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Autore: Ruta    29/01/2017    4 recensioni
[Molly non pronuncia le parole, lo schermo si spegne e Sherlock crede che lei sia morta, con tutto lo straziante bagaglio di emozioni che ne consegue.]
Molly Hooper era salva, ma non per merito suo. Se fosse dipeso interamente da lei, non si sarebbe salvata affatto e questo, questo faceva quasi più male della sua morte. Nella morte, lui l’avrebbe idealizzata, epurandola. Nella vita, invece, l’errore di calcolo di cui si era resa colpevole diventava un’omissione gravissima, imperdonabile.
Jus post bellum, pensò e agì di conseguenza.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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C’era stata una guerra.
C’era stata una guerra e lui aveva appena vinto l’ennesima battaglia, anche se a quel tempo non era stato questo il giudizio che aveva espresso in merito alla faccenda. Mentre l’adrenalina smetteva di stimolare il suo sistema nervoso simpatico, rilasciandosi a livello sinaptico nel surrene e deviava il flusso sanguigno verso i muscoli e – ma non era questo il punto.
Il punto era che quando aveva pensato di aver vinto, che avrebbe vinto, era stato proprio allora che aveva perso. E con il termine ‘perso’, lui intendeva qualcosa di più simile per significato alla definizione di ‘ignobilmente ignorato’ e ‘sciupare’ e ‘privazione’ e ‘spreco d’intenti e desideri’.
Quando aveva pensato che Molly Hooper fosse morta, ogni azione pregressa, ogni pensiero, il concetto stesso di oggettività e di rappresentazione della realtà erano stati spazzati via, diventando improvvisamente futili sotto la gittata distruttiva di quella nozione.
La consapevolezza che lei – sorrisi tenui, colori vivaci, occhi di liquida devozione – non esistesse più, si fosse smarrita nel flusso delle parole non dette, delle possibilità sfumate, aveva annientato una luce dentro di lui, piccola eppure potente e più brillante di qualsiasi stella.
E dalle ceneri di quella luce spenta per sempre, l’uomo che sarebbe potuto diventare, che era stato ad un passo dal diventare, era morto insieme a lei.
Questo fino a quando aveva scoperto che non era vero, che era stato ingannato. Spietatamente, terribilmente, brutalmente ingannato.
Molly Hooper era di nuovo salva, ritornata dal mondo dei morti e il contesto emotivo precedente era stato sostituito da un risentimento deleterio, uno stato assoluto di negatività, la morte di lei che nonostante tutto continuava a pesargli nel cuore, il dolore acuto e persistente che si irradiava nel lato sinistro del petto come a causa di un trauma o di un’infezione.
Molly Hooper era salva, ma non per merito suo. Se fosse dipeso interamente da lei, non si sarebbe salvata affatto e questo, questo faceva quasi più male della sua morte. Nella morte, lui l’avrebbe idealizzata, epurandola. Nella vita, invece, l’errore di calcolo di cui si era resa colpevole diventava un’omissione gravissima, imperdonabile.

Jus post bellum, pensò e agì di conseguenza.

 

*

 

La parola è potere: parla per persuadere, per convertire, o per costringere.
Ralph Waldo Emerson

 

 
“Ti amo.”
Le parole scivolano fin troppo facilmente, ma è un dettaglio trascurabile, certamente degno di nota, ma che ora come ora non importa.
Lo ha detto. Ora lei farà altrettanto e –
Perché non dice le parole?
Il timer continua il suo conto alla rovescia. Ancora quindici secondi. Quattordici. Tredici. Una parte del suo cervello registra il tempo che resta a sua disposizione mentre l’altra è in preda all’apprensione e a un turbinio di altre emozioni, troppe per classificarle. 
“Molly? Molly, ti prego!”
La vede serrare gli occhi come se le avesse sferrato un colpo a tradimento, rimpicciolirsi in un sospiro che risucchia ogni colore dal suo viso contratto. La vede ed è come vedere il suo cadavere, pallido e senza vita, steso nella bara alle sue spalle. 
“Io… non posso. Mi dispiace, ma non pos-”
La linea di comunicazione si interrompe bruscamente. Il dolore che ne consegue è così cacofonico e preponderante che cancella ogni traccia di rumore esterno. Il buio che lo accoglie dietro le palpebre chiuse non è meno aberrante dello schermo spento del televisore.

