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Autore: avalon9    02/02/2017    3 recensioni
Loro che non si erano mai davvero parlati; loro che guardavano alla vita da due opposte prospettive; loro che confidavano in Anissa come naufraghi aggrappati ad uno scoglio in burrasca. Loro, in quello scontro, si erano ritrovati, ed era nato quel rapporto.
Erano nati loro.

Post-Hades; Saint Seiya Omega: intermezzo; in 76 episodio, la notte del ritorno di Ikki.
Seiya e Ikki. Due cavalieri; due soldati. La consapevolezza della guerra. Quella vera.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Pegasus Seiya, Phoenix Ikki
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Crescendo'
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Autore: Avalon9

Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of live

Personaggi Principali: Ikki; Seiya

Altri Personaggi: Koga, Saori e gli altri solo nominati

Rating: giallo

In proposito: Loro che non si erano mai davvero parlati; loro che guardavano alla vita da due opposte prospettive; loro che confidavano in Anissa come naufraghi aggrappati ad uno scoglio in burrasca. Loro, in quello scontro, si erano ritrovati, ed era nato quel rapporto.

Erano nati loro.

Disclaimer: i personaggi sono di Masami Kurumada; la situazione la rivendico come mia^^

Note: one shot; missing moments

Cose: ho ripreso questa serie, anche perché ormai concluso l’Omega anche Crescendo deve avviarsi a tirare le somme dei suoi interludi. Non so bene quando, come e perché finirà. Nel frattempo, mentre quel benedetto II capitolo latita indefesso, mi sono divertita con Ikki. E Seiya certo.

È un anno (quasi) che lavoro a questo capitolo. Uno dei più sofferti che abbia scritto, di questa serie. Forse proprio perché riguarda loro: Ikki e Seiya.

Non capita spesso di vederli interagire, questi due. Anche perché, di solito, vengono ritratti come fortemente agli antipodi. Cosa che in effetti è; tuttavia sono convinta che, con gli anni, Seiya e Ikki abbiamo sviluppato qualcosa che li avvicini. Non empatia, perché quella è piuttosto una caratteristica più consona a Shun. E nemmeno amicizia come una semplice pacca sulla spalla. È qualcosa di più complesso, un senso di appartenenza ad un gruppo certo, ma anche il mantenere la propria identità. Per come la vedo io, dopo la scelta di Seiya di “sacrificarsi” contro Marte, la rottura che si è aperta con i suoi amici l’ha in qualche modo avvicinato ad Ikki.

Ma questo è soprattutto il capitolo della maturità e del cambiamento. È un capitolo in cui, per certi tratti, Seiya e Ikki non sono più Seiya e Ikki come li abbiamo sempre conosciuti.

Prima che cavalieri; prima che i ragazzi dei ricordi, sono due uomini. Con il loro carico di rimorsi e disillusioni. E sono due soldati. Soldati che hanno imparato sul campo di battaglia che la retorica va bene nei consigli di guerra, ma la vita vera; la vita al fronte, sono sangue bestemmie e rabbia. Tanta rabbia e tanta esaltazione. Sciacallaggio anche. Di emozioni e di ideali.

Seiya vive sul confine. Seiya è la leggenda che non deve essere toccata, l’ideale che diventa immagine di qualcosa cui aspirare. E che nasconde in cuore la disperazione dell’oro che scolora dietro la sicurezza ormai perduta.

Ikki invece. Con Ikki ho voluto osare come mai prima. E gli ho dato la ruvidezza del soldato e del reduce; il cinismo dell’uomo d’armi che non ha paura di chiamare le cose con il loro nome, anche se vuol dire rasentare l’improperio e la volgarità.

C’è l’epicità, qui dentro. O almeno ho cercato di mettercela. La retorica e la sicurezza degli ideali, l’aura che da sempre avvolge i Cavalieri dello Zodiaco.

Ma Omega, per me, è stata anche la storia della crescita, del cambiamento, della trasformazione. E quindi sì: puoi ancora parlare di guerra, di battaglie epiche e di ideali fulgidi; ma lo puoi fare anche come Ikki: sbattendoti in faccia la consapevolezza che la guerra è uno schifo. E che per farla, a volte, sei mosso solo da motivi personali. Forse al servizio di qualcosa di più grande; e forse no. Non importa. La guerra fa schifo, e Ikki non ha paura di ammerlo.

Mettiamola come un esperimento; soprattutto dal punto di vista del linguaggio. Per qualcuno, Ikki potrà sembrare troppo simile a Jason Todd, in alcuni passaggi. E sì, forse è vero. Ma forse è proprio a Jason che pensavo. Al soldato che non ha paura di sporcarsi le mani e chiamare le cose come stanno. E Anissa ha bisogno anche di uomini così, uomini che accettano un lato oscuro dell’esaltazione eroica senza patimenti e dannazioni. Uomini come Ikki; come Saga e Kanon; come Shura. Uomini come si sta scoprendo Seiya.

Anche se resta la leggenda.

 

Attenderò curiosa i vostri giudizi!

 

 

 

 

 

Crescendo VII

Noi

 

 

 

 

“Mancavi solo tu.”

Mh.”

La sera è tiepida, e il riverbero degli ultimi incendi laggiù, verso i quartieri a nord della città, colora di sanguigno il cielo basso e pesante di nuvole primaverili. C’è odore di terra, cenere e sangue.

L’odore dell’Ade.

Seiya se lo ricorda ancora, impastato nella bocca che inghiottiva dolore e rabbia, con gli spasimi a far tremare un corpo esausto sorretto solo da cosmo e volontà. Seiya ne ha il ricordo palpabile di quel sapore che raschia il respiro e scende fin nelle viscere, rimestandoti lo stomaco con il disgusto e l’aberrazione. Ce l’ha sulle mani, quell’odore. Se lo porta addosso da un giorno di sole combattuto in un’arena calda di eccitazione e sudore. Quando ha vinto l’armatura e sulle mani strette allo scrigno c’era il sangue di Cassios.

È il sapore che sputava a terra nella foga delle battaglie, quello che gli restava nella gola anche con Anissa stretta fra le braccia. Così diverso dalla freschezza dell’ichor di Anissa, simile all’acqua profonda del mare, simile al nucleo celato di una surgiva.

Credeva di esserci abituato. Credeva che gli anni gli avessero insegnato a inghiottirlo senza pensarci quell’odore e quel sapore simili ad una vertigine di frustrazione e disgusto. Credeva, o forse ci aveva solo sperato, di poterselo lasciare alle spalle, assieme ai sacrifici fatti e alle rinunce.

Invece è lì di nuovo. E ha l’aspetto desolato di una città che sta morendo, travolta da una guerra di cui non conosce nemmeno le motivazioni. È bella, quella città. Bella e antica. E Seiya ha voglia di vederla ancora come quell’unica volta che ha camminato per le sue strade, all’ombra di palazzi di cotto, fra le logge di marmo rinascimentale. Ha voglia di affacciarsi da quel Ponte Vecchio su cui poche ore prima ha combattuto, strappando ogni respiro ai corpi martoriati.

Ha voglia.

Ma le voglie, i desideri, sono capricci che non ha il lusso di concedersi. Non sui campi di battaglia; e nemmeno all’ombra delle colonne di Grecia. Perché quando fai una scelta, la scelta che ha fatto lui, devi essere disposto a dimenticare ogni cosa: la pace di una città, il tepore di un sorriso, le labbra di un amante. E i tuoi stessi desideri. Soprattutto i tuoi desideri.

Seiya ha scelto.

E alla pace di Tokyo; alla tranquillità di una vita che gli si srotolava davanti, ha scelto Sagitter e lo strazio di una guerra senza mai fine. Ha scelto il sole di Grecia e il riverbero doloroso del cosmo di Anissa.

Ha scelto Anissa.

Perché non poteva scegliere Saori.

“Allora?” sorride appena, lasciandosi cadere sul rudere di una tomba, le ali di Sagitter un sordo clangore nell’eco dei fuochi che crepitano, giù all’accampamento. “Ti vuoi decidere o no, a questa lavata di capo?”

Ikki continua a fissare i riverberi che disegnano le pendici della collina, giù lungo il declivio, fino al nastro scuro dell’Arno, al ponte dalle belle campate devastate e poi oltre ancora, fino alla mole iridescente di un palazzo che ha i contorni grotteschi della caricatura di una chiesa.

“Servirebbe a qualcosa?”

“No. Non credo proprio” ride Seiya. “Mi conosci. Ne?”

“Appunto” sogghigna Ikki, una smorfia nelle ombre dei fuochi. “Non farmi sprecare fiato.”

Seiya si concede una smorfia, respirando piano l’aria pesante di fumo. Vorrebbe sentire il profumo della terra di Grecia; vorrebbe sentire l’odore rasposo della polvere dell’arena; andrebbe bene anche l’odore dolciastro dell’incenso, quell’odore che gli scende nella gola e gli ricorda i templi di casa sua, in Giappone. Quella casa che ha deciso di lasciarsi alle spalle.

Andrebbe bene qualsiasi cosa, tranne la nausea che sale attorcigliata al fumo denso del campo di battaglia. L’odore del sangue e dei corpi che stanno bruciando.

“Tuo fratello e gli altri non la pensano allo stesso modo” lo provoca, cercando di trovare un respiro, un rantolo, un istante. Un istante che lo trascini via da quel Monte, da quelle lapidi scheggiate e divelte, fra cui hanno stabilito il campo base. Da quell’odore che gli penetra fin sotto la pelle. Assieme all’immagine di carni che si accartocciano come foglie d’autunno,

Shun ha una predilezione per questo cose. Lo sai” sorride Ikki. “Penso ci abbia rinunciato solo con me, ormai.”

Seiya sbuffa e alza gli occhi alla notte che va scurendosi, in quel cielo pesante di fumo e riverberi di battaglia. Shun. E anche Hyoga; e Shiryu. Sono venuti. Lo sapeva, lo immaginava; lo sperava. E sono arrivati. Li ha sentiti. Ha sentito i loro cosmi bruciare e cercarlo, nella foga della battaglia. Li ha sentiti crepitare e tendersi, salire in potenza e risplendere come stelle che deflagrano.

Li ha sentiti e ha sentito qualcosa, nello stomaco, contorcersi di nostalgia e tristezza. Qualcosa che lo ha spinto ad andare avanti, a trascinare con sé lungo le strade martoriate di Firenze gli uomini che lo seguivano. Qualcosa che gli ha stritolato il cuore e l’anima e che non si è placata. Nemmeno quando, senza respiro e con le mani grondanti sangue, è stato il gelo di Hyoga, la sua mano sul coprispalla di Sagitter, a ricordargli che, a volte, non basta la determinazione a tenere in piedi un corpo.

E allora c’è stato il campo. C’è stato il suo incedere altero fino al Monte, negli occhi opachi il bisogno urgente, pressante, di vedere Anissa e poi. Poi nulla avrebbe più avuto importanza. Saperla al sicuro, saperla salva dalla battaglia che ha infuriato per l’intera giornata. Attorniata dai suoi cavalieri; attorniata da loro: i suoi amici, i suoi compagni di sempre. Gli unici.

E quando l’ha vista; quando nel riverbero vivido delle fiamme dei fuochi da campo l’ha scorta, bella e fragile, fulgida dell’alone del suo cosmo che irradiava conforto; quando l’ha vista, sfilarsi l’elmo e inginocchiarsi è stato riflesso.

Come è stato riflesso cercare nei suoi occhi azzurri, nel riverbero del cosmo nel suo sguardo, un istante di sicurezza. E cogliere lo stupore e il respiro come spezzato; cogliere il tremito impercettibile della labbra e un silenzio incredulo nell’aria. E capire. Capire cosa avesse appena fatto; cosa avesse appena accettato di fare.

Perché Seiya di Pegasus non si era mai inginocchiato prima ad Anissa; perché Seiya di Sagitter era sempre rimasto al suo fianco, fiero e sprezzante, fermo. Perché il cavaliere che era della leggenda non aveva mai piegato il ginocchio davanti alla sua dea, non in pubblico. Non davanti ai compagni di una vita, a quegli stessi compagni che lo avevano sempre visto rialzarsi dopo ogni caduta.

Eppure Seiya di Sagitter si era inginocchiato e, ostinato, aveva continuato a fissare la ghiaia chiara della terra, ricacciando nella gola l’urgenza di guardare Anissa, di guardare Saori e avere da lei anche solo un cenno; anche solo l’ombra di un sorriso.

Era stato Shun a farlo rialzare, e lui si era appoggiato al compagno di una vita come se fosse l’ultimo appiglio prima di crollare. Gli si era appoggiato contro con il respiro pesante e la testa che si svuotava, incerto sulle gambe. Ma c’era Shun, a sorreggerlo. E c’erano Hyoga e Shiryu a nasconderlo, a nascondere la debolezza del cavaliere che avrebbe dovuto guidare gli eserciti di Anissa vittoriosa.

Sei un idiota gli aveva soffiato contro Shun.

