Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo,
Malinconico, Slice of live
Personaggi Principali: Ikki;
Seiya
Altri Personaggi: Koga,
Saori e gli altri solo nominati
Rating: giallo
In proposito: Loro che non si erano mai davvero parlati; loro che guardavano alla
vita da due opposte prospettive; loro che confidavano in Anissa
come naufraghi aggrappati ad uno scoglio in burrasca. Loro, in quello scontro,
si erano ritrovati, ed era nato quel rapporto.
Erano nati loro.
Disclaimer: i personaggi sono
di Masami Kurumada; la
situazione la rivendico come mia^^
Note: one shot; missing
moments
Cose: ho ripreso questa
serie, anche perché ormai concluso l’Omega anche Crescendo deve avviarsi a
tirare le somme dei suoi interludi. Non so bene quando, come e perché finirà.
Nel frattempo, mentre quel benedetto II capitolo latita indefesso, mi sono
divertita con Ikki. E Seiya
certo.
È un anno (quasi) che lavoro a questo
capitolo. Uno dei più sofferti che abbia scritto, di questa serie. Forse
proprio perché riguarda loro: Ikki e Seiya.
Non capita spesso di vederli interagire,
questi due. Anche perché, di solito, vengono ritratti come fortemente agli
antipodi. Cosa che in effetti è; tuttavia sono convinta che, con gli anni, Seiya e Ikki abbiamo sviluppato
qualcosa che li avvicini. Non empatia, perché quella è piuttosto una
caratteristica più consona a Shun. E nemmeno amicizia
come una semplice pacca sulla spalla. È qualcosa di più complesso, un senso di
appartenenza ad un gruppo certo, ma anche il mantenere la propria identità. Per
come la vedo io, dopo la scelta di Seiya di
“sacrificarsi” contro Marte, la rottura che si è aperta con i suoi amici l’ha
in qualche modo avvicinato ad Ikki.
Ma questo è soprattutto il capitolo della
maturità e del cambiamento. È un capitolo in cui, per certi tratti, Seiya e Ikki non sono più Seiya e Ikki come li abbiamo
sempre conosciuti.
Prima che cavalieri; prima che i ragazzi
dei ricordi, sono due uomini. Con il loro carico di rimorsi e disillusioni. E sono
due soldati. Soldati che hanno imparato sul campo di battaglia che la retorica
va bene nei consigli di guerra, ma la vita vera; la vita al fronte, sono sangue
bestemmie e rabbia. Tanta rabbia e tanta esaltazione. Sciacallaggio anche. Di
emozioni e di ideali.
Seiya vive sul confine. Seiya è la leggenda che non deve essere toccata, l’ideale
che diventa immagine di qualcosa cui aspirare. E che nasconde in cuore la
disperazione dell’oro che scolora dietro la sicurezza ormai perduta.
Ikki invece. Con Ikki ho voluto osare come mai prima. E gli ho dato la
ruvidezza del soldato e del reduce; il cinismo dell’uomo d’armi che non ha
paura di chiamare le cose con il loro nome, anche se vuol dire rasentare l’improperio
e la volgarità.
C’è l’epicità, qui dentro. O almeno ho
cercato di mettercela. La retorica e la sicurezza degli ideali, l’aura che da
sempre avvolge i Cavalieri dello Zodiaco.
Ma Omega, per me, è stata anche la storia
della crescita, del cambiamento, della trasformazione. E quindi sì: puoi ancora
parlare di guerra, di battaglie epiche e di ideali fulgidi; ma lo puoi fare anche
come Ikki: sbattendoti in faccia la consapevolezza
che la guerra è uno schifo. E che per farla, a volte, sei mosso solo da motivi
personali. Forse al servizio di qualcosa di più grande; e forse no. Non
importa. La guerra fa schifo, e Ikki non ha paura di ammerlo.
Mettiamola come un esperimento; soprattutto
dal punto di vista del linguaggio. Per qualcuno, Ikki
potrà sembrare troppo simile a Jason Todd, in alcuni passaggi. E sì, forse è
vero. Ma forse è proprio a Jason che pensavo. Al soldato che non ha paura di
sporcarsi le mani e chiamare le cose come stanno. E Anissa
ha bisogno anche di uomini così, uomini che accettano un lato oscuro dell’esaltazione
eroica senza patimenti e dannazioni. Uomini come Ikki;
come Saga e Kanon; come Shura.
Uomini come si sta scoprendo Seiya.
Anche se resta la leggenda.
Attenderò curiosa i vostri giudizi!
Crescendo VII
Noi
“Mancavi solo tu.”
“Mh.”
La sera è tiepida, e il riverbero degli
ultimi incendi laggiù, verso i quartieri a nord della città, colora di
sanguigno il cielo basso e pesante di nuvole primaverili. C’è odore di terra,
cenere e sangue.
L’odore dell’Ade.
Seiya se lo ricorda
ancora, impastato nella bocca che inghiottiva dolore e rabbia, con gli spasimi
a far tremare un corpo esausto sorretto solo da cosmo e volontà. Seiya ne ha il ricordo palpabile di quel sapore che raschia
il respiro e scende fin nelle viscere, rimestandoti lo stomaco con il disgusto
e l’aberrazione. Ce l’ha sulle mani, quell’odore. Se lo porta addosso da un
giorno di sole combattuto in un’arena calda di eccitazione e sudore. Quando ha
vinto l’armatura e sulle mani strette allo scrigno c’era il sangue di Cassios.
È il sapore che sputava a terra nella foga
delle battaglie, quello che gli restava nella gola anche con Anissa stretta fra le braccia. Così diverso dalla
freschezza dell’ichor di Anissa,
simile all’acqua profonda del mare, simile al nucleo celato di una surgiva.
Credeva di esserci abituato. Credeva che
gli anni gli avessero insegnato a inghiottirlo senza pensarci quell’odore e
quel sapore simili ad una vertigine di frustrazione e disgusto. Credeva, o
forse ci aveva solo sperato, di poterselo lasciare alle spalle, assieme ai
sacrifici fatti e alle rinunce.
Invece è lì di nuovo. E ha l’aspetto
desolato di una città che sta morendo, travolta da una guerra di cui non
conosce nemmeno le motivazioni. È bella, quella città. Bella e antica. E Seiya ha voglia di vederla ancora come quell’unica volta
che ha camminato per le sue strade, all’ombra di palazzi di cotto, fra le logge
di marmo rinascimentale. Ha voglia di affacciarsi da quel Ponte Vecchio su cui
poche ore prima ha combattuto, strappando ogni respiro ai corpi martoriati.
Ha voglia.
Ma le voglie, i desideri, sono capricci che
non ha il lusso di concedersi. Non sui campi di battaglia; e nemmeno all’ombra
delle colonne di Grecia. Perché quando fai una scelta, la scelta che ha fatto
lui, devi essere disposto a dimenticare ogni cosa: la pace di una città, il
tepore di un sorriso, le labbra di un amante. E i tuoi stessi desideri.
Soprattutto i tuoi desideri.
Seiya ha scelto.
E alla pace di Tokyo; alla tranquillità di
una vita che gli si srotolava davanti, ha scelto Sagitter
e lo strazio di una guerra senza mai fine. Ha scelto il sole di Grecia e il
riverbero doloroso del cosmo di Anissa.
Ha scelto Anissa.
Perché non poteva scegliere Saori.
“Allora?” sorride appena, lasciandosi
cadere sul rudere di una tomba, le ali di Sagitter un
sordo clangore nell’eco dei fuochi che crepitano, giù all’accampamento. “Ti
vuoi decidere o no, a questa lavata di capo?”
Ikki continua a fissare
i riverberi che disegnano le pendici della collina, giù lungo il declivio, fino
al nastro scuro dell’Arno, al ponte dalle belle campate devastate e poi oltre
ancora, fino alla mole iridescente di un palazzo che ha i contorni grotteschi della
caricatura di una chiesa.
“Servirebbe a qualcosa?”
“No. Non credo proprio” ride Seiya. “Mi conosci. Ne?”
“Appunto” sogghigna Ikki,
una smorfia nelle ombre dei fuochi. “Non farmi sprecare fiato.”
Seiya si concede una
smorfia, respirando piano l’aria pesante di fumo. Vorrebbe sentire il profumo
della terra di Grecia; vorrebbe sentire l’odore rasposo
della polvere dell’arena; andrebbe bene anche l’odore dolciastro dell’incenso,
quell’odore che gli scende nella gola e gli ricorda i templi di casa sua, in
Giappone. Quella casa che ha deciso di lasciarsi alle spalle.
Andrebbe bene qualsiasi cosa, tranne la
nausea che sale attorcigliata al fumo denso del campo di battaglia. L’odore del
sangue e dei corpi che stanno bruciando.
“Tuo fratello e gli altri non la pensano
allo stesso modo” lo provoca, cercando di trovare un respiro, un rantolo, un
istante. Un istante che lo trascini via da quel Monte, da quelle lapidi
scheggiate e divelte, fra cui hanno stabilito il campo base. Da quell’odore che
gli penetra fin sotto la pelle. Assieme all’immagine di carni che si
accartocciano come foglie d’autunno,
“Shun ha una
predilezione per questo cose. Lo sai” sorride Ikki.
“Penso ci abbia rinunciato solo con me, ormai.”
Seiya sbuffa e alza gli
occhi alla notte che va scurendosi, in quel cielo pesante di fumo e riverberi
di battaglia. Shun.
E anche Hyoga; e Shiryu.
Sono venuti. Lo sapeva, lo immaginava; lo sperava. E sono arrivati. Li ha
sentiti. Ha sentito i loro cosmi bruciare e cercarlo, nella foga della
battaglia. Li ha sentiti crepitare e tendersi, salire in potenza e risplendere
come stelle che deflagrano.
Li ha sentiti e ha
sentito qualcosa, nello stomaco, contorcersi di nostalgia e tristezza. Qualcosa
che lo ha spinto ad andare avanti, a trascinare con sé lungo le strade
martoriate di Firenze gli uomini che lo seguivano. Qualcosa che gli ha
stritolato il cuore e l’anima e che non si è placata. Nemmeno quando, senza
respiro e con le mani grondanti sangue, è stato il gelo di Hyoga,
la sua mano sul coprispalla di Sagitter,
a ricordargli che, a volte, non basta la determinazione a tenere in piedi un
corpo.
E allora c’è stato
il campo. C’è stato il suo incedere altero fino al Monte, negli occhi opachi il
bisogno urgente, pressante, di vedere Anissa e poi.
Poi nulla avrebbe più avuto importanza. Saperla al sicuro, saperla salva dalla
battaglia che ha infuriato per l’intera giornata. Attorniata dai suoi
cavalieri; attorniata da loro: i suoi amici, i suoi compagni di sempre. Gli
unici.
E quando l’ha
vista; quando nel riverbero vivido delle fiamme dei fuochi da campo l’ha
scorta, bella e fragile, fulgida dell’alone del suo cosmo che irradiava
conforto; quando l’ha vista, sfilarsi l’elmo e inginocchiarsi è stato riflesso.
Come è stato
riflesso cercare nei suoi occhi azzurri, nel riverbero del cosmo nel suo sguardo,
un istante di sicurezza. E cogliere lo stupore e il respiro come spezzato;
cogliere il tremito impercettibile della labbra e un silenzio incredulo
nell’aria. E capire. Capire cosa avesse appena fatto; cosa avesse appena
accettato di fare.
Perché Seiya di Pegasus non si era mai
inginocchiato prima ad Anissa; perché Seiya di Sagitter era sempre
rimasto al suo fianco, fiero e sprezzante, fermo. Perché il cavaliere che era
della leggenda non aveva mai piegato il ginocchio davanti alla sua dea, non in
pubblico. Non davanti ai compagni di una vita, a quegli stessi compagni che lo
avevano sempre visto rialzarsi dopo ogni caduta.
Eppure Seiya di Sagitter si era
inginocchiato e, ostinato, aveva continuato a fissare la ghiaia chiara della
terra, ricacciando nella gola l’urgenza di guardare Anissa,
di guardare Saori e avere da lei anche solo un cenno;
anche solo l’ombra di un sorriso.
Era stato Shun a farlo rialzare, e lui si era appoggiato al compagno
di una vita come se fosse l’ultimo appiglio prima di crollare. Gli si era
appoggiato contro con il respiro pesante e la testa che si svuotava, incerto
sulle gambe. Ma c’era Shun, a sorreggerlo. E c’erano Hyoga e Shiryu a nasconderlo, a
nascondere la debolezza del cavaliere che avrebbe dovuto guidare gli eserciti
di Anissa vittoriosa.
Sei un idiota gli aveva soffiato contro Shun.
Al limitare del
campo, sotto la campata d’accesso ad una nicchia sepolcrale, rabbia e sollievo
e urgenza e abitudine si erano mescolati in quel conforto e in quella
tranquillità che Seiya aveva avvertito irradiarsi
nell’animo. Non era solo una risonanza; e non era nemmeno abitudine. Era
qualcosa di più profondo, di viscerale e violento. Era quel legame che loro
condividevano, che li teneva uniti da anni e che li portava a cercarsi, nella
vita e sul campo di battaglia.
Era qualcosa che
non si poteva spiegare, ma che c’era. Erano le mani si Shun
sulle sue ferite, mentre borbottava rimproveri; erano gli occhi di Shiryu che studiavano ogni sua smorfia, ogni sua protesta;
erano i sogghigni di Hyoga mentre ravvivava il fuoco
e gli allungava una borraccia che gli aveva bruciato lo stomaco, lasciandolo
con una spossatezza infinita nelle ossa.
