Pairing: KurooTsukki
| TsukkiYama | KuroKen | BokuAka (e accenni AsaNoya)
Parte: 1/2 (sebbene la storia nasca e si sviluppi
come unico blocco e sia divisa solo per comodità).
Avvertimenti: Soulmates!AU in
cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno.
| Molto angst | Violenza psicologica e possibile triggering per qualche scena violenta|
Vaghi richiami alla seconda storia della serie, che trovate qui. |
Per la prima volta ci tengo a sottolineare che il significato di questa storia
sta non tanto nelle coppie quanto nei personaggi, nel loro sviluppo e nella
loro introspezione, quindi mi piacerebbe che fosse letta al di là dello shipping ^^
Note d’Autore: (e maledizioni) a fine storia.
Ringraziamenti e dedica: Un immenso grazie alla mia parabatai Arianna che legge in anteprima, vigila, consiglia
e beta tutto quello che scrivo.
I loved him first
[....] tum vero exterritus, amens,
conclamat Nisus, nec se celare tenebris
amplius aut tantum potuit perferre dolorem:
«me, me, adsum qui feci, in me convertite ferrum,
o Rutuli. mea fraus omnis, nihil iste nec
ausus
nec potuit; caelum hoc et conscia sidera
testor;
tantum infelicem nimium dilexit amicum».
Tsukishima avrebbe
dovuto immaginarlo. Era una persona intelligente, dopotutto: avrebbe davvero dovuto capire che cosa stava
succedendo, rendersene conto dal primo momento. Provare in qualche modo a
prevenirlo. Invece, ora, se ne stava lì come uno stupido, la mente che vagliava
le possibili conseguenze, lo stomaco sottosopra. Aveva voglia di vomitare.
«Ancora un altro set e per oggi abbiamo finito!».
La voce di Daichi gli arrivò
come lontana chilometri e il corpo si mosse in risposta a quel richiamo in modo
meccanico, senza che la mente lo seguisse, senza che il ragazzo fosse
effettivamente cosciente di quello che stava facendo. Tsukishima
aveva l’improvvisa sensazione che non fosse importante quel set,
l’allentamento, lo stare lì con la squadra: nulla, nulla contava come gli aloni
colorati che distingueva chiaramente davanti a sé. E la cosa lo innervosiva in
un modo tremendo.
Che il legame potesse nascere lentamente, entrare come
una abitudine sottintesa, un ospite silenzioso che decide poi di restare per
sempre, era una cosa più comune di quanto si potesse credere, forse anche più
del legame improvviso. Che Tsukishima Kei stesse davvero sviluppando un legame con qualcuno era
una cosa che il Centrale non aveva mai messo in conto e con cui non aveva
alcuna voglia di avere a che fare. Una simile ipotesi non lo aveva mai neanche
sfiorato e il doverci avere a che fare in modo concreto era qualcosa che lo
disorientava, spiazzava completamente.
«Asahi, fa’ un buon servizio!».
La voce di Sugawara lo
distrasse per qualche istante, il tempo di rendersi conto che il gioco era
ripreso. Si stavano allenando duramente da quando erano tornati dal Campo
d’Allenamento e sebbene avessero ancora diversi problemi di coordinazione,
tutto pareva essersi avviato verso una buona soluzione, come una macchina che,
finalmente oleata, torna a funzionare senza più grossi intoppi. Il Capitano
aveva ripreso quasi pienamente il suo ruolo e per quanto a Tsukishima
non sfuggissero gli sguardi che di tanto in tanto lanciava a Suga, come a
chiedere conferma di quello che stava facendo, c’era da ammettere che Sawamura riusciva a ricoprire il suo ruolo egregiamente,
quasi come prima dell’incidente. Senza che ci fosse il bisogno di ammetterlo
pubblicamente, Kei ammirava il modo in cui Daichi aveva ripreso in mano il controllo della propria
vita.
Le azioni si susseguirono con una certa costanza di
punti da entrambe le parti e il Centrale murò quasi tutte le schiacciate,
cercando di dare il meglio di sé, di concentrarsi sulle conclusioni avversarie
senza tener conto di quello che effettivamente i suoi occhi vedevano.
Dopotutto, era quello che stava facendo da diversi giorni: ignorare i segni,
fingere che non vi fosse alcun cambiamento in atto, che quel fastidio, quella
irritabilità – maggiore del normale – fossero dovute, magari, solo
all’avvicinarsi dei Preliminari, agli impegni, allo studio, a qualunque altra
cosa.
Qualunque cosa che non fosse l’inizio di un legame.
Qualunque cosa che non fosse il doversi preoccupare di qualcun altro nel modo
in cui fanno i compagni. Quella sera,
tuttavia, pareva estremamente complicato concentrarsi, distogliere la mente dal
cambiamento e fingere che fosse tutto a posto: per qualche motivo, l’intensità
dei colori era aumentata e il ragazzo aveva idea che fosse ormai avviata verso
la sua ovvia conclusione, il suo definitivo stabilizzarsi.
Saltò appena in tempo alla schiacciata di Azumane e per qualche motivo la potenza del tiro, a cui era
comunque ormai abituato, lo sorprese a tal punto da sbilanciarlo, da farlo
cadere a terra.
«Tsukki! Tutto a posto?».
La voce premurosa di Yamaguchi
lo innervosì. No, nulla era a posto, nulla era come avrebbe dovuto essere.
Rifiutò la mano di Tanaka e si rimise in piedi da sé,
cercando di minimizzare la cosa ed ignorando le scuse dell’Asso – aveva
intenzione di comportarsi allo stesso modo con gli avversari, al torneo?
Chiedere scusa per ogni sua conclusione, per ogni punto che avrebbero segnato?
Ripresero il gioco senza commentare, tutti più o meno
consci del fastidio che il Centrale doveva star provando e senza alcuna voglia
di farsi fulminare da qualche suo commento piccato. Il set si concluse
velocemente e in breve furono tutti fuori dalla palestra.
Kei aveva un bisogno
estremo di tornare a casa, di chiudersi in camera e lasciare tutto il resto
fuori: sentiva la necessità pressante di trovare tempo per sé in cui non
doversi preoccupare di chi gli stava intorno, perché inconsciamente sentiva che
presto quella semplice cosa sarebbe stata un lusso da non potersi più
permettere. Di nuovo, l’idea di un compagno, di una presenza fissa ed invadente
nella sua vita gli fece girare lo stomaco dalla nausea e lo mise in allarme,
pronto a saltare per ogni aggressione.
«Sei molto nervoso stasera».
La voce di Tadashi era
sottile ed accorta, qualcosa che Tsukishima
accomunava da sempre al migliore amico ma che davvero quella sera aveva il
potere di farlo scattare – non era colpa sua, lo sapeva bene che non avrebbe
dovuto dargli addosso, ma non era possibile trattenersi, non c’era spazio per
il buonsenso, l’educazione o la correttezza. Si voltò e lo guardò fisso, senza
dire nulla, fulminandolo.
Yamaguchi sussultò:
era certamente abituato a quegli sguardi, ma allo stesso tempo percepiva
qualcosa di diverso in lui, qualcosa che non riusciva a capire fino in fondo,
che lo destabilizzava.
«È successo qualcosa?». Non era fatto per essere
scoraggiato, non da Kei.
Cosa sarebbe costato a Tsukishima
parlarne? Forse avrebbe anche trovato sollievo nella cosa, forse sarebbe stato
meglio e Tadashi avrebbe potuto consigliarlo,
aiutarlo, capirlo. In fondo, Yamaguchi sapeva che cosa significava, in fondo c’era
sempre stato, glielo aveva giurato, lo ricordava bene. Perché allora non farlo
entrare, perché non renderlo partecipe di quella che – non lo avrebbe mai
ammesso, neanche a se stesso – era solo una paura, dopotutto?
Ma come? Come si faceva? Come ci si apriva a quel
modo? Tsukishima lo guardava, lo guardava mentre era
così vicino da poterlo sfiorare e non sapeva parlare, perché sarebbe stato
debole, perché avrebbe ammesso che tutto stava finendo. Troppo, si sarebbe
esposto troppo e non voleva. Quindi lo chiuse fuori.
«Lasciami in pace». Non dovette fingere la seccatura
che trasparì dalla sua voce, solo indirizzarla contro chi non la meritava.
Non disse altro, Tsukishima,
ed andò via senza quasi sentirlo il senso di colpa – gli occhi di Yamaguchi erano troppo castani, facevano quasi male. Non si
accorse di star correndo se non quando si fermò davanti al portoncino di casa,
per prendere le chiavi, e la sua respirazione accelerata prese ad alzargli ed
abbassargli il petto con forza, facendogli male. Evitò sua madre, entrando, e
sperò davvero che Akiteru non lo incrociasse sulle
scale, perché non aveva la forza di affrontare anche lui.
Solo il rumore della porta della sua stanza che gli si
chiudeva alle spalle gli diede sollievo. Odiava tutto, ogni cosa lo infastidiva
e avrebbe pianto di rabbia se il suo orgoglio glielo avesse concesso: non era
mai stato meno padrone del suo corpo e delle sue sensazioni come il quel
momento e si sentiva violato da quel legame come non credeva avrebbe mai
concesso a qualcuno di fare. E ad uno sconosciuto, per giunta! Qualcuno di cui,
probabilmente, non conosceva fattezze o carattere ma che da quell’istante in
avanti avrebbe determinato il suo umore, la sua gioia, la sua tristezza o
delusione, la sua preoccupazione e le notti sveglie o i sonni tranquilli.
Tsukishima si gettò sul
letto, stanco di tutto. Sperò che il sonno lo prendesse in fretta, che
nell’incoscienza si perdesse anche la sua consapevolezza, il suo senso di
nausea e la sua profonda paura.
I giorni erano passati con una certa monotonia. I
colori si erano stabilizzati, il legame si era teso ed era saldo nel suo petto,
ma Kei non aveva idea di chi fosse il suo compagno. Stanco di combattere qualcosa
che, comunque, non avrebbe potuto fermare, si era arreso ad esso, accettandolo
in modo passivo e rilegandolo in un angolo della sua coscienza. Di tanto in
tanto sentiva qualcosa, come un saltello del cuore quando le emozioni
dell’altro influenzavano le sue, ma resisteva e in breve tutto si spegneva di
nuovo e restava solo. In quei momenti gli pareva di vincere, di essere ancora
un po’ se stesso e un sorrisetto cattivo tornava ad illuminargli il viso,
almeno fino al successivo inciampo.
Quella mattina non gli era parsa diversa dal solito:
s’era alzato, aveva fatto silenziosamente colazione e s’era avviato verso
scuola. Yamaguchi lo aveva aspettato davanti
all’ingresso, lo aveva salutato come suo solito e insieme s’erano diretti in
classe. Tsukishima aveva provato la solita difficoltà
a concentrarsi che ormai lo accompagnava da quando aveva preso a vedere i
colori, ma era riuscito comunque a seguire le lezioni e poteva, anzi, ritenersi
alquanto soddisfatto – quella giornata gli pareva perfino migliore delle
precedenti, segno che ormai si stava abituando alla cosa.
«Aspetto che Ennoshita abbia
finito», gli disse Tadashi, quando furono liberi «Ci
vediamo in palestra».