Un mondo senza Molly Hooper.   
“Il tempo è scaduto. Che peccato. Sembrava una cosina così dolce. Oh, non fare quella faccia, Sherlock! Contesto emotivo, ricordi? Ora, ricomponiti, la prossima non sarà altrettanto facile –”

 

 

 

 
 

 

Combatti o fuggi.

 

 

 

 

 

“Non puoi evitare di affrontarla per sempre. Credo che tu le abbia tenuto il muso a sufficienza.” John ha parlato con calma perché una volta tanto vorrebbe cercare di essere ragionevole.
Il verso sprezzante che Sherlock produce - una risata di gola, roca e dal suono amaro che rispecchia una sfera di sentimenti che sono tutto tranne sincero divertimento – sarebbe di per sé una risposta sufficiente, tale da persuadere la maggior parte delle persone alla resa delle armi o, quantomeno, a convincerle a desistere dal combattere una battaglia che il tempo e le circostanze hanno messo bene in chiaro fosse persa sin dal principio.
John Watson, tuttavia, non è la maggior parte delle persone.
A dimostrarlo ha una costellazione di cicatrici, alcune visibili ad occhio nudo e altrettante che non lo sono. La sua andatura non ha più l’incedere marziale dei bei tempi andati; il sorriso nei suoi occhi esibisce sedimenti di rimpianto ogni qual volta si smarrisce nel vuoto, solitamente angoli ciechi delle stanze o posti vacanti in metropolitana e in autobus o, come in questo caso, una poltrona gialla dall’aspetto confortevole che nessuno ha mai utilizzato dal suo acquisto vista l’esplicita, tassativa proibizione del proprietario.
Ci sono tante cose che sette anni di amicizia con Sherlock Holmes gli hanno insegnato (captare i segnali, individuare indizi in dettagli microscopici), tante quante ne ha imparate nei suoi anni di vita condivisa con Mary.
La prima lezione è forse la più importante di tutte. Tutti mentono, in ogni occasione. Perché lo fanno? Principalmente è puro istinto di preservazione, una forma di tutela.
Ed ecco un’altra cosa che ha imparato: che dietro le loro motivazioni sussiste la differenza tra le brave persone e quelle che non lo sono. Mentre le brave persone tendono a mentire per proteggere qualcuno, quelle cattive lo fanno per proteggere la propria immeritevole pellaccia.
Il tornaconto, quindi, è la conclusione della prima lezione. Scopri il tornaconto di un’azione e sarai già un passo più avanti nella ricerca del colpevole.
In questo caso specifico, il tornaconto ha una faccia, un profumo, una voce e il nome a cui questa faccia, profumo e voce appartengono non è Sherlock Holmes.

Oh, John pensa con improvvisa lucidità. Si dà dell’imbecille.  
Sa il come, sa il perché e il quando eppure la verità gli è sfuggita fino a quel momento. Poco importa l’acciglio cupo sulla sua faccia, l’aria di burrasca che asfissia l’appartamento, la posa scolpita da statua di cera, l’assenza di espressione nei suoi occhi distratti e distanti mille miglia. Ciò che conta è il nervosismo delle mani che lui non riesce a tenere ferme, ma che si agitano inquiete, ora tracciando i contorni dei braccioli della poltrona, ora eseguendo le note di una sinfonia facinorosa sul ginocchio, ora stressando quella selva di ricci scuri e ribelli che gli spiovono sulla fronte ampia.

Oh. Il momento di lucidità si allarga, si espande come una bolla di irrealtà attorno a lui, riempiendo il silenzio dell’appartamento bruciato con la tragedia delle parole non dette, con la natura quieta e straziante delle verità inespresse e lasciate a decomporsi in pozzi profondi.
John lascia che la bolla lo inglobi, fino a quando il contesto emotivo diventa eccessivo anche per lui.
Sa perché Sherlock sta reagendo a quel modo e non può dargli completamente torto.
In passato Sherlock ha sempre fatto affidamento su Molly, sulla sua complicità nell’ora del bisogno e sulla sua incapacità – o piuttosto: mancanza di desiderio - di negargli qualsiasi degli innumerevoli favori che pretendeva da lei. Anche se negli anni la natura del loro rapporto è evoluto in qualcosa di strano e intimo di cui lui non riesce tuttora a cogliere appieno le caratteristiche, di una cosa può essere certo. Sherlock avrebbe potuto perdonarle tutto, qualsiasi opposizione o presa di posizione, ma non questo. Avrebbe potuto perdonarle qualsiasi altra cosa, ma a Sherrinford, quando lei si è rifiutata di dire le parole, esponendosi direttamente al pericolo, quando il collegamento è stato interrotto e tutti loro hanno creduto che l’inevitabile fosse accaduto, John ha visto qualcosa negli occhi di Sherlock, qualcosa che ha riconosciuto per averlo osservato per mesi allo specchio, dopo la morte di Mary.