Sei un idiota gli aveva detto Shun.
E Shiryu aveva cercato, con un sospiro, di elencargli
le infinite idiozie in cui si era cacciato, con il tacito appoggio di Hyoga. E lui aveva sorriso. Aveva sorriso, nel torpore del
tardo pomeriggio, l’armatura di Sagitter inzaccherata
di sangue e fango. Aveva sorriso e poi aveva liberato una risata vera, di
cuore. Una risata come di tredici anni, quando il mondo era una sfida da
affrontare con tanta determinazione e un pizzico di follia. Quando il mondo
erano cinque ragazzini che avevano consacrato la vita ad una ragazza come loro.
Quando la fede era l’ultima incrollabile certezza. E niente e nessuno avrebbe
mai potuto distruggerla.
E in quella risata.
In quella risata nata di cuore, in quella risata all’ombra di un sepolcro, con
nella gola lacrime e sulle mani la battaglia; in quella risata forse di follia
forse di disperazione, Seiya aveva urlato la sua
impotenza e la sua determinazione. Aveva urlato il desiderio di non cedere, di
essere ancora, di nuovo, uno di loro; e la consapevolezza che qualcosa era
cambiato. Che qualcosa era stato spezzato e che, adesso ne aveva la certezza,
non sarebbe mai stato recuperato.
Aveva riso, e li
aveva osservati. I compagni di una vita.
Aveva visto la
placida sicurezza nei tratti di Shiryu, quella calma
quieta che può trasforMartei nel furore della
battaglia, assordante come il rombo di una cascata. Aveva visto l’orgoglio per
suo figlio, nei suoi occhi, e la feroce promessa di non cedere davanti a nulla.
Aveva visto la
fredda sicurezza nei tratti adulti di Hyoga, e il
lacerante rimpianto di una vita giocata nella negazione e nell’ombra. Aveva
visto l’eco dolce di un amore proibito nell’orecchino a croce nordica che
portava e la ferma volontà di non lasciarsi sconfiggere.
Aveva visto la
sfuggevole determinazione di Shun, negli occhi velati
di una disillusione che non gli aveva mai conosciuto. C’era il dolore della
guerra negli occhi di Shun, e sulle sue labbra il
sorriso del guerriero, l’orgoglio di chi non è disposto a cedere e lasciarsi
andare.
Erano cresciuti;
erano cambiati.
I suoi compagni; i
suoi amici. Le persone che per lui erano state una famiglia; più importanti di
una famiglia.
E io?
Cos’era diventato,
lui? Poteva ancora combattere con loro, combattere al loro fianco? E per cosa?
Per Anissa? Per il loro mondo? O per Saori?
Seiya si era alzato in
piedi, il respiro che rantolava e un dondolio ubriaco nel corpo. E se ne era
andato, i passi malfermi e le ali di Sagitter chiuse
quasi a protezione.
Se ne era andato,
strascicandosi fino ad un parapetto che affacciava sulla città che andava
scurendosi con le ombre della sera, lì dove l’aria arrivava con piccoli soffi
dell’autunno che andava avvicinandosi.
Lì dove lo aveva
trovato Ikki.
“Allora” riprende
alla fine Ikki, quando il sole è solo una linea
chiara all’orizzonte che fa male guardare. “Chi altri lo sa?”
“Cosa?”
“Che ti reggi in
piedi per miracolo.”
Seiya sorride appena,
mentre si sfila l’elmo di Sagitter e socchiude gli
occhi. Doveva pensarci. Non è possibile nascondere qualcosa a Ikki. Non è possibile nascondere qualcosa a un uomo come
lui, a un uomo che ha visto l’Inferno e ha saputo uscire con le sue sole forze.
Non è possibile mentire a Ikki, e nemmeno sperare di
prenderlo in giro.
Ma la disillusione
è una linea sottile che attraversa le labbra; è il brillio che tremola nei
riflessi di cosmo intrappolati nel fondo degli occhi. È il cosmo lasciato
urlare nel furore della battaglia, e la forza disperata di arginare la potenza
delle stelle perché. Perché semplicemente la sicurezza che si aveva un tempo si
è sgretolata con gli anni che si accumulano sulle spalle.
È una brutta
compagna, la disillusione. Ti fa rodere all’infinito e inizi a dubitare di ogni
azione, di ogni amico, di ogni salda certezza. Inizi a dubitare di quello che
hai sempre avuto, nel cuore, nelle viscere. Di quello in cui hai sempre
creduto.
Ikki l’ha conosciuta a
quindici anni, la disillusione. E aveva le forme acerbe di una donna morta
troppo presto e il sorriso deformato dal dolore di una morte tanto insensata da
avergli strappato ogni più piccola illusione. Ogni minima umana possibilità di
crederci ancora, in un mondo che aveva scelto di ignorarlo. Che aveva deciso che
la cenere delle stelle sarebbe stata la forza amara e graffiante della Fenice.
Ikki l’ha conosciuta a
quindici anni, la disillusione. E a strappargliela è stata un ragazzino che
parlava con negli occhi le certezze dell’età dell’incoscienza e dell’avventatezza;
con nelle mani il cosmo ardente dell’avventatezza.
Era stato Seiya, a strappargliela, la disillusione. E a caricarsela
addosso come un fantasma che prende forma solo negli anni, battaglia dopo
battaglia.
“Sembra che tu sia
l’unico che se ne sia accorto.”
“Per il momento.”
“Già” scrolla le
palle Seiya. E libera un sospiro come di aria troppo a
lungo trattenuta. Perché per un istante ha temuto che Ikki
sapesse, che Ikki avesse veramente capito cosa gli si
agita nel cuore, nello stomaco. Cosi gli rimesta la testa e gli lascia addosso
una tensione latente e logorante. “Per il momento. E vedi di farlo durare,
questo momento.”
“Saori lo sa?”
“Anissa non lo sa” risponde Seiya,
e la lingua brucia di un nome che sembra improvvisamente lontano e
indifferente. “E non deve saperlo” ringhia poi, come un cane rabbioso senza
forze, ma con ancora una dignità da difendere. Con ancora un feroce atavico
istinto di sopravvivenza e di mordere tutto ciò che potrebbe essere un
pericolo, una minaccia. Anche se la minaccia fosse uno dei suoi più cari amici.
In quel ringhio
trattenuto, ferino, Ikki percepisce qualcosa. Un
istante, una consapevolezza, un pensiero che si cristallizza davanti ai suoi
occhi: Seiya è altro, dall’ultima volta che lo ha
visto. Seiya non è più il ragazzino che gli ha
strappato la rabbia con la sola volontà. I Cieli lo hanno cambiato; i Cieli e
la prigionia hanno strappato a Seiya qualcosa.
Qualcosa che Ikki non riesce a definire, ma che c’è.
E ha il peso di un sorriso più sottile, e di occhi addolciti di una malinconia
tanto profonda quanto devastante.
Ha il peso della
disillusione che Seiya sembra ricacciare in fondo
allo stomaco, nel lucore abbacinante di Sagitter. E
che Ikki vede che lo consuma, istante dopo istante.
E annuisce,
passandosi una mano sul volto più cupo e marcato. Quasi rassegnato.
È cambiato riflette Seiya
in quel gesto. Ikki è cambiato.
Ha la stessa
ferocia sul campo di battaglia, la stessa schiettezza e lo stesso sprezzante
sarcasmo. Ma è cambiato. È cambiato come sono cambiati Shun,
Shiryu e Hyoga.
Ma Ikki. Ikki sembra gridare al
mondo la sua ostinazione, la sua feroce determinazione. Nella linea dura del
viso, nel riverbero di cosmo che gli incendia lo sguardo; nelle labbra strette
e nel corpo stanco che non cede, non ha mai ceduto, e trasuda forza e violenza
combattiva, Seiya sente Ikki.
E lo avverte, fiero e determinato come un tempo, come sempre. Lo avverte pronto
a cercare l’avversario sul campo di battaglia solo per un cocciuto ostinato
desiderio di lotta. Per la rabbia e la delusione e il rimorso disperato che gli
divorano l’anima e il cuore, pezzo dopo pezzo. Come una subdola dannata amante.
E io? si chiede ancora Seiya.
Nelle mani, l’elmo
di Sagitter riverbera dell’ultimo sole che va
tramontando. L’elmo dell’uomo, del ragazzo, che è morto con un’imprecazione
alle labbra e il viso di Anissa negli occhi. L’elmo
di Aioros, che ha scelto la morte nel caso di una
notte giocata nella follia.
Aioros che si è trovato a
morire per Anissa; che ha scelto di morire per lei. E
per se stesso.
Cosa sono diventato io?
Non è più Seiya di Pegasus; e non si
sentirà mai davvero Seiya di Sagitter.
È solo un uomo; un uomo folle e disperato, che si trascina avanti con cupa
determinazione, con blasfema ostinazione. Chiedendosi ogni istante se il
respiro sarà l’ultimo, se quel cosmo che gli arde dentro, devastante, lo
consumerà prima di avvertire il cuore spaccarsi e l’ultimo respiro sfuggirli
dalle labbra.
Ma è tutto ciò che mi resta.
Per non impazzire;
per ribellarsi, anche solo per un istante, alla fine che, lentamente, si sta
avvicinando. Perché lo sa; ne è consapevole, e accarezza quel segreto con
rassegnazione e indifferenza.
Il cosmo di Ikki, caldo e sfrigolante, lo abbraccia all’improvviso,
come un manto sotto cui lasciar riposare le braci prima di ridestarle. E Seiya sospira, liberando fra i denti l’aria di un
singhiozzo trattenuto, il rantolo del peso di Sagitter
e della stanchezza di giorni consumati sul campo di battaglia.
Quando è successo?
Quando, si chiede Seiya, ha avvertito per la prima volta, l’atavica, ferina
forza della Fenice?
Lo ricorda
nell’Elisio. Ricorda lo smarrimento negli occhi di Ikki
davanti alla giara rossa del sangue di Anissa e il
ribollire furioso del suo cosmo quando si era incendiato di determinazione e si
era scagliato, contro Ade e contro quella infame colonna sepolcrale.
Ma già lì era stata
consapevolezza.
Quando Seiya lo aveva percepito, nel dolore sordo del corpo
schiantato contro il marmo, sapeva che Ikki sarebbe
rifulso di un cosmo ampio e furioso, di un cosmo capace di incendiare l’Ade e far
sfrigolare l’immota aria d’Elisio. Lo sapeva e lo conosceva, conosceva la
calda, elettrica, ustionante carezza del cosmo di Ikki
sulla pelle, il riverbero di fiamme che gli incendiava lo sguardo e il ghigno
spietato che gli deformava il viso. Lo conosceva perché lo aveva già visto, lo
aveva già conosciuto. Quando nella bocca aveva altro marmo e polvere; quando a
vestirlo c’era una corazza di bronzo e negli occhi ciechi la follia di poter
ancora vincere, di volercela fare. Ad ogni costo.
Nelle stanze della
Tredicesima Casa, nelle stanze dell’udienza, prostrato ai piedi di Saga e del
suo distorto e delirante sogno, Seiya aveva avvertito
nelle stelle l’eco dello scontro e il calore abbacinante della Fenice
avvolgerlo a dargli forza e protezione.
Loro che non si
erano mai davvero parlati; loro che guardavano alla vita da due opposte prospettive,
Seiya con la fiducia scanzonata di una finta
giovinezza e Ikki con la cupa disillusione della
vita; loro che confidavano in Anissa come naufraghi
aggrappati ad uno scoglio in burrasca. Loro, in quello scontro, si erano
ritrovati, ed era nato quel rapporto. Quel legame ironico e irriverente che Ikki sapeva di potersi permettere; quell’indifferenza che
gli era propria e che era smorzata propria da Seiya e
da quel suo modo infantile di guardare alla vita.
Erano nati loro.
Loro come compagni,
come amici. Loro come cavalieri e come uomini, ragazzi che le stelle avevano
plasmato nel dolore e nelle perdite, fulgidi di cosmo e di una devozione che
era onore alla dea che li aveva conquistati e rispetto per sé stessi e i propri
compagni. Loro che erano ragazzi che la guerra e gli dei avevano reso uomini, e
che il tempo aveva inesorabilmente cambiato.
Ikki se ne era accorto
mentre piegava pigramente la testa di lato, respirando il misto d’autunno e di
polvere di cenere che saliva con raffiche crescenti verso il Monte. Stanotte ci sarà tempesta aveva pensato,
e si era voltato appena sopra la spalla, verso Seiya.
E Seiya era lì.
Era lì, con il
corpo stanco e stremato abbandonato contro il moncone di un monumento funebre;
era lì, le ali di Sagitter che rilucevano appena al
riverbero della luce dei fuochi e il viso scavato dalle ombre della notte. Era
lì, e Ikki si era reso conto, con la violenza di una
deflagrazione, che c’era ancora solo perché era suo volere esserci. Solo perché
Seiya era troppo ostinato per darla vinta, al destino
e al suo stesso corpo.
E riavverte quel
brivido, l’eco che l’aveva attraversato nel fragore della battaglia, quando si
era presentato sul campo di battaglia nel furore assordante delle fiamme. Era
stato un istante, un frammento irrisorio, forse un abbaglio. Eppure quella
sensazione l’aveva percepita nitida e assordante esplodergli nella testa: Seiya.
