi piedi si stava allargando.
Non poteva crederci, non poteva essere così.
«E' tutto ok, Mamoru?».
Mamoru alzò lo sguardo e lo spostò dalla piccola bimba che se ne stava in silenzio sul lettino e che faceva dondolare le gambette, sorridendo allegramente, e osservò con cautela lo sguardo limpido della sua collega.
La fissò tanto intensamente che lei dovette distogliere lo sguardo dal suo, penetrante e cristallino, e tossì per l'imbarazzo.
«Da dove arriva questa bambina?», riuscì a chiedere.
Il tono risultò sicuro come sempre, anche se c'era un'inflessione dolente.
«Dalla Cina», rispose.
La donna abbozzò un lieve sorriso intenerito e abbassò lo sguardo addolorato verso quella bella bimba dai capelli rosa pastello. Ne accarezzò una ciocca dolcemente, intrecciandone le lunghe dita dalla pelle rosata.
«Nell'orfanotrofio cinese l'avevano chiamata Xia, per via dei suoi capelli», mormorò con il sorriso sulle labbra. «Sai, Xia vuol dire nubi variopinte. Direi che le sta a pennello, i suoi capelli sono soffici come una nuvola».
Mamoru dovette reprime il senso di vuoto che affondava dentro di sé, in preda a ricordi troppo vividi e dettagliati, e guardò la bambina che scalciava mentre giocava da sola.
Era una vendetta così tremenda.
Questa bambina sembrava davvero una nuvola, morbida e sfuggente con quei occhioni rubini che sembravano tinti da un pennello celestiale, immerso in un gelato alla nocciola e nella glassa alla fragola.
Quella massa morbida di capelli rosa gli davano la sensazione di pace e di sofficità, così li accarezzò, non resistendo alla tentazione. Quella pace lontana da anni…
La bambina alzò lo sguardo e lo investì completamente con quella serietà che tagliava a metà il suo cuore, rievocando ricordi dolorosi come un acido sulla pelle.
Mamoru affondò nell’inferno, lentamente.
Deglutì, sentendo il cuore cascare sempre più giù. Dentro quell’inferno che saliva sulle sue membra e gli bloccava qualsiasi movimento e battito.
Che rumore fa un cuore vuoto mentre palpita?, si domandò.
Era difficile stare a passo con i pugni del mondo quando non si aveva una forza dentro a dirgli di lottare, un cuore pieno che gli regalava vita. Aveva perso il suo cuore tanto tanto tempo fa.
«Tu...», mormorò la piccola. «Papà?».
Quella voce argentina con quei squillanti accenti da folletto fece venire un tuffo profondo al cuore di Mamoru, sentendo lame affilate addentrarsi e divorare carne e ricordi.
Papà.
In realtà, non aveva mai sentito pronunciare quelle parole dalla sua bambina, quando era venuta dal futuro, ma la certezza che un giorno l’avrebbe sentito gli aveva fatto coraggio durante tutte le avversità provate durante gli anni.
Un giorno avrebbe sentito Chibiusa chiamarlo nel grande palazzo di Crystal Tokyo e il suo cuore sarebbe guarito dalle ferite. Ma non era andata così, tutto si era sfasciato irrimediabilmente e Mamoru non ascoltò mai quel richiamo gentile e bisognoso di un figlio in cerca del padre.
Si abbassò sul faccino a cuore della bambina, sapendo a cosa sarebbe andato incontro, e le accarezzò una guancia con una mano, sorridendole tenero.
«Vuoi che sia il tuo papà, piccola?».
Non seppe con quale forza lo aveva detto, non seppe se le sue labbra avevano vita propria, distaccate dal cuore e dal buon senso.
La testolina voluminosa della bambina fece un cenno positivo e gli sorrise, stringendosi in un abbraccio che per lei significava allargare la braccine attorno alla vita di Mamoru e per lui abbassarsi e avvolgerla in un suo lungo braccio.
Fu così che si sentì pervadere da quel senso famigliare e delicato che aveva sentito anni fa, quel senso profondo e sordo che gli riempiva la bocca di parole che non uscivano e il cuore di un amore mai esternato.
E fu così che si sentì morire al pensiero di un abbraccio antico che lo aveva avvolto, un abbraccio color seppia che era accompagnato da un sorriso tanto luminoso. E suo.
A malincuore dovette sciogliere quell'abbraccio, sentendosi pieno.
Le diede un buffetto sulla fronte chiara e le sorrise, mentre la bambina gli rivolgeva una risata limpida e felice.