E’ orribile, vero? La misura in cui la odi, tanto quanto la ami.
John scrolla la testa, decidendo il da farsi. Contrariamente a quanto sperava, nulla lo esimerà dall’usare la forza bruta se dovesse diventare necessario.  

 

*

“Cristo Santo!”
L’esclamazione di John costringe Sherlock a inquadrarlo nel suo campo visivo. Così facendo, devia lo sguardo dal fantasma che gli sta di fronte. Allucinazione, illusione ottica oppure no, la preoccupazione che irrigidisce i suoi muscoli facciali, che le fa contrarre le spalle e il busto è reale. Il profumo che gli sembra di captare nella brezza notturna è una critica al suo raziocinio, la riprova dello stato confusionale in cui si trova ed è causato da un’alterazione dell’attività elettrica nell’encefalo che si sta diffondendo rapidamente.
Andrà sempre peggio. Presto, lui inizierà a sentire la sua voce, il timbro tinto da un rimprovero che è reso più dolce – e per questo motivo per lui tanto più faticoso da gestire -  dall’evidente affetto che lo accompagna.
“Sherlock, Mycroft ha appena mandato un messaggio. Riguarda Molly. E’ viva! Molly è viva! Sherlock? Sherlock –”
Lipotimia, lui registra lucidamente prima di entrare in cronostasi. Le leggi del tempo retrocedono, insieme alla veemenza della voce di John che sta urlando a Greg di far portare una macchina.
Il viso di Molly diventa traslucido come una ragnatela di rugiada ed è attraversato dalla luce dei fanali dei veicoli di trasporto della squadra mobile. Il calore della sua mano sulla guancia è un ricordo ed è una menzogna, ma una che lui non intende smascherare, non ancora.
“Vieni a cercarmi, Sherlock Holmes,” lei sospira, poggiando la fronte contro la sua. Il suo sospiro racchiude il bacio che vorrebbe dargli, le parole che ha scelto di non dirgli. Incastra alla perfezione l’ossimoro che lei è.

 

*

 

L’obitorio è quieto e desolatamente privo di significato senza di lei. Così quieto da assomigliare ad uno dei suoi incubi.
Quando sente le porte a spinta che si aprono, lui non si volta. Sa che è lei. Avrebbe potuto identificarla dal rumore dei passi, dalla fragranza che la accompagna – affusolata e floreale, così tipicamente Molly -, ma in ultimo è il modo in cui la sente trattenere il fiato che gliela fa riconoscere.
Un impulso troppo forte da vincere lo spinge a guardarla. Quello che vede non dovrebbe procurargli alcun piacere, ma è la testimonianza del fatto che sia viva. Perciò lui registra come un motivo di macabra soddisfazione le occhiaie pronunciate, il pallore di chi non dorme a sufficienza, la perdita di peso che l’abbigliamento dissimula, ma non serve ad occultare. Il tremore alle dita, che lei si affretta a nascondere nelle tasche del camice da laboratorio, è l’ultimo particolare, insieme alla vergogna e alla colpa che la fanno dapprima arrossire e poi di colpo impallidire quando lei incrocia il suo sguardo.
Molly sussulta e china il capo. Si morde il labbro e ingobbisce un po’ le spalle. Un atteggiamento che ha il sapore nostalgico delle cose perdute nel fuoco, della vertigine di un salto nel vuoto, di un addio che non è mai stato conclusivo. 
Sherlock non vorrebbe, non dovrebbe lasciarsi intenerire. Il ricordo di Sherrinford è ancora vividamente scolpito nella sua memoria. Eppure, pensa con sentimento, lei è viva. Molly Hooper è di fronte a lui, creatura di sangue e ossa che respira e che ad ogni battito ha un cuore funzionante che pompa ossigeno nelle arterie. Il sollievo è stordente. La sua morte lo aveva mandato in blackout. Vederla viva impronta il mondo di così tante sfumature di colore da accecarlo.
Il balsamo del vederla in questo stato aggiunge sale sulla ferita aperta della sua presunta dipartita e una nuova ondata di rabbia, rancore e disperazione lo sommerge come un flusso di alta marea.