Il cosmo di Seiya. Troppo potente, troppo caldo, troppo luminoso.
Troppo.
Il fulgore e la
maestosità di quel cosmo che bruciava ai limiti estremi, a costo di consumare e
corpo e vita. E allora aveva immaginato uno scontro. Aveva ipotizzato un
avversario, un avversario davvero degno di quel nome. E nel susseguirsi rapido
dello scontro aveva percorso ogni anfratto della città con la mente, cercando
un cosmo, una presenza nemica che giustificasse Seiya
e il cosmo di Sagitter ardere come il fuoco del sole.
Non lo aveva
trovato. E adesso, nella quiete illusoria della notte, sotto un cielo carico di
stelle e fumo, realizza quello che altri ormai non riuscivano più a
distinguere, quello che altri non volevano vedere. E lo sforzo immenso di Seiya per contenere quella forza che cresceva di giorno in
giorno.
“Quanto ancora?”
“Mh?”
“Il tuo corpo”
respira piano Ikki, trattenendo un ringhio che non sa
nemmeno lui se di rabbia o di frustrazione. “Quanto ancora prima che…?”
Ikki è un uomo pratico.
Lo è sempre stato, e ai bei discorsi preferisce i pugni e alle parole di miele
sostituisce il veleno di una lingua impertinente e sarcastica, abituata a
rispondere ad ogni provocazione, abituata a combattere anche con le parole.
Da ragazzo,
quell’atteggiamento, lo faceva scattare subito come una molla. Da ragazzo, Seiya non riusciva ad accettare quello che spesso Ikki gli sputava addosso, soprattutto perché erano verità.
Verità scomode e devastanti, che ti colpivano come un montante allo stomaco e
ti lasciavano al tappeto a boccheggiare. Da ragazzo. Una vita prima. Quando le
certezze erano la determinazione urlata la cielo e il cosmo incendiarsi sotto
lo sguardo compiaciuto di Anissa. Da ragazzo; quando
l’atrocità della battaglia poteva anche illudersi di addolcirsi con la retorica
di un ideale.
Ikki è un uomo pratico.
E da uomo pratico ha capito. Ha percepito il cambiamento che Seiya si porta addosso, e il peso che ne consegue. Si era
illuso; per un istante si era illuso che anche Ikki
si fosse fermato all’apparenza, si fosse arreso contro la stanchezza che il suo
corpo trasuda. Ma no. Ikki ha imparato a sondare nel
profondo le ombre del cosmo, ha imparato ha coglierne le sfumature che ne
precedono la deflagrazione e le increspature che ne accompagnano la quiete del
riposo. Quindi no, non poteva ingannarlo. Anche se non ha capito esattamente
cosa stia accadendo; anche se non può immaginare a cosa sia dovuto veramente l’ampliarsi
lento e innaturale del suo cosmo, l’ha percepito. E ha percepito la consunzione
che provoca. La morte che si infiamma con il lucore etereo delle stelle.
“Finchè sarà necessario” sospira, sorridendo appena alla
smorfia sarcastica che Ikki gli concede in risposta.
Perché lo sanno entrambi che, quella, è un’immane idiozia. Perché lo sanno
entrambi che Seiya preferisce riempirsi la bocca di
spacconerie grandi come le montagne, prima di lasciarsi precipitare.
Perché Seiya ha bisogno di crederci, di potercela fare ad arrivare
fino alla fine. Perché a Seiya non resta altro che
aggrapparsi con tutto se stesso a quella pallida, effimera convinzione: che
davvero la volontà basti, a rovesciare il mondo. Che davvero, una volta ancora,
il suo cosmo possa abbracciare l’universo e modificare il mondo.
“Spaccone”
sogghigna Ikki. “Ti reggi in piedi a stento. Hai
intenzione di strisciare, davanti a Pallas?”
“Mi basta non
strisciare davanti a Titan” alza le spalle Seiya.
“Titan, nh” ripete piano Ikki, accarezzandosi il mento e l’accenno di barba che
glielo ricopre. “È il bastardo che dobbiamo ringraziare per questa allegra
festa?”
Seiya sbuffa una risata.
Quando vuole essere sarcastico, Ikki finisce sempre per
essere tanto cinico e antipatico da apparire odioso e superficiale. E stronzo. Un
bastardo indifferente con una gran voglia di menar le mani e scarso interesse
per gli ideali.
Ma per quegli
ideali Ikki è disposto anche a scenderci,
all’Inferno. E a trasforMartei nel peggior stronzo
bastardo immaginabile. Qualsiasi cosa, pur di riscattare il debito immenso con
una ragazzina morta fra le sue braccia e la fame di vita, forte, inarrestabile,
che arde aggrovigliata al suo cosmo.
“Per la festa non
so” replica Seiya. “Ma non è un bastardo. Questo te
lo posso garantire.”
“Quello che ho
stecchito nel pomeriggio lo era. Eccome.”
“Lui no” sospira Seiya. “Lui. Ecco. Mi ricorda Aioros.
Cioè. Quello che ha fatto.”
“Un altro martire” allarga
le braccia Ikki, sputando quasi quella parola. Che i
martiri, a lui non sono mai piaciuti. Perché fare i martiri è una schifosa
bastardata, di quelle che non riesce proprio ad accettare. Perché significa
scegliere la morte piuttosto che combattere per vivere.
“Ma allora hai
ragione. Non è un bastardo. È un cretino.”
Perché fare il
martire significa arrendersi ancor prima di cominciare a combattere. E perché
chiunque spunti in faccia alla vita scegliendo di morire è come se sputasse in
faccia a Esmeralda.
Ad una ragazzina
che sognava la vita con la stessa intensa passione con cui, altre ragazze della
sua età, sognavano il proprio futuro.
Esmeralda che, la
vita, l’ha trascorsa incastrata fra una distesa di rocce e vulcanelli
di lava e un ritaglio di giardino dai colori pallidi. Esmeralda che, quando la
accarezzava, all’ombra di un vecchio muro sbecciato,
aveva sulle guance arrossate di sole un velo di cenere. Sapeva di cenere e
sale, Esmeralda. E la sua pelle non era morbida, ma costellata di piccole cicatrici
e molte abrasioni. Era la pelle di una ragazzina che aveva imparato in fretta
cosa significa vivere, e che la vita può essere una grande fregatura. Una
ragazzina che trascorreva le ore sotto un sole cocente, le maniche rimboccate e
un vecchio fazzoletto rosso in testa, a raspare dalla terra quel poco che
un’Isola maledetta concedeva. Una ragazzina che tremava quando lui la prendeva
fra le braccia e la accarezzava, cercando nei suoi occhi la compassione per una
bambina che voleva solo conoscere di nuovo l’affetto.
Una ragazzina, una
donna, che con i suoi quindici anni gli aveva insegnato cosa volesse dire
davvero avere passione. Non la
passione di un amplesso, non quel sentimento che ti preme nel ventre e che
trasforma le carezze in strette e i sussurri in affanni. La passione di
Esmeralda era qualcosa di ancora più profondo, di ancora più devastante: era la
passione per la vita. Quel profondo viscerale istinto di vita che le irradiava
dal viso, dagli occhi, dal sorriso. Quella passione che le ha fatto scegliere
di morire per lui, per uno come lui. Uno che, alla vita, ci aveva quasi
rinunciato. E che aveva capito cosa davvero volesse dire vivere solo mentre lei
moriva fra le sue braccia. A quindici anni, con il vestito a fiori che era
stato di sua madre addosso e i calli sulle mani.
Quindi sì: odia i
martiri. E odia ancora di più i cretini che giocano a fare i martiri.
“Ikki!”
“Lo sai come la
penso” lo previene, alzando una mano ancora sporca di battaglia. “Ora. Vogliamo
star qui a filosofare, o mi spieghi un po’ la situazione?”
Seiya sospira piano.
Parlare con Ikki è stancante. Ed evitare di litigarci
lo è ancora di più. Eppure, Seiya si accorge di
averne bisogno. Ha bisogno di quei momenti, di quelle frecciate, di quelle
provocazioni e dell’esasperazione che sente nello stomaco. Ha bisogno di
sentirsi ancora, di nuovo, quello che era a quindici anni, il ragazzino che
devi prendere per la collottola e costringere a ragionare. Il ragazzino che ha
sconfitto uomini e dei con i suoi amici al fianco.
“Se ti prendessi il
disturbo di muoverti prima, forse non avresti bisogno sempre del riassunto” lo
provoca Seiya, rilassando la schiena contro la lapide
e abbandonando l’elmo di Sagitter accanto a sé. Non
ha la forza per togliere tutta la corazza, anche se vorrebbe, per un’ora
almeno, avvertire l’aria sulla pelle. Anche l’aria cinerina e pesante del
campo, immaginando il sapore di sale che si insinuava fra le fenditure delle
finestre a casa sua, alla darsena. O che serpeggia sempre fra i templi di
Grecia, d’estate.
“Ora sono qui, mi
sembra.”
Seiya lo guarda
socchiudendo un occhio. Ikki si è appoggiato al
parapetto, le lunghe piume della Fenice che tintinnano metalliche ad ogni suo
movimento. Sembra così rilassato, indifferenze ad ogni cosa. Eppure Seiya avverte il fremito dei nervi, il lieve crepitio del
cosmo del compagno. Ikki è attento, è vigile e pronto
a reagire al minimo sentore di pericolo o attacco. E soprattutto è un
bersaglio.
Seiya se n’è accorto dal
momento in cui lo ha raggiunto. Ikki sta facendo di
tutto per attirare su di sé un possibile eventuale attacco, lasciando lui
libero, per un istante, per pochi momenti, di rilassare muscoli e cosmo. E di
concedersi, forse per la prima volta da molto, troppo tempo, un istante di
riposo.
“Sì sì” borbotta.
“Che fine hanno fatto quelli che sono riusciti a stanarti?”
“Una brutta fine”
taglia corto Ikki, e nella sua voce la rabbia si
mescola ad un ringhio basso e profondo, da animale braccato che è pronto a
giocarsi il tutto per tutto pur di sopravvivere.
“Quanti erano?”
“Di preciso non lo
so” grunisce Ikki,
masticando un labbro. “Una trentina. Penso. Non mi sono fermato a contarli” e
prende fiato fra i denti, come a cercare in fondo allo stomaco la forza o forse
la volontà di aggiungere qualcos’altro. Qualcosa che, Seiya
lo intuisce, è personale; e fa male.
“Hanno attaccato il
villaggio” sputa alla fine Ikki, con negli occhi
ancora case bianche di calce ridotte a macerie fumanti, il lezzo del sangue e
il pianto di pochi sopravvissuti che si trascinavano simili a spettri fra i
calcinacci, il viso coperto di cenere e sangue, lacrime su visi scavati dalla
vita e dal sole del Mediterraneo.
Seiya inghiotte a vuoto,
fissandosi le mani guantate d’oro. E ricordando i
rantoli d’agonia di uomini finiti nel vortice delle loro battaglie, ricordando
lo strazio di andare avanti, un piede dopo l’altro, ignorando i gemiti che si
udivano fra le macerie, le lacrime sui visi e il desiderio forte, opprimente,
di concedersi un istante, un briciolo di compassione, di disperazione, che
l’essere Sagitter, l’essere il primo fra i cavalieri
non gli permetteva più. E assieme la rabbia e l’impotenza per una nuova guerra,
per un nuovo gioco al massacro, di nuovo come a quattordici anni. Di nuovo come
sempre, anche se, questa volta, il campo di battaglia è una città
inconsapevole, è una città che ha avuto il solo torto di essere un ricordo
prezioso fra le pieghe della memoria di Anissa.
“Helena?” riesce a
chiedere, un sussurro nel silenzio dell’anima. E si sorprende del tremito della
sua stessa voce, si sorprende della paura che sente stringergli lo stomaco al
pensiero di udire una parola, una sola unica parola che farebbe sbiadire il
ricordo del viso di una ragazzina incontrata troppi anni prima. Il viso di una
bambina che aveva salvato la vita ad un uomo solo chiedendogli di combattere
anche per lei.
“È viva” risponde Ikki, la voce che mescola sollievo e furore. “Ma ha perso
una gamba. E il figlio che portava in grembo.”
Seiya chiude gli occhi,
inghiottendo un gemito.
Quanto ancora?
Quanto sangue ancora dovrà essere sparso? Quando sangue ancora, di nuovo, dovrà
macchiare le loro mani, dovrà straziare la loro mente e il loro spirito, prima che…?
Seiya concede un sorriso
amaro, a se stesso e alla sua infantile illusione. Perché era di un ragazzino,
di un bambino cresciuto nell’arena, di un bambino convinto che la volontà è
vittoria, l’illusione di poter sempre vincere. La follia che il sangue e il
dolore sofferto fossero sufficienti, fossero bastevoli e che ci fosse qualcosa.
Qualcosa per cui davvero valesse la pena lottare, qualcosa di bello e grande e
splendente come il cosmo di Anissa. Come quel cosmo
abbacinante e confortevole che, anche in quel momento, cerca di lambirgli
l’animo e il profondo, lancinante dolore che lo sta divorando.
“Era tuo?” riesce
alla fine a chiedere, nelle orecchie l’eco di ordini impartiti dal campo e il
fischio di un vento dal sapore della cenere e della resina.