Il Centrale annuì senza mostrare una particolare
emozione e decise di avviarsi – a dir la verità, non lo seccava aspettarli, ma
allo stesso tempo sentiva di aver bisogno ancora più del solito di qualche
momento di solitudine tra una cosa e l’altra e li cercava, se li ritagliava fra
gli impegni quasi con avidità. Avvertì il primo capogiro mentre scendeva le
scale. Non si scompose: si tenne con una mano contro il muro e aspettò che gli
occhi tornassero a mettere a fuoco ciò che aveva davanti; quando fu soddisfatto
di sé riprese a camminare. Del secondo giramento di testa non si accorse
affatto: lo prese direttamente allo stomaco e prima che potesse anche solo
pensare di fare qualcosa, fu a terra.
Tutto questo è ridicolo, si lamentò seccato, mentre il cuore prendeva a battere
veloce e il corpo pareva non rispondere più ai suoi comandi. Devo tirarmi su prima che qualcuno mi veda.
Spinse in basso, sul fondo dello stomaco, la paura che
gli stava montando dentro e cercò di razionalizzare tutto ciò che sentiva:
aveva ancora una vaga percezione del suo corpo e di ciò che lo circondava e
sebbene tutto girasse ancora, Kei era abbastanza
certo di potersi muovere – per fortuna era arrivato alla fine della rampa di
scale prima di ritrovarsi semplicemente per terra. Si raggruppò su se stesso
prima di scivolare in modo sgraziato verso la parete più vicina, affinché gli
desse il sostegno necessario a rialzarsi: non voleva cadere di nuovo, una sola
volta gli era bastata.
Stavolta, prese qualche profondo respiro e non
accelerò nessun movimento; fu cauto mentre si metteva prima in ginocchio e poi
faceva lo sforzo necessario a stare nuovamente in piedi – la testa girava
ancora abbastanza, a dirla tutta, ma Tsukishima cercò
semplicemente di regolare di nuovo la sua respirazione e muovere i primi passi.
Quando alzò la testa, gli occhi sgranati di Yamaguchi
lo stavano fissando, accompagnati dal volto altrettanto sorpreso e preoccupato
di Ennoshita.
«Non è nulla», si affrettò a dire. Il tono del
Centrale era seccato – quella era di sicuro l’ultima cosa che voleva accadesse.
«Tu stai male», sussurrò Tadashi,
quasi senza sentirle le parole dell’amico. «Tu- tu-».
«Ho detto che non è nulla». La voce s’era alzata, era
risentita, furiosa – nascondeva il panico.
«Smettila, è ovvio che tu non stia bene!». Ennoshita aveva parlato per la prima volta, il tono secco e
deciso, muovendo qualche passo avanti. Tsukishima non
aveva mai pensato a lui come ad una persona autoritaria: certo, era di un anno
più grande e per questo meritava rispetto, ma era sempre stato d’indole
pacifica e quieta, mentre il modo in cui gli aveva parlato adesso era qualcosa
che avrebbe facilmente associato a Sawamura. Sorrise,
crudele: ah i legami…
«È solo un giramento di testa, è passato».
«Come sono passate la stanchezza, il tuo essere continuamente
sulle spine o la difficoltà a concentrarsi?». Tadashi,
si stava rendendo conto Kei, non aveva alcuna
intenzione di mollare. Anzi, sapeva più di quanto avrebbe dovuto, più di quanto
era pronto ad accettare. Di nuovo, la prospettiva di parlargli, di spiegargli
che cosa stava davvero succedendo lo accarezzò dolce. Sospirò: cedere? Lui? Sì, lui.
«Da qualche giorno vedo i colori, ma non so chi sia il
mio compagno, né ho intenzione di scoprirlo». Sputò la confessione come se
fosse veleno, ma senza staccare gli occhi da Yamaguchi
– dopotutto era stato lui ad aver insistito.
Tadashi trasse il
fiato per la sorpresa, gli occhi se possibile divennero ancora più grandi e le
parole non seppero uscire subito. Il calore di Chikara
accanto a lui era la sola cosa a tenerlo calmo, stabile, come sempre.
«Vi… vi lascio un po’ soli», gli disse quello,
sorridendo e stringendogli per qualche istante la mano prima di allontanarsi. Tsukishima non aveva perso nulla di quella scena e davvero
non sapeva che cosa provare – la cosa lo innervosiva.
Si mosse verso l’amico ancora un po’ traballante, ma
avrebbe preferito morire piuttosto che farsi aiutare, quindi lo scansò appena,
superandolo ed avviandosi verso l’uscita che portava alla palestra. Yamaguchi non si scompose e lo seguì, più vicino di quanto
avrebbe fatto ma non troppo perché l’altro si indispettisse ancora di più. Non
dissero nulla finché non furono fuori e Kei si
sedette su un muretto basso per riprendere fiato: stava peggio di quando
volesse credere, ma meglio di quanto Tadashi
certamente stava supponendo.
«Non c’è molto da dire», lo anticipò, perché sapeva
che non sarebbe scappato a quella conversazione e allora tanto valeva farla
finire quanto prima. «Non ho alcuna intenzione di sapere con chi sia successo,
ancora di più perché credo di non conoscere affatto questa persona, quindi a
che servirebbe?».
«Vuoi lasciar morire il legame?». No, Tadashi non lo capiva, non riusciva a capire davvero
l’ostilità con cui l’amico parlava di quello che era successo, senza dare al
destino neanche una possibilità.
«Mi pare ovvio. Non ho davvero tempo per queste cose».
O forse non ne aveva la forza? Da quando
sei tanto debole, Kei? «Incasinarsi la vita con
la presenza di un'altra persona che la condiziona, costringendoti a sentire cose
non tue? No, grazie, ho visto che significa e sto davvero bene così».
Yamaguchi gli si
sedette accanto, annuendo appena. Non lo capiva, ma di certo non era sorpreso
da quel comportamento: lo conosceva abbastanza da sapere quanto tenesse alla
sua autonomia, ai suoi spazi, alla sua superiorità e il legame metteva in
discussione ogni cosa.
«Sai che questo non cambierebbe nulla, vero?»,
sussurrò.
Kei annuì
appena, senza guardarlo: sapeva esattamente a che cosa si riferiva, ricordava
quella promessa e di certo non sarebbe stato lui ad infrangerla, ma forse era
anche per questo che non aveva alcuna voglia di scoprire quel legame?
L’equilibrio in cui si manteneva la sua vita era così perfetto, al momento, che
anche solo una minima variazione di peso avrebbe potuto metterlo in pericolo e
davvero non voleva che accadesse. Provava disgusto per quanto si sentisse
debole ed insicuro in quel momento.
Yamaguchi non smetteva
di guardarlo, intanto, ma non sapeva cos’altro dire. Tsukki
sapeva che non lo avrebbe lasciato, che quella era la sua promessa, che glielo
aveva giurato nell’istante in cui s’era reso conto di vedere Chikara come si vedono i compagni, di avere con lui un
legame corrisposto. Era stata la cosa più imbarazzante e allo stesso tempo
giusta che Tadashi avesse mai fatto: mettere in
chiaro le cose, dire ad alta voce che, certo, Ennoshita
era il suo compagno e avrebbe
imparato ad amarlo perché lo voleva, ma Kei veniva
prima, Kei c’era sempre stato e ci sarebbe sempre
stato e niente, niente lo avrebbe
scalzato, superato, messo da parte. Glielo aveva detto in faccia, quasi
urlando, per strada, senza farsi fermare da nulla. Glielo aveva detto perché
voleva che lo sapesse, che quella promessa gli restasse in testa e nel cuore.
E così era stato: da allora nulla era cambiato. Chikara era la persona più bella e buona che Tadashi aveva mai avuto la possibilità di conoscere e con i
mesi aveva imparato a conoscerlo ad amarlo in maniera dolce e lenta, come un
piccolo sorriso costante, la delicatezza dell’alba. Stare con lui era la cosa
migliore del mondo, gli dava una stabilità che non credeva avrebbe mai potuto
provare ed una forza di cui non aveva mai saputo di aver bisogno. Era,
probabilmente, tutto quello che avrebbe mai potuto cercare in una relazione.
Ma questo non aveva mai messo in discussione ciò che Kei era sempre stato per lui e che la parola amico davvero
non riusciva a racchiudere. L’amore che da sempre provava per lui non aveva
bisogno di un legame per essere palese, esistere; no, lo superava, andava ben
al di là di esso, in una dimensione solo loro, che non necessitava di nomi o
spiegazioni. Semplicemente, senza Tsukishima Yamaguchi sarebbe stato perso. E questo Ennoshita
lo sapeva benissimo, né avrebbe mai voluto che fosse diversamente: Tsukishima Kei era in qualche
modo parte di ciò che rendeva il suo Tadashi quello
che era e non c’era stato bisogno che il compagno
gli spiegasse come stavano le cose perché lui accettasse quella situazione
con un cenno di assenso e senza domande. Era com’era. C’erano sempre stati loro
due e davvero non sarebbe stato lui a mettere fine alla cosa, mai.
«Non dirlo alla squadra».
Ora anche Tsukishima lo
guardava, serio e diretto. Yamaguchi annuì di nuovo,
poi fece per alzarsi.
«Sai, non credo che il legame sia una costrizione»,
gli disse, guardandolo dall’alto «Credo, piuttosto, che sia un modo per aprirti
gli occhi. No, lascia stare il gioco di parole! Intendo dire che probabilmente
io non avrei mai pensato ad Chikara in quel modo e
invece ora credo di poterlo amare... forse sta cercando di far vedere anche a
te qualcosa, senza per questo tu perda altro. Non pensare ad esso come ad una
violenza, ma come ad una possibilità che non avresti mai valutato».
Kei lo guardò
dirigersi verso la palestra e non seppe rispondergli: forse quello che gli
aveva detto non era del tutto sbagliato e per gli altri avrebbe potuto
tranquillamente funzionare, ma non per lui. No, lui non aveva chiesto nulla di
tutto quello e non voleva niente dal destino, nessun legame, nessuna invadenza,
nessun nuovo equilibrio da creare.
***
Da quando Kuroo aveva preso
a vedere i colori, il suo umore non era mai stato migliore: la semplice
nonchalance con cui di solito si apriva con le persone e interagiva con loro,
quella sicurezza di sé che gli aveva fatto guadagnare la nome di latin lover parevano aver raggiunto un
nuovo livello, quasi che il non vedere più il mondo in bianco e nero avesse
aperto nuove possibilità.
E forse era così. Kuroo
aveva preso a chiamarla “la caccia”: se il suo compagno non aveva intenzione di palesarsi, allora sarebbe stato
lui a cercarlo – se gli piaceva giocare a nascondino, lo avrebbe accontentato,
dopotutto quella situazione rendeva ogni cosa ancora più eccitante, quindi non
poteva chiedere di meglio.
«Qualche illuminazione, stamattina?», lo prese in giro
Yamamoto, salutandolo non appena lo vide entrare nel cortile della scuola. Kuroo si dilettò nel suo migliore sorriso sfacciato ed alzò
le spalle, allargando le braccia.
«Ah, che posso dirti? Al mio compagno piace tanto giocare a nascondino… Ma l’ho sentito di
nuovo, ieri sera, ed è irritato quanto me di questa situazione!».
Taketora rise di
gusto, complimentandosi con lui con delle grosse pacche sulle spalle: erano
comunque progressi anche quelli, sebbene minimi, c’era da riconoscerlo!
«Pensa tu se alla fine di tutta questa ricerca, ti
capita qualcuno come Lev!».
Yaku si aggiunse
alla conversazione arrivando di spalle ai due ragazzi insieme al suo compagno, che lo stava guardando
sinceramente offeso dalle sue parole.