Al limitare del campo, sotto la campata d’accesso ad una nicchia sepolcrale, rabbia e sollievo e urgenza e abitudine si erano mescolati in quel conforto e in quella tranquillità che Seiya aveva avvertito irradiarsi nell’animo. Non era solo una risonanza; e non era nemmeno abitudine. Era qualcosa di più profondo, di viscerale e violento. Era quel legame che loro condividevano, che li teneva uniti da anni e che li portava a cercarsi, nella vita e sul campo di battaglia.

Era qualcosa che non si poteva spiegare, ma che c’era. Erano le mani si Shun sulle sue ferite, mentre borbottava rimproveri; erano gli occhi di Shiryu che studiavano ogni sua smorfia, ogni sua protesta; erano i sogghigni di Hyoga mentre ravvivava il fuoco e gli allungava una borraccia che gli aveva bruciato lo stomaco, lasciandolo con una spossatezza infinita nelle ossa.

Sei un idiota gli aveva detto Shun. E Shiryu aveva cercato, con un sospiro, di elencargli le infinite idiozie in cui si era cacciato, con il tacito appoggio di Hyoga. E lui aveva sorriso. Aveva sorriso, nel torpore del tardo pomeriggio, l’armatura di Sagitter inzaccherata di sangue e fango. Aveva sorriso e poi aveva liberato una risata vera, di cuore. Una risata come di tredici anni, quando il mondo era una sfida da affrontare con tanta determinazione e un pizzico di follia. Quando il mondo erano cinque ragazzini che avevano consacrato la vita ad una ragazza come loro. Quando la fede era l’ultima incrollabile certezza. E niente e nessuno avrebbe mai potuto distruggerla.

E in quella risata. In quella risata nata di cuore, in quella risata all’ombra di un sepolcro, con nella gola lacrime e sulle mani la battaglia; in quella risata forse di follia forse di disperazione, Seiya aveva urlato la sua impotenza e la sua determinazione. Aveva urlato il desiderio di non cedere, di essere ancora, di nuovo, uno di loro; e la consapevolezza che qualcosa era cambiato. Che qualcosa era stato spezzato e che, adesso ne aveva la certezza, non sarebbe mai stato recuperato.

Aveva riso, e li aveva osservati. I compagni di una vita.

Aveva visto la placida sicurezza nei tratti di Shiryu, quella calma quieta che può trasforMartei nel furore della battaglia, assordante come il rombo di una cascata. Aveva visto l’orgoglio per suo figlio, nei suoi occhi, e la feroce promessa di non cedere davanti a nulla.

Aveva visto la fredda sicurezza nei tratti adulti di Hyoga, e il lacerante rimpianto di una vita giocata nella negazione e nell’ombra. Aveva visto l’eco dolce di un amore proibito nell’orecchino a croce nordica che portava e la ferma volontà di non lasciarsi sconfiggere.

Aveva visto la sfuggevole determinazione di Shun, negli occhi velati di una disillusione che non gli aveva mai conosciuto. C’era il dolore della guerra negli occhi di Shun, e sulle sue labbra il sorriso del guerriero, l’orgoglio di chi non è disposto a cedere e lasciarsi andare.

Erano cresciuti; erano cambiati.

I suoi compagni; i suoi amici. Le persone che per lui erano state una famiglia; più importanti di una famiglia.

E io?

Cos’era diventato, lui? Poteva ancora combattere con loro, combattere al loro fianco? E per cosa? Per Anissa? Per il loro mondo? O per Saori?

Seiya si era alzato in piedi, il respiro che rantolava e un dondolio ubriaco nel corpo. E se ne era andato, i passi malfermi e le ali di Sagitter chiuse quasi a protezione.

Se ne era andato, strascicandosi fino ad un parapetto che affacciava sulla città che andava scurendosi con le ombre della sera, lì dove l’aria arrivava con piccoli soffi dell’autunno che andava avvicinandosi.

Lì dove lo aveva trovato Ikki.

“Allora” riprende alla fine Ikki, quando il sole è solo una linea chiara all’orizzonte che fa male guardare. “Chi altri lo sa?”

“Cosa?”

“Che ti reggi in piedi per miracolo.”

Seiya sorride appena, mentre si sfila l’elmo di Sagitter e socchiude gli occhi. Doveva pensarci. Non è possibile nascondere qualcosa a Ikki. Non è possibile nascondere qualcosa a un uomo come lui, a un uomo che ha visto l’Inferno e ha saputo uscire con le sue sole forze. Non è possibile mentire a Ikki, e nemmeno sperare di prenderlo in giro.

Ma la disillusione è una linea sottile che attraversa le labbra; è il brillio che tremola nei riflessi di cosmo intrappolati nel fondo degli occhi. È il cosmo lasciato urlare nel furore della battaglia, e la forza disperata di arginare la potenza delle stelle perché. Perché semplicemente la sicurezza che si aveva un tempo si è sgretolata con gli anni che si accumulano sulle spalle.

È una brutta compagna, la disillusione. Ti fa rodere all’infinito e inizi a dubitare di ogni azione, di ogni amico, di ogni salda certezza. Inizi a dubitare di quello che hai sempre avuto, nel cuore, nelle viscere. Di quello in cui hai sempre creduto.

Ikki l’ha conosciuta a quindici anni, la disillusione. E aveva le forme acerbe di una donna morta troppo presto e il sorriso deformato dal dolore di una morte tanto insensata da avergli strappato ogni più piccola illusione. Ogni minima umana possibilità di crederci ancora, in un mondo che aveva scelto di ignorarlo. Che aveva deciso che la cenere delle stelle sarebbe stata la forza amara e graffiante della Fenice.

Ikki l’ha conosciuta a quindici anni, la disillusione. E a strappargliela è stata un ragazzino che parlava con negli occhi le certezze dell’età dell’incoscienza e dell’avventatezza; con nelle mani il cosmo ardente dell’avventatezza.

Era stato Seiya, a strappargliela, la disillusione. E a caricarsela addosso come un fantasma che prende forma solo negli anni, battaglia dopo battaglia.

“Sembra che tu sia l’unico che se ne sia accorto.”

“Per il momento.”

“Già” scrolla le palle Seiya. E libera un sospiro come di aria troppo a lungo trattenuta. Perché per un istante ha temuto che Ikki sapesse, che Ikki avesse veramente capito cosa gli si agita nel cuore, nello stomaco. Cosi gli rimesta la testa e gli lascia addosso una tensione latente e logorante. “Per il momento. E vedi di farlo durare, questo momento.”

Saori lo sa?”

Anissa non lo sa” risponde Seiya, e la lingua brucia di un nome che sembra improvvisamente lontano e indifferente. “E non deve saperlo” ringhia poi, come un cane rabbioso senza forze, ma con ancora una dignità da difendere. Con ancora un feroce atavico istinto di sopravvivenza e di mordere tutto ciò che potrebbe essere un pericolo, una minaccia. Anche se la minaccia fosse uno dei suoi più cari amici.

In quel ringhio trattenuto, ferino, Ikki percepisce qualcosa. Un istante, una consapevolezza, un pensiero che si cristallizza davanti ai suoi occhi: Seiya è altro, dall’ultima volta che lo ha visto. Seiya non è più il ragazzino che gli ha strappato la rabbia con la sola volontà. I Cieli lo hanno cambiato; i Cieli e la prigionia hanno strappato a Seiya qualcosa. Qualcosa che Ikki non riesce a definire, ma che c’è. E ha il peso di un sorriso più sottile, e di occhi addolciti di una malinconia tanto profonda quanto devastante.

Ha il peso della disillusione che Seiya sembra ricacciare in fondo allo stomaco, nel lucore abbacinante di Sagitter. E che Ikki vede che lo consuma, istante dopo istante.

E annuisce, passandosi una mano sul volto più cupo e marcato. Quasi rassegnato.

È cambiato riflette Seiya in quel gesto. Ikki è cambiato.

Ha la stessa ferocia sul campo di battaglia, la stessa schiettezza e lo stesso sprezzante sarcasmo. Ma è cambiato. È cambiato come sono cambiati Shun, Shiryu e Hyoga.

Ma Ikki. Ikki sembra gridare al mondo la sua ostinazione, la sua feroce determinazione. Nella linea dura del viso, nel riverbero di cosmo che gli incendia lo sguardo; nelle labbra strette e nel corpo stanco che non cede, non ha mai ceduto, e trasuda forza e violenza combattiva, Seiya sente Ikki. E lo avverte, fiero e determinato come un tempo, come sempre. Lo avverte pronto a cercare l’avversario sul campo di battaglia solo per un cocciuto ostinato desiderio di lotta. Per la rabbia e la delusione e il rimorso disperato che gli divorano l’anima e il cuore, pezzo dopo pezzo. Come una subdola dannata amante.

E io? si chiede ancora Seiya.

Nelle mani, l’elmo di Sagitter riverbera dell’ultimo sole che va tramontando. L’elmo dell’uomo, del ragazzo, che è morto con un’imprecazione alle labbra e il viso di Anissa negli occhi. L’elmo di Aioros, che ha scelto la morte nel caso di una notte giocata nella follia.

Aioros che si è trovato a morire per Anissa; che ha scelto di morire per lei. E per se stesso.

Cosa sono diventato io?

Non è più Seiya di Pegasus; e non si sentirà mai davvero Seiya di Sagitter. È solo un uomo; un uomo folle e disperato, che si trascina avanti con cupa determinazione, con blasfema ostinazione. Chiedendosi ogni istante se il respiro sarà l’ultimo, se quel cosmo che gli arde dentro, devastante, lo consumerà prima di avvertire il cuore spaccarsi e l’ultimo respiro sfuggirli dalle labbra.

Ma è tutto ciò che mi resta.

Per non impazzire; per ribellarsi, anche solo per un istante, alla fine che, lentamente, si sta avvicinando. Perché lo sa; ne è consapevole, e accarezza quel segreto con rassegnazione e indifferenza.

Il cosmo di Ikki, caldo e sfrigolante, lo abbraccia all’improvviso, come un manto sotto cui lasciar riposare le braci prima di ridestarle. E Seiya sospira, liberando fra i denti l’aria di un singhiozzo trattenuto, il rantolo del peso di Sagitter e della stanchezza di giorni consumati sul campo di battaglia.

Quando è successo?

Quando, si chiede Seiya, ha avvertito per la prima volta, l’atavica, ferina forza della Fenice?

Lo ricorda nell’Elisio. Ricorda lo smarrimento negli occhi di Ikki davanti alla giara rossa del sangue di Anissa e il ribollire furioso del suo cosmo quando si era incendiato di determinazione e si era scagliato, contro Ade e contro quella infame colonna sepolcrale.

Ma già lì era stata consapevolezza.

Quando Seiya lo aveva percepito, nel dolore sordo del corpo schiantato contro il marmo, sapeva che Ikki sarebbe rifulso di un cosmo ampio e furioso, di un cosmo capace di incendiare l’Ade e far sfrigolare l’immota aria d’Elisio. Lo sapeva e lo conosceva, conosceva la calda, elettrica, ustionante carezza del cosmo di Ikki sulla pelle, il riverbero di fiamme che gli incendiava lo sguardo e il ghigno spietato che gli deformava il viso. Lo conosceva perché lo aveva già visto, lo aveva già conosciuto. Quando nella bocca aveva altro marmo e polvere; quando a vestirlo c’era una corazza di bronzo e negli occhi ciechi la follia di poter ancora vincere, di volercela fare. Ad ogni costo.

Nelle stanze della Tredicesima Casa, nelle stanze dell’udienza, prostrato ai piedi di Saga e del suo distorto e delirante sogno, Seiya aveva avvertito nelle stelle l’eco dello scontro e il calore abbacinante della Fenice avvolgerlo a dargli forza e protezione.

Loro che non si erano mai davvero parlati; loro che guardavano alla vita da due opposte prospettive, Seiya con la fiducia scanzonata di una finta giovinezza e Ikki con la cupa disillusione della vita; loro che confidavano in Anissa come naufraghi aggrappati ad uno scoglio in burrasca. Loro, in quello scontro, si erano ritrovati, ed era nato quel rapporto. Quel legame ironico e irriverente che Ikki sapeva di potersi permettere; quell’indifferenza che gli era propria e che era smorzata propria da Seiya e da quel suo modo infantile di guardare alla vita.

Erano nati loro.

Loro come compagni, come amici. Loro come cavalieri e come uomini, ragazzi che le stelle avevano plasmato nel dolore e nelle perdite, fulgidi di cosmo e di una devozione che era onore alla dea che li aveva conquistati e rispetto per sé stessi e i propri compagni. Loro che erano ragazzi che la guerra e gli dei avevano reso uomini, e che il tempo aveva inesorabilmente cambiato.

Ikki se ne era accorto mentre piegava pigramente la testa di lato, respirando il misto d’autunno e di polvere di cenere che saliva con raffiche crescenti verso il Monte. Stanotte ci sarà tempesta aveva pensato, e si era voltato appena sopra la spalla, verso Seiya.

E Seiya era lì.