“No. Non lo era”
sospira Ikki, socchiudendo gli occhi come di
rimpianto come di dolore. “Questo però non mi impedirà di reclamare vendetta.”
“Ikki” tenta Seiya. “Non
combattiamo per vendetta. Lo sai. Combattiamo per la giustizia.”
“Per favore, Seiya” sorride Ikki. Ma è un
sorriso amaro, la piega distorta di un gemito, di una disillusione che ha
scavato loro i volti e l’anima, che si è presa, pezzo dopo pezzo, ogni
speranza, ogni appiglio, ogni certezza. “Ci credi ancora? Ci credi davvero
ancora?”
“Sinceramente?”
Ikki inghiotte a vuoto.
Non è paura. La
paura la sa riconoscere; ha imparato a riconoscerla sul campo di battaglia,
simile ad una scarica che ti perfora il cervello e ti inchioda a terra, inerme
davanti all’avversario. Può durare un istante, un lunghissimo istante in cui
tutto quello che riesci a pensare è non
voglio morire. Non posso morire; o può durare tutta la vita, e diventare il
rantolo di terrore che non ti lascia più andare.
Ikki, quella paura, ha
imparato a riconoscerla; a dominarla e a girarla a suo vantaggio, a
trasformarla nella rabbia e nella disperazione della sua furia in battaglia. Ma
la sensazione che prova in quel momento, il crampo che gli sta divorando lo
stomaco, quella morsa che lo ha semplicemente afferrato, costringendolo a
fissare Seiya. Ecco. Quella morsa è qualcosa che non
vorrebbe mai sentire.
Perché è lui quello
disilluso e cinico; perché è lui quello che se ne esce con una domanda del
genere, con il suo carico di amarezza e di delusione. Perché è lui quello che
deve essere sempre raccattato per strada, quello che se ne resta ai margini,
ben sapendo che, comunque, gli altri lo aspettano, gli altri non hanno
l’intenzione di lasciarlo indietro. E che, allora, si può concedere
quell’atteggiamento di menefreghismo e indifferenza che gli si è cucito addosso
come una seconda pelle.
Seiya no.
Seiya è quello che ti
trascina avanti; Seiya è quello testardo, cocciuto,
intrattabile, è il ragazzino che si ostina a farti capire il suo punto di
vista, il suo viscerale ottimismo anche se dovesse ficcartelo in testa con i
pungi e gli insulti. Seiya è quel tipo di persona. È
il ragazzo, l’uomo che è riuscito a sconfiggere gli dei solo per ostinazione,
solo per assoluta cieca fedeltà in se stesso e negli occhi di Anissa.
Mentre adesso. Adesso.
“Non lo so. Non lo
so più per cosa combatto. Combatto davvero” rantola Seiya,
stringendo forte il pungo e poi nascondendo gli occhi stanchi e vacui dietro la
mano, nell’odore fastidioso di sangue rappreso e cenere e terra. Nell’odore
della battaglia che si sente sempre addosso. “So solo che ho bisogno di crederci, Ikki.
Ne ho davvero bisogno.”
“Alla giustizia?”
“Alla giustizia;
alla pace” ride Seiya senza allegria, e la sua risata
è il rantolare dell’ubriaco, il raspare dell’aria in polmoni troppo stanchi.
“Ad Anissa. Al mio egoismo. A qualcosa. A qualsiasi
cosa che…” strascica, strozzandosi con la sua stessa
voce, premendosi le mani sulle testa, sulle tempie. Nella disperazione della
consapevolezza dell’abisso che lo sta divorando e che, giorno dopo giorno, è
sempre più difficile controllare, dominare, nascondere.
E Ikki si chiede dove sia Seiya.
Dove sia il
ragazzino cui ha affidato la vita e le sue poche certezze, il ragazzino che era
disposto a proteggere a costo della vita, che non demordeva nemmeno davanti
all’evidenza. E poi si ricorda. Si ricorda di quindici anni trascorsi in un
lento, costante stillicidio di cosmo e determinazione. Si ricorda della spada
che gli ha trafitto il cuore e lo ha lasciato simile a un relitto spiaggiato. E si ricorda di quello che Seiya
ha scelto di lasciare, quello cui si è imposto di rinunciare, pur di restare al
fianco di Anissa.
E si chiede dove la
trovi, davvero, la forza per rialzarsi ancora e continuare. A combattere; ad
amare; a straziarsi le carni e lo spirito pur di non cedere di un passo, pur di
potersi di nuovo riverberare nel cosmo di Anissa.
E fa male.
Sentire Seiya con quella voce. A Ikki fa
male. La voce stanca; lo sguardo disperato; e la folle, lucida determinazione
che ancora tiene in piedi un corpo sfinito, che sembra implorare di poter
collassare. Mentre il cosmo. Kami. Il cosmo di Seiya arde. Arde come una stella, come milioni di stelle
pronte a deflagrare per abbacinare le galassie.
“Seiya.”
“Non dirlo agli
altri, Ikki. Non dirlo ad Anissa.”
Cosa? vorrebbe chiedergli. Cos’è, esattamente,
quello che Seiya vuole tenere ben celato nel profondo
del suo animo e della sua mente? La disillusione che sta crescendo in lui
simile ad un cancro? O le condizioni disperate del suo corpo e del suo cuore,
la fragilità del cristallo mescolata alla disperata, folle volontà di domare un
cosmo che sta sfuggendo al suo controllo?
Cos’è che Seiya non vuol far sapere? La sua reale forza, o la sua
disarmante debolezza?
Ikki, tuttavia, si
limita ad annuire, in quel modo tutto suo, lento e misurato che riserva solo a
momenti come quello, momenti in cui le parole sono solo parole e uno sguardo,
un gesto, un accenno segnano l’intesa di una vita cresciuta fianco a fianco su
cambi di battaglia.
“Non lo farò”
annuisce piano, nella testa il principio di un malessere che germoglia. “Ma tu
vedi di non strafare come tuo solito. Ne?”
“Detto da uno con
il braccio nelle tue condizioni” ride Seiya,
rilassandosi contro il marmo scheggiato della lapide, gustandosi il mezzo
ghigno di Ikki e osservando i suoi movimenti, il
soppesare attento l’articolazione.
“Ah. Lo sai, dunque.”
“Mmh” annuisce Seiya, strappando
un lungo filo d’erba e arrotolandolo fra le dita. “Sono il generale in capo di Anissa, ora. Non dimenticarlo.”
“Siamo a posto,
allora!” scherza Ikki, sfilandosi l’elmo per la prima
volta da quando è riapparso, maestoso e fiero nel riverbero infuocato del suo
cosmo. “Fanne parola con Shun, e non ti dovrai più
preoccupare di quello che io potrei andare a dire.”
Seiya scrolla le spalle
e accosta il filo alle labbra, in un fischio alto e acuto che piano piano trova i toni di una vecchia melodia d’infanzia.
“I soldati. Quelli
del villaggio” riprende Ikki, quando le ultime note
si sono perse nell’aria ormai fredda della notte. “Avevano le sue insegne. E
cercavano me. Quel bastardo è mio, Seiya.”
“Mi stai chiedendo
il permesso?”
“Chiamala cortesia
fra colleghi” e il cosmo della Fenice rifulge nel suo sguardo, profondo come le
voragini del magma incandescente. “Lui è mio. E né tu né Anissa
vi dovrete mettere in mezzo.”
“L’ultima volta ti
ha spezzato la spalla.”
“L’ultima volta gli
ho incrinato la spada” replica Ikki, un ringhio a
deformare il sorriso di soddisfazione. “Mi ha cercato, Seiya.
Così come io l’avevo braccato. Adesso. Dopo quello che…dopo
Helena…” sospira Ikki, un
respiro pesante, di un dolore che opprime l’anima prima ancora che il petto. E
che ti resta nella gola come un boccone che non riesci proprio a mandar giù. “Voglio
poterlo mettere all’angolo e finirlo, Seiya. Ho il
diritto di finirlo.”
Seiya socchiude gli
occhi, indovinando nell’espressione dura e decisa di Ikki
la risolutezza a non cedere. E, Kami, non se la sente
proprio di discutere con lui. Di imporre a lui, a quel cocciuto testardo che è,
quello che la sua posizione e il suo ruolo potrebbero esigere. Perché Ikki combatterà, lo sanno entrambi. E combatterà per quello
che lui ritiene importante, per quello che lui decide essere importante.
Non sarà al fianco
di Anissa; non sarà con lei per proteggerla e
sostenerla. Sarà lontano, nel furore della battaglia, nelle urla di agonia e di
dolore degli avversari. Sarà in combattimento, alla ricerca di quell’uomo che
ha scelto come suo avversario, che è il solo avversario con cui si vuole
confrontare.
Perché Ikki combatte per motivi personali. Perché Ikki ha scelto che servire Anissa
non significa essere il suo burattino. Come lo hanno scelto Shiryu,
Hyoga e Shun. Come l’aveva
scelto lui stesso, quando disattendevano gli ordini e facevano quello che loro
ritenevano giusto, quello che per loro era importante.
Ikki vuole combattere? Seiya sa che non lo fermerà, sa che lo lascerà cercare
l’avversario sul campo di battaglia e che, per rispetto, non interverrà neanche
se dovesse sentirne il cosmo estinguersi. Perché con Ikki
funziona così. Con Ikki puoi solo accettare lo
strazio di voltargli le spalle senza possibilità di discutere, di provare a
ragionarci.
Ikki ha deciso che
vuole vendetta; e avrà vendetta. A costo di scontrarsi con Anissa
stessa.
“È la tua
battaglia” acconsente alla fine Seiya. “Solo. Sei
sicuro di farcela? Con quel braccio, intendo.”
Ikki ride, una risata
bassa e cupa, mentre si tasta i muscoli tesi sotto la corazza.
Il suo braccio;
quel braccio. Lo stesso che Hyoga gli ha congelato,
al loro primo scontro. Lo stesso che Shaka gli ha
frantumato, nel corso del loro duello. Quel braccio che non è mai veramente
guarito. Il braccio con cui ha ucciso il suo maestro e con cui ha accarezzato
Esmeralda per l’ultima volta.
È il suo punto
debole, lo sa lui come lo sa Seiya. Ci sono momenti,
come dopo che Aegeon. gli ha frantumato la clavicola,
che quasi non riesce a muoverlo, che al suo posto sente solo un irritante
perpetuo formicolio. Altre in cui gli sembra che possa esplodere, tanta è la
tensione che lo attraversa quando è irradiato dal fuoco del suo cosmo.
Quindi no: non è
sicuro che il braccio reggerà a un nuovo scontro; non è sicuro che potrà usare
al meglio le sue capacità né se uscirà vincitore o sconfitto dalla battaglia.
Sa solo che non ha mai permesso a quel braccio di tenerlo lontano dal campo,
che non ha mai permesso al dubbio di un insuccesso di guidare le sue azioni.
“Non è messo peggio
di te” commenta con una smorfia. “Resisterà.”
“Potresti
perderlo.”
“Potrei. Ma non
importa” soffia piano, quasi in un ringhio. “Sai quanto posso essere
pericoloso. Anche con un braccio solo.”
Certo che lo sa. Lo
sa bene.
E nella mente
ritornano due ragazzi di quindici anni; ritornano la rabbia e l’esasperazione e
il primo sangue sulle mani. Ritorna il ricordo di quel loro scontro ai piedi
del Fuji, quando si erano accorti che la loro vita non si sarebbe giocata su un
ring, ma passo dopo passo ogni giorno. Quando Ikki
era il nemico, il primo e solo. E l’armatura che Seiya
adesso indossa il trofeo da conquistare.
Anche allora Ikki ha combattuto con un braccio solo, l’altro intorpidito
dal gelo di Hyoga. Eppure. Eppure Seiya
ricorda la precisione e il dolore dei colpi subiti, la forza e la disperazione
di pungi e affondi. Perché Ikki è quel tipo di
cavaliere. È il cavaliere, l’uomo che non si arrende, che ringhia alla vita con
ostinata determinazione, imprecando e vomitando sangue, ma non si arrende, non
si arrenderà mai. Ed è disposto a crepare trascinandosi dietro il suo
avversario, solo per strappare la soddisfazione di non lasciarlo vincitore.
“Vuoi dei soldati?”
riprende alla fine. “O farai da solo, come al solito.”
“I soldati del
Tempio non sono adatti. Lo sai anche tu” sbuffa Ikki.
“Anche con le armature di acciaio non sono sufficienti.”
“Stanno combattendo
al meglio.”
“Stanno morendo, Seiya.”
“Credi non lo
sappia?” rantola, abbassando gli occhi e stringendo le mani. Forte. “Credi che
mi piaccia mandarli avanti, a rischiare la vita?” sussurra ancora. “Che altro posso
fare? Pallas ha uomini. Molti uomini. Noi invece”
sospira, massaggiandosi la radice del naso. Stanco. “Non abbiamo quasi
cavalieri, Ikki” gli confida in un sussurro.
Ikki annuisce piano,
guardando giù, verso i fuochi del bivacco lungo le pendici del colle. Ci sono
uomini, laggiù. Uomini che non raggiungeranno i vent’anni, l’adrenalina dello
scontro nelle vene e il terrore della morte negli occhi. Sono ragazzi
raccattati per il mondo, abituati a combattere, a mordere, a uccidere per
strappare un giorno ancora alla vita. Forse hanno perso qualcuno, come lui,
come Hyoga. Forse non l’hanno mai avuta, qualcosa da
perdere. E sanno solo combattere. Per sopravvivere.
