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Autore: claws    03/02/2017    0 recensioni
Due shot di guerra, Ace & Smoker (trattati in maniera tutt'altro che romantica).
Il suono della campana raggiunge gli estremi del continente: Ecco, quella mattina quasi era impazzito tra il rimbombare delle onde e i fulmini dei fucili e dei lanciarazzi, mentre ormai, quella stessa sera, si trovava con un piede nella fossa – una fossa senza nome e in terra straniera. Una gioia, insomma.
La spada del destino ha due lame: una sei tu (I nostri secoli sotto il sole): Fino alla morte per i propri princìpi o per i propri prìncipi? Questo si domandava l’ufficiale cavaliere di Siwy, un ottimo cavallo da guerra dal mantello grigio cenere, mentre cavalcavano verso Sud, gareggiando con il tempo stesso.
Genere: Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Portuguese D. Ace, Smoker
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Segnali di fumo

 

 

 

 

All these sounds still echo in my mind,

and as conducted by death himself it all comes together as music.

A rhythm of death

A symphony of war

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Avvertimenti: War!AU, morte di un personaggio principale, nomi di luoghi veri storpiati perché è un universo alternativo anche al nostro.

 

 

 

 

 

Il suono della campana raggiunge gli estremi del continente

Worthy of my undying regard

 

Se mai fosse tornato vivo da quella guerra (l’aveva giurato) avrebbe comprato una di quelle stupide case sul Miccisippi, una di quelle che si espandeva non in larghezza sulla riva del fiume, bensì in lunghezza – una di quelle vecchie case di proprietari terrieri che non volevano pagare le tasse per avere la camera da letto con vista sul fiume.

Ma ehi, tanto non sarebbe tornato vivo per nulla, vista la situazione in cui era riuscito a cacciarsi. E pensare che, solo quella stessa mattina, si trovava sulla spiaggia, alla foce di un qualche fiume dal nome improponibile, a fare surf mentre il napalm bruciava un intero villaggio nemico: certo, un surf estremo, ma quando è il colonnello a ordinare ai propri sottoposti di fare surf perché ci sono delle splendide onde e sarebbe un peccato non sfruttarle, che cosa può fare un semplice soldato?

(Si era anche divertito: da secoli non solcava delle onde così alte!)

Ecco, quella mattina quasi era impazzito tra il rimbombare delle onde e i fulmini dei fucili e dei lanciarazzi, mentre ormai, quella stessa sera, si trovava con un piede nella fossa – una fossa senza nome e in terra straniera. Una gioia, insomma. Non avrebbe mai più rivisto la propria famiglia, con un fratello troppo piccolo per la guerra e un altro lontano abbastanza da essere considerato da tutti come obiettore di coscienza; non avrebbe mai comperato quella stupida casa sul Miccisippi; non avrebbe mai avuto quel posto nella Galley-la, quello che aveva adocchiato da quando la compagnia aveva deciso di costruire un intero centro finanziario operativo a New Water 7; non avrebbe mai potuto esaudire tutti questi desideri, perché durante la ricognizione di quel tardo pomeriggio, nel mezzo di quella dannatissima giungla umida e di uno scontro a fuoco improvviso, aveva perso di vista il proprio gruppo e il fucile aveva smesso di funzionare, maledetto arnese. La polvere che si era sollevata nella lotta l’aveva accecato, le grida (in lingue conosciute e sconosciute) gli avevano attraversato le orecchie come dei rombi di aerei, e aveva visto un compagno cadere prima di finire a terra, con la schiena contro un albero e con la sensazione di una morte viscida attaccata al collo. Aveva ancora due soli caricatori e cercare di sistemare la carabina al buio non sembrava portare risultati concreti: per di più accendere la torcia o chiamare aiuto con un razzo di segnalazione era fuori discussione, visto come il luogo brulicava di nemici. Era davvero riuscito a scavarsi la fossa da solo, e quei bastardi avrebbero dovuto soltanto piantargli un proiettile in testa per porre fine a tutte le sue preoccupazioni.

Là, piantato nella giungla, schiacciato contro le radici di un’enorme pianta come il muschio ha presa salda sulle pietre, sentì i passi dei nemici smuovere il terreno. Si rannicchiò il più possibile contro l’albero e smise di respirare: sotto l’elmetto il sangue pulsava come l’acqua in un idrante, mentre le mani tremavano per l’eccitazione e l’adrenalina. Non era una persona paurosa, ma trovarsi a qualche metro dalla morte, a vent’anni, quando aveva combattuto soltanto contro degli animali feroci (e mai contro degli uomini!), era un’esperienza traumatizzante. Forse solo sopravvivere a una malattia mostruosa gli avrebbe tolto qualsiasi paura – soprattutto quella di finire nelle mani di quei bastardi e vedersi tolta la libertà.