«Ma io ti adoro, Morisuke»,
esclamò con il visino più ingenuo che potesse fare.
«Quanto sei sdolcinato, lyubimiy», continuò a prenderlo
in giro Yaku, sorridendogli – splendevano.
Kuroo li guardava
felice. Chi li avesse visti in quei momenti li avrebbe creduti innamorati da
sempre. La verità, invece, era che per trovarsi avevano davvero lottato contro
se stessi e contro quel legame con tutto quello che avevano. Che Lev fosse perdutamente innamorato di Yaku,
infatti, era qualcosa di cui erano sempre stati consapevoli tutti tranne lui, mentre
Morisuke semplicemente avrebbe preferito morire
piuttosto che ammetterlo. Per questo alla fine, quando il legame li aveva
uniti, erano rimasti in silenzio e anziché avvicinarsi s’erano separati ancora
di più.
Avevano preso a non parlarsi, a non sopportare di
stare nella stessa stanza per paura che i colori che vedevano rendessero
evidenti anche all’altro ciò che stavano provando: l’orgoglio e il timore di
soffrire li avevano consumati lentamente, senza che una sola parola passasse
fra loro per mesi e senza che la squadra potesse capire che cosa fosse successo
di tanto grave – tutti avevano sofferto per quel silenzioso litigio ma nessuno
era stato in grado di capire da cosa fosse dipeso.
D’un tratto la febbre aveva preso Lev,
prima lentamente e poi intensa come fuoco sottopelle, indomabile – il russo
delirava e in quel delirio chiamava Yaku con così
tanta disperazione che era stato improvvisamente chiaro a tutti il motivo per
cui soffriva. Morisuke era corso da lui come se ne
andasse della propria vita e gli era rimasto accanto per tutto il tempo:
mormorava dolcezze che non sapeva di conoscere e in quelle giornate s’era
accorto di un lato di Lev che non aveva mai
conosciuto, una fragilità che voleva proteggere a tutti i costi – non era più
importante cosa significasse il legame o in che modo lo stesse influenzando, Yaku sentiva, sapeva di non poter più fare a meno del
russo, né voleva farlo.
«Mi…mi dispiace». Era stata la prima cosa che gli
aveva detto Lev, quando la febbre era scesa, quando
finalmente aveva ripreso conoscenza. «Non volevo mi sentissi…».
Yaku lo aveva
guardato con le lacrime agli occhi ed un sorriso dolce.
«Non essere stupido. A cosa mi servirebbe un legame,
se non potessi sentirti?».
Il russo non era stato subito sicuro di aver capito
cosa significassero quelle parole: il suo cuore batteva forte e la febbre lo
aveva reso tanto debole e frastornato che per qualche istante ebbe paura di
star sognando, di star immaginando ogni cosa. Eppure, le mani di Yaku che stringevano la sua gli facevano bene, fisicamente
bene, alleviavano la sua stanchezza e il suo dolore come solo un compagno può
fare. Che altra prova poteva servirgli?
Lev pianse quel
giorno, pianse perché era stato stupido, perché lo erano stati entrambi e
perché non avrebbe potuto essere più felice. Yaku
nascose le proprie lacrime nell’abbraccio con cui lo strinse.
Da allora la loro relazione aveva avuto alti e bassi:
litigavano spesso e per i motivi più assurdi, fuori e dentro il campo da gioco
e c’erano momenti in cui la squadra temeva
che l’equilibrio si sarebbe rotto di nuovo, come nei difficili mesi che
i due avevano passato a non parlarsi; poi però le cose tornavano tranquille,
uno dei due si scusava e il legame tornava a tendersi più forte di prima.
Kuroo li guardava
con ammirazione ed aspirava ad avere col suo compagno quello che avevano loro due. Non era interessato ad un
grande amore mitico, non voleva paroloni e frasi ad effetto: a lui sarebbe
bastata la quotidianità e la normalità di una relazione comune, una di quelle
in cui si litiga e ci si riappacifica, ci si scontra e ritrova, perché la
perfezione era un concetto troppo alto, poco adatto agli esseri umani.
Incontrò Kenma solo una
volta terminate le lezioni della giornata e si diresse con lui in palestra. Era
silenzioso, si accorse, più silenzioso del solito ma diede la colpa al nuovo
videogioco che aveva cominciato e sbirciò al di sopra delle sue spalle in che
situazione si trovasse: non essendoci di mezzo una battaglia, avrebbe potuto parlare senza disturbarlo.
«Ieri sera credo che il mio compagno fosse più vicino del solito a casa mia, forse si stava
muovendo…», prese a riflettere ad alta voce «Potrebbe lavorare, magari, fare
qualcosa che lo porta a muoversi spesso, per questo potrei non aver ancora
capito chi sia… forse l’ho incontrato in qualche negozio o in un bar… Deve
sicuramente essere una persona impegnata».
Kuroo sapeva che Kenma lo stava ascoltando, aveva imparato a leggere il suo
linguaggio del corpo come fossero parole e ormai non aveva più segreti per lui:
il modo in cui il più piccolo controllava la situazione sul display che aveva
fra le mani era diversa quando lo ascoltava, leggermente più distratta, non
troppo da compromettere la partita ma abbastanza da permettergli di essere
comunque presente nella conversazione. Erano piccole cose evidenti ormai,
consuetudini che li rendevano estremamente affiatati. Anche il quel momento, Kenma lo stava ascoltando, senza rispondere ma attento.
«Forse dovrei andare di nuovo al market dove siamo
stati la settimana scorsa… potrei averlo incontrato lì e non essermene accorto…
che ne pensi?».
Kenma alzò lo
sguardo dal gioco, mettendo la partita in pausa e guardò fisso il volto
dell’amico per qualche istante prima di rispondere. Non sapeva esattamente che
cosa dirgli, non s’era mai trovato in una situazione del genere e doveva
ammettere a se stesso che faticava molto a comprendere che cosa stesse muovendo
l’amico.
«Davvero non ti dà fastidio?», chiese, senza
rispondere alla domanda.
«Cosa? Non sapere chi sia il mio compagno?».
«Essere legato a qualcuno che neanche conosci».
Kuroo sospirò.
Poteva capire le perplessità dell’amico, ma la verità era che lui non aveva mai
avuto alcun tipo di dubbio a riguardo: alla perfezione del legame aveva sempre
creduto poco, quindi davvero non s’era mai aspettato di essere legato con
qualcuno che già conosceva. E dopotutto, doveva confessare che gli stava bene
così: era un modo per ampliare i propri orizzonti, conoscere qualcuno che in
altro caso non sarebbe mai entrato nella sua vita.
«È un modo per cambiare la propria routine, non trovi?
Un po’ come stare in una relazione: si vede tutto con occhi diversi. Ha senso
che non conosca ancora quella persona, è destinata a stravolgermi la vita». Kuroo parlava con l’eccitazione dei compagni innamorati, ma Kenma osservava
con la paura di chi rischia di essere lasciato indietro.
Perché la verità era che, in tutta quella storia, a Tetsurou stava
sfuggendo una piccola variabile.
Quando ebbero concluso gli allenamenti della squadra, Kuroo e Kenma si avviarono
insieme: s’erano messi d’accordo per vedersi con Bokuto
ed Akaashi e mangiare fuori insieme, passare la
serata in compagnia; per questo s’avviarono in centro sperando di non arrivare
troppo in anticipo: lo stomaco di Kuroo reclamava la
sua cena, mentre a Kenma non piaceva aspettare. A
dirla tutta, non conosceva la ragione per cui s’era lasciato convincere ad
uscire con loro: di solito, era il tipo di persona che andava a letto subito
dopo aver mangiato, nascondendosi magari sotto le coperte per giocare al caldo
oppure addormentandosi subito per la stanchezza della giornata. Passare la
serata fuori, sebbene in buona compagnia, era qualcosa a cui non era affatto
abituato e che, a ben pensarci, lo metteva un po’ a disagio.
Quella sera, neanche la presenza rassicurante di Tetsurou accanto a sé pareva poterlo calmare del tutto e
semplicemente il ragazzo sembrava non star tranquillo nella propria pelle,
pervaso dal fastidioso istinto di doversi muovere per scrollarsi di dosso
quella brutta sensazione. Non avrebbe saputo dire di preciso da cosa
dipendesse, ma mai come in quella serata avrebbe voluto aver rifiutato come
sempre gli inviti ad uscire.
Kuroo non era
molto attento a ciò che gli stava succedendo intorno. La classica ricerca del
suo compagno misterioso quella sera
era affiancata – e forse surclassata – da una situazione ben più urgente e
molto meno piacevole. Aveva ricevuto un nuovo messaggio da Akaashi
e la cosa cominciava a preoccuparlo.
Non avrebbe saputo dire quando erano cominciati i
problemi con Bokuto. Probabilmente perché non li
aveva visti arrivare fin da subito e per questo continuava a darsi la colpa di
quella situazione: quando s’era reso conto che qualcosa fra Bokuto
e il compagno a cui il legame lo
aveva unito non andava era stato troppo tardi per intervenire. Ad onor del vero, Akaashi aveva
cercato di avvisarlo: più di una volta, nelle prime settimane in cui Bokuto aveva preso a frequentare questo Kobayashi,
aveva espresso qualche dubbio a riguardo, parlandone prima con Koutarou e poi con lui, ma Kuroo
era stato stupido ed aveva semplicemente pensato che Keiji
fosse geloso, che le sue fossero paranoie infondate.
La prima volta che aveva visto Bokuto
e Kobayashi, aveva trovato quest’ultimo gradevole:
senso dell’umorismo, prontezza di spirito, anche lui del terzo anno e anche lui
in un club sportivo – quello di basket; davvero non era riuscito a trovare in
lui un difetto tale da giustificare le parole allarmate di Akaashi
e anzi gli aveva scritto, subito dopo aver salutato la coppia, proprio per calmarlo,
rassicurandolo sul fatto che fossero solo inutili preoccupazioni.
Ma aveva sbagliato, aveva sbagliato tantissimo e se
n’era reso conto qualche mese dopo quando, improvvisamente, Bokuto
aveva mostrato i primi segni di cambiamento.
«Credo di non poter venire domani con te, Kuroo», si era
scusato Koutarou, dopo una partita di allenamento tra
le due squadre - da quando aveva ripreso a chiamarlo per cognome nelle loro
conversazioni private? «Sai, Shou non vuole, dobbiamo vederci».
Kuroo era rimasto
così interdetto da quella cosa che non aveva reagito. Un brutto presentimento
lo aveva preso all’altezza dello stomaco, ma aveva cercato di scacciarlo via,
così come l’ansia montante, e s’era detto che magari era normale, fra compagni, cercare quel tipo di attenzioni,
che Kobayashi semplicemente aveva voluto ritagliarsi
del tempo con lui e non aveva alcuna cattiva intenzione. Ma col passare dei
giorni, aveva sentito l’amico sempre più raramente e i messaggi erano diventati
formali, stereotipati, freddi. Quel ragazzo aveva preso ad allontanarlo da
chiunque non fosse lui e Kuroo non aveva avuto modo
di fermarlo.
Ne aveva parlato con Bokuto,
ovviamente, e più di una volta, ma era sempre stato respinto: lui non poteva
capire, a detta di Koutarou, che cosa volesse dire
avere un compagno, che impegno fosse e quali sacrifici andassero fatti -
probabilmente era solo geloso di quello che aveva, così gli aveva detto anche Shou. Avevano finito con il litigare pesantemente e non
s’erano parlati per giorni. Poi Kuroo s’era scusato,
non sapeva bene per cosa, e avevano preso a scambiarsi di nuovo qualche
messaggio - di quelli nuovi, quelli in cui Bokuto era
sempre più evanescente. Piuttosto che perderlo, Tetsurou
preferiva mantenere quei rapporti, sperando che col tempo sarebbe tornato tutto
come prima.