Combatti o fuggi, la voce di John gli intima come un ultimatum.
Sherlock decide di combattere.

 

*

 

Molly capisce che c’è qualcosa che non va nel momento in cui apre la porta. Nella semioscurità del pianerottolo, Sherlock sembra un’apparizione soprannaturale fuoriuscita da un romanzo gotico.
E’ pallido come se avesse visto la morte in faccia, un velo di sudore gli imperla la fronte e trema percettibilmente come se le sue gambe non riuscissero a sostenere il tormento dell’anima che contengono. (E indossa un camice d’ospedale, sotto il Belstaff. Perché mai -)
“Molly,” lui mormora trasognato e c’è rapimento nel modo in cui i suoi occhi spalancati si soffermano sul suo viso, meraviglia sconcertata, un sentimento che non è più mostrato in barlumi e accenni e concessioni, ma ha preso il sopravvento.
Sherlock si muove con passo malfermo. Lei vede a rallentatore il corpo che barcolla in avanti e nello stesso momento si sposta per accoglierlo contro il suo. Sherlock si irrigidisce prima di rilassarsi. Le passa un braccio dietro le spalle, preme il naso contro il suo collo mentre con l’altra mano le sfiora convulsamente il polso, cerca la vena radiale con l'indice e il dito medio. Lui stringe e stringe come se ne andasse della propria vita, ci fosse in gioco la sua sanità mentale.
Molly gli sussurra all’orecchio parole rassicuranti, promesse che sta mantenendo da anni. “Non vado da nessuna parte. Sono qui, Sherlock. Sto bene.”
Sa che c’è qualcosa che non va. Ne ha l’assoluta sicurezza quando dalle scale compaiono John e Greg e cominciano a sbraitare accuse e recriminazioni. Sherlock allenta la presa attorno a lei e di colpo il suo peso diventa troppo da sostenere.
Molly si inginocchia sul pavimento, il corpo inanimato di Sherlock che la schiaccia.
Mentre John impreca coloritamente, Greg la aiuta ad alzarsi e con toni bassi, sommessamente, le racconta la storia di come (non) è morta.

 

*

 

“Sei morta quel giorno.”
Molly sussulta. Non importa quanto spesso glielo ripetano, ogni volta è come la prima. Quel dolore – il dolore che gli ha causato – non affievolisce.
“Lo so,” lei sospira. “Greg è stato abbastanza esaustivo quando mi ha raccontato tutto. Mi dispiace, ma non potevo sapere che –”
“Avresti dovuto saperlo,” lui la interrompe con cattiveria. I suoi occhi lampeggiano per la rabbia, accusatori. “Avresti dovuto capire che non ti avrei mai fatto deliberatamente del male se non sotto tortura o perché non avevo altra scelta.”
“Oh, davvero?” Ha voglia di schiaffeggiarlo per riportare un minimo di buonsenso in quella sua testaccia dura. Molly asseconderebbe più che volentieri l’istinto, se non fosse per la scintilla di tradimento e terrore che lui conserva ancora negli occhi ogni volta che la guarda. Quella scintilla le fa prudere le mani per tutta un’altra serie di ragioni e desideri. Consolare, non punire. Toccare, non ferire.
Molly incrocia le braccia sul petto e solleva il mento con aria di sfida. In realtà si sente stanca e svuotata, ma non può darlo a vedere, non a lui. “Che cosa, in nome del cielo, avrebbe dovuto indurmi a credere una cosa del genere? E’ già successo in passato. E’ vero, te lo concedo, non lo fai di proposito, ma tu mi ferisci continuamente. Un tempo lo facevi con i tuoi commenti saccenti, poi lo hai fatto con la tua morte, dopo con le droghe. Ti ho sempre supportato, ho fatto tutto ciò che era in mio potere per assisterti, per dimostrarti che ero un valido alleato, perciò perdonami, ti prego, se per una volta ho cercato di proteggere me, ho dato la precedenza ai miei sentimenti piuttosto che ai tuoi.”
“La situazione era drastica e come tale esigeva parificabili misure cautelari.”
“Non potevo saperlo!”
“Sì che potevi!” lui ringhia e ogni traccia di compostezza scompare, brani di carne dilaniati dalla bestia che si è liberata dalla gabbia. “Potevi, dannazione, ma hai preferito concentrarti sull’ingiustizia del sopruso che ti stavo facendo, mentre reclamavo l’ennesima richiesta impossibile! Sai chi sono, lo hai sempre saputo. Un bastardo. Manipolatore, arrogante, senza cuore, glaciale, indisponente. Eppure amavi quell’uomo.”