Era lì, con il corpo stanco e stremato abbandonato contro il moncone di un monumento funebre; era lì, le ali di Sagitter che rilucevano appena al riverbero della luce dei fuochi e il viso scavato dalle ombre della notte. Era lì, e Ikki si era reso conto, con la violenza di una deflagrazione, che c’era ancora solo perché era suo volere esserci. Solo perché Seiya era troppo ostinato per darla vinta, al destino e al suo stesso corpo.

E riavverte quel brivido, l’eco che l’aveva attraversato nel fragore della battaglia, quando si era presentato sul campo di battaglia nel furore assordante delle fiamme. Era stato un istante, un frammento irrisorio, forse un abbaglio. Eppure quella sensazione l’aveva percepita nitida e assordante esplodergli nella testa: Seiya.

Il cosmo di Seiya. Troppo potente, troppo caldo, troppo luminoso. Troppo.

Il fulgore e la maestosità di quel cosmo che bruciava ai limiti estremi, a costo di consumare e corpo e vita. E allora aveva immaginato uno scontro. Aveva ipotizzato un avversario, un avversario davvero degno di quel nome. E nel susseguirsi rapido dello scontro aveva percorso ogni anfratto della città con la mente, cercando un cosmo, una presenza nemica che giustificasse Seiya e il cosmo di Sagitter ardere come il fuoco del sole.

Non lo aveva trovato. E adesso, nella quiete illusoria della notte, sotto un cielo carico di stelle e fumo, realizza quello che altri ormai non riuscivano più a distinguere, quello che altri non volevano vedere. E lo sforzo immenso di Seiya per contenere quella forza che cresceva di giorno in giorno.

“Quanto ancora?”

Mh?”

“Il tuo corpo” respira piano Ikki, trattenendo un ringhio che non sa nemmeno lui se di rabbia o di frustrazione. “Quanto ancora prima che…?”

Ikki è un uomo pratico. Lo è sempre stato, e ai bei discorsi preferisce i pugni e alle parole di miele sostituisce il veleno di una lingua impertinente e sarcastica, abituata a rispondere ad ogni provocazione, abituata a combattere anche con le parole.

Da ragazzo, quell’atteggiamento, lo faceva scattare subito come una molla. Da ragazzo, Seiya non riusciva ad accettare quello che spesso Ikki gli sputava addosso, soprattutto perché erano verità. Verità scomode e devastanti, che ti colpivano come un montante allo stomaco e ti lasciavano al tappeto a boccheggiare. Da ragazzo. Una vita prima. Quando le certezze erano la determinazione urlata la cielo e il cosmo incendiarsi sotto lo sguardo compiaciuto di Anissa. Da ragazzo; quando l’atrocità della battaglia poteva anche illudersi di addolcirsi con la retorica di un ideale.

Ikki è un uomo pratico. E da uomo pratico ha capito. Ha percepito il cambiamento che Seiya si porta addosso, e il peso che ne consegue. Si era illuso; per un istante si era illuso che anche Ikki si fosse fermato all’apparenza, si fosse arreso contro la stanchezza che il suo corpo trasuda. Ma no. Ikki ha imparato a sondare nel profondo le ombre del cosmo, ha imparato ha coglierne le sfumature che ne precedono la deflagrazione e le increspature che ne accompagnano la quiete del riposo. Quindi no, non poteva ingannarlo. Anche se non ha capito esattamente cosa stia accadendo; anche se non può immaginare a cosa sia dovuto veramente l’ampliarsi lento e innaturale del suo cosmo, l’ha percepito. E ha percepito la consunzione che provoca. La morte che si infiamma con il lucore etereo delle stelle.

Finchè sarà necessario” sospira, sorridendo appena alla smorfia sarcastica che Ikki gli concede in risposta. Perché lo sanno entrambi che, quella, è un’immane idiozia. Perché lo sanno entrambi che Seiya preferisce riempirsi la bocca di spacconerie grandi come le montagne, prima di lasciarsi precipitare.

Perché Seiya ha bisogno di crederci, di potercela fare ad arrivare fino alla fine. Perché a Seiya non resta altro che aggrapparsi con tutto se stesso a quella pallida, effimera convinzione: che davvero la volontà basti, a rovesciare il mondo. Che davvero, una volta ancora, il suo cosmo possa abbracciare l’universo e modificare il mondo.

“Spaccone” sogghigna Ikki. “Ti reggi in piedi a stento. Hai intenzione di strisciare, davanti a Pallas?”

“Mi basta non strisciare davanti a Titan” alza le spalle Seiya.

Titan, nh” ripete piano Ikki, accarezzandosi il mento e l’accenno di barba che glielo ricopre. “È il bastardo che dobbiamo ringraziare per questa allegra festa?”

Seiya sbuffa una risata. Quando vuole essere sarcastico, Ikki finisce sempre per essere tanto cinico e antipatico da apparire odioso e superficiale. E stronzo. Un bastardo indifferente con una gran voglia di menar le mani e scarso interesse per gli ideali.

Ma per quegli ideali Ikki è disposto anche a scenderci, all’Inferno. E a trasforMartei nel peggior stronzo bastardo immaginabile. Qualsiasi cosa, pur di riscattare il debito immenso con una ragazzina morta fra le sue braccia e la fame di vita, forte, inarrestabile, che arde aggrovigliata al suo cosmo.

“Per la festa non so” replica Seiya. “Ma non è un bastardo. Questo te lo posso garantire.”

“Quello che ho stecchito nel pomeriggio lo era. Eccome.”

“Lui no” sospira Seiya. “Lui. Ecco. Mi ricorda Aioros. Cioè. Quello che ha fatto.”

“Un altro martire” allarga le braccia Ikki, sputando quasi quella parola. Che i martiri, a lui non sono mai piaciuti. Perché fare i martiri è una schifosa bastardata, di quelle che non riesce proprio ad accettare. Perché significa scegliere la morte piuttosto che combattere per vivere.

“Ma allora hai ragione. Non è un bastardo. È un cretino.”

Perché fare il martire significa arrendersi ancor prima di cominciare a combattere. E perché chiunque spunti in faccia alla vita scegliendo di morire è come se sputasse in faccia a Esmeralda.

Ad una ragazzina che sognava la vita con la stessa intensa passione con cui, altre ragazze della sua età, sognavano il proprio futuro.

Esmeralda che, la vita, l’ha trascorsa incastrata fra una distesa di rocce e vulcanelli di lava e un ritaglio di giardino dai colori pallidi. Esmeralda che, quando la accarezzava, all’ombra di un vecchio muro sbecciato, aveva sulle guance arrossate di sole un velo di cenere. Sapeva di cenere e sale, Esmeralda. E la sua pelle non era morbida, ma costellata di piccole cicatrici e molte abrasioni. Era la pelle di una ragazzina che aveva imparato in fretta cosa significa vivere, e che la vita può essere una grande fregatura. Una ragazzina che trascorreva le ore sotto un sole cocente, le maniche rimboccate e un vecchio fazzoletto rosso in testa, a raspare dalla terra quel poco che un’Isola maledetta concedeva. Una ragazzina che tremava quando lui la prendeva fra le braccia e la accarezzava, cercando nei suoi occhi la compassione per una bambina che voleva solo conoscere di nuovo l’affetto.

Una ragazzina, una donna, che con i suoi quindici anni gli aveva insegnato cosa volesse dire davvero avere passione. Non la passione di un amplesso, non quel sentimento che ti preme nel ventre e che trasforma le carezze in strette e i sussurri in affanni. La passione di Esmeralda era qualcosa di ancora più profondo, di ancora più devastante: era la passione per la vita. Quel profondo viscerale istinto di vita che le irradiava dal viso, dagli occhi, dal sorriso. Quella passione che le ha fatto scegliere di morire per lui, per uno come lui. Uno che, alla vita, ci aveva quasi rinunciato. E che aveva capito cosa davvero volesse dire vivere solo mentre lei moriva fra le sue braccia. A quindici anni, con il vestito a fiori che era stato di sua madre addosso e i calli sulle mani.

Quindi sì: odia i martiri. E odia ancora di più i cretini che giocano a fare i martiri.

Ikki!”

“Lo sai come la penso” lo previene, alzando una mano ancora sporca di battaglia. “Ora. Vogliamo star qui a filosofare, o mi spieghi un po’ la situazione?”

Seiya sospira piano. Parlare con Ikki è stancante. Ed evitare di litigarci lo è ancora di più. Eppure, Seiya si accorge di averne bisogno. Ha bisogno di quei momenti, di quelle frecciate, di quelle provocazioni e dell’esasperazione che sente nello stomaco. Ha bisogno di sentirsi ancora, di nuovo, quello che era a quindici anni, il ragazzino che devi prendere per la collottola e costringere a ragionare. Il ragazzino che ha sconfitto uomini e dei con i suoi amici al fianco.

“Se ti prendessi il disturbo di muoverti prima, forse non avresti bisogno sempre del riassunto” lo provoca Seiya, rilassando la schiena contro la lapide e abbandonando l’elmo di Sagitter accanto a sé. Non ha la forza per togliere tutta la corazza, anche se vorrebbe, per un’ora almeno, avvertire l’aria sulla pelle. Anche l’aria cinerina e pesante del campo, immaginando il sapore di sale che si insinuava fra le fenditure delle finestre a casa sua, alla darsena. O che serpeggia sempre fra i templi di Grecia, d’estate.

“Ora sono qui, mi sembra.”

Seiya lo guarda socchiudendo un occhio. Ikki si è appoggiato al parapetto, le lunghe piume della Fenice che tintinnano metalliche ad ogni suo movimento. Sembra così rilassato, indifferenze ad ogni cosa. Eppure Seiya avverte il fremito dei nervi, il lieve crepitio del cosmo del compagno. Ikki è attento, è vigile e pronto a reagire al minimo sentore di pericolo o attacco. E soprattutto è un bersaglio.

Seiya se n’è accorto dal momento in cui lo ha raggiunto. Ikki sta facendo di tutto per attirare su di sé un possibile eventuale attacco, lasciando lui libero, per un istante, per pochi momenti, di rilassare muscoli e cosmo. E di concedersi, forse per la prima volta da molto, troppo tempo, un istante di riposo.

“Sì sì” borbotta. “Che fine hanno fatto quelli che sono riusciti a stanarti?”

“Una brutta fine” taglia corto Ikki, e nella sua voce la rabbia si mescola ad un ringhio basso e profondo, da animale braccato che è pronto a giocarsi il tutto per tutto pur di sopravvivere.

“Quanti erano?”

“Di preciso non lo so” grunisce Ikki, masticando un labbro. “Una trentina. Penso. Non mi sono fermato a contarli” e prende fiato fra i denti, come a cercare in fondo allo stomaco la forza o forse la volontà di aggiungere qualcos’altro. Qualcosa che, Seiya lo intuisce, è personale; e fa male.

“Hanno attaccato il villaggio” sputa alla fine Ikki, con negli occhi ancora case bianche di calce ridotte a macerie fumanti, il lezzo del sangue e il pianto di pochi sopravvissuti che si trascinavano simili a spettri fra i calcinacci, il viso coperto di cenere e sangue, lacrime su visi scavati dalla vita e dal sole del Mediterraneo.

Seiya inghiotte a vuoto, fissandosi le mani guantate d’oro. E ricordando i rantoli d’agonia di uomini finiti nel vortice delle loro battaglie, ricordando lo strazio di andare avanti, un piede dopo l’altro, ignorando i gemiti che si udivano fra le macerie, le lacrime sui visi e il desiderio forte, opprimente, di concedersi un istante, un briciolo di compassione, di disperazione, che l’essere Sagitter, l’essere il primo fra i cavalieri non gli permetteva più. E assieme la rabbia e l’impotenza per una nuova guerra, per un nuovo gioco al massacro, di nuovo come a quattordici anni. Di nuovo come sempre, anche se, questa volta, il campo di battaglia è una città inconsapevole, è una città che ha avuto il solo torto di essere un ricordo prezioso fra le pieghe della memoria di Anissa.

“Helena?” riesce a chiedere, un sussurro nel silenzio dell’anima. E si sorprende del tremito della sua stessa voce, si sorprende della paura che sente stringergli lo stomaco al pensiero di udire una parola, una sola unica parola che farebbe sbiadire il ricordo del viso di una ragazzina incontrata troppi anni prima. Il viso di una bambina che aveva salvato la vita ad un uomo solo chiedendogli di combattere anche per lei.

“È viva” risponde Ikki, la voce che mescola sollievo e furore. “Ma ha perso una gamba. E il figlio che portava in grembo.”

Seiya chiude gli occhi, inghiottendo un gemito.

Quanto ancora? Quanto sangue ancora dovrà essere sparso? Quando sangue ancora, di nuovo, dovrà macchiare le loro mani, dovrà straziare la loro mente e il loro spirito, prima che…?

Seiya concede un sorriso amaro, a se stesso e alla sua infantile illusione. Perché era di un ragazzino, di un bambino cresciuto nell’arena, di un bambino convinto che la volontà è vittoria, l’illusione di poter sempre vincere. La follia che il sangue e il dolore sofferto fossero sufficienti, fossero bastevoli e che ci fosse qualcosa. Qualcosa per cui davvero valesse la pena lottare, qualcosa di bello e grande e splendente come il cosmo di Anissa. Come quel cosmo abbacinante e confortevole che, anche in quel momento, cerca di lambirgli l’animo e il profondo, lancinante dolore che lo sta divorando.