Akaashi e Bokuto entrarono nel locale insieme: Kuroo
li vide cercarli con lo sguardo per qualche istante e, una volta trovati,
sorridere ed avvicinarsi a lui e Kenma. Il più
piccolo distolse l’attenzione dal videogioco - che mise in pausa - per notare
con una certa sorpresa che i due ragazzi della Fukurodani
erano arrivati insieme. Ovviamente, anche Kenma era
al corrente di ciò che stava succedendo a Bokuto e
per quanto fosse incline a non impicciarsi di cose che non lo riguardavano,
doveva ammettere che quella situazione lo impensieriva alquanto. Oltre che da Kuroo, Bokuto s’era allontanato
anche da Akaashi in quegli ultimi mesi, per questo
gli parve strano che Kobayashi gli avesse permesso di
venire proprio con lui quella sera e di passare del tempo con tutti loro.
«Era ora!», finse di lamentarsi Tetsurou,
quando ebbe salutato entrambi «Stavamo cominciando a pensare che ci avreste
dato buca!».
«Scusa il ritardo», sorrise Bokuto
«È stata colpa mia, io… ci ho messo tempo a… prepararmi».
Kuroo lo guardò
per qualche istante prima di decidere di non intervenire: poteva chiaramente
vedere che l’amico stava mentendo, che in un modo o nell’altro quella era una
bugia e che c’era qualcosa di diverso nel suo comportamento - era pacato, aveva
le spalle basse e gli occhi spenti. Si sentì un verme a non dire nulla, a
lasciar di nuovo correre. Ma se Bokuto lo avesse
allontanato di nuovo, non sarebbe stato in grado di recuperare quel po’ che
restava del loro rapporto.
«Quindi ordiniamo?». Akaashi
aveva parlato in generale, ma aveva lo sguardo fisso su Kuroo
- lo sapeva, se n’era accorto anche lui. Erano diventati tremendamente bravi a
leggere l’uno i pensieri dell’altro, da quando Bokuto
era in quella situazione.
Nonostante tutto, la serata passò tranquilla. Dopo
aver rotto il ghiaccio, tutti notarono come Bokuto
lentamente scivolasse nelle sue vecchie abitudini: divenne più chiassoso, più
esuberante, sorrise spesso e il suo corpo pareva di nuovo libero dalla
rigidezza che s’era imposto. Persino Kenma riuscì a
dimenticare il malumore con cui era arrivato a quella cena e per una volta fu
bello tornare a come erano sempre stati, alle loro classiche uscite di gruppo,
senza compagni, senza legami o preoccupazioni. Parlarono di tutto e niente,
delle rispettive squadre, delle qualificazioni alle porte, degli ultimi test,
del futuro e del passato il tempo passò
così velocemente e così piacevolmente che quella serata parve non dovesse mai
finire.
«È stato pazzesco! Akaashi
si è mosso con una velocità assurda! In un attimo era sotto rete e bam! pallonetto e punto! Ve lo dico perché siamo amici:
farete meglio a prepararvi perché quest’anno saremo noi a-».
Bokuto sussultò,
trattenendo il fiato e spalancando gli occhi. In un attimo fu tutto
lontanissimo, irraggiungibile: Kuroo, Akaashi, Kenma, la partita,
niente aveva più senso. Keiji lo sentì tremare
accanto a lui e poi lo vide fissare un punto imprecisato oltre le figure dei
due giocatori della Nekoma che avevano di fronte,
dove la stanza si apriva con una vetrata alla strada. Lì, una figura pareva
fissarli.
«Scusate», scattò in piedi l’Asso della Fukurodani.
Corse fuori, fino a raggiungere quello che senza
dubbio doveva essere Kobayashi e i tre amici si
guardarono per qualche istante interdetti prima di fissare la scena che si
sviluppava loro davanti come un film muto.
«Non sapeva che Bokuto
sarebbe stato qui stasera?», chiese Kenma - anche lui
non riusciva a fare a meno di guardare quello che stava succedendo.
«Credi gli abbia mentito per venire? Kobayashi non voleva che ci vedessimo?». Akaashi non era mai stato tanto allarmato come in quel
momento. Questo superava la semplice antipatia che quel ragazzo poteva provare
per loro, era qualcosa di completamente nuovo.
«Conoscendo il tipo, è probabile...». Kuroo fissava la scena in tensione, pronto a scattare -
solo il buonsenso lo teneva fermo sul posto, nella mente ancora l’ultimo
litigio con Bokuto.
I due ragazzi, fuori, discussero ancora per un po’: Shou non pareva fare altro che gridare, mentre Koutarou il più delle volte lasciava frasi a metà,
abbassava la testa e annuiva. Fu quando la figura di Kobayashi
alzò un braccio in aria, come a voler colpire, che Kuroo
ed Akaashi scattarono in piedi, facendo stridere le
sedie sul pavimento di legno. Tuttavia il braccio rimase sollevato e le gambe
ferme sul posto: non accadde nulla da nessuna delle due parti e anzi alle nuove
parole di Bokuto, il ragazzo parve addolcirsi e disse
qualcosa prima di afferrargli il mento con la mano e baciarlo.
Nessuno commentò quel gesto, ma tanto Keiji quanto Tetsuro avevano la
mascella serrata e gli occhi di fuoco. Dentro sentivano ribollire una rabbia
che non avevano mai provato prima e che li rendeva folli - per quanto ancora
avrebbero sopportato quella situazione? E se Kobayashi
avesse colpito davvero Bokuto? Cosa avrebbero fatto,
allora? Sarebbero finalmente intervenuti?
«Credo stia andando via», osservò Kenma
- infatti, Shou aveva messo un braccio intorno alle
spalle del compagno - che superava di almeno cinque centimetri - e lo stava trascinando
via non senza una certa resistenza, quasi subito vinta, da parte di Bokuto.
«La serata può anche finire qui, immagino...», sospirò
Akaashi - non sapeva che cosa fare, non sapeva come
comportarsi e quella situazione lo stava spossando, prosciugando. Era
improvvisamente tanto triste che sarebbe voluto sparire: checché ne dicessero,
lui e Kuroo, le cose non stavano affatto andando
meglio e anzi parevano peggiorare, in una rapida discesa verso chissà quale
disastro annunciato.
La vibrazione del cellulare lo strappò al suo
malessere. Era Bokuto che si scusava velocemente e
rassicurava chi avrebbe pagato la sua parte della cena che si sarebbe sdebitato
quanto prima. Ma, di nuovo, in quelle poche parole non c’era nulla del suo
Asso, del suo amico, della persona a cui voleva più bene al mondo.
L’incantesimo s’era rotto, tutto era tornato nuovamente grigio e lontano e un
altro pezzo si sgretolava sotto i suoi piedi.
«Sei sicuro di non volere che ti accompagnamo?
Davvero, non importa se allunghiamo un po’ la strada, ci fa piacere...».
Keiji scosse la
testa: il silenzio di quella conversazione lo avrebbe definitivamente
annientato, quindi preferiva la compagnia dei rumori della strada e dei propri
pensieri, piuttosto che lo sguardo insistente di Kuroo.
I due ragazzi della Nekoma
lo guardarono confondersi tra i passanti che ancora affollavano le strade
principali della città, prima di andare nella direzione opposta. L’aria calda
di quelle sere soffiava fra di loro gentile ma non portava alcun conforto - Kenma non aveva ripreso in mano il videogioco lasciato in
pausa nella sua tasca: la mente era così affollata di pensieri che non sarebbe
riuscito a prestarvi attenzione. Era questo quello che sarebbe successo anche a
Kuroo quando, alla fine, avrebbe trovato il suo compagno? Questa misteriosa persona se
lo sarebbe portato via, impedendogli di vedere i suoi amici, lui compreso? Che
cosa ne sarebbe stato della sua vita, quando Kuroo
non ne avrebbe fatto più parte? E davvero non aveva alcuna voce in capitolo,
nessuna possibilità di fermare quella caduta? No, no, no, non sarebbe andata
così… Kuroo non lo avrebbe mai permesso, giusto?
Eppure… eppure non avrebbe mai detto che una persona così tanto energica come Bokuto si sarebbe trasformata nel ragazzo che avevano appena
visto scappare e invece… allora forse anche Kuroo
sarebbe potuto cambiare. Avrebbe trovato la sua anima gemella e tutto il resto
non sarebbe più importato, anche lui sarebbe scivolato in secondo piano.
che cosa si provava, a scivolare in secondo piano? Era
un po’ come morire? Kenma aveva la sensazione che le
due cose potessero somigliarsi.
«Stai pensando a Bokuto?».
Le parole del Centrale lo fecero trasalire. Annuì, mentendo.
«Troveremo il modo di risolvere questa situazione…
forse potrei provare di nuovo a parlargli… Non s’era mai comportato così, ho
qualcosa di nuovo a cui aggrapparmi per fargli capire quanto tutto questo sia
sbagliato».
Kenma avrebbe
voluto dirgli che non poteva saperlo, che in effetti Bokuto
avrebbe potuto avere ragione perché nessuno di loro sapeva davvero come fosse
avere un compagno con cui stare. Magari sarebbe stato il prossimo a scappare
nel bel mezzo di una cena con gli amici.
«Voglio tornare a casa», sussurrò, allo stremo delle
sue forze mentali.
Kuroo non disse
nulla e svoltò per prendere la strada abituale verso casa di Kenma.
***
Kei aveva dovuto
spiegare a Sawamura quello che gli stava succedendo;
probabilmente era stata la cosa più umiliante che il Centrale avesse mai dovuto
fare, soprattutto perché aveva pensato che sarebbe bastato incontrarlo prima
degli allenamenti e non aveva messo in conto che, a metà del discorso, Nishinoya e Azumane sarebbero
entrati in palestra. Aveva provato come aveva potuto a limitare i danni, ma il
risultato era stato che, in breve, anche ai due ragazzi era stato evidente che
avesse qualche problema.
Tsukishima non si
sarebbe mai aspettato che proprio l’Asso fosse il primo a capire che cosa stava
succedendo.
«Si tratta del tuo compagno?»,
aveva chiesto in un sussurro - Sawamura aveva cercato
di non reagire, per non tradire Kei, mentre Noya aveva guardato prima Asahi e poi il Centrale,
sorpreso.
«Da quando hai un compagno?»,
aveva chiesto, con un’eccitazione che Kei faceva
davvero fatica a comprendere «Perché non ce l’hai detto? Che succede?».
«Perché sono cose personali». No, la risposta nella
sua mente sarebbe stata molto meno controllata, più tagliente e per nulla
rispettosa, ma Tsukishima seppe controllarsi appena
in tempo, frenare la lingua ed ingoiare il rospo - odiava quella sensazione
quasi quanto odiava il suo legame.
Nishinoya aveva alzato
le mani in segno di scuse, ma né lui né Azumane
s’erano mossi dalla palestra. Tsukishima aveva dovuto
dedurne che il suo momento di privacy col capitano - in cui voleva, in realtà,
solo chiedergli un giorno libero dagli allenamenti - fosse finito, quindi aveva
sospirato rassegnato e vagamente seccato e s’era avviato fuori dalla palestra.
In quel momento, l’Asso lo aveva avvicinato.