La donna che era di fronte a lui era rimasta in silenzio a guardarlo mentre sprofondava in un inferno personale e crudele, consapevole del dolore. Lo stesso dolore, condiviso negli anni da una profonda stima mista all’amicizia.
Ami si abbassò sulla bambina, facendo scivolare in avanti i corti ciuffi blu, su una spalla, e le accarezzò una manina con la sua, esile.
«Non si può, tesoro. Lui non può essere il tuo papà», le mormorò amorevolmente.
Fu una frase che stridette nel cuore di Mamoru, trovò ingiusto rompere un cuore così piccino e ingenuo e si sentì addolorato, mentre guardava i grossi lacrimoni che si formavano negli angoli degli occhi.
«Ma io voglio un papà!», si lamentò la bambina. 
Da quando aveva accettato di collaborare con l'orfanotrofio di Tokyo, Mamoru aveva sempre avuto un peso sul cuore. Passavano sotto le sue dita tanti bambini senza una famiglia, bambini abbandonati e altri portati via, e il pensiero di dove sarebbero andati a finire era sempre un brutto affare. Ma nel corso degli anni non aveva mai avuto a cuore di volerne avere uno tutto per sé e salvarsi la coscienza. Ora che era un cuore spento.
Aveva ormai trent'anni ed era solo. Un bambino avrebbe alleggerito la sua solitudine e avrebbe riempito i suoi silenzi del sabato sera, ma cercava solo di non pensarci e di andare avanti. Anche a cuore spento.
Ora, però, quella bambina gli aveva rubato l'attenzione, c'era qualcosa che gli diceva di amarla, di amarla tanto e di spendere una vita per lei. Averla come figlia e darle il meglio, perché era così che avrebbe fatto con... lei.  Chibiusa.
Non pronunciava da anni quel nome, farlo richiedeva troppo coraggio e lui non ne aveva.
Le somigliava tanto, si disse. Anzi tantissimo.
Viso a cuore, sorriso largo e ingenuo, occhi grandi, capelli morbidi. Era un attentato al suo cuore ammaccato, ma questa volta non poteva dire di no. Non a questa piccola bambina che pareva dirgli di seguirla.
«Ami...», pronunciò roco.
Lei alzò lo sguardo, mentre prendeva tra le braccia la bambina di appena tre anni, e aspettò che parlasse. Gli rivolse uno sguardo carico di dolore.
«La voglio», continuò a dire, confuso. «Voglio adottarla».
Gli occhi scuri di Ami si spalancarono per un attimo, in preda all'incredulità e allo sgomento, e poi sorrise mestamente.
Chissà cosa aveva pensato, si era chiesto.
«Sei sicuro, Mamoru?», fu una domanda incerta. «Adottando questa bambina, sarai sormontato da scartoffie e assistenti sociali che verranno a guardare persino nel tuo armadio. Inoltre, la tua vita cambierà in modo...».
Mamoru scosse la testa, convinto.
«Sono pronto», replicò.
Ami si sedette sulla sedia di frassino che era di fronte alla scrivania larga e gettò un sospiro addolorato, complice con i pensieri di Mamoru.
«Le somiglia tanto», disse con cautela.
Mamoru sentì addosso lo sguardo blu di Ami, dovette distogliere lo sguardo da quella bambina per poter annuire, senza ricordare il vero volto di Chibiusa e il momento in cui tutto aveva reso quell’ipotesi di famiglia lontana anni luce.
«Molto», biascicò.
Possibile che dopo tanti anni ancora faceva male pensarci?
Scosse la testa, mordendosi la lingua dall’interno della bocca e sentendosi stordito al pensiero spacca cuore che ne seguiva a quel nome.
Ami fissò ogni movimento di Mamoru con molta attenzione, tanto che Mamoru stesso si accorse della profondità di tale sguardo addosso.
«Non la riporterà indietro», provò a dire Ami, timida. «Xia non è Chibiusa. Non è giusto nei confronti della piccola».
Sorrise, amaro, e si gettò sulla poltrona di pelle con il capo all’indietro. Lo fece con stanchezza e sapeva che non era stanchezza fisica, erano solo le nove di mattino. Era la stanchezza accumulata in sei anni, quella stanchezza che ne veniva dal cuore e che destabilizzava la mente e il normale processo della giornata.
Si sentiva stanco, la sofferenza sapeva fare questo. Ucciderti poco alla volta, toglierti la forza, persino la speranza.
Era abituato a non far trapelare il suo dolore, si era allenato in quei sei lunghissimi anni, ma spesso la sua sofferenza sapeva prenderlo in contropiede. Era una sofferenza silenziosa, la sua. Si muoveva a passo felpato e artigliava il cuore in una morsa dolorosa, corrompendo i sogni e le emozioni. A volte gli sembrava di urlare per ore e nessuno arrivava in suo soccorso, sembrava essere condannato a un urlo silenzioso e spossante.