La gabbia: bastava che la immaginasse, che quella gli annebbiava la vista. Tutto, ma non la gabbia. La morte, ma non la gabbia.

Il rametto che qualcuno aveva spezzato sotto i piedi era troppo vicino. Non si accorse di aver stretto i denti come quando si sta per essere operati senza anestesia.

Trasalì quando qualcuno, nel buio, appoggiò una mano accanto alla sua testa, contro la corteccia della pianta. «Aspetta» aveva detto l’individuo, in una lingua comprensibile (benché appena un sussurro); poi si era chinato per essere faccia a faccia con il nostro giovane soldato, in modo che la poca luce lunare colpisse gli occhi e dimostrasse di essere un alleato. «I nostri nemici ora avranno due soldati da colpire, non uno solo.»

Non era ironia tra commilitoni: quel marine comparso all’improvviso (o meglio, solo dopo un rametto spezzato) era più serio del colonnello che, quella mattina, aveva spronato i propri sottoposti a fare surf sul campo di battaglia, mentre la battaglia infuriava – e sì, il colonnello era stato accigliato e severo come a un funerale di Stato. Il nostro soldato annuì, rincuorato dalla comparsa di un marine che non aveva mai visto prima. Aveva le cicatrici di un veterano e l’addestramento di un reparto speciale. «Grazie,» disse il nostro, e dopo essersi presentato chiese: «Qual è il tuo nome?»

«Mi chiamavano Helbleidd, al campo,» rispose il marine (alto come una montagna, constatò il nostro). «Se hai una Beretta o qualcosa del genere, tienitela stretta. Ci servirà, visto che la tua carabina è inservibile.»

Ehi, Helbleidd suonava bene. Gli ricordava il fatto di essere dalle parti dell’inferno: doveva ancora prendere una cartolina e portarla ai propri fratelli. Non poteva morire lì – non quando aveva incontrato un uomo in grado di aiutarlo a uscire da quella giungla.

Helbleidd aveva in bocca una sigaretta spenta, ancora intatta. Il nostro giovane soldato si domandò non tanto perché non l’avesse ancora accesa, bensì da dove arrivasse il fumo che si arricciava attorno alla testa di Helbleidd: sembrava quasi un fuoco fatuo (grigio, però), piuttosto che il fumo di un falò o di un campo. Il nostro rimase in silenzio, specie perché il nemico era vicino.

(Perché stavano combattendo quella guerra? Non se lo ricordava benissimo: di certo era più facile richiamare alla mente la mattina sulla tavola da surf o la sera prima, quando c’era stato quello spettacolo di belle ragazze sull’isola precedente. Belle ragazze davvero.)

«Arrivano» aveva detto il marine infernale, imbracciando il fucile e proteggendosi dietro un tronco d’albero. Il nostro aveva appena fatto in tempo a nascondersi che un proiettile venne sparato da uno dei ricognitori nemici e fulminò l’aria a qualche centimetro dalla sua faccia. Helbleidd uscì dalla copertura per fare fuoco.

«Atten—» stava per sussurrare il giovane, quando vide una pallottola filare diritta attraverso la testa di Helbleidd. Era certo che il grosso soldato sarebbe caduto a terra, morto, e che lui da solo avrebbe dovuto combattere nel buio: per questo motivo sparò un colpo di disperazione. Dopo un secondo, vide che invece il marine era rimasto in piedi, illeso, senza smettere di sparare, con la precisione di una Diana (d’altronde era notte e Apollo è una creatura diurna) e le urla dei feriti come sottofondo orrorifico. In un certo qual modo, si trattava di una scena entusiasmante – gli parve che qualcuno gli avesse iniettato dell’eccitante direttamente nel braccio, perché sollevò la pistola e tese l’orecchio, prima di entrare nella linea di fuoco e di sparare un colpo, poi un altro, una capriola fino all’albero successivo per riprendere fiato e giù di nuovo nella sparatoria, con Helbleidd al fianco che evitava i proiettili in qualche maniera malefica. Sembrava esser costituito non da carne e ossa, ma da puro gas – puro fumo, quel fumo che non proveniva dalla sigaretta (ma dunque da dove arrivava?) –, e con quello respingeva tutti gli artigli della morte.

Sembrava un miraggio disegnato a pennello per un soldato sul ciglio dell’abisso: un miraggio, già, eppure era saldo come una roccia e tangibile come la stanchezza dopo una battaglia.