“Era tuo?” riesce alla fine a chiedere, nelle orecchie l’eco di ordini impartiti dal campo e il fischio di un vento dal sapore della cenere e della resina.

“No. Non lo era” sospira Ikki, socchiudendo gli occhi come di rimpianto come di dolore. “Questo però non mi impedirà di reclamare vendetta.”

Ikki” tenta Seiya. “Non combattiamo per vendetta. Lo sai. Combattiamo per la giustizia.”

“Per favore, Seiya” sorride Ikki. Ma è un sorriso amaro, la piega distorta di un gemito, di una disillusione che ha scavato loro i volti e l’anima, che si è presa, pezzo dopo pezzo, ogni speranza, ogni appiglio, ogni certezza. “Ci credi ancora? Ci credi davvero ancora?”

“Sinceramente?”

Ikki inghiotte a vuoto.

Non è paura. La paura la sa riconoscere; ha imparato a riconoscerla sul campo di battaglia, simile ad una scarica che ti perfora il cervello e ti inchioda a terra, inerme davanti all’avversario. Può durare un istante, un lunghissimo istante in cui tutto quello che riesci a pensare è non voglio morire. Non posso morire; o può durare tutta la vita, e diventare il rantolo di terrore che non ti lascia più andare.

Ikki, quella paura, ha imparato a riconoscerla; a dominarla e a girarla a suo vantaggio, a trasformarla nella rabbia e nella disperazione della sua furia in battaglia. Ma la sensazione che prova in quel momento, il crampo che gli sta divorando lo stomaco, quella morsa che lo ha semplicemente afferrato, costringendolo a fissare Seiya. Ecco. Quella morsa è qualcosa che non vorrebbe mai sentire.

Perché è lui quello disilluso e cinico; perché è lui quello che se ne esce con una domanda del genere, con il suo carico di amarezza e di delusione. Perché è lui quello che deve essere sempre raccattato per strada, quello che se ne resta ai margini, ben sapendo che, comunque, gli altri lo aspettano, gli altri non hanno l’intenzione di lasciarlo indietro. E che, allora, si può concedere quell’atteggiamento di menefreghismo e indifferenza che gli si è cucito addosso come una seconda pelle.

Seiya no.

Seiya è quello che ti trascina avanti; Seiya è quello testardo, cocciuto, intrattabile, è il ragazzino che si ostina a farti capire il suo punto di vista, il suo viscerale ottimismo anche se dovesse ficcartelo in testa con i pungi e gli insulti. Seiya è quel tipo di persona. È il ragazzo, l’uomo che è riuscito a sconfiggere gli dei solo per ostinazione, solo per assoluta cieca fedeltà in se stesso e negli occhi di Anissa.

Mentre adesso. Adesso.

“Non lo so. Non lo so più per cosa combatto. Combatto davvero” rantola Seiya, stringendo forte il pungo e poi nascondendo gli occhi stanchi e vacui dietro la mano, nell’odore fastidioso di sangue rappreso e cenere e terra. Nell’odore della battaglia che si sente sempre addosso. “So solo che ho bisogno di crederci, Ikki. Ne ho davvero bisogno.”

“Alla giustizia?”

“Alla giustizia; alla pace” ride Seiya senza allegria, e la sua risata è il rantolare dell’ubriaco, il raspare dell’aria in polmoni troppo stanchi. “Ad Anissa. Al mio egoismo. A qualcosa. A qualsiasi cosa che…” strascica, strozzandosi con la sua stessa voce, premendosi le mani sulle testa, sulle tempie. Nella disperazione della consapevolezza dell’abisso che lo sta divorando e che, giorno dopo giorno, è sempre più difficile controllare, dominare, nascondere.

E Ikki si chiede dove sia Seiya.

Dove sia il ragazzino cui ha affidato la vita e le sue poche certezze, il ragazzino che era disposto a proteggere a costo della vita, che non demordeva nemmeno davanti all’evidenza. E poi si ricorda. Si ricorda di quindici anni trascorsi in un lento, costante stillicidio di cosmo e determinazione. Si ricorda della spada che gli ha trafitto il cuore e lo ha lasciato simile a un relitto spiaggiato. E si ricorda di quello che Seiya ha scelto di lasciare, quello cui si è imposto di rinunciare, pur di restare al fianco di Anissa.

E si chiede dove la trovi, davvero, la forza per rialzarsi ancora e continuare. A combattere; ad amare; a straziarsi le carni e lo spirito pur di non cedere di un passo, pur di potersi di nuovo riverberare nel cosmo di Anissa.

E fa male.

Sentire Seiya con quella voce. A Ikki fa male. La voce stanca; lo sguardo disperato; e la folle, lucida determinazione che ancora tiene in piedi un corpo sfinito, che sembra implorare di poter collassare. Mentre il cosmo. Kami. Il cosmo di Seiya arde. Arde come una stella, come milioni di stelle pronte a deflagrare per abbacinare le galassie.

Seiya.”

“Non dirlo agli altri, Ikki. Non dirlo ad Anissa.”

Cosa? vorrebbe chiedergli. Cos’è, esattamente, quello che Seiya vuole tenere ben celato nel profondo del suo animo e della sua mente? La disillusione che sta crescendo in lui simile ad un cancro? O le condizioni disperate del suo corpo e del suo cuore, la fragilità del cristallo mescolata alla disperata, folle volontà di domare un cosmo che sta sfuggendo al suo controllo?

Cos’è che Seiya non vuol far sapere? La sua reale forza, o la sua disarmante debolezza?

Ikki, tuttavia, si limita ad annuire, in quel modo tutto suo, lento e misurato che riserva solo a momenti come quello, momenti in cui le parole sono solo parole e uno sguardo, un gesto, un accenno segnano l’intesa di una vita cresciuta fianco a fianco su cambi di battaglia.

“Non lo farò” annuisce piano, nella testa il principio di un malessere che germoglia. “Ma tu vedi di non strafare come tuo solito. Ne?

“Detto da uno con il braccio nelle tue condizioni” ride Seiya, rilassandosi contro il marmo scheggiato della lapide, gustandosi il mezzo ghigno di Ikki e osservando i suoi movimenti, il soppesare attento l’articolazione.

“Ah. Lo sai, dunque.”

Mmh” annuisce Seiya, strappando un lungo filo d’erba e arrotolandolo fra le dita. “Sono il generale in capo di Anissa, ora. Non dimenticarlo.”

“Siamo a posto, allora!” scherza Ikki, sfilandosi l’elmo per la prima volta da quando è riapparso, maestoso e fiero nel riverbero infuocato del suo cosmo. “Fanne parola con Shun, e non ti dovrai più preoccupare di quello che io potrei andare a dire.”

Seiya scrolla le spalle e accosta il filo alle labbra, in un fischio alto e acuto che piano piano trova i toni di una vecchia melodia d’infanzia.

“I soldati. Quelli del villaggio” riprende Ikki, quando le ultime note si sono perse nell’aria ormai fredda della notte. “Avevano le sue insegne. E cercavano me. Quel bastardo è mio, Seiya.”

“Mi stai chiedendo il permesso?”

“Chiamala cortesia fra colleghi” e il cosmo della Fenice rifulge nel suo sguardo, profondo come le voragini del magma incandescente. “Lui è mio. E né tu né Anissa vi dovrete mettere in mezzo.”

“L’ultima volta ti ha spezzato la spalla.”

“L’ultima volta gli ho incrinato la spada” replica Ikki, un ringhio a deformare il sorriso di soddisfazione. “Mi ha cercato, Seiya. Così come io l’avevo braccato. Adesso. Dopo quello che…dopo Helena…” sospira Ikki, un respiro pesante, di un dolore che opprime l’anima prima ancora che il petto. E che ti resta nella gola come un boccone che non riesci proprio a mandar giù. “Voglio poterlo mettere all’angolo e finirlo, Seiya. Ho il diritto di finirlo.”

Seiya socchiude gli occhi, indovinando nell’espressione dura e decisa di Ikki la risolutezza a non cedere. E, Kami, non se la sente proprio di discutere con lui. Di imporre a lui, a quel cocciuto testardo che è, quello che la sua posizione e il suo ruolo potrebbero esigere. Perché Ikki combatterà, lo sanno entrambi. E combatterà per quello che lui ritiene importante, per quello che lui decide essere importante.

Non sarà al fianco di Anissa; non sarà con lei per proteggerla e sostenerla. Sarà lontano, nel furore della battaglia, nelle urla di agonia e di dolore degli avversari. Sarà in combattimento, alla ricerca di quell’uomo che ha scelto come suo avversario, che è il solo avversario con cui si vuole confrontare.

Perché Ikki combatte per motivi personali. Perché Ikki ha scelto che servire Anissa non significa essere il suo burattino. Come lo hanno scelto Shiryu, Hyoga e Shun. Come l’aveva scelto lui stesso, quando disattendevano gli ordini e facevano quello che loro ritenevano giusto, quello che per loro era importante.

Ikki vuole combattere? Seiya sa che non lo fermerà, sa che lo lascerà cercare l’avversario sul campo di battaglia e che, per rispetto, non interverrà neanche se dovesse sentirne il cosmo estinguersi. Perché con Ikki funziona così. Con Ikki puoi solo accettare lo strazio di voltargli le spalle senza possibilità di discutere, di provare a ragionarci.

Ikki ha deciso che vuole vendetta; e avrà vendetta. A costo di scontrarsi con Anissa stessa.

“È la tua battaglia” acconsente alla fine Seiya. “Solo. Sei sicuro di farcela? Con quel braccio, intendo.”

Ikki ride, una risata bassa e cupa, mentre si tasta i muscoli tesi sotto la corazza.

Il suo braccio; quel braccio. Lo stesso che Hyoga gli ha congelato, al loro primo scontro. Lo stesso che Shaka gli ha frantumato, nel corso del loro duello. Quel braccio che non è mai veramente guarito. Il braccio con cui ha ucciso il suo maestro e con cui ha accarezzato Esmeralda per l’ultima volta.

È il suo punto debole, lo sa lui come lo sa Seiya. Ci sono momenti, come dopo che Aegeon. gli ha frantumato la clavicola, che quasi non riesce a muoverlo, che al suo posto sente solo un irritante perpetuo formicolio. Altre in cui gli sembra che possa esplodere, tanta è la tensione che lo attraversa quando è irradiato dal fuoco del suo cosmo.

Quindi no: non è sicuro che il braccio reggerà a un nuovo scontro; non è sicuro che potrà usare al meglio le sue capacità né se uscirà vincitore o sconfitto dalla battaglia. Sa solo che non ha mai permesso a quel braccio di tenerlo lontano dal campo, che non ha mai permesso al dubbio di un insuccesso di guidare le sue azioni.

“Non è messo peggio di te” commenta con una smorfia. “Resisterà.”

“Potresti perderlo.”

“Potrei. Ma non importa” soffia piano, quasi in un ringhio. “Sai quanto posso essere pericoloso. Anche con un braccio solo.”

Certo che lo sa. Lo sa bene.

E nella mente ritornano due ragazzi di quindici anni; ritornano la rabbia e l’esasperazione e il primo sangue sulle mani. Ritorna il ricordo di quel loro scontro ai piedi del Fuji, quando si erano accorti che la loro vita non si sarebbe giocata su un ring, ma passo dopo passo ogni giorno. Quando Ikki era il nemico, il primo e solo. E l’armatura che Seiya adesso indossa il trofeo da conquistare.

Anche allora Ikki ha combattuto con un braccio solo, l’altro intorpidito dal gelo di Hyoga. Eppure. Eppure Seiya ricorda la precisione e il dolore dei colpi subiti, la forza e la disperazione di pungi e affondi. Perché Ikki è quel tipo di cavaliere. È il cavaliere, l’uomo che non si arrende, che ringhia alla vita con ostinata determinazione, imprecando e vomitando sangue, ma non si arrende, non si arrenderà mai. Ed è disposto a crepare trascinandosi dietro il suo avversario, solo per strappare la soddisfazione di non lasciarlo vincitore.

“Vuoi dei soldati?” riprende alla fine. “O farai da solo, come al solito.”

“I soldati del Tempio non sono adatti. Lo sai anche tu” sbuffa Ikki. “Anche con le armature di acciaio non sono sufficienti.”

“Stanno combattendo al meglio.”

“Stanno morendo, Seiya.”

“Credi non lo sappia?” rantola, abbassando gli occhi e stringendo le mani. Forte. “Credi che mi piaccia mandarli avanti, a rischiare la vita?” sussurra ancora. “Che altro posso fare? Pallas ha uomini. Molti uomini. Noi invece” sospira, massaggiandosi la radice del naso. Stanco. “Non abbiamo quasi cavalieri, Ikki” gli confida in un sussurro.