È qualcosa che
conosce. Che Ikki ha visto negli occhi di quegli
uomini, mentre passava fra loro. Rabbia, angoscia, disperazione, forza, dolore,
determinazione, paura, disprezzo. Una farandola di sentimenti che si mescolano
e spingono ad agire, a fare forse l’impossibile. A combattere fino all’ultimo
respiro, fino all’ultimo rantolo.
Ma sono uomini; non
sono cavalieri. Sono solo uomini.
Non hanno un cosmo
che li sostenga; non hanno un’armatura che li protegga. Le corazze d’acciaio
aiutano, ma non sono invincibili, non offrono riparo alla furia delle stelle o
alla crudeltà degli avversari. Con una corazza d’acciaio puoi affrontare un altro
uomo, non un altro cavaliere.
“Sarà un massacro”
soffia Ikki, e le sue parole sanno di morte nel riverbero
dei fuochi.
“Lo è già”
singhiozza Seiya, mentre nell’aria inizia ad
avvertirsi l’odore dolciastro e nauseante di carne bruciata. Seiya si trascina in piedi, appoggiandosi alla balaustra
semidistrutta, al fianco di Ikki.
Al centro
dell’accampamento stanno iniziando ad ardere i roghi funebri: ogni cavaliere,
ogni soldato, viene sepolto nel vorticare delle fiamme, il nome gridato tre
volte al cielo e la preghiera di Anissa a mormorare
la certezza del dovere compiuto.
“Quanti ne
perderemo ancora, Ikki?”
“Tanti” mugugna Ikki, stringendo forte l’elmo fra le mani. “Ma per ognuno
di loro un uomo di Pallas lo seguirà nella tomba.
Sarà il nostro tributo.”
Seiya scuote piano la
testa, la nausea e la spossatezza a chiudergli lo stomaco e rendergli rasposa e debole la voce.
“Non avrei mai
dovuto accettare di farli scendere in campo” soffia infine, premendo
maggiormente il corpo contro il parapetto. “Sono uomini, non cavalieri.”
“Non credo proprio
che tu li abbia costretti” gli risponde Ikki, una
smorfia sulle labbra. “Sapevano che sarebbero potuti morire. Hanno scelto di
combattere; di vivere.”
“Si sono fidati di
me. E io li ho portati a morire.”
“Si sono fidati di
te, e tu hai combattuto con loro. È diverso” cerca di spiegargli. “Sono
soldati, Seiya. E sapevano cosa rischiavano.”
“Questo non allevia
la mia colpa.”
“Questo significa
che tu non hai colpe” scandisce Ikki, socchiudendo
gli occhi ai guizzi dei fuochi, nella balza sottostanze. “Ma se davvero ti
senti in colpa, pensa a sopravvivere. E a vincere. Sarà più che sufficiente.”
Seiya sbuffa un respiro,
annuendo piano e mordendosi poi un labbro.
Nella testa,
l’affastellarsi di mille pensieri, di mille emozioni. Non è come ragiona lui;
non è il modo in cui lui ha sempre ragionato. Andare avanti. Andare avanti a qualsiasi
prezzo, sacrificando uomini come fossero pedoni. No. Non gli piace. Proprio non
riesce ad accettarlo. Ha visto i suoi amici fare così; li ha visti dargli le spalle
e obbligarlo a caricarsi della loro volontà, del loro desiderio egoistico e
devastante di spianargli la strada. Li ha sentiti spegnersi, il cosmo palpitare
in una ribellione sempre più debole, sempre più fioca. Si è costretto ad
avanzare, per non deluderli. Si è costretto a ignorare gemiti, urla,
imprecazioni mentre, un piede davanti all’altro, nella testa martellava il viso
di Anissa e l’obiettivo, l’unico e solo per cui
valesse davvero la pena morire. Ha scelto. Ha scelto che gli facessero da
scudo, ha scelto per loro la morte e lo strazio, ha imposto loro sacrifici e
dolori. E loro. Loro hanno solo accettato. Hanno accettato perché nessuno li ha
costretti, hanno accettato perché tutto quello cui anelavano era quella unica e
sola parola: vittoria.
E non per trionfo
personale o retorica di esaltazione. No. Vittoria per Anissa,
per i suoi occhi di nuovo vividi. Vittoria per l’abbraccio abbacinante del suo
cosmo; per il sorriso malinconico di una dea che combatte anche nel corpo
fragile e indifeso di una donna; per quell’abitudine che è solo di Anissa, di Saori, di sacrificare
se stessa, di proteggerli e custodirli.
Ikki ha ragione. Lo sa.
Sa che gli uomini
che si stanno consumando su quelle pire hanno scelto la battaglia, hanno scelto
di rischiare la vita solo per avere un ideale, uno scopo, un. Anche solo per
avere qualcosa che non fosse la vuota ripetitività di una vita consumata nei
bassifondi di una città o nel nulla della disillusione. Alcuni hanno sete di
bottino e vendetta, Seiya lo sa. Lo ha percepito
nell’eco distorta e debole della volontà che li anima. Ma è meglio di niente;
in quella guerra in cui solo la ferocia e la disperazione ti spingono avanti,
anche l’avidità è meglio di niente. Perché non ti farà cedere, perché ti farà
combattere. Perché ti farà ringhiare e imprecare, ma di permetterà di restare
in piedi.
Seiya lo sa. E non riesce
ad accettarlo.
Perché le sue, le
loro battaglie non sono stragi di civili ed eserciti affamati di prede. Le loro
battaglie non sono mai state città distrutte e avversari falciati senza
parlare, senza ascoltare, nella foga frenetica di strappare metro su metro una
posizione all’avversario.
Le sue battaglie;
le loro battaglie. Le guerre.
Le guerre che gli
sono rimaste incise nella pelle, nelle cicatrici e nei ricordi. Le guerre
contro Saga, contro Posidone. Le guerre contro gli
dei. Le guerre rivendicate per capriccio di esseri che disprezzano, che
ignorano anche cosa sia la compassione e la pietà. Le guerre contro divinità
ancestrali e indifferenti, contro cui ha scelto di morire, contro cui ha scelto
di lottare anche a costo di sacrificare tutto se stesso.
Le sue guerre.
Sono guerre in cui
l’avversario lo hai di fronte; guerre in cui l’avversario è un corpo rivestito
di un’armatura e una convinzione con cui vuole persuaderti. Sbagliata, ingiusta
e folle; ma è il suo credo, il suo orgoglio. E a volte. A volte non lo sono
nemmeno, tanto sbagliate, ingiuste e folli, quelle convinzioni. Perché Saga. Kami. Saga amava Anissa. Di un
amore così profondo e devastante da volerla uccidere, per risparmiarle lo
strazio di scontri e decisioni che avrebbero costato la morte di soldati e
cavalieri.
Perché Saga non era
un folle, adesso lo sa.
Lo sa da quando ha
stretto fra le mani la sua daga, e ha osato pensare di levarla contro una
bambina. Lo sa da quando ha accettato che, per porre fine al delirio di Pallas, dovrà uccidere una bambina che piange affetto nel
corpo della dea. E lo farà. Lo farà sotto gli occhi di Anissa
che chiederanno pietà; lo farà chiudendo il suo cuore e il suo cosmo alle
supplice della sua dea, della donna che.
Vincere.
È l’unica cosa che
abbia valore, Ikki ha ragione.
Vincere per
concedere di nuovo, ancora, riposo e tranquillità ad Anissa,
a Shiryu, a Hyoga, a Shun. Vincere per garantire a chi sarà sopravvissuto quel
futuro che hanno strappato con il sangue e la determinazione ai capricci del
fato e degli dei. Vincere per lasciare speranza alla nuova generazione, a Ryuho, a Kouga. A bambini che
credono che la battaglia sia solo l’eroismo di un combattimento, l’adrenalina
di uno scontro.
Vincere. Per quei
bambini; per quei ragazzini. Perchè non debbano mai
scoprire lo strazio di una perdita, il dolore di andare avanti lasciando sul
campo di battaglia il corpo ancora caldo di un amico, di un compagno, di un
fratello. Perché per loro la guerra rimanga un sogno ammantato di leggenda, e
il sangue e il dolore e le ferite sbiadiscano nel tempo, nei riverberi
rassicuranti del cosmo di Anissa. Perché.
Seiya respira piano,
socchiudendo gli occhi.
Vincere.
Come non ha mai
immaginato di poter fare, di poterlo desiderare. Prima che il suo corpo sempre
più debole lo tradisca; prima che il cosmo di Sagitter
incendi le stelle ed esploda, senza più controllo. Lo sente anche in quel
momento, il suo cosmo. Grande, vivo, pulsante. Lo sente risuonare con le
stelle, con le galassie che se ne stanno lassù, oltre il fumo denso e acre
delle pire, oltre il rossore di funerali di fuoco che ammanta il cielo
d’autunno. È vasto, il cosmo di Sagitter. Vasto e
potente e. E semplicemente è troppo. Troppo per poterlo ancora contenere;
troppo per riuscire a trovare di nuovo la forza di imbrigliarlo.
Se solo non ci fosse stato Marte.
Se Marte non si
fosse mai presentato; se lui non avesse scelto, in quel suo naturale istintivo
precipitarsi, di sacrificarsi contro di lui. Se solo.
Baka.
Perché è inutile
pensarci. È inutile chiedersi cosa sarebbe successo se. Perché ormai quello che
è stato è stato. E non se ne pente. Non se ne pentirà mai di aver sacrificato
la sua vita, il suo cosmo, il suo corpo per Anissa e
il bambino che stringeva al seno.
“È quello che ti
ripeti sempre?” gli chiede, mentre le pire si vanno spegnendo e nella notte
resta solo il crepitio di braci e ossa scarnificate.
“Mmh?”
“Quello che mi hai
detto. Che basta sopravvivere” ripete, accarezzando sulla lingua parole quasi
sconosciute. “Quando combatti. È quello cui ti aggrappi?”
“Non mi piace
perdere, lo sai” fa una smorfia Ikki. “E sì. È quello
che mi dico.”
“E funziona?”
“La verità? È
un’immane stronzata” alza le spalle Ikki, arricciando
il naso. “Ma anche una stronzata è meglio di niente.”
Seiya ride piano, i
riflessi del fuoco sul viso pallido. Perché con Ikki
è così. Con Ikki non ti puoi aspettare una risposta
coerente, una risposta come sarebbe quella di un cavaliere di Anissa. Con Ikki ti devi
aspettare solo la durezza della realtà, le illusione che vanno in pezzi e quelle
altre, quelle cui lui si aggrappa con cieca disperata ostinazione.
“Non ti farò da
balia, Seiya” sussurra quando il tempo si è tramutato
in silenzio e il vento della notte ha ormai disperso l’odore acre delle pire.
“Non avevo
intenzione di chiedertelo. Stai tranquillo” sbuffa Seiya.
“Come rottame posso ancora combinare qualche danno.”
“Volevo solo essere
chiaro” scrolla le spalle, appoggiandosi con gli avambracci al parapetto. “E,
giusto per la cronaca. Credo che tu possa fare ben più di qualche danno, in
realtà.”
“Sai com’è. La
gramigna è dura da estirpare” sorride Seiya. “E
comunque. Se mi succederà qualcosa” aggiunge in un soffio, alzando poi la mano
a fermare la risposta di Ikki. “No. Fammi finire. Se
mi succederà qualcosa, almeno saprò che Anissa sarà
al sicuro.”
Ikki storce la bocca,
inghiottendo un’imprecazione.
Perché Seiya ha già scelto. E ha scelto di combattere, fino alla
fine. E sa anche che, quella fine, potrebbe essere ad un soffio. Sa che il
cosmo che gli arde nel petto è simile ad una cometa che aspetta solo di
impattare, per deflagrare e poi. Poi niente. Poi resterà solo il ricordo di una
scia abbacinante e polvere di stelle.
Seiya lo sa. Sa che, se
oserà troppo, se porterà al limite il suo corpo, il suo cosmo brillerà come mai
prima di allora, ma le sue membra bruceranno, incapaci di sostenere lo sforzo.
E sa anche che, se è ancora lì, in piedi, è solo perché è suo volere esserci.
Per quello in cui
crede, e per l’amore che ha verso una donna che non potrà mai abbracciare. C’è
dolore e malinconia, negli occhi di Seiya. E Ikki sospira a quello sguardo, lo sguardo del ragazzino di
un tempo, le labbra appena incurvate e la tristezza che vela l’ardore del
cosmo. Perché Seiya morirà per lei, lo sa lui come lo
sa Seiya. Perché Seiya ha
deciso che la sua vita sarà solo al fianco di una donna che non potrà avere, di
una donna che dovrà solo servire, accettando la gratitudine in occhi che
vorrebbe baciare, il sorriso su labbra che vorrebbe toccare.
“Saori si arrabbierà. La conosci.”
Seiya sorride appena,
giocherellando con la lunga fascia di bisso che gli protegge la gola. Lo sa che
Anissa si arrabbierà; e sa anche che ne soffrirà. Se
dovesse succedergli qualcosa, sa che Anissa.
No. Saori.
Saori non riuscirà mai
ad accettare di non essersene accorta prima, di non esser intervenuta prima. A
fermarlo, a proteggerlo, a salvarlo. Sa che piangerà, e lui non ci sarà per
asciugare quelle lacrime, per raccogliere i suoi singhiozzi e cullare i suoi
sospiri.