Il nostro giovane soldato non poté sapere con precisione per quanto tempo Helbleidd restò in piedi, consumando un caricatore dopo l’altro, mentre lui doveva tenersi ben stretto quei trenta proiettili della propria pistola. Fortunatamente bastarono, da parte sua; quando, prima dell’alba, Helbleidd si lanciò al fianco del giovane, con il fiato corto e l’ultimo caricatore pronto, sentì che quella era un’occasione per vivere – perché la morte era così vicina, ma così vicina—

«Fuoco di copertura. Striscia fuori dalla vista e io ti raggiungerò. Da quella parte, oltre un fiumiciattolo.» Helbleidd indicò il cielo che si intravedeva tra le piante e che stava schiarendosi piano.

Il nostro annuì, senza neanche tentare di opporsi alla decisione: avendo visto combattere il marine, decise di lasciargli il campo. Quello evitava i colpi nemici come se fosse un fantasma, mentre lui sapeva bene di non essere in grado di compiere simili meraviglie. Una parte di lui avrebbe voluto rimanere lì e combattere fino alla fine, come aveva fatto per ogni singola battaglia vissuta in precedenza; un’altra era stata colpita dalle mani di Helbleidd, quelle di un veterano, quelle che da piccolo associava o al nonno o a qualche capitano di ventura dei vecchi libri del bar giù al porto – e dagli occhi risoluti di un uomo che, costi quello che costi, avrebbe salvato un altro uomo.

(Forse era senso del dovere...? E non l’aveva nemmeno visto così bene, al buio, però aveva avvertito tutto questo, compreso il senso di sicurezza dato dalle indicazioni abbastanza precise sulla loro posizione e quella del campo. Forse la prossimità alla morte causava di queste burle.)

Helbleidd si rialzò per l’ultima resistenza, mentre il giovane soldato, rannicchiato, cominciò a camminare cercando di non far rumore. Scansava i rametti e le foglie secche con determinazione, senza dimenticare l’addestramento impartitogli, pensando solo a seguire il sole e a trovare una fonte d’acqua – era poco più avanti, e sembrava tutto sospettosamente tranquillo.

Il marine ricomparve all’ultimo momento – ultimo perché il nostro ragazzo si era trovato nel mirino di un soldato nemico, che aveva avuto il tempo necessario a scrivere Portgas sul proiettile, a prendere la mira e a sparare: nell’arco di tempo necessario alla pallottola per raggiungere la testa del giovane, Helbleidd l’aveva raggiunto e aveva cacciato via il colpo come se fosse stato una minuscola, insignificante mosca. L’aveva scacciato con una mano, quella da veterano o da capitano di ventura, guardandola con gli occhi risoluti di un salvatore d’uomo.

Anche il soldato nemico rimase sorpreso quanto il nostro – ma finì a terra, accoltellato, mentre marine e giovane ripresero a correre come due lupi incontro al sole.

Il nostro giovane soldato, quando giunse assieme a Helbleidd nei pressi dell’accampamento, si levò il sudore dalla fronte con una mano e ringraziò il marine che l’aveva cavato fuori da una pessima situazione. L’uomo, scrollando le spalle, si limitò ad annuire e a scivolare di nuovo nella giungla, verso il sole che avrebbe presto cominciato a salire dietro le piante più alte.

Ora aveva una gran storia da raccontare: quando il resto della truppa lo vide ancora in piedi, fu praticamente trascinato fino al primo medico del campo che trovarono.

«Un soldato chiamato Helbleidd? Perdio!» Esclamò il vecchio medico, che aveva appena finito di applicargli dei punti in faccia. Con uno scatto inaspettato, il dottore si diresse verso un’altra tenda, e il nostro lo seguì, pensando che quel vecchio scheletro gli ricordava lo spirito della donna che aveva allevato lui e i suoi fratelli. «Certo che lo conosciamo! È qui.»

Come poteva esser lì, se si era rifugiato di nuovo nella foresta? Il nostro aveva ipotizzato che fosse andato a cercare altri dispersi, com’era stato nel suo caso; invece, in quella tenda da obitorio, su un tavolo giaceva un uomo che per stazza e per mani era di certo comparabile a Helbleidd. Sollevato il telo sulla sua testa, si rese conto che anche il viso e i capelli erano simili a quelli di Helbleidd, per quello che ne aveva visto e che si ricordava.

«Ragazzo, forse hai raccontato una storia vera,» continuò il medico, «ma questo è l’uomo che cerchi, Helbleidd, ed è qui da ieri sera, quando è spirato.»