Ikki annuisce piano, guardando giù, verso i fuochi del bivacco lungo le pendici del colle. Ci sono uomini, laggiù. Uomini che non raggiungeranno i vent’anni, l’adrenalina dello scontro nelle vene e il terrore della morte negli occhi. Sono ragazzi raccattati per il mondo, abituati a combattere, a mordere, a uccidere per strappare un giorno ancora alla vita. Forse hanno perso qualcuno, come lui, come Hyoga. Forse non l’hanno mai avuta, qualcosa da perdere. E sanno solo combattere. Per sopravvivere.

È qualcosa che conosce. Che Ikki ha visto negli occhi di quegli uomini, mentre passava fra loro. Rabbia, angoscia, disperazione, forza, dolore, determinazione, paura, disprezzo. Una farandola di sentimenti che si mescolano e spingono ad agire, a fare forse l’impossibile. A combattere fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo rantolo.

Ma sono uomini; non sono cavalieri. Sono solo uomini.

Non hanno un cosmo che li sostenga; non hanno un’armatura che li protegga. Le corazze d’acciaio aiutano, ma non sono invincibili, non offrono riparo alla furia delle stelle o alla crudeltà degli avversari. Con una corazza d’acciaio puoi affrontare un altro uomo, non un altro cavaliere.

“Sarà un massacro” soffia Ikki, e le sue parole sanno di morte nel riverbero dei fuochi.

“Lo è già” singhiozza Seiya, mentre nell’aria inizia ad avvertirsi l’odore dolciastro e nauseante di carne bruciata. Seiya si trascina in piedi, appoggiandosi alla balaustra semidistrutta, al fianco di Ikki.

Al centro dell’accampamento stanno iniziando ad ardere i roghi funebri: ogni cavaliere, ogni soldato, viene sepolto nel vorticare delle fiamme, il nome gridato tre volte al cielo e la preghiera di Anissa a mormorare la certezza del dovere compiuto.

“Quanti ne perderemo ancora, Ikki?”

“Tanti” mugugna Ikki, stringendo forte l’elmo fra le mani. “Ma per ognuno di loro un uomo di Pallas lo seguirà nella tomba. Sarà il nostro tributo.”

Seiya scuote piano la testa, la nausea e la spossatezza a chiudergli lo stomaco e rendergli rasposa e debole la voce.

“Non avrei mai dovuto accettare di farli scendere in campo” soffia infine, premendo maggiormente il corpo contro il parapetto. “Sono uomini, non cavalieri.”

“Non credo proprio che tu li abbia costretti” gli risponde Ikki, una smorfia sulle labbra. “Sapevano che sarebbero potuti morire. Hanno scelto di combattere; di vivere.”

“Si sono fidati di me. E io li ho portati a morire.”

“Si sono fidati di te, e tu hai combattuto con loro. È diverso” cerca di spiegargli. “Sono soldati, Seiya. E sapevano cosa rischiavano.”

“Questo non allevia la mia colpa.”

“Questo significa che tu non hai colpe” scandisce Ikki, socchiudendo gli occhi ai guizzi dei fuochi, nella balza sottostanze. “Ma se davvero ti senti in colpa, pensa a sopravvivere. E a vincere. Sarà più che sufficiente.”

Seiya sbuffa un respiro, annuendo piano e mordendosi poi un labbro.

Nella testa, l’affastellarsi di mille pensieri, di mille emozioni. Non è come ragiona lui; non è il modo in cui lui ha sempre ragionato. Andare avanti. Andare avanti a qualsiasi prezzo, sacrificando uomini come fossero pedoni. No. Non gli piace. Proprio non riesce ad accettarlo. Ha visto i suoi amici fare così; li ha visti dargli le spalle e obbligarlo a caricarsi della loro volontà, del loro desiderio egoistico e devastante di spianargli la strada. Li ha sentiti spegnersi, il cosmo palpitare in una ribellione sempre più debole, sempre più fioca. Si è costretto ad avanzare, per non deluderli. Si è costretto a ignorare gemiti, urla, imprecazioni mentre, un piede davanti all’altro, nella testa martellava il viso di Anissa e l’obiettivo, l’unico e solo per cui valesse davvero la pena morire. Ha scelto. Ha scelto che gli facessero da scudo, ha scelto per loro la morte e lo strazio, ha imposto loro sacrifici e dolori. E loro. Loro hanno solo accettato. Hanno accettato perché nessuno li ha costretti, hanno accettato perché tutto quello cui anelavano era quella unica e sola parola: vittoria.

E non per trionfo personale o retorica di esaltazione. No. Vittoria per Anissa, per i suoi occhi di nuovo vividi. Vittoria per l’abbraccio abbacinante del suo cosmo; per il sorriso malinconico di una dea che combatte anche nel corpo fragile e indifeso di una donna; per quell’abitudine che è solo di Anissa, di Saori, di sacrificare se stessa, di proteggerli e custodirli.

Ikki ha ragione. Lo sa.

Sa che gli uomini che si stanno consumando su quelle pire hanno scelto la battaglia, hanno scelto di rischiare la vita solo per avere un ideale, uno scopo, un. Anche solo per avere qualcosa che non fosse la vuota ripetitività di una vita consumata nei bassifondi di una città o nel nulla della disillusione. Alcuni hanno sete di bottino e vendetta, Seiya lo sa. Lo ha percepito nell’eco distorta e debole della volontà che li anima. Ma è meglio di niente; in quella guerra in cui solo la ferocia e la disperazione ti spingono avanti, anche l’avidità è meglio di niente. Perché non ti farà cedere, perché ti farà combattere. Perché ti farà ringhiare e imprecare, ma di permetterà di restare in piedi.

Seiya lo sa. E non riesce ad accettarlo.

Perché le sue, le loro battaglie non sono stragi di civili ed eserciti affamati di prede. Le loro battaglie non sono mai state città distrutte e avversari falciati senza parlare, senza ascoltare, nella foga frenetica di strappare metro su metro una posizione all’avversario.

Le sue battaglie; le loro battaglie. Le guerre.

Le guerre che gli sono rimaste incise nella pelle, nelle cicatrici e nei ricordi. Le guerre contro Saga, contro Posidone. Le guerre contro gli dei. Le guerre rivendicate per capriccio di esseri che disprezzano, che ignorano anche cosa sia la compassione e la pietà. Le guerre contro divinità ancestrali e indifferenti, contro cui ha scelto di morire, contro cui ha scelto di lottare anche a costo di sacrificare tutto se stesso.

Le sue guerre.

Sono guerre in cui l’avversario lo hai di fronte; guerre in cui l’avversario è un corpo rivestito di un’armatura e una convinzione con cui vuole persuaderti. Sbagliata, ingiusta e folle; ma è il suo credo, il suo orgoglio. E a volte. A volte non lo sono nemmeno, tanto sbagliate, ingiuste e folli, quelle convinzioni. Perché Saga. Kami. Saga amava Anissa. Di un amore così profondo e devastante da volerla uccidere, per risparmiarle lo strazio di scontri e decisioni che avrebbero costato la morte di soldati e cavalieri.

Perché Saga non era un folle, adesso lo sa.

Lo sa da quando ha stretto fra le mani la sua daga, e ha osato pensare di levarla contro una bambina. Lo sa da quando ha accettato che, per porre fine al delirio di Pallas, dovrà uccidere una bambina che piange affetto nel corpo della dea. E lo farà. Lo farà sotto gli occhi di Anissa che chiederanno pietà; lo farà chiudendo il suo cuore e il suo cosmo alle supplice della sua dea, della donna che.

Vincere.

È l’unica cosa che abbia valore, Ikki ha ragione.

Vincere per concedere di nuovo, ancora, riposo e tranquillità ad Anissa, a Shiryu, a Hyoga, a Shun. Vincere per garantire a chi sarà sopravvissuto quel futuro che hanno strappato con il sangue e la determinazione ai capricci del fato e degli dei. Vincere per lasciare speranza alla nuova generazione, a Ryuho, a Kouga. A bambini che credono che la battaglia sia solo l’eroismo di un combattimento, l’adrenalina di uno scontro.

Vincere. Per quei bambini; per quei ragazzini. Perchè non debbano mai scoprire lo strazio di una perdita, il dolore di andare avanti lasciando sul campo di battaglia il corpo ancora caldo di un amico, di un compagno, di un fratello. Perché per loro la guerra rimanga un sogno ammantato di leggenda, e il sangue e il dolore e le ferite sbiadiscano nel tempo, nei riverberi rassicuranti del cosmo di Anissa. Perché.

Seiya respira piano, socchiudendo gli occhi.

Vincere.

Come non ha mai immaginato di poter fare, di poterlo desiderare. Prima che il suo corpo sempre più debole lo tradisca; prima che il cosmo di Sagitter incendi le stelle ed esploda, senza più controllo. Lo sente anche in quel momento, il suo cosmo. Grande, vivo, pulsante. Lo sente risuonare con le stelle, con le galassie che se ne stanno lassù, oltre il fumo denso e acre delle pire, oltre il rossore di funerali di fuoco che ammanta il cielo d’autunno. È vasto, il cosmo di Sagitter. Vasto e potente e. E semplicemente è troppo. Troppo per poterlo ancora contenere; troppo per riuscire a trovare di nuovo la forza di imbrigliarlo.

Se solo non ci fosse stato Marte.

Se Marte non si fosse mai presentato; se lui non avesse scelto, in quel suo naturale istintivo precipitarsi, di sacrificarsi contro di lui. Se solo.

Baka.

Perché è inutile pensarci. È inutile chiedersi cosa sarebbe successo se. Perché ormai quello che è stato è stato. E non se ne pente. Non se ne pentirà mai di aver sacrificato la sua vita, il suo cosmo, il suo corpo per Anissa e il bambino che stringeva al seno.

“È quello che ti ripeti sempre?” gli chiede, mentre le pire si vanno spegnendo e nella notte resta solo il crepitio di braci e ossa scarnificate.

Mmh?”

“Quello che mi hai detto. Che basta sopravvivere” ripete, accarezzando sulla lingua parole quasi sconosciute. “Quando combatti. È quello cui ti aggrappi?”

“Non mi piace perdere, lo sai” fa una smorfia Ikki. “E sì. È quello che mi dico.”

“E funziona?”

“La verità? È un’immane stronzata” alza le spalle Ikki, arricciando il naso. “Ma anche una stronzata è meglio di niente.”

Seiya ride piano, i riflessi del fuoco sul viso pallido. Perché con Ikki è così. Con Ikki non ti puoi aspettare una risposta coerente, una risposta come sarebbe quella di un cavaliere di Anissa. Con Ikki ti devi aspettare solo la durezza della realtà, le illusione che vanno in pezzi e quelle altre, quelle cui lui si aggrappa con cieca disperata ostinazione.

“Non ti farò da balia, Seiya” sussurra quando il tempo si è tramutato in silenzio e il vento della notte ha ormai disperso l’odore acre delle pire.

“Non avevo intenzione di chiedertelo. Stai tranquillo” sbuffa Seiya. “Come rottame posso ancora combinare qualche danno.”

“Volevo solo essere chiaro” scrolla le spalle, appoggiandosi con gli avambracci al parapetto. “E, giusto per la cronaca. Credo che tu possa fare ben più di qualche danno, in realtà.”

“Sai com’è. La gramigna è dura da estirpare” sorride Seiya. “E comunque. Se mi succederà qualcosa” aggiunge in un soffio, alzando poi la mano a fermare la risposta di Ikki. “No. Fammi finire. Se mi succederà qualcosa, almeno saprò che Anissa sarà al sicuro.”

Ikki storce la bocca, inghiottendo un’imprecazione.

Perché Seiya ha già scelto. E ha scelto di combattere, fino alla fine. E sa anche che, quella fine, potrebbe essere ad un soffio. Sa che il cosmo che gli arde nel petto è simile ad una cometa che aspetta solo di impattare, per deflagrare e poi. Poi niente. Poi resterà solo il ricordo di una scia abbacinante e polvere di stelle.

Seiya lo sa. Sa che, se oserà troppo, se porterà al limite il suo corpo, il suo cosmo brillerà come mai prima di allora, ma le sue membra bruceranno, incapaci di sostenere lo sforzo. E sa anche che, se è ancora lì, in piedi, è solo perché è suo volere esserci.

Per quello in cui crede, e per l’amore che ha verso una donna che non potrà mai abbracciare. C’è dolore e malinconia, negli occhi di Seiya. E Ikki sospira a quello sguardo, lo sguardo del ragazzino di un tempo, le labbra appena incurvate e la tristezza che vela l’ardore del cosmo. Perché Seiya morirà per lei, lo sa lui come lo sa Seiya. Perché Seiya ha deciso che la sua vita sarà solo al fianco di una donna che non potrà avere, di una donna che dovrà solo servire, accettando la gratitudine in occhi che vorrebbe baciare, il sorriso su labbra che vorrebbe toccare.

Saori si arrabbierà. La conosci.”

Seiya sorride appena, giocherellando con la lunga fascia di bisso che gli protegge la gola. Lo sa che Anissa si arrabbierà; e sa anche che ne soffrirà. Se dovesse succedergli qualcosa, sa che Anissa.

No. Saori.