«Sai, credo sia un bene che tu voglia sistemare da
subito le cose».
Parlava piano, ma Tsukishima
sapeva che non era per non farsi sentire: da quando lui e Nishinoya
avevano chiarito i loro problemi, l’Asso era in qualche modo diventato più
accorto e pareva stare più spesso sulle spine. Forse non tutti se n’erano resi
conto, ma a Kei non era sfuggito il modo in cui si
giravano attorno, quasi con la paura di restare di nuovo scottati da quello che
provavano. Azumane diceva una parola in meno
piuttosto che una in più e di tanto in tanto il Centrale aveva colto lo sguardo
triste del Libero, forse nei momenti in cui realizzava che qualcosa l’avevano
perso comunque, nonostante tutto.
«Non voglio sistemare un bel niente». Non gli riuscì
d’essere ancora cortese. «Voglio solo che mi lasci in pace. E anche voi».
Tsukishima se n’era
andato prima che Asahi potesse reagire a quelle parole. L’Asso lo aveva
guardato allontanarsi e non aveva potuto fare a meno di chiedersi se fosse
possibile negare davvero un simile legame. Lui, aveva realizzato col tempo, non
lo aveva fatto mai davvero, con lo stesso disprezzo che aveva letto negli occhi
del ragazzo.
Quando fu finalmente solo, Kei
poté pensare con tranquillità. Doveva trovare il suo compagno e risolvere quella situazione una volta per tutte, prima
che gli condizionasse seriamente la vita. Tuttavia non aveva idea di dove
potesse essere.
Perché non li fanno col foglietto
illustrativo? Basterebbe anche solo una cartina, un GPS! pensò stizzito e frustrato.
La verità era che non sapeva da dove cominciare: tutto
quello che aveva era una sensazione di lontananza, qualcosa di estremamente
indefinito, che a malapena riusciva a sentire. Si diceva che, entro uno
distanza accettabile, i compagni
sapessero sempre dove fossero, ma doveva essere una stupidata viste le
condizioni in cui si trovava lui al momento. Chiuse gli occhi e si sentì
stupido mentre cercava di concentrarsi su quella sensazione per renderla più
chiara e forte - era stato un consiglio di Yamaguchi,
a cui aveva riso in modo ironico, ma arrivato a questo punto, tanto valeva
provare. Liberò la mente e si concentrò su ciò che sentiva.
Dove sei? prese a chiedersi, Perché
non ti lasci trovare?
Forse al suo compagno
doveva piacere tutta quella caccia al tesoro, forse la trovava stimolante,
persino eccitante: un altro motivo per tagliare quanto prima i rapporti con una
persona del genere.
Tsukishima sbuffò
irritato. Era ovvio che affidandosi al suo istinto di compagno non sarebbe andato da nessuna parte: probabilmente il
legame non aveva alcuna intenzione di aiutarlo - se di aiuto si poteva parlare -
dal momento che lui intendeva farla finita con tutta quella storia. Il Centrale
trasse un nuovo, profondo respiro e lasciò perdere i suoi sentimenti. Si affidò
alla logica, invece, perché gli umani erano la razza dominante per una ragione.
Dove aveva potuto sviluppare il legame? Era stato
qualcosa di molto lento, quindi doveva tornare indietro di almeno qualche
settimana. Cosa aveva fatto di diverso dal solito? C’erano stati gli ultimi
test a scuola, prima delle vacanze estive, s’era preparato per bene e quindi
non era uscito molto. Poi c’era stato l’incidente di Sawamura
e Nishinoya, ma era stato in ospedale solo quella
notte e la mattina seguente e non gli era parso di provare qualcosa di diverso…
che fosse stato lì? Qualcuno in ospedale, qualcuno che neanche aveva notato? Kei si appuntò mentalmente di tornare in quel posto, per
quanto non ne avesse alcuna voglia: gli ospedali non erano bei luoghi da
visitare e lui si sentiva sempre molto a disagio, quasi non potesse tenere la
testa alta mentre camminava per paura di incontrare gli occhi degli
sconosciuti. C’erano troppe emozioni, di solito, in quegli occhi e lui se ne
sentiva investito.
Gli servirono pochi istanti, continuando il suo
itinerario mentale, per capire quanto fosse stato stupido. L’ospedale non
c’entrava proprio nulla, ora lo sapeva: era stato a Tokyo. Era stato al campo
d’allenamento della Fukurodani.
Tsukishima cacciò via
l’idea che potesse essere qualcuno di una delle squadre per non saltare a
conclusioni affrettate, eppure improvvisamente fu certo che Tokyo fosse la
città in cui doveva cercare. Per questo prese il primo treno, quasi senza
pensarci: era la cosa più logica da fare, sebbene la città fosse enorme e lui
sapesse da dove cominciare. Volle ignorare che in parte fosse anche il legame a
spingerlo in quella direzione e illudersi fu facile.
Camminò per tutto il giorno, senza una meta precisa.
Passò lungo le strade più affollate, nei negozi che attiravano più persone, si
confuse fra la gente come davvero non aveva mai fatto e più di quanto potesse
sopportare, ma non lo trovò. Il suo compagno,
chiunque fosse, non era lì e qualcosa in Kei cominciò
a far male. Era deluso e se ne sorprese perché non s’era accorto d’essere
eccitato, d’essere stato col fiato sospeso per tutto il tempo della ricerca,
che ad ogni colore un po’ più brillante aveva sussultato, sperando fosse lì la
persona che stava cercando.
Con la delusione però, venne di nuovo la rabbia e
quello stato di profonda irritazione per cui, da settimane ormai, Tsukishima si sarebbe preso a schiaffi. Ci stava cascando
anche lui? Anche lui era stato preso nel vortice dei sentimenti che provano i
compagni? Quella strana amalgama di sensazioni in cui non si riesce più a
distinguere se stessi dal legame o a dall’altro? No, non voleva fare quella
fine, avrebbe lottato con tutto se stesso per scampare a quel destino
miserevole.
Paradossalmente, fu la rabbia ad indirizzarlo. Uscì
dalla folla, prese aria nel silenzio di strade secondarie, strade residenziali,
senza negozi, mentre ormai era quasi il tramonto e i suoi piedi lo guidarono
lungo un percorso che non conosceva, finché non fu davanti alla palestra della Nekoma High. Ora Tsukishima
poteva sentirlo chiaramente, il suo compagno,
e si rese conto che era stato sciocco non andare lì come prima cosa. Con alcuni
di quei ragazzi s’era allenato anche più che nei tradizionali set del campo,
dopotutto.
Spiò gli allenamenti della squadra da una delle
finestre della grossa stanza e non gli servì molto tempo per capire. Sentì
chiaramente qualcosa cambiare dentro di lui, non appena posò gli occhi sulla
brillantezza del suo compagno e
combatté quella sensazione di completezza con tutte le forze, finché i ragazzi
non misero fine ai set di allenamento e si prepararono ad uscire.
Quando se lo ritrovò davanti, anche Kuroo realizzò quello che aveva visto Tsukki.
L’emozione fu tale che gli parve quasi di avere un capogiro, ma non disse
nulla: rimase immobile a fissarlo, con l’intera squadra che, a sua volta,
guardava la scena senza capire.
«Kuroo Tetsurou.
Devo parlarti».
«Tsukishima Kei. A disposizione».
Si allontanarono dal gruppo per riflesso: nessuno dei
due pensava di aver bisogno di privacy, anche se per due motivi del tutto
diversi. Kuroo seguiva il Centrale mezzo passo
indietro, e da quella posizione di vantaggio lo guardava e lo studiava,
imparando a conoscerne forma e colore - voleva imparare tutto ciò che non aveva
ancora capito di quel ragazzo, tutto ciò che al Campo d’allenamento gli era
sfuggito e, certo, aveva tanto tempo per farlo, ma voleva cominciare da subito
perché credeva di averne perso fin troppo.
Nell’istante in cui Tsukishima
si voltò nuovamente a guardarlo, però, Tetsurou sentì
un dolore fitto e preciso all’altezza del petto. Non seppe dire se fosse il
legame o un suo personale presentimento, ma seppe che stava per succedere
qualcosa, lo seppe dagli occhi del suo compagno
che lo guardavano con disprezzo e freddezza, come mai avrebbe creduto
potessero fare. Tutta la sua gioia, l’eccitazione, l’appagamento, scemarono
nell’istante in cui il Centrale della Karasuno aprì
bocca.
«Voglio che finisca qui». Secche e decise, le parole
attraversarono l’aria che li separava e colpirono Kuroo
al viso con più forza di uno schiaffo.
«Cosa-».
«Ti rendi conto anche tu che tutto questo non ha
senso, vero? Non lo voglio, questo legame. Non ci conosciamo neanche! Voglio
che finisca qua».
Perché era così difficile parlare? Kei
era partito con tutta la decisione del mondo, erano settimane che si preparava
per quel momento, per l’istante in cui avrebbe finalmente ripreso in mano le
redini della sua vita: perché non riusciva a mettere due frasi di fila senza
risultare banale o poco sicuro di sé? Gli pareva quasi di tremare. Ma voleva
davvero quello che aveva detto, spezzare il legame, tornare a come stavano
prima le cose, a quando Kuroo non era altro che il
capitano della Nekoma che lo aveva aiutato ad
allenarsi durante il Campo.
«Tu- Tu non stai dicendo sul serio». Ah. Perché fanno male quelle parole?
«Certo che dico sul serio. Ho perso l’intera giornata
per cercarti e dirtelo». È così, è
esattamente così.
«Ma abbiamo un legame, siamo uniti, ci siamo trovati!
Le persone aspettano una cosa del genere per tutta la vita». Sono settimane che ti aspetto…
«Non io. Io non ho chiesto nulla di tutto questo. E
non lo voglio». Non lo voglio, non lo
voglio, non-
«Ma tu sei il mio compagno».
A Tetsurou bastava quello.
Come poteva essere troppo poco? Certo, il legame non era infallibile e gli
bastava ricordare la situazione in cui era Bokuto per
capirlo, ma loro due… per loro due era diverso, loro due sarebbero potuti
essere abbastanza insieme, abbastanza da superare il fatto che si conoscessero
a malapena e da poco tempo, abbastanza da creare qualcosa… Perché lo stava
respingendo a quel modo, senza neanche dare ad entrambi una possibilità?
«Non sono nulla di più di ciò che ero quando mi hai
conosciuto qualche settimana fa. Cosa sai in più di me? In che modo potrei
piacerti di più ora? Che senso ha essere legati a qualcuno con cui non si vuole
stare? Lo capisci che niente di tutto questo ha senso? Perché improvvisamente
dovresti interessarti a me? Se ci pensi, è qualcosa di così sbagliato! Imporre
un sentimento è sbagliato!».
Tsukishima capì di star
dicendo le cose giuste quando sentì
di riflesso il dolore dell’altro. Non godeva nel ferirlo, non era cattivo fino a quel punto, ma sapeva che
uno strappo netto sarebbe stata la soluzione migliore. E dopotutto, quelle
erano cose che pensava davvero, quindi non vedeva perché avrebbe dovuto
mentire. Kuroo invece non pareva avere più forze per
controbattere. Poteva essere davvero così? Poteva il legame non significare
nulla, non avere alcun valore nella relazione fra due persone? Certo, Bokuto aveva trovato un compagno disgustoso… ma Lev e Yaku sembravano tanto
felici insieme… Perché quella felicità non poteva provarla anche lui? Perché
non poteva essere fortunato, una volta tanto? Si sentì stanco e deluso da
tutto, e odiò Tsukishima Kei
per il dolore che gli stava causando. Lo odiò, lo odiò con tutto il sentimento
di cui era capace, sperando che lo sentisse, sperando che anche lui soffrisse.