Lo fissò a lungo. Un’illuminazione nacque nella mente del nostro soldato, come se una lampadina si fosse accesa o come se una campanella avesse cominciato a squillare: quell’uomo ormai spento era e non era il suo salvatore. Portgas era salvatore di se stesso attraverso la proiezione di un altro uomo, così come ogni uomo appartiene a se stesso e all’umanità – era stata solo una piccola sensazione, eppure l’aveva consolato, dopo aver appoggiato le mani sul bordo del tavolo per sollevare il telo che copriva il volto di Helbleidd. Uno sconosciuto gli aveva salvato la vita e, da quel momento in avanti, a questo soldato di cui conosceva solo le mani e gli occhi avrebbe portato grande rispetto; nella casa sul Miccisippi, davanti ai propri fratelli, avrebbe potuto raccontare dell’onore che gli fu offerto quando il medico gli porse le targhette identificative di Helbleidd.

«Da ieri sera?» Chiese il ragazzo, rigirandosi le placchette tra le mani.

Il medico annuì, e poi aggiunse: «Prima di morire per un’infezione piuttosto grave, disse che avrebbe fatto giustizia, e che il suo ultimo desiderio era di salvare un soldato circondato dai nemici. Sentita la tua storia, ragazzo, sta bene che tu prenda le sue targhette.»

Il nome Helbleidd era stato inciso con un coltellino o con un cavatappi, qualcosa del genere, sotto il suo vero nome. Non c’era dubbio: quella sigaretta spenta che Helbleidd aveva tenuto in bocca per tutta la notte doveva essere un segno del destino, visto che in vita il marine si era chiamato Smoker.

 

Portgas se ne uscì dalla tenda dei morti con le targhettine di Smoker in mano, abbandonando la pistola su qualche cassa in disordine, e decise di farsi un giro di surf in onore dello spettro infernale che l’aveva tirato fuori dalla giovinezza, che aveva superato con lui la linea d’ombra del loro tempo di guerra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

Il sottotitolo alla raccolta viene da Diary of An Unknown Soldier, dei Sabaton.

Storia scritta grazie alla canzone chiamata Camouflage, che parla proprio di una storia del genere. Una cover di questa canzone è dei Sabaton, ormai saprete che li adoro.

Fatemi sapere se convenga inserire l’avvertimento OOC: onestamente? A me così paiono, ma ad altri potrebbero risultare in maniera diversa. Ai posteri l’ardua sentenza. Ho deciso che, per una volta, mi poteva andar bene così.

Helbleidd › di per sè, questo nome non significa nulla in nessuna lingua esistente. Blaidd, se non sbaglio, vale lupo grigio in gallese, il che mi sembrava appropriato per Smoker (ed è diventato bleidd). La radice hale- in gallese si riferisce alla caccia. Smoker è il Cacciatore Bianco, dunque ho messo insieme le varie cose. Helbleidd, con una pronuncia un po’ stramba, può sembrare l’inglese Hell Blade. (Per questo nome si ringrazi Geralt di Rivia e l’autore della bellissima serie di libri a lui dedicata.)

La linea d’ombra, libro di Conrad, è un’opera che consiglio a tutti. Il sottotitolo della storia è una citazione proprio dalla Linea d’Ombra.

Il titolo è un adattamento dal pensiero di John Donne: «No man is an island, entire of itself; every man is a piece of the continent, a part of the main. [...] Each man’s death diminishes me, for I am involved in mankind. Therefore never send to know for whom the bell tolls; it tolls for thee.»
Tradotto (malamente) dalla sottoscritta: «Nessun uomo è un’isola, completo di per se stesso; ogni uomo è un pezzo di continente, una parte dell’intero/tutto. La singola morte di un uomo mi sminuisce/diminuisce, perché io faccio parte dell’umanità. Perciò non mandare mai a chiedere per chi suoni la campana [che suona a morto]: suona per te.»

Si ringrazi anche il film Apocalypse Now. Qualcuno riconoscerà il surf, il colonnello e le belle ragazze.

Questa è la prima parte di una mini-raccolta di due capitoli a tema guerra&SmoAce (SmoAce trattato in maniera tutt’altro che romantica, a dire il vero. Pace). Inizialmente doveva essere una raccoltona mega-gigante di cinquanta shots SmoAce (speculare, per certi versi, a Indice di fuoco), ma mi son resa conto che venti ne ho cominciate, e una sola – in cinque mesi – ho finito, mentre solo due sono quelle che voglio finire. (don’t worry, me still loves SmoAce. Spero che qualcun altro prosegua nella scia della SmoAce, perché ne ho bisogno.)

Grazie per aver letto, per tutto il sostegno, per tutto quanto.

Stay safe!

claws_Jo

 





Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Eiichiro Oda; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

  
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