Saori non riuscirà mai ad accettare di non essersene accorta prima, di non esser intervenuta prima. A fermarlo, a proteggerlo, a salvarlo. Sa che piangerà, e lui non ci sarà per asciugare quelle lacrime, per raccogliere i suoi singhiozzi e cullare i suoi sospiri.

E sa anche che la deluderà, perché le ha promesso di starle sempre accanto. Glielo ha promesso una sera di novembre, la neve lenta oltre le fusuma e il tepore di un kotatsu, nel profumo allegro di un mandarino.

Quando i Cieli si erano chiusi e loro avevano vinto; quando i Cieli si erano chiusi e lui aveva scelto la guerra di Anissa alla tranquillità di una vita lontana da lei. In un novembre di anni prima, in una di quelle fughe dal Tempio e dai doveri in cui l’accompagnava, quando Anissa spariva e tornava Saori, con il sorriso tiepido della risata, il broncio infantile che le arriccia il naso quando è arrabbiata.

È stato di novembre, sotto quella trapunta, le testa abbandonata sulle braccia conserte e negli occhi il tremolio di una serata di neve. Glielo aveva promesso allora, senza guardarla, soffiando piano contro il maglione caldo.

Fai quello che vuoi della tua vita. Io comunque ti resterò accanto.

Glielo aveva promesso. E avrebbe voluto baciarla. Avrebbe voluto stringerla e farci l’amore. E invece. Invece l’aveva guardata. L’aveva guardata per farglielo capire. La passione, l’ardore, la determinazione che sentiva, che gli bruciava nel petto, nelle viscere. Forte; devastante. Più forte del cosmo di Sagitter che già iniziava a montare, lento e inesorabile come la marea. Come l’attimo di calma prima della deflagrazione.

L’aveva guardata, e l’aveva amata in quello sguardo. Riassaporando nella mente quel bacio che gli aveva dato, dal sapore di cosmo e acqua; quel bacio concesso sul campo di battaglia, nel lucore della luna e nel riverbero del cosmo di Anissa.

In quel novembre di neve, Seiya si era concesso di guardarla come uomo e non come cavaliere, si era concesso di amare la donna e non la dea, anche senza toccarla, anche resistendo al desiderio di sfiorarla.

“Lo so che si arrabbierà” ride piano. “Ma sai com’è. Meglio chiedere perdono che permesso.”

“Uh” sogghigna Ikki. “E questa da dove salta fuori? Sembra una delle frasi di Kanon, piuttosto che tua.”

“Chissà. Forse lo è” gli risponde, con una strizzata d’occhio che, per un istante, a Ikki fa tornare alla memoria Seiya com’era a quindici anni. Com’era prima che le battaglie e la morte gli straziassero l’anima, la straziassero a tutti loro, e che i Cieli reclamassero il giuramento più grande. Anche se erano loro i vincitori.

“Comunque” gli sussurra Ikki, allungandogli appena una spallata che è più il risuonare di metalli e la complicità di cosmi cresciuti assieme. “È quello che abbiamo sempre fatto. Ne?”

“Sì. Direi proprio di sì.”

Giù nel campo, le ombre si allungano in forme distorte, con i richiami degli uomini disposti lungo il perimetro, lì dove le tenebre e la tensione ti fagocitano in una sensazione di inquietudine e sfibramento. Gli ultimi drappelli che non sono rimasti a tenere le posizioni, sciamano lentamente, sorreggendo i feriti e strascicando i piedi. Negli occhi e nello stomaco la disperazione per chi si è lasciato indietro, per la paura e la follia riconosciuta negli occhi dei compagni. E l’abbraccio di Anissa ad accoglierli, nel calore pacato e rassicurante del suo cosmo che serpeggia lieve e costante fra la terra annerita e la fatica della battaglia. A confortare, a consolare, a lenire dolore e affanni.

“Hai parlato con Shun?” sussurra appena Seiya, sotto la mano la terra e la polvere di pietra di quel muretto che lo sorregge.

“No. Non ce n’è bisogno.”

Ma…

“È una cosa fra me e lui, Seiya” scandisce piano Ikki, prendendo un respiro lento. “Non prenderti problemi che non ti spettano. Ne hai già abbastanza dei tuoi” borbotta, indicandogli in un gesto distratto del mento il lucore di Pegasus ai fuochi del bivacco. Kouga è un fagotto di cosmo e stanchezza che si è lasciato cadere su un sacco, nelle mani l’elmo scheggiato e sul viso la stanchezza di una guerra che sembra non avere fine.

“So che lo hai aiutato” mormora Seiya, avvertendo nel profondo l’eco di Pegasus. E la nostalgia per l’impulsività della giovinezza. Quando aveva l’universo nelle mani e nel cuore solo il desiderio di combattere per il sorriso di Anissa. Prima che i Cieli lo costringessero alla realtà; prima che Sagitter gli appesantisse le spalle, con il suo lucore ammantato di leggenda. “Lui e i suoi compagni.”

“Di’ pure che ho salvato loro il culo” sputa Ikki, alzando le spalle. “Hanno paura, Seiya. Di perdere le armature. E di morire.”

Ikki” tenta Seiya. “Sono solo dei ragazzi.”

E i ragazzi hanno paura. È normale che abbiano paura. Paura di quella guerra che stanno imparando a conoscere, del dolore e del peso di un’armatura che ti grava sulle spalle. Paura di essere cresciuti troppo in fretta, di essersi persi per strada qualcosa di prezioso, e importante. Qualcosa che non sanno definire e che se ne resta lì, al limite del campo visivo. Come un pungolo fastidioso e costante; come una consapevolezza che non riescono ancora ad afferrare.

Paura di quello che significa uccidere; di sentire nelle mani le ossa rompersi e il sangue scorrere e la vita. La vita del nemico, dell’uomo che stai affrontando, andarsene sputandoti in faccia rabbia, delusione, speranze, bestemmie. Sputandoti in faccia che la guerra è anche quello, è soprattutto quello: corpi maciullati fra le mani, e sangue a incrostare gli arabeschi della corazza.

Hanno paura di capire cos’è la guerra, quella vera. Quella che non hanno mai davvero visto. Una vera guerra. Di quelle in cui ti trascini avanti lasciandoti alle spalle i corpi dei compagni; di quelle che ti restano nella carne, se hai ancora la forza, alla fine, di guardartelo, quel corpo deturpato che ricopri di metallo.

“Lo eravamo anche noi” sospira Ikki, e in quelle parole c’è una verità che resta intrappolata nella gola. “E anche a me non va giù l’idea di crepare. Ma sono pronto a farlo. Lo sai. Lo sai meglio di me.”

Seiya stringe le labbra in una smorfia. Certo che lo sa; lo sa fin troppo bene. Ce l’ha ancora impresso nelle ossa il ricordo della determinazione di Ikki, la sua rabbia urlata sotto un cielo pesante di nuvole alle pendici del Fuji. Quella volta Ikki era disposto a morire pur di trascinarli con sé nella tomba, pur di cancellare il vuoto ch gli montava nell’anima. E dopo. Anche dopo.

Ikki ha sempre avuto una certa propensione a ingaggiare battaglie in cui la possibilità di vittoria è sottile come il filo di un rasoio. E si è sempre concesso il lusso di scegliere avversari che avrebbero potuto costringerlo alla resa.

Ikki ha sempre avuto una malsana fascinazione per la morte in battaglia, buttandocisi con la ferocia ruggente delle fiamme. Ma ha sempre avuto anche un’ossessione per la vittoria. Ed è sempre stato così, Seiya lo sa bene: contro Shaka prima, e poi contro Mime, e Alcor e Kanon, e poi ancora Minos e gli dei. In ogni scontro, Ikki ha messo alla prova se stesso, arrivando al limite e superandolo solo per quella cocciuta, strenua resistenza che possiede. Per quel sentimento che alcuni chiamano arroganza, che Ikki chiama cocciutaggine e che lui riconosce come fedeltà.

Perché è di Ikki rischiare il tutto per tutto per tentare di spianare loro la strada; ed è di Ikki rifiutarsi di restare alla fine, di essere l’ultimo ancora in piedi. Meglio crepare per primi, con sulle labbra il sorriso sprezzante di chi è sicuro di un miracolo, di chi è certo di essere morto per qualcosa che è giusto, che è certo.

“Lo so” sospira alla fine. “Lo so che darai la vita per Anissa. Solo. Speravo che potessimo evitarlo. Speravo. Non lo so. Dopo i Cieli speravo che fosse in qualche modo finita.”

“Ci speravi o fingevi di sperarci?”

“Beccato” ride piano Seiya, quasi un singhiozzo. “Ti detesto quando fai così. Lo sai?”

“Tranquillo. Il sentimento è reciproco” sogghigna Ikki, rigirando fra le mani l’elmo della Fenice. E pensando che sì, Seiya ha ragione.

Perché dopo che i Cieli si erano chiusi anche lui aveva sperato, aveva osato immaginare, un futuro diverso, una vita diversa. Aveva accarezzato l’idea di quel mondo intravisto negli occhi di Esmeralda, di un mondo fatto di colori tenui e sentimenti forti, di un mondo in cui il fratello non uccide il fratello e in cui. Non lo sa nemmeno lui cosa, esattamente. Forse semplicemente in cui lui sarebbe stato di troppo.

E invece.

Invece tutto è ricominciato, e loro sono lì, a giocare alla morte per il divertimento di una dea-bambina che dell’amore conosce solo l’egoismo e il possesso; che dell’amore vuole il controllo e dimentica il dovere. Sono lì, a morire per i capricci di una ragazzina che può ammazzarti con un pensiero e piangere per un cadavere che farà gettare sopra gli altri.

Ma gli dei sono anche questo: sono egoismo e indifferenza. E Ikki dei del genere li conosce e non li può soffrire, non li vuole servire. Anche se alla fine non gli resterà in corpo nemmeno un alito di vita, anche se il suo cosmo dovesse bruciare fino a consumargli vita e anima, Ikki sa che è pronto a morire per strappare anche solo un istante in più per Anissa, e concedere a lei l’onore del trionfo. Solo perché sente nel cuore che è giusto.

“Scenderai così in battaglia, domani?”

La voce di Seiya è un sussurro nel vento fresco d’autunno, è un’occhiata fugace a vestigia di bronzo lasciate forse con rassegnazione forse con nostalgia. Ed è la riflessione del generale, dell’uomo che il tempo e la sorte ha abituato a valutare forze ed equipaggiamenti, risorse e mezzi. È Seiya come l’hanno reso Sagitter e il ruolo che ha scelto di ricoprire, le responsabilità che ha accettato di portare.

E Ikki sorride appena, una smorfia feroce sulle labbra piene e sbrecciate dalla battaglia.

“È solida, non temere” lo rassicura, picchiettando leggermente sull’avambraccio di bronzo. “Sono anni che si forgia nella lava di un vulcano. E poi” soffia, scoprendo i denti come un animale pronto ad azzannare la preda. “Lo sai che Phoenix è speciale. Questa corazza non mi tradirà mai.”

“Forse Kiki potrebbe” tenta Seiya, occhieggiando alle crepe sul coprispalla di Ikki, lì dove Aegeon ha affondato il colpo, frantumando e ossa e metallo, assieme alla speranza di una domani senza più battaglie né sangue.

“Lascia stare” lo frena Ikki, scrollando le spalle. “Non ne abbiamo il tempo. E non penso sia il momento di dedicarsi ai salassi.”

“Potresti vestire Leo” tenta ancora Seiya, quando il vento della notte si è portato via una risata sottile e nervosa.

“E Shun potrebbe indossare Virgo. E Hyoga Aquarius” elenca Ikki, un mormorio sardonico e la quieta pazienza che si deve avere con un bambino. Perché a Ikki, in quel momento, Seiya ricorda proprio un bambino. Ricorda il ragazzino che si intestardisce con il mondo per qualcosa che non vuole capire, che non è disposto ad accettare. E che si ostina a combattere per non cedere, per non soccombere.

“E Shiryu Libra. Certo.”

Seiya” lo chiama Ikki, un braccio a cingergli le spalle e stingerlo, in un gesto tanto cameratesco quanto raro. Perché non è da Ikki, una simile confidenza. Perché Ikki le cose te le spiega a cazzotti in faccia e frecciatine ironiche; Ikki le cose te le fa capire mescolando gli insulti alle provocazioni, e facendoti andare a sbattere contro. Anche se fa male. Un male cane.

Ikki non ti mette un braccio attorno alle spalle; e non si mette nemmeno a scompigliarti i capelli in quel modo, come se stesse parlando con un ragazzino e non con il primo dei cavalieri.

Seiya” ripete piano, la testa del compagno sotto le dita e gli occhi smarriti lontano, nel passato. “Abbiamo fatto le nostre scelte. Tutti noi. E sai i perché. Tu più di tutti dovresti saperlo.”

Cos’è la stanchezza?