Lo amo ancora oggi. Molly serra gli occhi a quel pensiero. “Mi dispiace, ma non posso affrontare questa conversazione adesso.” Non è pronta, forse non lo sarà mai. “Devi andartene.”  
Quando gli passa accanto e lo supera, non è sorpresa dal fatto che lui la segua. Lo è quando la mano di lui si serra con forza attorno alla sua spalla e la costringe a voltarsi.
“Non afferri il punto! Non importa che non fosse vero. Io ho creduto che tu lo fossi.” L’angoscia nella sua voce febbrile è uno schiaffo in faccia, così come lo sono le sue pupille dilatate, la smorfia di sofferenza che gli storce la bocca. “La perdita di coscienza e di tutte le funzioni neurologiche, arresto della circolazione e della respirazione. Disidratazione. Raffreddamento. Livor mortis. Rigor mortis. Acidificazione dei tessuti. Morta, Molly.” C’è durezza e severità laddove fino a un attimo prima c’era irritazione e risentimento, mentre le delinea implacabilmente le modificazioni a cui un corpo va incontro dopo il decesso. “Come la ragazza nella cella frigorifera numero 4. Come l’uomo nella 11. Il bambino nella 6. Il vecchio nella –”
“So quali sono i miei pazienti, Sherlock!” Si libera con uno strattone dalla sua presa, furente. “E conosco altrettanto bene i fenomeni cadaverici, grazie!”
“Eri morta, saresti potuta esserlo." Lui stringe i denti, non dando segno di vaerla sentita. "Solo perché non hai voluto dire che mi amavi, perché sei stata così crudele da –”
Crudele?” Molly fa un passo indietro. Da qualche parte dentro di lei sente il contraccolpo di quell’ennesimo torto, quell'accusa infamante, ma si riserva il diritto di non piangere. Deglutisce e lo vede fare altrettanto. Per una volta, lui sembra disgustato dalle sue stesse parole. “Se davvero pensi questo di me, voglio che tu te ne vada adesso e che non torni mai più. Posso essere stata egoista, ma crudele? Non sono io quella crudele qui, mi hai sentito? Non sono io.”
“Perché?” lui sussurra. “Devo saperlo. Perché non potevi semplicemente dirlo? Perché hai preteso che io lo dicessi?”
“Ho sbagliato,” lei sussurra a sua volta e gli occhi le si inumidiscono senza che possa fare nulla per evitarlo. “Pensavo che – speravo che sarebbe stato più semplice dirlo se tu lo avessi fatto per primo, ma non è stato così, lo ha reso soltanto più difficile. Come avrei potuto dirti che ti amavo? Ti avevo appena costretto a mentire, a fingere di provare qualcosa che non era vero.” Sbatte le palpebre per disperdere le lacrime e sfrega con fastidio la traiettoria incandescente che le solca la guancia. “Come potevo dire di amarti dopo aver fatto una cosa del genere? Che tipo di amore è uno che ferisce e distrugge e –”
“E uno che uccide?” lui la interrompe. “Che tipo di amore è, uno così?”
Le lacrime le annebbiano la vista, ma non le impediscono di vedere, osservare. “Sherlock,” dice con voce strozzata dall’emozione e si porta una mano alla gola per soffocare un singhiozzo.
“Io ti avrei uccisa.” La prospettiva gli fa serrare gli occhi e la sua espressione è una di pura agonia, una che lei vorrebbe cancellare con carezze e baci. “Il nostro legame, i miei sentimenti per te lo avrebbero fatto. Quel giorno, se tu fossi morta, sarebbe stata colpa mia.”
“Dillo ancora una volta.”
Lui annuisce con aria colpevole, prendendolo come un ordine. “E’ stata colpa mia,” ripete inespressivo.
“No, non quella parte.” Lei scuote la testa. “Quella precedente, sui tuoi sentimenti. Tu provi dei sentimenti? Per me?”
“Non essere sciocca. Non è ovvio?” Lui aggrotta le sopracciglia, l’idea che lei non lo abbia compreso fino a quel momento lo lascia di stucco, gli sembra ridicola. “Perché credi che –”
Molly si alza sulle punte e lo abbraccia, non dandogli il tempo di finire. Lui si irrigidisce come la notte in cui è andato a trovarla, fuggendo dall’ospedale, la notte in cui doveva accertarsi che fosse davvero viva, indipendentemente da quanto gli era stato riportato da terzi. E proprio come quella notte, lui rilassa nel suo abbraccio l’istante successivo e lo contraccambia con uguale vigore. Le sue braccia non tremano come allora per la spossatezza fisica e mentale e se si chiudono attorno alla sua vita con più forza del necessario, Molly non glielo fa notare. Ci sono nuovi incubi a disturbare le sue notti, ora lo sa. Una nuova pena, di tipo diverso.   
“Non posso dirtelo di nuovo. Quello che è successo a Sherrinford mi ha segnato.” Sherlock si scosta quel tanto che basta per osservarla negli occhi. “Non sono più lo stesso uomo. Potrei non dirtelo mai più. Credi di poterlo accettare?”