E sa anche che la
deluderà, perché le ha promesso di starle sempre accanto. Glielo ha promesso
una sera di novembre, la neve lenta oltre le fusuma e il tepore di un kotatsu, nel
profumo allegro di un mandarino.
Quando i Cieli si
erano chiusi e loro avevano vinto; quando i Cieli si erano chiusi e lui aveva
scelto la guerra di Anissa alla tranquillità di una
vita lontana da lei. In un novembre di anni prima, in una di quelle fughe dal
Tempio e dai doveri in cui l’accompagnava, quando Anissa
spariva e tornava Saori, con il sorriso tiepido della
risata, il broncio infantile che le arriccia il naso quando è arrabbiata.
È stato di
novembre, sotto quella trapunta, le testa abbandonata sulle braccia conserte e
negli occhi il tremolio di una serata di neve. Glielo aveva promesso allora,
senza guardarla, soffiando piano contro il maglione caldo.
Fai quello che vuoi della tua vita. Io comunque ti
resterò accanto.
Glielo aveva
promesso. E avrebbe voluto baciarla. Avrebbe voluto stringerla e farci l’amore.
E invece. Invece l’aveva guardata. L’aveva guardata per farglielo capire. La
passione, l’ardore, la determinazione che sentiva, che gli bruciava nel petto,
nelle viscere. Forte; devastante. Più forte del cosmo di Sagitter
che già iniziava a montare, lento e inesorabile come la marea. Come l’attimo di
calma prima della deflagrazione.
L’aveva guardata, e
l’aveva amata in quello sguardo. Riassaporando nella mente quel bacio che gli
aveva dato, dal sapore di cosmo e acqua; quel bacio concesso sul campo di
battaglia, nel lucore della luna e nel riverbero del cosmo di Anissa.
In quel novembre di
neve, Seiya si era concesso di guardarla come uomo e
non come cavaliere, si era concesso di amare la donna e non la dea, anche senza
toccarla, anche resistendo al desiderio di sfiorarla.
“Lo so che si
arrabbierà” ride piano. “Ma sai com’è. Meglio chiedere perdono che permesso.”
“Uh” sogghigna Ikki. “E questa da dove salta fuori? Sembra una delle frasi
di Kanon, piuttosto che tua.”
“Chissà. Forse lo
è” gli risponde, con una strizzata d’occhio che, per un istante, a Ikki fa tornare alla memoria Seiya
com’era a quindici anni. Com’era prima che le battaglie e la morte gli
straziassero l’anima, la straziassero a tutti loro, e che i Cieli reclamassero
il giuramento più grande. Anche se erano loro i vincitori.
“Comunque” gli
sussurra Ikki, allungandogli appena una spallata che
è più il risuonare di metalli e la complicità di cosmi cresciuti assieme. “È
quello che abbiamo sempre fatto. Ne?”
“Sì. Direi proprio
di sì.”
Giù nel campo, le
ombre si allungano in forme distorte, con i richiami degli uomini disposti
lungo il perimetro, lì dove le tenebre e la tensione ti fagocitano in una
sensazione di inquietudine e sfibramento. Gli ultimi drappelli che non sono
rimasti a tenere le posizioni, sciamano lentamente, sorreggendo i feriti e
strascicando i piedi. Negli occhi e nello stomaco la disperazione per chi si è
lasciato indietro, per la paura e la follia riconosciuta negli occhi dei
compagni. E l’abbraccio di Anissa ad accoglierli, nel
calore pacato e rassicurante del suo cosmo che serpeggia lieve e costante fra
la terra annerita e la fatica della battaglia. A confortare, a consolare, a
lenire dolore e affanni.
“Hai parlato con Shun?” sussurra appena Seiya,
sotto la mano la terra e la polvere di pietra di quel muretto che lo sorregge.
“No. Non ce n’è
bisogno.”
“Ma…”
“È una cosa fra me
e lui, Seiya” scandisce piano Ikki,
prendendo un respiro lento. “Non prenderti problemi che non ti spettano. Ne hai
già abbastanza dei tuoi” borbotta, indicandogli in un gesto distratto del mento
il lucore di Pegasus ai fuochi del bivacco. Kouga è un fagotto di cosmo e stanchezza che si è lasciato
cadere su un sacco, nelle mani l’elmo scheggiato e sul viso la stanchezza di
una guerra che sembra non avere fine.
“So che lo hai
aiutato” mormora Seiya, avvertendo nel profondo l’eco
di Pegasus. E la nostalgia per l’impulsività della
giovinezza. Quando aveva l’universo nelle mani e nel cuore solo il desiderio di
combattere per il sorriso di Anissa. Prima che i
Cieli lo costringessero alla realtà; prima che Sagitter
gli appesantisse le spalle, con il suo lucore ammantato di leggenda. “Lui e i
suoi compagni.”
“Di’ pure che ho
salvato loro il culo” sputa Ikki, alzando le spalle.
“Hanno paura, Seiya. Di perdere le armature. E di
morire.”
“Ikki” tenta Seiya. “Sono solo dei
ragazzi.”
E i ragazzi hanno
paura. È normale che abbiano paura. Paura di quella guerra che stanno imparando
a conoscere, del dolore e del peso di un’armatura che ti grava sulle spalle. Paura
di essere cresciuti troppo in fretta, di essersi persi per strada qualcosa di
prezioso, e importante. Qualcosa che non sanno definire e che se ne resta lì,
al limite del campo visivo. Come un pungolo fastidioso e costante; come una
consapevolezza che non riescono ancora ad afferrare.
Paura di quello che
significa uccidere; di sentire nelle mani le ossa rompersi e il sangue scorrere
e la vita. La vita del nemico, dell’uomo che stai affrontando, andarsene
sputandoti in faccia rabbia, delusione, speranze, bestemmie. Sputandoti in
faccia che la guerra è anche quello, è soprattutto quello: corpi maciullati fra
le mani, e sangue a incrostare gli arabeschi della corazza.
Hanno paura di
capire cos’è la guerra, quella vera. Quella che non hanno mai davvero visto.
Una vera guerra. Di quelle in cui ti trascini avanti lasciandoti alle spalle i
corpi dei compagni; di quelle che ti restano nella carne, se hai ancora la
forza, alla fine, di guardartelo, quel corpo deturpato che ricopri di metallo.
“Lo eravamo anche
noi” sospira Ikki, e in quelle parole c’è una verità
che resta intrappolata nella gola. “E anche a me non va giù l’idea di crepare.
Ma sono pronto a farlo. Lo sai. Lo sai meglio di me.”
Seiya stringe le labbra
in una smorfia. Certo che lo sa; lo sa fin troppo bene. Ce l’ha ancora impresso
nelle ossa il ricordo della determinazione di Ikki,
la sua rabbia urlata sotto un cielo pesante di nuvole alle pendici del Fuji.
Quella volta Ikki era disposto a morire pur di
trascinarli con sé nella tomba, pur di cancellare il vuoto ch gli montava
nell’anima. E dopo. Anche dopo.
Ikki ha sempre avuto
una certa propensione a ingaggiare battaglie in cui la possibilità di vittoria
è sottile come il filo di un rasoio. E si è sempre concesso il lusso di
scegliere avversari che avrebbero potuto costringerlo alla resa.
Ikki ha sempre avuto
una malsana fascinazione per la morte in battaglia, buttandocisi con la ferocia
ruggente delle fiamme. Ma ha sempre avuto anche un’ossessione per la vittoria.
Ed è sempre stato così, Seiya lo sa bene: contro Shaka prima, e poi contro Mime, e
Alcor e Kanon, e poi ancora
Minos e gli dei. In ogni scontro, Ikki
ha messo alla prova se stesso, arrivando al limite e superandolo solo per
quella cocciuta, strenua resistenza che possiede. Per quel sentimento che
alcuni chiamano arroganza, che Ikki chiama
cocciutaggine e che lui riconosce come fedeltà.
Perché è di Ikki rischiare il tutto per tutto per tentare di spianare
loro la strada; ed è di Ikki rifiutarsi di restare
alla fine, di essere l’ultimo ancora in piedi. Meglio crepare per primi, con
sulle labbra il sorriso sprezzante di chi è sicuro di un miracolo, di chi è
certo di essere morto per qualcosa che è giusto, che è certo.
“Lo so” sospira
alla fine. “Lo so che darai la vita per Anissa. Solo.
Speravo che potessimo evitarlo. Speravo. Non lo so. Dopo i Cieli speravo che
fosse in qualche modo finita.”
“Ci speravi o
fingevi di sperarci?”
“Beccato” ride
piano Seiya, quasi un singhiozzo. “Ti detesto quando
fai così. Lo sai?”
“Tranquillo. Il
sentimento è reciproco” sogghigna Ikki, rigirando fra
le mani l’elmo della Fenice. E pensando che sì, Seiya
ha ragione.
Perché dopo che i
Cieli si erano chiusi anche lui aveva sperato, aveva osato immaginare, un
futuro diverso, una vita diversa. Aveva accarezzato l’idea di quel mondo
intravisto negli occhi di Esmeralda, di un mondo fatto di colori tenui e
sentimenti forti, di un mondo in cui il fratello non uccide il fratello e in
cui. Non lo sa nemmeno lui cosa, esattamente. Forse semplicemente in cui lui
sarebbe stato di troppo.
E invece.
Invece tutto è
ricominciato, e loro sono lì, a giocare alla morte per il divertimento di una dea-bambina
che dell’amore conosce solo l’egoismo e il possesso; che dell’amore vuole il
controllo e dimentica il dovere. Sono lì, a morire per i capricci di una
ragazzina che può ammazzarti con un pensiero e piangere per un cadavere che
farà gettare sopra gli altri.
Ma gli dei sono
anche questo: sono egoismo e indifferenza. E Ikki dei
del genere li conosce e non li può soffrire, non li vuole servire. Anche se
alla fine non gli resterà in corpo nemmeno un alito di vita, anche se il suo
cosmo dovesse bruciare fino a consumargli vita e anima, Ikki
sa che è pronto a morire per strappare anche solo un istante in più per Anissa, e concedere a lei l’onore del trionfo. Solo perché
sente nel cuore che è giusto.
“Scenderai così in
battaglia, domani?”
La voce di Seiya è un sussurro nel vento fresco d’autunno, è
un’occhiata fugace a vestigia di bronzo lasciate forse con rassegnazione forse
con nostalgia. Ed è la riflessione del generale, dell’uomo che il tempo e la
sorte ha abituato a valutare forze ed equipaggiamenti, risorse e mezzi. È Seiya come l’hanno reso Sagitter
e il ruolo che ha scelto di ricoprire, le responsabilità che ha accettato di
portare.
E Ikki sorride appena, una smorfia feroce sulle labbra piene
e sbrecciate dalla battaglia.
“È solida, non
temere” lo rassicura, picchiettando leggermente sull’avambraccio di bronzo.
“Sono anni che si forgia nella lava di un vulcano. E poi” soffia, scoprendo i
denti come un animale pronto ad azzannare la preda. “Lo sai che Phoenix è
speciale. Questa corazza non mi tradirà mai.”
“Forse Kiki potrebbe” tenta Seiya,
occhieggiando alle crepe sul coprispalla di Ikki, lì dove Aegeon ha affondato
il colpo, frantumando e ossa e metallo, assieme alla speranza di una domani
senza più battaglie né sangue.
“Lascia stare” lo
frena Ikki, scrollando le spalle. “Non ne abbiamo il
tempo. E non penso sia il momento di dedicarsi ai salassi.”
“Potresti vestire
Leo” tenta ancora Seiya, quando il vento della notte
si è portato via una risata sottile e nervosa.
“E Shun potrebbe indossare Virgo. E Hyoga Aquarius” elenca Ikki, un mormorio sardonico e la quieta pazienza che si
deve avere con un bambino. Perché a Ikki, in quel
momento, Seiya ricorda proprio un bambino. Ricorda il
ragazzino che si intestardisce con il mondo per qualcosa che non vuole capire,
che non è disposto ad accettare. E che si ostina a combattere per non cedere,
per non soccombere.
“E Shiryu Libra. Certo.”
“Seiya” lo chiama Ikki, un braccio
a cingergli le spalle e stingerlo, in un gesto tanto cameratesco quanto raro.
Perché non è da Ikki, una simile confidenza. Perché Ikki le cose te le spiega a cazzotti in faccia e
frecciatine ironiche; Ikki le cose te le fa capire
mescolando gli insulti alle provocazioni, e facendoti andare a sbattere contro.
Anche se fa male. Un male cane.
Ikki non ti mette un
braccio attorno alle spalle; e non si mette nemmeno a scompigliarti i capelli
in quel modo, come se stesse parlando con un ragazzino e non con il primo dei
cavalieri.
“Seiya” ripete piano, la testa del compagno sotto le dita e
gli occhi smarriti lontano, nel passato. “Abbiamo fatto le nostre scelte. Tutti
noi. E sai i perché. Tu più di tutti dovresti saperlo.”
Cos’è la
stanchezza?
Per Ikki, in quel momento, sono gli occhi di Seiya. Gli occhi adulti di un ragazzino che è cresciuto con
lui sui campi di battaglia. Gli occhi di un uomo che ha scelto una vita di
sacrifici e privazioni alla quiete di un mondo lontano da Anissa,
lontano da Saori. Sono gli occhi dell’uomo, del
ragazzino cui è disposto ad affidare la vita, e che adesso sono attraversati da
quella malinconia sottile che è la disillusione e la consapevolezza.