« Lo so. », mormorò infine.
Cosa sapeva? Che non era giusto per Xia o che Chibiusa non era Xia?
Ami sospirò, dolcemente.
« Mamoru, dovresti elaborare il tuo lutto. Sono anni che ti trascini avanti senza trovare riparo e sono anni che speri che… Usagi sbuchi da quella porta con il suo sorriso. Ma lei non tornerà. ».
Alzò di scatto la testa appena sentì pronunciare quel nome, quello che lui non aveva più pronunciato per dolore, quello che aveva distrutto ogni suo sogno, progetto, desiderio e bisogno.
Usagi.
« Io… non pensavo a lei. », disse confusamente.
Aveva detto una bella bugia, ammise a se stesso. Pensava a lei ogni giorno, ogni ora, chiedendosi dove fosse e cosa stesse facendo.
Si chiedeva se si era risposata, se aveva avuto altri figli e se fosse felice così. Non sapeva più niente di lei. Non ne aveva più il diritto, dopo il divorzio, ma pensare a lei era quasi inevitabile. Un riflesso, un bisogno masochista.
La sentiva comunque, il legame magico ancora non li aveva separati, non doveva essere così lontana e questo forse era stata la sua unica consolazione negli anni.
Sentirla vicina, ma in realtà averla lontana. Questo gli spezzava il cuore.
L’amava ancora, non aveva mai smesso di farlo in quegli anni lunghi e disastrosi e non avrebbe smesso. Avevano un futuro, un passato condiviso e combattuto, un amore forte e intenso. Avevano il mondo in mano.
« Parlavo proprio di questo, Mamoru. », disse a voce bassa Ami. « Sopprimi il tuo dolore, non dai libero sfogo alle tue emozioni, quasi come fossi una macchina e non un essere umano. Dovresti parlare di lei, infondo l’hai amata e lei ha amato te, nonostante l’andamento delle cose. ».
L’andamento delle cose. Già.
Che forma elegante per dire di essere stato piantato in asso, ma Ami era molto premurosa e con gli anni avevano instaurato un rapporto complice e amichevole. Se ci fosse stato Motoki, non si sarebbe steso sulla poltrona in quel modo, non avrebbe ceduto davanti agli altri.
Ma Ami comprendeva, Ami sapeva.
Si alzò e si avvicinò alla bambina che giocava da sola, l’accarezzò con dolcezza e non poté non restituire il sorriso a quel visino ingenuo.
« Dire che l’ho amata, non cambierà le cose. », disse.
Ami lo raggiunse e posò una mano sulla sua spalla.
« Chi hai amato? », chiese con gentilezza.
Gli occhi blu, screziati di grigio, di Mamoru fissarono quelli azzurri di Ami e si chiese perché dovesse dire quel nome, quel bellissimo nome che per anni era stato il suo appiglio e suonava dolce tra le sue labbra, quel nome che adesso non sapeva che sapore aveva e che pronunciarlo significava soffrire tremendamente.
« U… », cercò di dire, annaspando.
Sembrava che le lettere graffiassero contro la sua gola e, pronunciare per intero quel nome, avesse significato rimanere con la gola bruciata e il sangue sulla lingua. Era da troppo tempo che non chiamava quella Testolina buffa, era da troppo tempo che aveva smesso di cercarla nei sogni e negli occhi di altre donne.
Era da troppo tempo che non guardava in faccia il suo dolore.
Ami strinse ancora più saldamente la spalla di Mamoru e continuò a sorridergli con dolcezza e premura.
« Usagi. », disse roco. Tutto d’un fiato.
Lui aveva amato tanto Usagi, a lungo, in silenzio. Nella gioia e nella sofferenza.
Erano belli insieme, così belli che non ne erano consapevoli. Erano felici, storditi da tanta felicità, annientati da tanto amore. Avevano il mondo in mano, il cielo a benedirli e la luna a sancire un patto con il fato.
Ma era arrivata la fine del mondo. La ribellione degli elementi naturali, la battaglia contro una glaciazione rigida e impervia aveva spezzato i nervi e i cuori, era tornato il sole grazie a loro. Era tornata la vita, i fiori rigogliosi, il traffico, il primo tramonto.
Era tornato tutto, ma non lei.
Quella Usagi che tanto aveva amato non sarebbe tornata più, annegata in quei cristalli potenti, dalle sofferenze provate appena quattordicenne.