Perché non aveva mai chiesto tanto alla vita, Kuroo Tetsurou, ma sapeva di non meritare tutto quello, sapeva
che qualunque fosse l’ordine del mondo, gli doveva almeno un compagno che fosse degno di quel nome.
Il legame barcollò in quel momento. Lo sentirono
entrambi ed ebbero paura.
Kenma non era
bravo con le relazioni interpersonali. Sin da quando era piccolo, la paura di
ciò che la gente avrebbe potuto pensare di lui e delle sue opinioni lo aveva
spaventato sempre troppo, tanto da non farlo esporre. Col tempo, s’era abituato
a quel distacco: gli dava una certa sicurezza non essere così a contatto con
gli altri ed aveva permesso solo a chi sapeva non gli avrebbe mai fatto del
male di avvicinarsi ed invadere quel campo di protezione. Kuroo
rientrava fra questi. Kuroo era stato, anzi, il primo
ad abbattere quel muro quando lo aveva convinto a restare, a giocare, ad esporsi.
Ora lo fissava e per la prima volta gli pareva di
avere davanti un estraneo. Non aveva idea di cosa fare, di come comportarsi e
soprattutto non voleva stare lì accanto a lui: l’istinto di allontanarsi anche
da Kuroo era, in quel momento, fortissimo.
«Forse se il legame si spezzasse, se… se… se davvero
riuscissimo a spezzarlo potrei… io potrei...».
Tetsurou sussurrava
parole e frasi sconnesse: da quando Tsukishima era
andato via, senza lasciargli scampo e di fatto imponendogli una scelta che
aveva preso da solo, aveva sentito un dolore lancinante invaderlo tutto - non
sapeva bene da dove provenisse, ma ne era pervaso e non lo lasciava pensare o
respirare. Aveva perso il suo compagno ancora
prima di averlo e non sapeva neanche perché stava tanto male. Forse s’era
innamorato dell’idea di aver finalmente trovato quella persona con cui
condividere la propria vita, quella da amare e su cui poter contare. La
possibilità di avere quel legame lo aveva accarezzato con dolcezza e poi lo
aveva abbandonato con sguardo crudele.
Come poteva sentire la mancanza di qualcosa che non
era ancora successo?
«Kuroo...?». Kenma gli si sedette accanto: erano ancora a scuola, ormai
era buio e sebbene normalmente quella situazione non lo avrebbe disturbato,
l’Alzatore cominciava a sentire un certo
nervosismo.
Gli occhi vuoti del suo migliore amico risposero a
quel richiamo col silenzio - Kenma avrebbe voluto
gridare, ma non aveva idea di come si sentiva, di cosa sentiva. Cosa stava
succedendo? Kuroo aveva un compagno che lo aveva appena respinto e per cui stava soffrendo;
stava cercando di farsene una ragione, mettere le cose a posto in qualche modo.
E lui, in tutta quella storia, che cosa poteva fare? Che ruolo aveva? Aveva un
ruolo, poi?
«Credi che dovrei insistere? Credi che dovrei andare
da lui e parlargli ancora?».
Cosa? Lo stava chiedendo a lui? Kenma
lo guardò spalancando gli occhi: quella gli parve la prima volta in cui lui e Tetsurou non riuscivano davvero a capirsi. Perché la verità
era quella: Kenma davvero non riusciva a capire
perché mai Kuroo sentisse tanto il bisogno di
qualcuno che lo aveva appena ferito e respinto. Per lui sarebbe stato un
sollievo aver risolto in quel modo una situazione tanto scomoda, ma Kuroo pareva volersi far del male, continuare a sostenere
una situazione davvero anomala.
O forse erano solo il suo egoismo e la sua paura a
parlare? Dopotutto, se Kuroo avesse lasciato perdere
quello Tsukishima, allora nulla del rapporto che
avevano sarebbe dovuto cambiare: sarebbero tornati ad essere quelli di sempre,
con i loro spazi e le loro abitudini e chissà, magari avrebbero trovato anche
una soluzione per la brutta situazione di Bokuto… Non
avrebbe perso nulla, non avrebbe-
Ma gli occhi del suo migliore amico, mentre lo
fissavano in attesa di una risposta, parevano così tristi che Kenma si sentì un verme per aver desiderato tutto quello:
davvero, non avrebbe mai voluto l’infelicità di Kuroo,
mai. Cercava solo un po’ di tranquillità.
«Credo dovresti dare un po’ di tempo ad ad entrambi… Sappiamo quanto possono disorientare i
legami». Davvero non sapeva se stava parlando di Tsukishima
o di se stesso. «Probabilmente, fra un giorno o due le cose andranno meglio e
anche il Centrale della Karasuno si renderà conto di
quello che ha fatto».
Kenma evitò
qualunque tipo di giudizio, mentre parlava; evitò di esporsi e cercò di essere
quanto più educato possibile, mettendo le parole una dopo l’altra con
attenzione chirurgica. Risultò falso a se stesso, inautentico, perché con Kuroo non s’era mai posto simili problemi. Si stava
preoccupando tanto di come le cose sarebbero potute cambiare ora che Tetsuro aveva un compagno
e non s’era accorto che in realtà erano già cambiate - quella constatazione
improvvisa gli tolse il fiato.
«Hai ragione». Gli occhi di Kuroo
si illuminarono all’improvviso della speranza del moribondo. «Deve essersi
spaventato: il legame non è di certo cosa da poco e semplicemente Kei ha
reagito in modo avventato, preferendo allontanarsi piuttosto che affrontarlo.
Non mi odia, non davvero».
Tetsurou sorrise,
soddisfatto della propria interpretazione, e nascose dietro di essa la paura
che fosse tutto solo un’illusione, che la verità fosse ben più evidente e
chiara. Per un istante, non riuscì a biasimare Bokuto:
improvvisamente s’era sentito tanto perso senza più il suo compagno… quasi non avesse più senso da solo, quasi che, ora che
esisteva, lui fosse definito soltanto da quel legame e perdesse di significato
tornando ad essere una persona comune. Era così che si sentiva l’amico? Era
quella la disperazione con cui doveva convivere? Era stato tanto cieco…
«Credo sia ora di tornare a casa», suggerì, tirandosi su
ed offrendo una mano al più piccolo: Kenma la prese,
guardandolo con una certa circospezione. Era tutto a posto? Era bastato così
poco? No, si sentiva comunque inquieto: quanto sarebbe durata quella pace? E
cosa l’avrebbe distrutta prima, l’improvvisa e definitiva realizzazione che Tsukishima non sarebbe tornato o invece l’improbabile
realizzazione della speranza di Tetsurou? Lui avrebbe
perso in entrambi i casi: l’anima dei compagni di scioglieva velocemente come
la neve al sole e presto o tardi anche quella di Kuroo
non sarebbe stata più in sintonia con la sua.
Forse fu in quel momento che decise. Fu una reazione
istintiva e lo stesso Kenma non la vide arrivare -
era un meccanismo di difesa che lo aveva protetto da sempre e lo avrebbe fatto
ancora. Semplicemente si allontanò, cominciò a prendere le distanze.
Prese a farlo mentre ancora camminavano per strada,
nel solito tragitto che percorrevano quando tornavano da scuola insieme: Kuroo era tornato a parlare e nonostante il legame facesse
ancora male pareva più tranquillo, meno ferito; parlava, parlava di Tsukishima, di come fosse stato possibile vedere i colori
grazie a lui, di quanto avrebbe dovuto faticare per tenerlo a bada. Parlava e Kenma non sapeva quanto si stesse aggrappando alla speranza
che proprio lui gli aveva dato, un appiglio che lo aveva salvato dal baratro in
cui stava scivolando senza accorgersene.
Eppure più lui parlava e più Kenma
stava male: senza averne piena consapevolezza, le parole di Kuroo
lo ferivano, rendevano reale il cambiamento e accrescevano la sua paura. Aveva
sbagliato, aveva tremendamente sbagliato quando
gli aveva permesso di entrare in lui in quel modo, quando gli aveva dato
una fiducia smisurata: dopotutto, Kuroo Tetsurou era umano come chiunque altro e gli umani falliscono
e feriscono. Perché con lui sarebbe dovuto essere diverso?
Quando Kuroo lo salutò,
augurandogli la buonanotte, non s’accorse della fretta con cui il ragazzo gli
rispose, del suo bisogno di chiudere la porta e correre in camera sua, al
sicuro da tutto. Se ne andò senza sapere che cosa Kenma
stesse pensando e provando e anche quello riuscì a ferire l’Alzatore: Kuroo lo sapeva, sempre. Non era mai stato bravo con i
sentimenti, lui, non li aveva mai capiti fino in fondo, ma li aveva come
chiunque altro ed era costretto a conviverci e a provarli. Gettandosi sul
letto, si rese conto che ogni volta che s’era sentito così, trascinato giù da
una bolla di negatività che non aveva una ragione specifica d’essere se non
paura e ansia indefinite, Kuroo era sempre stato lì
in qualche modo. Non avrebbe mai pensato che sarebbe stato lui la ragione del
suo sentirsi tanto male.
Kenma si nascose
sotto le coperte senza neanche cambiarsi. Ignorò sua madre che lo chiamava per
cena, ignorò qualunque rumore o stimolo provenisse da fuori il suo regno fatto
di lenzuola ed oscurità: lì sotto gli parve di poter ancora respirare, sotto le
lenzuola il tempo pareva fermarsi e il mondo girava senza più renderlo
partecipe, esulandolo dal compito di essere umano
inserito in una collettività. Poteva ancora illudersi di non dover fare o
provare determinate cose e nello specifico, quella sera, poteva ancora credere
di non star perdendo il controllo sulla sua vita.
Non ci aveva riflettuto su da molto tempo, a pensarci bene: la sua vita era filata liscia
da quando s’era integrato nella squadra di pallavolo e l’affetto e
l’affiatamento che aveva con i suoi compagni avevano spesso compensato le
paranoie e l’istinto a chiudersi nuovamente in se stesso. Kuroo
gli era stato accanto, come un’ombra fedele, e lui semplicemente non aveva
sentito più troppo il bisogno di isolarsi quando stava male. I suoi spazi erano
qualcosa che ormai tutti conoscevano e semplicemente avevano trovato un
equilibrio specifico, che funzionava benissimo. Ora, quello stesso equilibrio
era appena crollato. O l’avrebbe fatto a breve.
Kenma i legami
proprio non li capiva: che senso poteva avere essere improvvisamente dipendente
da qualcuno? Come faceva la gente a desiderare tanto una cosa simile? Perché ci
teneva tanto ad essere legata a qualcuno? Insomma, la parola stessa doveva
essere una spia del fatto che non fosse poi così una bella cosa: sapeva di
costrittivo, di forzato e davvero l’Alzatore non voleva una cosa del genere
nella sua vita. Insomma, dar conto per forza a qualcuno della sua vita, del suo
cambiamenti d’umore, del suo naturale disinteresse per ciò che gli stava
intorno… gli veniva ansia e mal di testa solo a pensarci! Eppure Kuroo era così convinto di volerlo, sebbene fosse con un
perfetto sconosciuto, da non aver notato affatto il cambiamento in Kenma.
Il ragazzo strinse con più forza in cuscino contro il
suo petto e si arricciò come un gatto in cerca di calore. Il legame si sarebbe
portato via Kuroo e lui non avrebbe fatto nulla.