Perché lo sanno
entrambi, che è solo una vana illusione il pensiero di loro cinque, fulgidi
dell’oro delle armature. È solo ricordo l’eco dei loro cosmi nei giardini
d’Elisio tendersi e armonizzarsi in un unico suono, in un’unica volontà.
Quella volta; la
sola volta in cui tutti loro hanno vestito le armature d’oro. È stato. Ikki lo ricorda bene, cos’ha provato. Potenza. Assolutezza.
E paura. Una paura tanto profonda e atavica da rasentare l’assoluto. E forza.
La forza di poter fare tutto; di poter essere tutto.
Ma ricorda anche il
dolore perforargli il petto, quando Ade aveva trafitto Seiya.
Proprio lì, al cuore.
A quel cuore che
adesso batte e combatte, istante dopo istante, minuto dopo minuto, per
sorreggere Seiya e la sua volontà. Per ostinazione.
Per determinazione. Perché è di Seiya non arrendersi,
anche se il suo cosmo cresce e cresce ancora, e ogni alito di stelle è un
battito più faticoso, è uno spasmo più profondo in quel cuore fragile e
ostinato.
“Sì. Sì che lo so”
mugugna Seiya, aprendo e chiudendo una mano guantata d’oro, mentre le ali di Sagitter
mandano un sordo mormorio, un frullare metallico che si confonde con il sibilo
del vento.
“È solo che”
mormora ancora, arruffandosi i capelli e facendosi passare la mano sul viso
sporco di battaglia e stanchezza. “Fa male, Ikki. Kuso. Fa un male
d’inferno.”
Ed è la prima volta
che lo ammette; è la prima volta che trova il coraggio di dirlo a voce alta.
Non si pentirà mai della sua scelta: ha deciso di stare accanto a Saori, ad Anissa, perché sa,
sente, che quello è il solo posto dove può stare. Dove vuole stare. Anche se
vuol dire non poterla toccare; anche se significa avere la consapevolezza che
prima o dopo morirà per Lei, per la sua gloria e il suo trionfo. Ma va bene lo
stesso. È un soldato; e i soldati ci crepano, in battaglia. E lui si è fermato
sull’orlo dell’abisso così tante volte, che può solo apprezzare ogni singolo
istante che riesce a strappare, ogni momento che può regalare a lei.
Seiya ha scelto Saori, e continuerà a sceglierla. Fino all’ultimo aflato di vita, fino nell’ultimo baluginio del cosmo. E
dopo anche, probabilmente.
Perchè Seiya è così: Seiya è
semplicemente troppo cocciuto e ostinato per darla vinta a qualcuno. Fosse
anche Ananke che tutto governa.
Tuttavia.
“Lo sapevi che
avrebbe fatto male” soffia Ikki, stringendosi nelle
spalle con finta indifferenza. “Lo sapevamo tutti. Siamo cresciuti, Seiya. E siamo cambiati.”
“Lo so; lo so
questo” ringhia quasi, raspando aria fra i denti. “Insomma: guardami” sorride
di sbieco. “Se vent’anni fa mi avessero detto che sarei diventato Sagitter e che avrei guidato un’armata, avrei riso.
Davvero. Avrei riso” ripete, una risata sottile ad arcuare le labbra.
“Giusto per la cronaca”
sogghigna Ikki. “Io non ti ci vedo ancora, come
generale.”
“Se vuoi ti cedo il
posto.”
“No, grazie” sbuffa
Ikki, sciogliendo le braccia. “Sono un lupo
solitario, io. Lo sai.”
“Ma sei qui. Sei
venuto.”
Ikki scrolla le spalle,
come se in quel gesto ci fossero tutti i perché di ogni azione, di una verità
tanto lampante da risultate quasi irritante, nella sua semplicità. “Te l’ho
detto: Aegeon è mio” ribadisce, il cosmo ad aleggiare
minaccioso in fondo agli occhi.
“No. Non è questo”
tenta ancora Seiya. “Intendo proprio qui. Dove siamo
ora.”
“Avevo bisogno di
un po’ d’aria buona.”
“Ma se quassù sa di
cenere!”
“Appunto: è buona.”
Seiya sospira e scuote
la testa. Con Ikki bisogna essere diretti, lo sa. Con
Ikki le cose devi dirle come stanno, nella loro durezza,
nella loro crudezza. È tutta la sera che giocano a rincorrersi, lo sanno
entrambi, ed entrambi sono troppo orgogliosi ed ostinati per cedere per primi
al gioco dell’altro. Potrebbero fare a cazzotti, come quando erano ragazzi.
Potrebbero prendersi a pugni e sputarsi addosso le verità che non si vogliono
confessare in faccia. Almeno quelle verità che Seiya
ha terrore di pensare. E che Ikki sa; che Ikki ha intuito. E non sembra voler affrontare. Perché certe
cose ci vuole coraggio, per dirle a voce alta. Per renderle concrete. E sono
quelle, le cose che Ikki non ti manda a dire. Che Ikki ti sbatte in faccia con la forza di un montante, se ne
ha voglia. E se sta aspettando; se si è concesso il tempo di lasciargli
condurre quella irreale conversazione è solo perché sa, perché ha capito quanto
davvero il suo corpo e la sua mente siano al limite, ad un passo
dall’annullamento. E forse. Forse per la prima volta anche lui ha paura: paura
di Seiya.
Della follia che
gli legge nel cosmo; della determinazione malata che gli riconosce scavata nel
viso più spigoloso e sofferto, nel lucore abbacinate di Sagitter,
nella nota roca di una voce un tempo avvezza anche al riso.
“Ho avuto paura”
soffia alla fine Seiya, le gambe a dondolare nel
vuoto, oltre il parapetto semidistrutto. Si è seduto sul muricciolo, le mani
fra le gambe e il nulla sotto ai piedi.
“Quando Marte mi ha
preso.”
“Quando gli hai
consesso di prenderti.”
“Pignolo” ridacchia
con una smorfia Seiya. Ma gli è grato. Gli è grato
per quelle parole pronunciate per inciampo, gli è grato che non lo guardi e gli
volti le spalle. Gli è grato che aspetti, mentre si osserva tremare, le mani
strette fra loro.
“Quando ero…” Seiya ci pensa un attimo,
poi sorride appena a se stesso. “…laggiù. Dovunque
fosse quel posto. Ho avuto paura. Una dannata paura.”
“Perché?”
“Perché per un
istante, per un solo dannato istante, sono stato bene” mormora strizzando gli
occhi, le mani tanto strette da sbiancare. “Non. Il cosmo. Non lo sentivo più.
Cioè. Non c’era. Non. Non stava crescendo” boccheggia, cercando in fondo allo
stomaco le parole, la lucidità per descrivere quello che. No. Non lo ha neanche
provato. Lo ha sentito. Nella pelle, nella mente, in ogni fibra del suo essere.
Come il silenzio dopo una deflagrazione. Assoluto. Potente. E inquietante.
“È stata la prima
volta, Ikki” soffia infine, piegando le spalle. “Da
quando. Lo sai. Dopo i Cieli, è stata la prima volta che mi sono sentito bene.
Davvero bene. È stato un istante, ma mi sono ricordato cosa significa. Cosa
vuol dire non sentire, non essere questo” soffia. E apre la mano, che irradia
della luce delle stelle.
Ikki si volta, gli
occhi sbarrati da sorpresa e terrore. Perché il cosmo di Seiya
è ampio; ampio e potente come una galassia, come l’universo. Perché sul palmo
di Seiya danzano le stelle e nei suoi occhi si
riflettono i cieli infiniti. È come un’onda montata all’improvviso, calda e
luminosa. Troppo calda e luminosa per non venirne soffocati. E Seiya. Seiya se ne resta lì,
traslucido nei riflessi di quel cosmo, del suo cosmo, cui ha concesso per un
istante la libertà, cui ha sciolto le catene che da anni si è imposto. Per
sopravvivere.
È durato un
istante, meno del pensiero di un respiro, meno del respiro stesso. Un’eco
grande e potente che ha abbracciato tutto il colle ed è scesa giù per i pendii,
deflagrando all’improvviso per poi lasciare dietro di sé solo l’ombra di una
sensazione, di una percezione indefinita e fugace.
Ikki barcolla appena,
un mano al petto, lì dove quel cosmo caldo e potente lo ha attraversato. La
corazza è intatta; così come dal campo non proviene nessun rumore particolare,
nessun segnale d’allarme. Se l’hanno percepito, se davvero hanno percepito il cosmo
di Seiya, sembra che l’abbiano ignorato.
“Piantala di
aspettarti qualcosa” biascica Seiya, il sudore a
colare su un viso troppo pallido, il respiro un rantolo strappato ai denti. Kami. Kami se fa male. Ogni volta
che abbassa le sue difese, ogni volta che amplia il suo cosmo appena oltre il
limite, in un gesto fluido e naturale. Kami. Gli
sembra di morire. Gli sembra che ogni particella del suo cosmo esploda e si
fonda con l’universo. “Non l’ha sentito nessuno. Non lo sente mai nessuno. È in
armonia con il cosmo di Anissa. È come se fosse il
cosmo di Anissa.”
“Seiya.”
“Non guardarmi
così” sogghigna appena, ma le gambe sono pesanti e il cuore fa male e la testa
gira come una trottola. E afferrarsi al braccio che Ikki
ha disteso per riflesso è stato naturale e necessario; come respirare forte
contro il suo petto, come cercare con disperazione la forza di rilasciare Sagitter e sentirla cadere a terra con un clangore
metallico.
Ikki ringhia
un’imprecazione, mentre cerca di farlo sedere meglio contro il parapetto sbrecciato,
rincorrendo sul viso del compagno l’ombra di un miglioramento, di. Di qualsiasi
cosa possa significare che Seiya non gli creperà fra
le braccia.
“Dammi cinque
minuti” mormora Seiya, gettando indietro la testa
alla disperata ricerca di un respiro che non sappia di fuoco e strazio. “Cinque
minuti. E starò bene.”
Ikki se li sente
scorrere addosso, quei cinque minuti, spiando ogni smorfia, ogni singulto, ogni
fremito sul viso di Seiya. Osservando il pallore
diradarsi incerto e lento, nel riverbero lontano dei fuochi; ascoltando il
respiro rallentare, farsi più calmo e profondo; recuperando il bruciare
sommesso del cosmo di Sagitter, lieve come un pigolio
di stelle.
“Non. Rifarlo”
scandisce quando Seiya riesce di nuovo a socchiudere
gli occhi. “Kami. Mi hai fatto morire” aggiunge
asciugandosi il mento e sedendosi accanto a lui, sul parapetto.
“È solo scena”
cerca di scherzare Seiya, ma il sorriso è una smorfia
di dolore per una risata soffocata in gola, per i polmoni che ancora
protestano.
“Sei un pessimo
bugiardo. Dovresti saperlo.”
“Forse sono solo un
bravo attore.”
E Ikki si ritrova a stiracchiare la bocca, sbuffando con
condiscendenza. Seiya ha imparato qualcosa, negli
anni. Ha imparato una nuova irriverenza e un sarcasmo sottile, quasi elegante.
Ha imparato a utilizzare le parole soppesandole con calma. Non è prudenza, è
solo strategia, attenzione, ponderatezza. È qualcosa che Ikki
ricorda di Kanon, qualcosa che era Kanon. E si chiede se sia solo un caso, o se Seiya abbia imparato altro dal tempo trascorso con lui. Se Kanon, in qualche contorto modo, sia riuscito a insegnargli
più di dieci anni sui campi di battaglia. E si chiede se avrà mai il coraggio
di porla direttamente, quella domanda. Perché scoprire quello che Seiya ha taciuto per anni, scoprire esattamente cosa
abbiano imposto i Cieli significa scoperchiare una scatola senza sapere se ti
esploderà in mano. Significa essere disposti ad accettare un altro Seiya.
Non il Seiya dei quindici anni, e nemmeno il Seiya
che veste Sagitter. Né il generale fedele né l’uomo
devoto. Significa accettare un Seiya più cinico,
tanto disilluso da aggrapparsi con la disperazione ad una devozione che ha i
contorni della blasfemia.
Significa accettare
che è cambiato, che è diventato qualcosa che né lui né gli altri potrebbero
riconoscere, saprebbero accettare. E significa rendersi conto di non esserci
stati, per afferrarlo prima che cadesse. Di averlo solo lasciato andare.
Anche se implorava
di raccattarlo con un sorriso spensierato stampato in faccia.
“Pazzo incosciente”
borbotta Ikki, quando il silenzio è tornato ad essere
il respiro lento di Seiya e il battito regolare del
suo cuore; quando Sagitter si è ricomposta silenziosa
al fianco del suo portatore, offrendogli il riverbero caldo dell’oro che i
fuochi lontani strappano nella notte.
“Per tutti questi
anni” considera Ikki, con un sottile riso isterico
che sa di sorpresa e gli occhi sottili che lo fissano in un modo. In quel modo
che Seiya sa nascondere la rabbia e la frustrazione.
Nascondere qualcosa che si aggroviglia nello stomaco, profonda e fastidiosa.
Come disagio. Come il disagio di essersi fatti fregare da un amico, da
quell’amico che è cresciuto con lui.
“Non hai detto
niente. Kami. Seiya. Una
cosa così. Così. E non hai mai detto niente.”
