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Autore: Itsamess    05/02/2017    1 recensioni
[La la land]
[La la land]«Ci pensi mai, a come sarebbe potuta andare?» gli chiese lei in fretta, come se quella domanda le fosse stata in bilico sulle labbra tutto il tempo e solo allora avesse finalmente perso l'equilibrio. «Se qualcosa fosse andato storto – o per il verso giusto - se avessimo fatto entrambi scelte diverse?» Sebastian soffocò una risata amara. Se ci penso? Lo suono ogni sera. Suono la nostra versione della storia, suono di valzer fra le stelle e di muri della cucina dipinti di giallo, di un bambino biondo, di viaggi in auto e clacson rotti da vicini esasperati.
Seconda classificata al contest Rivelazioni del 2017 - Scegli la tua! indetto da gnarly sul forum.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Un'altra volta, con sentimento


Sentire di nuovo la voce di Mia dopo anni gli aveva dato la stessa dolceamara sensazione che si prova nel riascoltare per caso alla radio quella che un tempo era la nostra canzone preferita, di cui forse non ricordiamo più tutte le parole ma conosciamo alla perfezione la melodia.

«Pronto?»

«Mia! Ciao… sono- »

«Sebastian. Mi fa piacere sentirti.»

«Anche a me.»

Era stato lui a chiamarla.
Non direttamente, certo, perché per ragioni di riservatezza una star del suo calibro non poteva essere presente sul normale elenco telefonico dello Stato della California. Sebastian aveva dovuto tempestare di decine di mail la sua agente, ripetendole all'infinito di non essere uno stalker ossessionato dalla celebrità hollywoodiane, né un giornalista a caccia di scoop, ma soltanto un vecchio amico di Mia che cercava un modo di mettersi in contatto con lei.
Alla fine, dopo innumerevoli contrattazioni, avevano acconsentito a passargliela con la perentoria raccomandazione di non trattenerla troppo a lungo, perché la aspettavano per un servizio fotografico e non poteva fare tardi.

Sebastian avrebbe volentieri evitato di chiamarla mentre stava lavorando, eppure aveva già provato a contattarla sul suo numero privato senza successo. Era infatti saltato fuori che il suo vecchio numero di telefono - quello che tante volte in passato lui aveva chiamato per invitarla a cena o ricordarle di comprare il latte o semplicemente per ascoltare la sua voce prima di un concerto con la band - non risultava più attivo.
Scoprirlo era stato in qualche modo un sollievo, perché aveva permesso a Sebastian di credere che fosse quella la ragione per la quale Mia non aveva risposto alle sue chiamate, in quegli ultimi cinque anni. O almeno quella era la bugia che amava raccontare a se stesso quando la nostalgia di lei diventava insopportabile.

«Complimenti per il locale… È splendido.»

«Sono felice che ti piaccia.»

«Molto... Avrei voluto dirtelo l'altra sera, ma purtroppo non abbiamo avuto modo di parlare, c'era così tanta gente…»

«In realtà è così quasi ogni sera. Ormai abbiamo il nostro pubblico di affezionati avventori.»

«Immagino..  Devi essere fiero di te, Seb… ce l'hai fatta. Hai tutto ciò che hai sempre sognato.»

Non tutto, si ritrovò a pensare lui, mentre l'immagine fugace di una ragazza che lo prendeva a cuscinate per essersi fissato con un nome per il locale che non sarebbe piaciuto a nessuno gli incupiva lo sguardo. In tutti i suoi sogni, in tutte le sue fantasie, in tutte le sue aspettative per il futuro, Mia era sempre presente, come un'alterazione in chiave che non deve essere specificata in ogni battuta perché si applica all'intero spartito.

Invece il destino aveva deciso diversamente, lasciando che le loro strade divergessero piano senza che nessuno dei due potesse fare niente per impedirlo. Mia era partita per Parigi e Sebastian si era ritrovato di nuovo solo nella città di stelle, che allora aveva brillato soltanto per lui, ma molto meno luminosa di quanto ricordasse.

«Senti… ti chiamo per dirti che ho ancora delle cose tue, in casa. Posso fartele recapitare, se mi dai un indirizzo a cui-»

«No. No, passo io.»

«Ok.»

«A che ora ti darei meno fastidio?»

«Il Seb's apre alle sette e trenta, ma io devo essere lì un po' prima per parlare con i musicisti…»

«Passo alle sei. Va bene alle sei?»