Perché non sapeva che cosa fare, perché non stava a lui scegliere e ad ogni
modo non era bravo in quelle cose. Che avrebbe potuto dirgli? Di non andare
dietro Tsukishima perché significava lasciarsi lui
alle spalle? Probabilmente Kuroo avrebbe sorriso,
dandogli un buffetto sulla testa e rispondendo qualcosa riguardo al fatto che
non sarebbe cambiato, che le sue erano stupide preoccupazioni. E lo erano, lo
erano davvero… solo che non poteva smettere di pensarci.
Dopotutto, Kenma non era
legato a Kuroo in modo simile già da molto tempo?
***
«Non dico di avere paura, ma sono alquanto nervoso,
sai? Insomma, l’ultima partita che abbiamo disputato in un torneo è stata
quella contro l’Aoba Jousai
ed è stata un disastro, quindi… mi piacerebbe fare di più stavolta».
A Tsukishima la voce di Yamaguchi arrivava come qualcosa di lontano e vagamente
fastidioso: stava davvero facendo uno sforzo enorme per ascoltarlo, quella
mattina, dal momento che la testa aveva deciso di volergli esplodere da un
momento all’altro e faticava anche solo a mettere a fuoco ciò che aveva
davanti. Non lo aveva detto, ma gli aveva fatto estremamente piacere che Yamaguchi ed Ennoshita fossero
passati da casa sua per andare agli allenamenti insieme .
Dire che stava male era usare un eufemismo ormai. Da
quando aveva parlato con Kuroo, la settimana
precedente, non aveva fatto altro che peggiorare: dolori e spossatezza,
stanchezza e instabilità lo avevano reso fragile, ma lui aveva continuato a
tenere fede alla sua decisione senza lasciarsi scoraggiare dalle proprie
condizioni. Non s’era pentito, sperava solo che quella sofferenza finisse
presto. La parte più difficile erano diventati gli allenamenti: anche quando
non soffriva fisicamente, tenere la testa nel gioco gli riusciva sempre meno
spesso, con enorme irritazione personale e, ne era certo, anche di tutta la
squadra. Li aveva visti gli sguardi che gli gettavano addosso, sguardi di pietà
e commiserazione; poteva quasi sentire le parole che si formulavano nelle loro
teste, che gli dicevano di arrendersi ed accettare la situazione corrente.
Non lo avrebbe fatto, però. Non era arrivato fino a
questo punto per poi cedere. Non aveva bisogno dell’approvazione della squadra,
né delle parole con cui anche suo fratello aveva cercato di capirlo e poi di
dissuaderlo da quel proposito. Tsukishima Kei non aveva bisogno di nessuno, era forte ed
indipendente.
Un nuovo capogiro lo fece sbandare e il ragazzo si
tenne in piedi solo perché ci si stava ormai abituando: aveva preso a mangiare
molto poco dal momento che al capogiro solitamente corrispondeva una sensazione
di vomito costante, quindi fu contento di non aver fatto colazione perché il
senso di nausea non era così forte ora.
«Pensi che se dovessimo incontrare di nuovo l’Aoba Jousai, potremmo vincere?».
Ah, Tadashi stava parlando
con lui, sì. Nonostante Ennoshita fosse proprio lì al
suo fianco, Tadashi parlava con lui dall’altro lato
normalmente. Ecco, perché non poteva essere così anche per lui? Perché doveva
avere dei fili tanto stretti e rigidi a manovrarlo ed indirizzarlo dove invece
non voleva andare? Era tanto bello l’equilibrio che aveva, tanto rassicurante…
Le braccia che lo tirarono indietro non erano quelle
di Yamaguchi: il tocco dell’amico lui lo conosceva
bene e non aveva quella forza neanche quando era deciso - c’era sempre una certa
premura in esso, una grazia ed un’accortezza che ormai aveva imparato a
riconoscere, registrato sulla pelle con memoria tattile. Le mani che lo avevano
afferrato, invece, erano più grandi e più forti; quasi gli avevano fatto male
quando lo avevano strattonato, tirandolo indietro, e Tsukishima
si sentì mancare la terra da sotto ai piedi mentre sbatteva contro qualcosa
alle sue spalle.
Chiuse gli occhi respirando profondamente mentre una
macchina gli passava davanti a velocità sostenuta e il petto di Ennoshita, poco più basso di lui, lo reggeva letteralmente
in piedi. Non s’era neanche accorto di essere ad un incrocio. Accanto a lui, Yamaguchi era impallidito: aveva visto tutto e non era
riuscito a fare nulla, congelato sul posto dalla sua stessa paura; ora in un
attimo la realtà del pericolo lo stava mandando in panico e non poteva fare
altro che fissare l’amico senza fiato.
Tsukishima tornò in
equilibrio sulle sue gambe rosso di vergogna e visibilmente provato: la
mascella serrata e gli occhi stretti suggerivano quanto potesse avercela con se
stesso e di conseguenza chiunque altro gli stesse intorno. Per questo Tadashi si trattenne dal dire che forse sarebbe stato
meglio per lui tornare a casa e Chikara non fece
alcun tipo di appunto sul fatto che se non fosse stato per la prontezza dei
suoi riflessi quella macchina lo avrebbe probabilmente investito.
Attesero qualche altro istante prima di riprendere a
camminare, ma non dissero più nulla finché non furono con gli altri. Tsukishima, ad ogni modo, poteva sentire i loro sguardi
addosso mentre li precedeva di mezzo metro e pur non muovendosi chissà quanto
velocemente aveva il fiato corto e il cuore a mille. Era tutto così
dannatamente ridicolo che avrebbe voluto piangere e disperarsi se la cosa non
lo avesse reso ancora più ridicolo di quanto già non fosse.
Quando però furono in palestra, il Centrale si rese
conto che stava davvero male: tutto pareva innervosirlo, persino il classico
stridio delle scarpe da ginnastica sul pavimento lucido del campo o gli schianti
secchi delle palle quando venivano colpite. Saltava ad ogni rumore che fosse
più forte del proprio respiro e non aveva la minima idea di cosa stesse dicendo
Sawamura, mentre con gli altri gli stava intorno
prima di cominciare l’allenamento giornaliero: vedeva le sue labbra muoversi ma
non registrava i suoni che ne uscivano in una strana dissociazione che gli fece
salire il panico.
Aiuto, avrebbe voluto gridare Mi sento morire, aiuto. Ma la voce non voleva saperne di uscire, per orgoglio o perché semplicemente non poteva e Tsukishima restava
lì, isolato nel suo malessere. Trasalì, quando, infine, il coach Ukai gli poggiò una mano sulla spalla: il suo sguardo lo
mise a fuoco mentre istintivamente faceva un passo indietro per scansarsi da
quel contatto indesiderato senza avere successo. Cosa…? Cosa gli aveva detto?
Cosa stava succedendo?
«...forse dovresti stenderti un po’». Aveva lo sguardo
preoccupato, Kei poteva vederlo bene perché in quei
giorni era uno degli sguardi più comuni che riceveva.
Scosse la testa, o almeno pensò di farlo: gli faceva
così male che aveva la sensazione di essere in una bolla di insensibilità,
senza avere effettiva percezione di ciò che gli succedeva intorno. E nonostante
questo, o forse proprio per questo, non voleva lasciare andare, non aveva alcuna
intenzione di arrendersi e fermarsi e ammettere che così non poteva andare
avanti, che forse stava sbagliando qualcosa, che distruggere il legame in quel
modo non era la soluzione.
Mosse qualche passo verso il campo prima che la sua
prospettiva cambiasse completamente: d’un tratto il pavimento della palestra
parve avvicinarsi, inclinandosi pericolosamente - Asahi, che non aveva staccato
gli occhi da dosso al Centrale, frenò la sua caduta appena in tempo. Lui sapeva
che cosa voleva dire stare male, stare male sul campo, stare male volendo
andare avanti e facendo affidamento sull’istinto e sulla testardaggine, sulla
pallavolo come sola costante. Lo aveva capito non appena Tsukishima
aveva messo piede in palestra, che stava facendo la stessa cosa.
«Il coach ha ragione, dovresti fermarti, anche solo un
po’...», gli disse; pareva reggersi di nuovo in piedi ora, ma era freddo al
tocco e Asahi lo teneva per le spalle, insicuro sul da farsi.
«Lasciami», sussurrò il Centrale - la voce era secca,
non era una preghiera ma piuttosto un ordine.
«Tsukishima, non credo che
tu possa-»
«Ti ho detto di lasciarmi! Lasciami in pace, Azumane! Se tu hai i tuoi problemi con Nishinoya,
questo non significa che debba occuparti di me per stare meglio! Posso
tranquillamente- posso- non ho bisogno che tu- che nessuno-».
S’era scansato dal compagno di squadra, scacciandolo
con la poca forza che gli restava in corpo e spuntando tutto il risentimento
che covava da giorni, la frustrazione e la stanchezza: perché gli stavano tanto
addosso? Perché continuavano a fissarlo come l’ultima attrazione di un triste
parco giochi? Voleva solo essere lasciato in pace lui… Perché s’era iscritto a
quel maledetto club di pallavolo, perché aveva voluto provare?
Crollò in ginocchio senza sentire dolore, nonostante
non avesse messo le ginocchiere quella mattina. Crollò scosso da brividi e
stanco di tutto - non stava mollando, non stava lasciando andare, ma era così
dannatamente stanco di lottare contro se stesso… perché il suo compagno non poteva semplicemente
lasciarlo andare? Perché continuava a tormentarlo in quel modo?
Il calore di Tadashi accanto
a sé fu l’unica cosa che riuscì a percepire: lo aveva riconosciuto perché ne
aveva imparato la sensazione, perché loro due erano insieme da quasi tutta la
vita, perché somigliava tremendamente a quello che aveva sentito la notte in
cui Yamaguchi gli aveva confessato di essere legato
ad Ennoshita. Lo aveva guardato dritto negli occhi,
glielo aveva detto, lo aveva rassicurato che nulla sarebbe cambiato tra loro,
che lui sarebbe sempre stato al primo posto, che davvero non avrebbe potuto
scegliere e poi era rimasto a dormire da lui, il suo calore contro il proprio
corpo. Non aveva mai detto a Yamaguchi di essere
rimasto sveglio per tutto il tempo, quella notte, di averlo osservato mentre
dormiva ed aver ammirato il modo in cui aveva reagito a quella svolta nella sua
vita, con la forza per accettarla e la determinazione per non lasciarsi
dominare da essa. Lui, invece, era così debole...
«Yamaguchi». Non c’era
intonazione in quella parola, non supplicava né pregava. Pareva piuttosto la
constatazione di una realtà di fatto. Ma Tadashi
sapeva che cosa significava. Era lì, lo stava in qualche modo ringraziando di
quella promessa.
Ci mise un po’ Tsukishima a
capire dove fosse, quando riaprì gli occhi. Era del tutto disorientato e non
riuscire a stabilire le coordinate di spazio e tempo lo mise in qualche modo in
allarme. Quando gli occhi misero a fuoco tutto quello che lo circondava, scorse
appeso ad un muro un orologio che segnava le tre: possibile che fosse passato
tutto quel tempo? Era sdraiato su un lettino in una piccola stanza anonima e
non ci volle molto a capire che doveva trovarsi in infermeria: solitamente
restava aperta durante le vacanze quando i ragazzi dei vari club usavano la
palestra per allenarsi. Lo avevano portato lì quando… quando? I ricordi di
quella mattina erano confusi e più che essere composti da immagini erano fatti
di sensazioni - la maggior parte delle quali decisamente sgradevoli.