“Non è che l’abbia
proprio fatto di proposito. Sai?” mormora Seiya,
stringendosi nelle spalle. Gli fa male il petto, e gli sembra che tutto il
corpo sia passato sotto un rullo compressore. Kami. È
esausto. La pelle si increspa ad ogni refolo di vento e l’aria mischiata di
cenere e fumo brucia nei polmoni.
“Ci mancherebbe
questa” sbuffa ancora Ikki, piegandosi sulle
ginocchia. “Ma lo hai fatto. Seiya. Ci hai tagliato
fuori. Ci” scuote la testa, senza riuscire ad accettarlo. Ad accettare che
l’uomo che gli rantola di fronte sia lo stesso di tanti anni prima, sia lo
stesso ragazzo che non riusciva a frenare le parole e che per chiudergli la
bocca dovevi tappargliela. E soprattutto di non essersene accorto, di aver
immaginato che il cosmo di Seiya sempre più vasto
fosse la sua volontà che si ampliava, fosse la sua determinazione che cresceva,
con il conforto sicuro delle stelle.
E non. Non sa
nemmeno come definirla. Non quella cosa.
Quel cosmo. Il cosmo di Anissa. Il cosmo di Anissa intrecciato a Sagitter. Quel
cosmo tanto vasto, potente e devastante che basta un attimo perché fagociti
tutto.
“E cosa avrei
dovuto dirvi?”
Il sorriso stanco
di Seiya fa male. Perché sembra il sogghigno ironico
di chi non si aspetta più nulla, di chi è pronto ad accettare ogni cosa con
l’indifferenza dell’estraneità. Come se Seiya non
stesse parlando di se stesso, non stesse parlando della sua, di vita.
“Pensaci, Ikki. Dopo quello che era successo. Cosa avrei dovuti
dirvi? Cosa?” gli chiede piano, con una calma innaturale che Ikki non ricorda di avergli mai conosciuto, di avergli mai
visto. E che fa paura. Una fottuta paura, anche se viene da un corpo che sembra
sul punto di collassare. Forse proprio perché viene da un corpo che sembra reggersi
ancora solo per disperata volontà.
“Magari potevi
provare con la verità” tenta Ikki, e si sente un
bastardo. Perché lui per primo non è mai stato incline alle confidenze. Ma
vedere Seiya. Vedere Seiya
in quello stato, realizzare cosa ha sopportato negli anni, a cosa si è
sottoposto negli anni. Fa male. Kami se fa male. Come
non credeva di essere ancora in grado di provarne. Come non credeva che non sarebbe
più riuscito a provarne.
“Ah. Detta da te,
questa, è epica” ride Seiya senza allegria.
“Ok. Forse non sono
nella posizione per criticare. Neanch’io vado a
raccontarli in giro, i fatti miei” gli concede Ikki,
stringendogli più forte le braccia e obbligandolo a prestagli attenzione. “Ma
guardati, Seiya. Guardati! Guarda a che punto sei
arrivato. Quanto speri di reggere, eh? Se sforzi troppo, rischi che ti scoppi
il cuore. E non sto usando una metafora.”
“Reggerò fin quando
potrò” minimizza Seiya, una scrollata di spalle che
affetta indifferenza mal celata. “Fino a quando Anissa
sarà al sicuro.”
“Saori non sarà mai veramente al sicuro” gli ricorda Ikki. “E tu. Tu vuoi farmi bere questa stronzata del fino a quando…Seiya! E di Saori
che stai parlando. È della donna che…”
“Non dirlo!”
Perché sentirlo
dire è dar corpo a una realtà che spaventa, che annichilisce. È rendere
concreta la più dolce delle sensazioni e la più atroce delle blasfemie. Perché
si è promesso che i suoi sentimenti, i suoi desideri, sarebbero per sempre
rimasti lì, sospesi in quel qualcosa che non ha nome né aspetto. Sospesi nel
ricordo di un bacio consumato nel gorgoglio di acqua traslucida di cosmo. L’ha
amata; in quel bacio che lei gli ha concesso, l’ha amata come non potrà mai più
fare. E già in quell’istante il suo cosmo cresceva premendo contro la sua
volontà. Già Sagitter si stava espandendo, cozzando
contro la risolutezza di Seiya ad arginarlo, mentre
il cuore piano piano iniziava a incrinarsi,
lentamente e senza ritorno.
“Che casino!”
sbuffa infine Ikki, sedendosi con lui sul muro, sotto
quel cielo d’autunno ormai stellato, respirando piano l’odore di terra smossa e
di cenere che sale dalle pendici del Monte, in folate sempre più rade.
“Che hai intenzione
di fare?” gli chiede alla fine.
“Quello che ho
sempre fatto” replica Seiya, e raccoglie l’elmo di Sagitter, carezzandone le decorazioni sbalzate nell’oro e
ricordando l’eccitazione della prima volta che lo ha sentito cingergli la
fronte, davanti ad Anissa.
“Quindi vuoi farti
ammazzare. Perfetto! Davvero.”
“Ikki” sorride piano Seiya. “Non
ho ambizioni suicide. Te lo posso giurare.”
“Ho i miei dubbi,
in proposito” brontola Ikki, alzandosi in piedi nelle
spalle e girandosi a osservare la città che si stende ai piedi del Monte,
silenziosa e quasi completamente avvolta nella notte. Cercando il chiarore dei
focolai dei sopravvissuti e l’alone degli incendi che stanno divorando quel
pezzetto di mondo. E poi ancora. Oltre la torre diroccata nella piazza della
Signoria, fino alla mole di una cupola perfetta, gli spicchi delle arcate a
sfidare il cielo nel loro lucore innaturale.
“Non dirai niente”
mormora alla fine Ikki. “A Saori.
O agli altri.”
“Era sottinteso”
annuisce appena Seiya. “E non lo farai nemmeno tu”
gli dice, con un’ovvietà disarmante e quasi infantile, mentre Sagitter obbedisce docile al suo comando e si posa
nuovamente sul corpo stanco e provato di un uomo, di un ragazzo la cui unica
forza è una determinazione talmente profonda e devastante da sfidare gli dei;
un amore così intenso e blasfemo da esser diventato una droga irrinunciabile.
Non avrebbe voluto
svelare il suo segreto. Ma è contento. È contento che ci sia qualcun altro, di
nuovo, a condividerlo, quel segreto. A sapere quello che veramente lo sta
distruggendo. Dopo Kanon, non ne ha più parlato con
nessuno. E ha creato il vuoto attorno a sé, per paura che il cosmo che si sta
espandendo nel suo animo lo possa sopraffare e annienti chi gli è accanto. Dopo
Kanon, quel segreto è stata la sua forza e la sua
dannazione, e l’abisso si è spalancato dopo i quindici anni di prigionia di Marte.
Nell’attimo in cui, prima di scomparire nelle pieghe dell’universo, Seiya ha realizzato che avrebbe potuto annientare Marte
solo volendolo. Che il suo cosmo, libero di agire, avrebbe straziato il corpo
di stelle e galassie di Marte.
Lo avrebbe potuto
uccidere.
Se solo avesse
voluto, aveva realizzato in quell’ultimo eterno istante; se solo avesse voluto,
Marte non sarebbe più stato. E quella consapevolezza gli aveva bruciato il
cervello e distrutto ogni certezza. Perché con la consapevolezza era esploso il
desiderio, era serpeggiato suadente il pensiero che sì, forse poteva uccidere
anche in quel modo. Straziando carni e cosmo; come un dio. Come solo un dio
potrebbe ambire a fare. E la tentazione sottile di cosa avrebbe visto negli
occhi di Anissa se il corpo di Marte fosse stato
offerto al suo nome in pezzi, e lui davanti a lei, alla sua dea, sporco di
sangue blu dai riflessi delle stelle.
Si era chiesto. E
aveva sentito il terrore e lo sgomento montare assieme al desiderio e alla
tentazione. Aveva sentito il cosmo ampliarsi fino ai limiti della sua
costellazione e travalicarli, diventando altro. Diventando la distorsione del
cosmo di Anissa, una sua copia empia e blasfema.
Pronta a difendersi; pronta a uccidere.
L’aveva sentito;
l’aveva vissuto in ogni fibra del suo essere. E l’aveva confinato con
disperazione e orrore in sé, accettando il giogo di Marte come una liberazione.
Come quell’aiuto inaspettato e necessario che capita solo per inciampo. Almeno
fino a quando Marte non era stato sconfitto e lui liberato, assieme alla consapevolezza
che continuava a corrodergli il corpo e il cosmo. Quella maledizione che aveva
deciso di accettare un lontano giorno, sotto il sole etereo d’Olimpo. Quando il
prezzo per restare accanto ad Anissa era stato una
stilla del cosmo di lei avvolta nel suo, e la consapevolezza di una vita che
brucerà come una cometa.
“No. Non lo farò”
concede alla fine Ikki, massaggiandosi la radice del
naso in gesto che rivela tutta la sua stanchezza. “Ma lasciatelo dire: sei un
bastardo. Ti farai ammazzare come un cane.”
“Ora non
esageriamo” ridacchia Seiya. “La vedi peggio di
quello che è. Non è detto che si debba arrivare a quel punto. Non ha ancora
perso il controllo. E forse non lo perderò mai” prova a illudersi. Sapendolo. “Non
fare l’uccellaccio del malaugurio.”
“Sono solo
realista.”
“Ti odio quando lo
sei.”
“Qualcuno deve pur
tenerti con i piedi per terra. Hai la sgradevole tendenza ai colpi di testa,
tu.”
“Che ci vuoi fare”
ride ancora Seiya. “Vizi di gioventù.”
Ikki accenna una
smorfia, mentre si sposta appena di lato, una gamba sollevata contro parapetto sbecciato.
“Odio i martiri. Te
l’ho detto. E tu vuoi fare il martire” inizia poi, nel silenzio irreale di una
notte d’autunno, sopra un campo che sonnecchia nell’attesa snervante di una
nuova giornata di battaglia, di onori e di morte.
“Io voglio
combattere. È diverso.”
“Stronzate” ringhia
Ikki. “Tu hai bisogno di combattere. E pensi che
ormai sia solo questione di tempo. Prima che Sagitter
esploda. E pensi allora tanto vale farlo sacrificandosi.”
Seiya deglutisce a
vuoto. Soppesando una verità sbattutagli in faccia con la violenza di uno
schiaffo, con la causticità della realtà da affrontare senza mezzi termini e
mezze misure. Elaborando quello che lui per primo non ha mai avuto il coraggio
di concepire.
“Ma questa è una
guerra. E in guerra si crepa. Lo sappiamo entrambi” riprende Ikki, stringendo nel pungo guantato
una manciata di terra umida appena raccattata da terra. “È uno schifo. Ma lo
abbiamo scelto. Potevamo andarcene, e non l’abbiamo fatto. Né tu né io.”
Seiya annuisce, negli
occhi la serietà del soldato e la disillusione dell’uomo. Sa cosa Ikki vuole dirgli, lo ha capito dal modo che ha di guardare
il mondo, di arricciare le labbra in quel sorriso sardonico che gli conosce da
sempre.
“Forse domani
vinceremo; forse no. Forse qualche bastardo ci fotterà; o forse lo fotteremo
noi. Anzi: più probabilmente lo fotteremo noi” ride di una risata roca, quasi
malata. Del singulto del soldato che si dà coraggio di una sicurezza che
diventa l’ancora cui aggrapparsi per strappare un giorno in più alla vita.
“Ma ricordati
questo, Seiya.”
Ikki non ha mai amato
molto il contatto fisico; si è sempre limitato a qualche ammiccamento. Eppure
in quel momento la mano che Seiya sente premere sul coprispalla è grande e forte; è la mano di un uomo che
stringe con disperazione e ha negli occhi il riverbero di un cosmo violento e
feroce.
“Se farai il
martire; se ti vuoi far ammazzare solo per una tua qualche stronzata idealista.
Allora creperai senza che io muova un dito. E sai che sono capace di farlo” e
la mano stringe con più forza, mentre Seiya sente
nella gola un nodo di. Non lo sa nemmeno lui di cosa. Come nostalgia. “Ma se
creperai perché vuoi vivere, allora guardati attorno. E mi troverai.”
“Se è un augurio
per la battaglia, Ikki, fa davvero schifo.”
“Una volta un tizio
mi ha detto che si combatte per vivere, non per crepare” ricorda Ikki, un gesto fugace nell’aria. “Aveva ragione.”
“Doveva essere un
tizio molto saggio.”
“Per niente”
sogghigna Ikki. “Era solo molto convinto di quello
che diceva.”
“Uh. Capisco”
sorride Seiya, infilandosi l’elmo. “Lo conosco?”
“Mh. Forse” ammicca Ikki. “Da
allora ha fatto carriera, ma resta lo stesso un vero cocciuto. Uno di quelli
che hanno la brutta abitudine di fare i martiri, appunto. Anche se poi hanno la
faccia tosta di dirti che devi vivere.”
“Sembra simpatico”
ride Seiya, mentre le ali di Sagitter
si spiegano con riflessi d’oro fulvo e lo rapiscono al lieve refolo che sale
dal fiume. “Me lo devi presentare.”
“Oh, certo. Ma non
è niente di speciale” mormora infine Ikki, mentre reindossa l’elmo e segue con gli occhi la scia di Sagitter lungo il Monte, fino alla tenda di Anissa.
“È solo uno dei
miei migliori amici.”