Per Ikki, in quel momento, sono gli occhi di Seiya. Gli occhi adulti di un ragazzino che è cresciuto con lui sui campi di battaglia. Gli occhi di un uomo che ha scelto una vita di sacrifici e privazioni alla quiete di un mondo lontano da Anissa, lontano da Saori. Sono gli occhi dell’uomo, del ragazzino cui è disposto ad affidare la vita, e che adesso sono attraversati da quella malinconia sottile che è la disillusione e la consapevolezza.

Perché lo sanno entrambi, che è solo una vana illusione il pensiero di loro cinque, fulgidi dell’oro delle armature. È solo ricordo l’eco dei loro cosmi nei giardini d’Elisio tendersi e armonizzarsi in un unico suono, in un’unica volontà.

Quella volta; la sola volta in cui tutti loro hanno vestito le armature d’oro. È stato. Ikki lo ricorda bene, cos’ha provato. Potenza. Assolutezza. E paura. Una paura tanto profonda e atavica da rasentare l’assoluto. E forza. La forza di poter fare tutto; di poter essere tutto.

Ma ricorda anche il dolore perforargli il petto, quando Ade aveva trafitto Seiya. Proprio lì, al cuore.

A quel cuore che adesso batte e combatte, istante dopo istante, minuto dopo minuto, per sorreggere Seiya e la sua volontà. Per ostinazione. Per determinazione. Perché è di Seiya non arrendersi, anche se il suo cosmo cresce e cresce ancora, e ogni alito di stelle è un battito più faticoso, è uno spasmo più profondo in quel cuore fragile e ostinato.

“Sì. Sì che lo so” mugugna Seiya, aprendo e chiudendo una mano guantata d’oro, mentre le ali di Sagitter mandano un sordo mormorio, un frullare metallico che si confonde con il sibilo del vento.

“È solo che” mormora ancora, arruffandosi i capelli e facendosi passare la mano sul viso sporco di battaglia e stanchezza. “Fa male, Ikki. Kuso. Fa un male d’inferno.”

Ed è la prima volta che lo ammette; è la prima volta che trova il coraggio di dirlo a voce alta. Non si pentirà mai della sua scelta: ha deciso di stare accanto a Saori, ad Anissa, perché sa, sente, che quello è il solo posto dove può stare. Dove vuole stare. Anche se vuol dire non poterla toccare; anche se significa avere la consapevolezza che prima o dopo morirà per Lei, per la sua gloria e il suo trionfo. Ma va bene lo stesso. È un soldato; e i soldati ci crepano, in battaglia. E lui si è fermato sull’orlo dell’abisso così tante volte, che può solo apprezzare ogni singolo istante che riesce a strappare, ogni momento che può regalare a lei.

Seiya ha scelto Saori, e continuerà a sceglierla. Fino all’ultimo aflato di vita, fino nell’ultimo baluginio del cosmo. E dopo anche, probabilmente.

Perchè Seiya è così: Seiya è semplicemente troppo cocciuto e ostinato per darla vinta a qualcuno. Fosse anche Ananke che tutto governa.

Tuttavia.

“Lo sapevi che avrebbe fatto male” soffia Ikki, stringendosi nelle spalle con finta indifferenza. “Lo sapevamo tutti. Siamo cresciuti, Seiya. E siamo cambiati.”

“Lo so; lo so questo” ringhia quasi, raspando aria fra i denti. “Insomma: guardami” sorride di sbieco. “Se vent’anni fa mi avessero detto che sarei diventato Sagitter e che avrei guidato un’armata, avrei riso. Davvero. Avrei riso” ripete, una risata sottile ad arcuare le labbra.

“Giusto per la cronaca” sogghigna Ikki. “Io non ti ci vedo ancora, come generale.”

“Se vuoi ti cedo il posto.”

“No, grazie” sbuffa Ikki, sciogliendo le braccia. “Sono un lupo solitario, io. Lo sai.”

“Ma sei qui. Sei venuto.”

Ikki scrolla le spalle, come se in quel gesto ci fossero tutti i perché di ogni azione, di una verità tanto lampante da risultate quasi irritante, nella sua semplicità. “Te l’ho detto: Aegeon è mio” ribadisce, il cosmo ad aleggiare minaccioso in fondo agli occhi.

“No. Non è questo” tenta ancora Seiya. “Intendo proprio qui. Dove siamo ora.”

“Avevo bisogno di un po’ d’aria buona.”

“Ma se quassù sa di cenere!”

“Appunto: è buona.”

Seiya sospira e scuote la testa. Con Ikki bisogna essere diretti, lo sa. Con Ikki le cose devi dirle come stanno, nella loro durezza, nella loro crudezza. È tutta la sera che giocano a rincorrersi, lo sanno entrambi, ed entrambi sono troppo orgogliosi ed ostinati per cedere per primi al gioco dell’altro. Potrebbero fare a cazzotti, come quando erano ragazzi. Potrebbero prendersi a pugni e sputarsi addosso le verità che non si vogliono confessare in faccia. Almeno quelle verità che Seiya ha terrore di pensare. E che Ikki sa; che Ikki ha intuito. E non sembra voler affrontare. Perché certe cose ci vuole coraggio, per dirle a voce alta. Per renderle concrete. E sono quelle, le cose che Ikki non ti manda a dire. Che Ikki ti sbatte in faccia con la forza di un montante, se ne ha voglia. E se sta aspettando; se si è concesso il tempo di lasciargli condurre quella irreale conversazione è solo perché sa, perché ha capito quanto davvero il suo corpo e la sua mente siano al limite, ad un passo dall’annullamento. E forse. Forse per la prima volta anche lui ha paura: paura di Seiya.

Della follia che gli legge nel cosmo; della determinazione malata che gli riconosce scavata nel viso più spigoloso e sofferto, nel lucore abbacinate di Sagitter, nella nota roca di una voce un tempo avvezza anche al riso.

“Ho avuto paura” soffia alla fine Seiya, le gambe a dondolare nel vuoto, oltre il parapetto semidistrutto. Si è seduto sul muricciolo, le mani fra le gambe e il nulla sotto ai piedi.

“Quando Marte mi ha preso.”

“Quando gli hai consesso di prenderti.”

“Pignolo” ridacchia con una smorfia Seiya. Ma gli è grato. Gli è grato per quelle parole pronunciate per inciampo, gli è grato che non lo guardi e gli volti le spalle. Gli è grato che aspetti, mentre si osserva tremare, le mani strette fra loro.

“Quando ero…Seiya ci pensa un attimo, poi sorride appena a se stesso. “…laggiù. Dovunque fosse quel posto. Ho avuto paura. Una dannata paura.”

“Perché?”

“Perché per un istante, per un solo dannato istante, sono stato bene” mormora strizzando gli occhi, le mani tanto strette da sbiancare. “Non. Il cosmo. Non lo sentivo più. Cioè. Non c’era. Non. Non stava crescendo” boccheggia, cercando in fondo allo stomaco le parole, la lucidità per descrivere quello che. No. Non lo ha neanche provato. Lo ha sentito. Nella pelle, nella mente, in ogni fibra del suo essere. Come il silenzio dopo una deflagrazione. Assoluto. Potente. E inquietante.

“È stata la prima volta, Ikki” soffia infine, piegando le spalle. “Da quando. Lo sai. Dopo i Cieli, è stata la prima volta che mi sono sentito bene. Davvero bene. È stato un istante, ma mi sono ricordato cosa significa. Cosa vuol dire non sentire, non essere questo” soffia. E apre la mano, che irradia della luce delle stelle.

Ikki si volta, gli occhi sbarrati da sorpresa e terrore. Perché il cosmo di Seiya è ampio; ampio e potente come una galassia, come l’universo. Perché sul palmo di Seiya danzano le stelle e nei suoi occhi si riflettono i cieli infiniti. È come un’onda montata all’improvviso, calda e luminosa. Troppo calda e luminosa per non venirne soffocati. E Seiya. Seiya se ne resta lì, traslucido nei riflessi di quel cosmo, del suo cosmo, cui ha concesso per un istante la libertà, cui ha sciolto le catene che da anni si è imposto. Per sopravvivere.

È durato un istante, meno del pensiero di un respiro, meno del respiro stesso. Un’eco grande e potente che ha abbracciato tutto il colle ed è scesa giù per i pendii, deflagrando all’improvviso per poi lasciare dietro di sé solo l’ombra di una sensazione, di una percezione indefinita e fugace.

Ikki barcolla appena, un mano al petto, lì dove quel cosmo caldo e potente lo ha attraversato. La corazza è intatta; così come dal campo non proviene nessun rumore particolare, nessun segnale d’allarme. Se l’hanno percepito, se davvero hanno percepito il cosmo di Seiya, sembra che l’abbiano ignorato.

“Piantala di aspettarti qualcosa” biascica Seiya, il sudore a colare su un viso troppo pallido, il respiro un rantolo strappato ai denti. Kami. Kami se fa male. Ogni volta che abbassa le sue difese, ogni volta che amplia il suo cosmo appena oltre il limite, in un gesto fluido e naturale. Kami. Gli sembra di morire. Gli sembra che ogni particella del suo cosmo esploda e si fonda con l’universo. “Non l’ha sentito nessuno. Non lo sente mai nessuno. È in armonia con il cosmo di Anissa. È come se fosse il cosmo di Anissa.”

Seiya.”

“Non guardarmi così” sogghigna appena, ma le gambe sono pesanti e il cuore fa male e la testa gira come una trottola. E afferrarsi al braccio che Ikki ha disteso per riflesso è stato naturale e necessario; come respirare forte contro il suo petto, come cercare con disperazione la forza di rilasciare Sagitter e sentirla cadere a terra con un clangore metallico.

Ikki ringhia un’imprecazione, mentre cerca di farlo sedere meglio contro il parapetto sbrecciato, rincorrendo sul viso del compagno l’ombra di un miglioramento, di. Di qualsiasi cosa possa significare che Seiya non gli creperà fra le braccia.

“Dammi cinque minuti” mormora Seiya, gettando indietro la testa alla disperata ricerca di un respiro che non sappia di fuoco e strazio. “Cinque minuti. E starò bene.”

Ikki se li sente scorrere addosso, quei cinque minuti, spiando ogni smorfia, ogni singulto, ogni fremito sul viso di Seiya. Osservando il pallore diradarsi incerto e lento, nel riverbero lontano dei fuochi; ascoltando il respiro rallentare, farsi più calmo e profondo; recuperando il bruciare sommesso del cosmo di Sagitter, lieve come un pigolio di stelle.

“Non. Rifarlo” scandisce quando Seiya riesce di nuovo a socchiudere gli occhi. “Kami. Mi hai fatto morire” aggiunge asciugandosi il mento e sedendosi accanto a lui, sul parapetto.

“È solo scena” cerca di scherzare Seiya, ma il sorriso è una smorfia di dolore per una risata soffocata in gola, per i polmoni che ancora protestano.

“Sei un pessimo bugiardo. Dovresti saperlo.”

“Forse sono solo un bravo attore.”

E Ikki si ritrova a stiracchiare la bocca, sbuffando con condiscendenza. Seiya ha imparato qualcosa, negli anni. Ha imparato una nuova irriverenza e un sarcasmo sottile, quasi elegante. Ha imparato a utilizzare le parole soppesandole con calma. Non è prudenza, è solo strategia, attenzione, ponderatezza. È qualcosa che Ikki ricorda di Kanon, qualcosa che era Kanon. E si chiede se sia solo un caso, o se Seiya abbia imparato altro dal tempo trascorso con lui. Se Kanon, in qualche contorto modo, sia riuscito a insegnargli più di dieci anni sui campi di battaglia. E si chiede se avrà mai il coraggio di porla direttamente, quella domanda. Perché scoprire quello che Seiya ha taciuto per anni, scoprire esattamente cosa abbiano imposto i Cieli significa scoperchiare una scatola senza sapere se ti esploderà in mano. Significa essere disposti ad accettare un altro Seiya.

Non il Seiya dei quindici anni, e nemmeno il Seiya che veste Sagitter. Né il generale fedele né l’uomo devoto. Significa accettare un Seiya più cinico, tanto disilluso da aggrapparsi con la disperazione ad una devozione che ha i contorni della blasfemia.

Significa accettare che è cambiato, che è diventato qualcosa che né lui né gli altri potrebbero riconoscere, saprebbero accettare. E significa rendersi conto di non esserci stati, per afferrarlo prima che cadesse. Di averlo solo lasciato andare.

Anche se implorava di raccattarlo con un sorriso spensierato stampato in faccia.

“Pazzo incosciente” borbotta Ikki, quando il silenzio è tornato ad essere il respiro lento di Seiya e il battito regolare del suo cuore; quando Sagitter si è ricomposta silenziosa al fianco del suo portatore, offrendogli il riverbero caldo dell’oro che i fuochi lontani strappano nella notte.

“Per tutti questi anni” considera Ikki, con un sottile riso isterico che sa di sorpresa e gli occhi sottili che lo fissano in un modo. In quel modo che Seiya sa nascondere la rabbia e la frustrazione. Nascondere qualcosa che si aggroviglia nello stomaco, profonda e fastidiosa. Come disagio. Come il disagio di essersi fatti fregare da un amico, da quell’amico che è cresciuto con lui.