Spuntava la prima punta di Crystal Tokyo e Usagi scuoteva la testa, si innalzava l’immensa parete del palazzo e Usagi faceva un passo indietro, la punta della torre sbucava dal terreno e Usagi cominciava a lacrimare in silenzio. Sorgeva un futuro e Usagi scappava.
Il sorriso soddisfatto e dolce di Ami non bastò a consolare il suo cuore ferito, dovette ritrovare la forza di sempre e ricacciò le lacrime indietro, portandosi a dolere ancora con più sofferenza, con più violenza.
Cosa avrebbe curato quel cuore tanto distrutto?
Nulla, si disse. Ormai era tardi, ormai non c’era più tempo per essere felice.
Allungò le braccia e afferrò la bambina per portarla tra le sue braccia, facendole appoggiare la testolina vaporosa contro l’incavo della spalla. Stringendosi a Xia, sentì di poter trovare qualcosa per essere sereno.
Quelle manine paffute e piccole che battevano contro la sua pelle, quel profumo fresco e morbido che sapeva di cipria e di frutta, quei capelli soffici, portati strenuamente lunghi per una bambina di soli tre anni. Tutto gli riportava alla mente una bambina che aveva amato tanto, quel profumo che lo faceva quasi piangere, ma la strinse ancora più forte. Strinse il suo nuovo futuro e già si stava affezionando a quell’alternativa felice e ingenua.
Ami stette in silenzio per qualche secondo, in segno di rispetto del dolore di Mamoru e anche del suo. 
In fondo, nemmeno lei sapeva niente di Usagi.
Poi parlò, concitata e docile. « Vuoi davvero adottare Xia? ».
« Sì. », confermò con la sua voce profonda.
Guardò la bambina che giocherellava con il suo fonendoscopio e addolcì lo sguardo, ne accarezzò i capelli e si convinse di fare la cosa giusta. Da adesso ripartiva la sua vita.
Ami annuì, gli sorrise dolcemente.
« Domani inizieremo le pratiche dell’adozione. », dichiarò felice.
Anche Mamoru sorrise.
Era soddisfatto del suo gesto, aveva ripreso coscienza del suo cuore e, anche se spento, a poco a poco lo avrebbe riacceso di tante luci. Luci soffuse, luci splendenti, luci colorate. Tantissime luci, solo per Xia. La sua bambina.
Ami prese Xia dalle braccia di Mamoru e le mormorò poche parole dolci, rassicurandola e cullando mentre andava incontro alla porta del suo studio.
Mamoru la osservò uscire fuori mentre stringeva la sua bambina, pensando a che bravo medico era Ami, ma non se ne sorprese. Era sempre stata molto dolce, pregio sfruttato e fruibile per un lavoro delicato come quello del medico. E poi, ricordò, era molto gentile anche con Chibiusa.
Ancora Chibiusa, la figlioletta promessa da Usagi.
Usagi. Ripensare a lei gli fece male, così prese la sua borsa e uscì dal suo studio per cominciare il giro di visite nell’orfanotrofio.
Lavorare, si disse. Rialzarsi giorno per giorno, non pensare, non amare. Anche se il cuore non batteva e non suonava come un sonaglio, ma aveva suoni sordi mentre palpitava, anche se il mondo gli crollava addosso ogni giorno, anche se si era ritrovato solo ancora una volta.
Lavorare, aiutare altri bambini meno fortunati, bambini come lui. Soli, persi, senza una mamma e senza una figlia.
Chiuse gli occhi, si appoggiò contro la parete del corridoio giallino e respirò fortemente, a pieni polmoni, per poter ripartire. Ma non ne aveva voglia, non troppa.
Perché si ha così poca voglia di lavorare quando si ha il cuore spezzato?, si chiese, mentre scuoteva la testa.
Riaprì gli occhi e, un attimo prima di sbattere le palpebre, la sua mente gli riportò l’immagine sfuggente e sorridente di Usagi. Un’immagine che odiò.




Piccolo commento: Questa storia non piacerà a i grandi sostenitori di Sailor Moon e la sua autentica vicenda. Questa è la mia versione, una sorta di sesta serie, ma con quel pizzico di acido della realtà e affronterò capitoli complessi, con una spennellata di tristezza ovunque.
E' la realtà dove Usagi rinuncia al trono di regina, scelta che comprometterà la sua strada lungo la vita.
Mi aspetto davvero molte critiche e sono pronta a tutto, non mi aspetto molti elogi per questa mia scelta.
Ringrazio in anticipo chi si è soffermato a leggere questo capitolo, dandomi un po' del suo tempo, e chi deciderà di seguirmi. Grazie mille! Un abbraccio a tutti
   
 
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