Potrei non dirtelo mai più. Le parole affondano dentro di lei e fanno male, mentirebbe se dicesse il contrario.
“Finché potrò sentirlo, non servirà che tu lo esprima a parole,” lo rassicura e gli passa le dita tra i capelli. Per quello, decide, basterà lei. “Ti amo, Sherlock.”
Lui prende l’altra mano, quella che lei aveva poggiato inconsciamente sul suo cuore, se la porta alle labbra e bacia con devozione le nocche.
Il suo sorriso è privo di spigoli, la sua voce è senza ombre. Il suo sguardo è una dichiarazione sufficiente di tutto ciò che le serve sapere. “Lo so,” lui dice e si china a baciarla.

 

 

 

 


    
N/A:

L’ho finita perché avevo promesso che l’avrei finita quanto prima e perché so che se non porto a compimento qualcosa subito, poi l’idea comincia a trasformarsi in pietra e la seppellisco nel cimitero delle cose abbandonate. L’ho finita ed è stato un parto. Non scrivevo qualcosa di così complicato (non a livello narrativo o strutturale, mi riferisco piuttosto di complicato a livello emotivo, come registro e gestione dei personaggi) forse dai tempi di Le clausole di una scelta o anche La misura del sentire. Insomma è andata e non posso che esserne contenta xD

Il risultato mi lascia insoddisfatta in quella maniera che, a volte, mi spronerebbe a cancellare e riscrivere tutto daccapo, assecondando la vocina nella mia testa, ma questa volta la vocina può andare a farsi benedire. Purtroppo non ho il tempo né la pazienza né la pertinacia, al momento e la mia pignoleria va a scontrarsi contro il muro della realtà. [Ora ho solo voglia di raggomitolarmi sul divano con una tazza di tè, un bel libro e un po’ di musica in sottofondo. Oppure vedere un film, più tardi, con una porzione di patatine e mezzo bicchiere di vino rosso. Non so, devo ancora decidere.]

Passando alle cose serie. Nella storia, faccio riferimento al fatto che l’amicizia tra John e Sherlock duri ormai da sette anni. Dovrebbe essere corretto, se i conti che ho fatto corrispondono: le serie sono quattro, perciò quattro anni, ma tra la seconda e la terza trascorrono due anni perciò sommiamo altri due anni ai quattro precedenti e nel corso della terza, tra il primo e il secondo episodio, passa un altro anno perciò in totale: sette.

 Grazie di cuore, come al solito, a tutti e un grazie speciale a chi trova sempre due minuti per conversare :)

  

  
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