“Non hai detto niente. Kami. Seiya. Una cosa così. Così. E non hai mai detto niente.”

“Non è che l’abbia proprio fatto di proposito. Sai?” mormora Seiya, stringendosi nelle spalle. Gli fa male il petto, e gli sembra che tutto il corpo sia passato sotto un rullo compressore. Kami. È esausto. La pelle si increspa ad ogni refolo di vento e l’aria mischiata di cenere e fumo brucia nei polmoni.

“Ci mancherebbe questa” sbuffa ancora Ikki, piegandosi sulle ginocchia. “Ma lo hai fatto. Seiya. Ci hai tagliato fuori. Ci” scuote la testa, senza riuscire ad accettarlo. Ad accettare che l’uomo che gli rantola di fronte sia lo stesso di tanti anni prima, sia lo stesso ragazzo che non riusciva a frenare le parole e che per chiudergli la bocca dovevi tappargliela. E soprattutto di non essersene accorto, di aver immaginato che il cosmo di Seiya sempre più vasto fosse la sua volontà che si ampliava, fosse la sua determinazione che cresceva, con il conforto sicuro delle stelle.

E non. Non sa nemmeno come definirla. Non quella cosa. Quel cosmo. Il cosmo di Anissa. Il cosmo di Anissa intrecciato a Sagitter. Quel cosmo tanto vasto, potente e devastante che basta un attimo perché fagociti tutto.

“E cosa avrei dovuto dirvi?”

Il sorriso stanco di Seiya fa male. Perché sembra il sogghigno ironico di chi non si aspetta più nulla, di chi è pronto ad accettare ogni cosa con l’indifferenza dell’estraneità. Come se Seiya non stesse parlando di se stesso, non stesse parlando della sua, di vita.

“Pensaci, Ikki. Dopo quello che era successo. Cosa avrei dovuti dirvi? Cosa?” gli chiede piano, con una calma innaturale che Ikki non ricorda di avergli mai conosciuto, di avergli mai visto. E che fa paura. Una fottuta paura, anche se viene da un corpo che sembra sul punto di collassare. Forse proprio perché viene da un corpo che sembra reggersi ancora solo per disperata volontà.

“Magari potevi provare con la verità” tenta Ikki, e si sente un bastardo. Perché lui per primo non è mai stato incline alle confidenze. Ma vedere Seiya. Vedere Seiya in quello stato, realizzare cosa ha sopportato negli anni, a cosa si è sottoposto negli anni. Fa male. Kami se fa male. Come non credeva di essere ancora in grado di provarne. Come non credeva che non sarebbe più riuscito a provarne.

“Ah. Detta da te, questa, è epica” ride Seiya senza allegria.

“Ok. Forse non sono nella posizione per criticare. Neanch’io vado a raccontarli in giro, i fatti miei” gli concede Ikki, stringendogli più forte le braccia e obbligandolo a prestagli attenzione. “Ma guardati, Seiya. Guardati! Guarda a che punto sei arrivato. Quanto speri di reggere, eh? Se sforzi troppo, rischi che ti scoppi il cuore. E non sto usando una metafora.”

“Reggerò fin quando potrò” minimizza Seiya, una scrollata di spalle che affetta indifferenza mal celata. “Fino a quando Anissa sarà al sicuro.”

Saori non sarà mai veramente al sicuro” gli ricorda Ikki. “E tu. Tu vuoi farmi bere questa stronzata del fino a quando…Seiya! E di Saori che stai parlando. È della donna che…

“Non dirlo!”

Perché sentirlo dire è dar corpo a una realtà che spaventa, che annichilisce. È rendere concreta la più dolce delle sensazioni e la più atroce delle blasfemie. Perché si è promesso che i suoi sentimenti, i suoi desideri, sarebbero per sempre rimasti lì, sospesi in quel qualcosa che non ha nome né aspetto. Sospesi nel ricordo di un bacio consumato nel gorgoglio di acqua traslucida di cosmo. L’ha amata; in quel bacio che lei gli ha concesso, l’ha amata come non potrà mai più fare. E già in quell’istante il suo cosmo cresceva premendo contro la sua volontà. Già Sagitter si stava espandendo, cozzando contro la risolutezza di Seiya ad arginarlo, mentre il cuore piano piano iniziava a incrinarsi, lentamente e senza ritorno.

“Che casino!” sbuffa infine Ikki, sedendosi con lui sul muro, sotto quel cielo d’autunno ormai stellato, respirando piano l’odore di terra smossa e di cenere che sale dalle pendici del Monte, in folate sempre più rade.

“Che hai intenzione di fare?” gli chiede alla fine.

“Quello che ho sempre fatto” replica Seiya, e raccoglie l’elmo di Sagitter, carezzandone le decorazioni sbalzate nell’oro e ricordando l’eccitazione della prima volta che lo ha sentito cingergli la fronte, davanti ad Anissa.

“Quindi vuoi farti ammazzare. Perfetto! Davvero.”

Ikki” sorride piano Seiya. “Non ho ambizioni suicide. Te lo posso giurare.”

“Ho i miei dubbi, in proposito” brontola Ikki, alzandosi in piedi nelle spalle e girandosi a osservare la città che si stende ai piedi del Monte, silenziosa e quasi completamente avvolta nella notte. Cercando il chiarore dei focolai dei sopravvissuti e l’alone degli incendi che stanno divorando quel pezzetto di mondo. E poi ancora. Oltre la torre diroccata nella piazza della Signoria, fino alla mole di una cupola perfetta, gli spicchi delle arcate a sfidare il cielo nel loro lucore innaturale.

“Non dirai niente” mormora alla fine Ikki. “A Saori. O agli altri.”

“Era sottinteso” annuisce appena Seiya. “E non lo farai nemmeno tu” gli dice, con un’ovvietà disarmante e quasi infantile, mentre Sagitter obbedisce docile al suo comando e si posa nuovamente sul corpo stanco e provato di un uomo, di un ragazzo la cui unica forza è una determinazione talmente profonda e devastante da sfidare gli dei; un amore così intenso e blasfemo da esser diventato una droga irrinunciabile.

Non avrebbe voluto svelare il suo segreto. Ma è contento. È contento che ci sia qualcun altro, di nuovo, a condividerlo, quel segreto. A sapere quello che veramente lo sta distruggendo. Dopo Kanon, non ne ha più parlato con nessuno. E ha creato il vuoto attorno a sé, per paura che il cosmo che si sta espandendo nel suo animo lo possa sopraffare e annienti chi gli è accanto. Dopo Kanon, quel segreto è stata la sua forza e la sua dannazione, e l’abisso si è spalancato dopo i quindici anni di prigionia di Marte. Nell’attimo in cui, prima di scomparire nelle pieghe dell’universo, Seiya ha realizzato che avrebbe potuto annientare Marte solo volendolo. Che il suo cosmo, libero di agire, avrebbe straziato il corpo di stelle e galassie di Marte.

Lo avrebbe potuto uccidere.

Se solo avesse voluto, aveva realizzato in quell’ultimo eterno istante; se solo avesse voluto, Marte non sarebbe più stato. E quella consapevolezza gli aveva bruciato il cervello e distrutto ogni certezza. Perché con la consapevolezza era esploso il desiderio, era serpeggiato suadente il pensiero che sì, forse poteva uccidere anche in quel modo. Straziando carni e cosmo; come un dio. Come solo un dio potrebbe ambire a fare. E la tentazione sottile di cosa avrebbe visto negli occhi di Anissa se il corpo di Marte fosse stato offerto al suo nome in pezzi, e lui davanti a lei, alla sua dea, sporco di sangue blu dai riflessi delle stelle.

Si era chiesto. E aveva sentito il terrore e lo sgomento montare assieme al desiderio e alla tentazione. Aveva sentito il cosmo ampliarsi fino ai limiti della sua costellazione e travalicarli, diventando altro. Diventando la distorsione del cosmo di Anissa, una sua copia empia e blasfema. Pronta a difendersi; pronta a uccidere.

L’aveva sentito; l’aveva vissuto in ogni fibra del suo essere. E l’aveva confinato con disperazione e orrore in sé, accettando il giogo di Marte come una liberazione. Come quell’aiuto inaspettato e necessario che capita solo per inciampo. Almeno fino a quando Marte non era stato sconfitto e lui liberato, assieme alla consapevolezza che continuava a corrodergli il corpo e il cosmo. Quella maledizione che aveva deciso di accettare un lontano giorno, sotto il sole etereo d’Olimpo. Quando il prezzo per restare accanto ad Anissa era stato una stilla del cosmo di lei avvolta nel suo, e la consapevolezza di una vita che brucerà come una cometa.

“No. Non lo farò” concede alla fine Ikki, massaggiandosi la radice del naso in gesto che rivela tutta la sua stanchezza. “Ma lasciatelo dire: sei un bastardo. Ti farai ammazzare come un cane.”

“Ora non esageriamo” ridacchia Seiya. “La vedi peggio di quello che è. Non è detto che si debba arrivare a quel punto. Non ha ancora perso il controllo. E forse non lo perderò mai” prova a illudersi. Sapendolo. “Non fare l’uccellaccio del malaugurio.”

“Sono solo realista.”

“Ti odio quando lo sei.”

“Qualcuno deve pur tenerti con i piedi per terra. Hai la sgradevole tendenza ai colpi di testa, tu.”

“Che ci vuoi fare” ride ancora Seiya. “Vizi di gioventù.”

Ikki accenna una smorfia, mentre si sposta appena di lato, una gamba sollevata contro parapetto sbecciato.

“Odio i martiri. Te l’ho detto. E tu vuoi fare il martire” inizia poi, nel silenzio irreale di una notte d’autunno, sopra un campo che sonnecchia nell’attesa snervante di una nuova giornata di battaglia, di onori e di morte.

“Io voglio combattere. È diverso.”

“Stronzate” ringhia Ikki. “Tu hai bisogno di combattere. E pensi che ormai sia solo questione di tempo. Prima che Sagitter esploda. E pensi allora tanto vale farlo sacrificandosi.”

Seiya deglutisce a vuoto. Soppesando una verità sbattutagli in faccia con la violenza di uno schiaffo, con la causticità della realtà da affrontare senza mezzi termini e mezze misure. Elaborando quello che lui per primo non ha mai avuto il coraggio di concepire.

“Ma questa è una guerra. E in guerra si crepa. Lo sappiamo entrambi” riprende Ikki, stringendo nel pungo guantato una manciata di terra umida appena raccattata da terra. “È uno schifo. Ma lo abbiamo scelto. Potevamo andarcene, e non l’abbiamo fatto. Né tu né io.”

Seiya annuisce, negli occhi la serietà del soldato e la disillusione dell’uomo. Sa cosa Ikki vuole dirgli, lo ha capito dal modo che ha di guardare il mondo, di arricciare le labbra in quel sorriso sardonico che gli conosce da sempre.

“Forse domani vinceremo; forse no. Forse qualche bastardo ci fotterà; o forse lo fotteremo noi. Anzi: più probabilmente lo fotteremo noi” ride di una risata roca, quasi malata. Del singulto del soldato che si dà coraggio di una sicurezza che diventa l’ancora cui aggrapparsi per strappare un giorno in più alla vita.

“Ma ricordati questo, Seiya.”

Ikki non ha mai amato molto il contatto fisico; si è sempre limitato a qualche ammiccamento. Eppure in quel momento la mano che Seiya sente premere sul coprispalla è grande e forte; è la mano di un uomo che stringe con disperazione e ha negli occhi il riverbero di un cosmo violento e feroce.

“Se farai il martire; se ti vuoi far ammazzare solo per una tua qualche stronzata idealista. Allora creperai senza che io muova un dito. E sai che sono capace di farlo” e la mano stringe con più forza, mentre Seiya sente nella gola un nodo di. Non lo sa nemmeno lui di cosa. Come nostalgia. “Ma se creperai perché vuoi vivere, allora guardati attorno. E mi troverai.”

“Se è un augurio per la battaglia, Ikki, fa davvero schifo.”

“Una volta un tizio mi ha detto che si combatte per vivere, non per crepare” ricorda Ikki, un gesto fugace nell’aria. “Aveva ragione.”

“Doveva essere un tizio molto saggio.”

“Per niente” sogghigna Ikki. “Era solo molto convinto di quello che diceva.”

“Uh. Capisco” sorride Seiya, infilandosi l’elmo. “Lo conosco?”

Mh. Forse” ammicca Ikki. “Da allora ha fatto carriera, ma resta lo stesso un vero cocciuto. Uno di quelli che hanno la brutta abitudine di fare i martiri, appunto. Anche se poi hanno la faccia tosta di dirti che devi vivere.”

“Sembra simpatico” ride Seiya, mentre le ali di Sagitter si spiegano con riflessi d’oro fulvo e lo rapiscono al lieve refolo che sale dal fiume. “Me lo devi presentare.”

“Oh, certo. Ma non è niente di speciale” mormora infine Ikki, mentre reindossa l’elmo e segue con gli occhi la scia di Sagitter lungo il Monte, fino alla tenda di Anissa.

“È solo uno dei miei migliori amici.”

 

 

  
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