«Yahamuchi sarà felice di
sapere che ti sei finalmente svegliato! Come ti senti?».
La voce di Azumane, che
entrò in quel momento nella stanza, portò nuove spiacevoli sensazioni. Tsukishima stesse a guardarlo per qualche istante, senza
dire nulla, scomodo nel suo ruolo di malato: che cosa era successo? La voglia
di andare via, di restare solo per riprendere il controllo su se stesso lo
fecero muovere a scatti, con nervosismo: Asahi se ne accorse e restò sul
limitare della stanza, senza saper bene che cosa fare. Probabilmente, si rese
conto l’Asso, Tsukishima neanche ricordava quello che
gli aveva detto in palestra, prima di stare male; quindi non c’era alcun
bisogno di tornare sull’argomento, eppure non riusciva a non essere vagamente a
disagio in quella situazione. Si sentiva in colpa, perché forse il ragazzo
aveva avuto ragione…
«Se capisci cosa significa, non
vedo il motivo per cui tu non voglia farmi entrare!».
Una voce, forte, dal corridoio, interruppe il silenzio
imbarazzante nella stanza. Asahi si voltò appena con l’aria di chi aveva
ricordato una cosa estremamente importante.
«Giusto… Il tuo compagno
è arrivato qualche momento fa… Yamaguchi non vuole
che entri, ma Kuroo si sta mostrando una persona
difficile da far ragionare...».
Azumane aveva
sorriso, portandosi una mano al collo con evidente disagio. Tsukishima
guardò la porta chiusa, trasalendo, e d’un tratto gli fu chiaro che Kuroo fosse lì perché poteva sentirlo - per qualche strana
ragione il cuore aveva preso a battere con più forza nel suo petto, risuonando
con quello dello sconosciuto che ancora non vedeva. E in quel momento, nella
confusione più totale, Kei ricordò qualcosa di ciò
che era successo, il modo in cui aveva parlato ad Asahi, il suo crollo e Tadashi.
«Fallo entrare», disse, senza una particolare inflessione
nella voce «Di’ a Yamaguchi che Kuroo
può entrare».
Asahi lo guardò per qualche istante sorpreso: gli
occhi che lo corrispondevano parevano decisi e allo stesso tempo feroci, quasi
bruciassero: non era certo che quella scelta avrebbe portato a qualcosa di
buono, ma non si oppose e fece per uscire. Dopotutto, la soluzione a quella
situazione non doveva essere per forza un’unione - questo lo aveva capito.
«Azumane», lo fermò Tsukki prima che aprisse la porta «Mi spiace per quello che
ho detto: sono stato irrispettoso e non sono affari miei… Scusami».
Di nuovo, l’Asso sorrise. Era un sorriso un po’
incerto, un po’ triste stavolta.
«Forse non avevi tutti i torti sai? È solo… è solo
tutto molto imperfetto, sai? Umano… anche questo, anche i legami lo sono… bisogna
solo… non smettere di crederci, qualunque sia la tua convinzione, non perdere
mai del tutto la speranza. E non perdere se stessi».
Tsukishima non riusciva
a capire perché Asahi pareva tenerci tanto alla sua situazione: non sapeva che Azumane semplicemente poteva capire come si sentiva, in
qualche modo comprendere - anche se per ragioni diverse - il suo desiderio di
voler spezzare tutto. Voleva solo che fosse altrettanto consapevole che, se mai
avesse poi voluto ricostruirlo quel rapporto, non sarebbe stato facile. Noya non gli era mai parso tanto cauto e distante come in
quelle settimane, sebbene entrambi ci stessero provando tanto, sebbene nessuno
dei due volesse lasciar andare.
Non passò che qualche istante da che il ragazzo era
uscito, che Kuroo Tetsuro
entrò nella stanza con una certa urgenza. Non disse nulla, ma stette qualche
istante a fissarlo con occhio critico - di nuovo, Tsukishima
se ne sentì in qualche modo violato, la sua era un’attenzione che non aveva
chiesto, che non voleva.
«Come ti senti?». Kei si
sarebbe aspettato una scenata, qualcosa di estremamente patetico che solo i compagni erano in grado di fare, ma il
ragazzo che aveva davanti non aveva perso la sua maschera di serietà. Alzò le
spalle in un gesto disinteressato, non sapendo bene che cosa rispondere:
sentire chiaramente le emozioni dell’altro, averlo così vicino gli dava uno
strano senso di pace in cui stava scomodo come in un vestito troppo stretto.
«Sei ancora arrabbiato con me, Kei?».
Fu il tono di accondiscendenza che lo stizzò: Tetsurou avrebbe dovuto
starci più attento, ma ancora non lo conosceva bene abbastanza da sapere che
cosa evitare. Tsukishima si drizzò sul letto: non
stava più sulla difensiva, non sembrava stare neanche più male.
«Non sono arrabbiato con te», rispose seccato «Non lo
sono mai stato».
«Non mi pareva così: l’ultima volta che ci siamo visti
sembravi estremamente seccato. Immagino tu sia stato male per questo. Ti ho sentito». Tetsurou
era sincero: s’era preoccupato tantissimo mentre, d’un tratto, s’era sentito
venir meno ed aveva capito che era Tsukishima a stare
male; non aveva potuto fare altro che precipitarsi a Miyagi
col primo treno, senza preoccuparsi di altro se non della salute del suo compagno.
«E credi fossi seccato per te? Ascolta, mettiamo in chiaro questa cosa una volta per tutte.
Non sei tu il problema, ma il legame. Capisci? Anche se fosse stato col
capitano della Fukurodani o magari con il suo
alzatore non sarebbe cambiato nulla. Io non voglio questo legame, non l’ho
chiesto e soprattutto non ne sento affatto il bisogno».
Kuroo lo guardò
sinceramente spiazzato: era corso fino a lì con addosso un’ansia tremenda ed un
dolore fitto al petto… per questo? Per sentirsi dire che non era voluto a
prescindere, che non lo sarebbe mai stato?
Eppure Kenma aveva detto che…
«Ma io...». Lui cosa? Era partito praticamente alla
cieca, per accertarsi delle condizioni di un perfetto sconosciuto. Oh, ecco.
Era questa la verità allora? Questa la magia e la perfezione del legame, questo
il suo sogno? Sotto gli occhi violenti ed impietosi di Tsukishima,
Kuroo stava vedendo la realtà per quello che era. E
improvvisamente non aveva più idea del perché fosse lì.
«L’hai capito, vero? Lasciamo perdere...».
Stavolta Tsukishima credette
davvero di esser arrivato alla conclusione. Sentiva qualcosa di completamente
nuovo nel suo legame e pensò che fosse la sua fine, che presto sarebbe stato
libero; quello che gli rispose, invece, fu lo sguardo può violento di cui Kuroo fosse capace, così inaspettato che Kei non seppe difendersi né reagire: stette lì a guardarlo,
colpito da qualunque fosse il sentimento negativo che il ragazzo gli stava
rivolgendo e senza comprenderne la ragione. Qualcosa cambiò ancora nel legame,
quando Tetsurou smise di guardarlo ed andò
semplicemente via, senza dire più nulla.
Tsukishima restò a
guardare la porta lasciata aperta ed la porzione di muro che si intravedeva
senza più essere sicuro di ciò che gli stava succedendo. Tadashi
lo trovò così, immobile e lontano. Pareva in stato di shock e la cosa lo fece
preoccupare.
«Tsukki…?», lo chiamò
avvicinandosi con una certa cautela: aveva visto Kuroo
uscire dalla stanza con una certa fretta ed uno sguardo terribile, eppure non
avevano gridato, non sembrava avessero avuto una lite… che il legame… che Tsukishima fosse davvero riuscito a…?
«Perché è così facile accettare di stare con uno
sconosciuto e invece così difficile rifiutare?».
La voce del Centrale era monocorde, pareva non fosse
neanche lui a parlare, come se provenisse da lontano o da qualcosa di inanimato.
Yamaguchi si fermò a lato del letto, indeciso sul da
farsi: non conosceva la risposta, non credeva ce ne fosse davvero una.
«Gli hai detto di andartene?».
«Credo di avergli spezzato il cuore. Non… non pensavo
fosse possibile. Anzi, ero abbastanza sicuro che fosse scientificamente
impossibile spezzare il cuore di qualcuno, a meno che non lo si pugnali,
ma...», parlava lentamente, quasi spiegasse un teorema matematico, «Ma l’ho
sentito, l’ho sentito chiaramente. Mi ha guardato e-». Si portò una mano al petto,
stringendo la sottile maglietta da allenamento che stava indossando. Aveva
percepito il duro colpo che aveva inferto a Kuroo
quasi lo avesse subito lui: come un macigno gettato sul petto, qualcosa che
improvvisamente non gli permetteva di respirare. Ed era stato lui.
Non si accorse, Tsukishima,
di una lacrima che senza alcun rispetto gli scese lungo la guancia e fino al
mento, restando lì in bella vista, prova di un dolore che non avrebbe dovuto
sentire e che non capiva. Ma che lo tormentava.
«Volevo solo smettere di sentire, Tadashi. Volevo solo trovare di
nuovo il mio equilibrio. Perché deve fare male comunque?».
Forse si sentiva in colpa. Non sapeva bene come fosse
quel sentimento, non per presunzione ma perché aveva imparato presto a far pace
con tutte le cose che faceva, a muoversi quando davvero era necessario e solo
se convinto. Ora invece provava qualcosa di molto simile al rimorso per aver
ferito qualcuno che dopotutto era una vittima come lui ed aveva solo commesso
l’errore di crederci comunque.
Yamaguchi non disse
nulla, perché non c’era nulla da dire. Sperò che fosse la fine perché vedere Kei in quelle condizioni lo stava uccidendo lentamente,
perché non gli era mai sembrato tanto distrutto, fragile, impossibile da
riparare. Scivolò con la schiena contro il fianco del letto, sedendosi a terra;
aveva chiuso la porta e nessuno sarebbe entrato senza prima bussare, quindi
pensò di potersi concedere un momento per fare ciò che voleva. Dovette pensare
lo stesso anche Tsukishima, perché cercò la mano che
l’amico aveva allungato sopra la sua spalla e la strinse forte nella sua, alla
ricerca di un conforto che fosse intimo, qualcosa che solo loro due potevano
capire. Era uno dei loro momenti, quello, uno dei momenti che prendevano dalla
vita a ritagliavano per sé, da custodire gelosamente. Era, quella, una della
volte in cui essere compagni perdeva
completamente il proprio significato, perché in quei momenti non esisteva
nessuno se non loro due, con tutta la loro storia, il loro affetto, il loro
amore.
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Ormai ci ho preso gusto con questa serie di soulmates!AU, quindi eccovi la terza, che stavolta fa la spola fra Karasuno, Nekoma e Fukurodani. Ci sto mettendo molto di mio in questa narrazione, più di quanto avrei creduto e magari rimanderò qualche parola in più al prossimo pezzo che la concluderà, così da poter parlare a storia conclusa.
Il titolo è abbastanza chiaramente ripreso da “I loved her first” degli Heartland, mentre la citazione è tratta dal IX libro dell’Eneide di Virgilio.
Come sempre, ringrazio in anticipo chi farà notare la sua presenza o semplicemente leggerà – sicuramente per il weekend posterò la seconda parte, quindi a presto!
Alch ♥