«Sì, va bene.»

«Allora a dopo.»

«Ti aspetto.»

A Sebastian sembrava di non aver fatto altro che aspettarla, in quegli ultimi cinque anni.
Qualche ora in più o in meno non avrebbe fatto la differenza.
 
---
 
Se c'era una cosa che Mia aveva imparato fra aerei, taxi e camere d'albergo era che non è sicuro ritornare in uno stesso posto dopo anni.
Si può cadere nella tentazione di andare alla ricerca delle differenze fra il nostro ricordo e la realtà, facendo caso più del dovuto ad ogni minimo cambiamento  – quella lampada era più a destra? Le tende non erano azzurre? – quando il più delle volte siamo noi a non essere più gli stessi.
E Mia sapeva di essere cambiata.

Era partita da Los Angeles con una valigia piena di insicurezze e vi era ritornata a bordo di un volo di prima classe finanziato dalla sua casa di produzione, mentre una folla di giornalisti urlava il suo nome fuori dall'aeroporto. Quell'improvvisa popolarità non le interessava di per sé perché la fama non era mai stata il motivo per cui aveva desiderato un'attrice, tuttavia riusciva ad infonderle fiducia sulle proprie potenzialità: aveva passato anni a credere di non essere abbastanza brava, abbastanza bella, abbastanza brillante… e poi era arrivata Parigi.

L'occasione di una vita, nata dall'audizione più straziante e vera che avesse mai fatto, l'unica audizione in cui avesse pianto per ciò che provava e non per esigenze sceniche. I registi ne erano rimasti colpiti. L'avevano presa, la parte era stata sua. Sua nel senso letterale del termine, dato che aveva contribuito a scriverne la maggior parte delle battute. In a quei lunghi mesi di prove e riprese il film le era stato cucito addosso, così come gli abiti di alta sartoria che aveva indossato alle innumerevoli premiere. Guardandosi indietro era orgogliosa di tutti i traguardi della propria carriera, eppure quel primo ruolo conservava un posto speciale nel suo cuore, così come colui che ne era stato in parte responsabile: era stato Sebastian ad avvisarla dell'audizione, guidando tutta la notte solo per venire a dirglielo di persona. Quella notte, aveva dimostrato di credere in lei più di quanto lo facesse lei stessa.
Mia ricordava di aver pensato che Sebastian  l'avesse implorata di non rinunciare al proprio sogno con la stessa disperazione con cui lui si teneva stretto il suo.

 
Nel frattempo il taxi si era fermato.
Mia riconobbe il quartiere dalla familiare schiera di palme che si ergevano ai lati della strada come colonne che reggevano soffitto purpureo del tramonto losangelino. Pagò la corsa e salì in fretta i gradini d'ingresso, mentre i ricordi le comparivano davanti agli occhi vividi e brillanti come flash fotografici: Sebastian che la portava in braccio oltre alla soglia e inciampava in un vecchio sgabello di cui non si sarebbe voluto liberare mai; Sebastian addormentato sul divano, davanti ad un vecchio film che lei lo aveva costretto a vedere; Sebastian seduto al pianoforte, con gli occhi chiusi e un'espressione di pura felicità, come prima di un bacio.

Mia si costrinse a prendere un profondo respiro.
Ormai tutto questo apparteneva al passato.
Doveva davvero smetterla di pensarci, faceva troppo male.

Per questo, quando si ritrovò ancora una volta davanti alla porta di una casa che un tempo era stata sua, decise che avrebbe tentato di provare quello che i parigini chiamavano jamas vu, ovvero, la sensazione di completa novità e stupore verso qualcosa che in realtà si è già vissuto in passato.
Così come aveva finto di non ricordare lo scricchiolio dell'ultimo gradino della scala, calpestandolo come tutti gli altri gradini, Mia ignorò la vocina nella testa che le ripeteva che sotto allo zerbino dovevano ancora esserci delle chiavi di riserva e suonò semplicemente il campanello.

Sebastian le venne ad aprire un attimo dopo, senza scarpe e senza fiato.
Probabilmente si stava cambiando per uscire, perché neppure un tipo eclettico come lui  poteva girare abitualmente per casa con una calza sola, per di più bicolore. Indossava dei pantaloni neri eleganti in quello che a prima vista sembrava poliestere e sopra ai passanti per la cintura aveva fissato delle bretelle scure dal sapore vintage, che gli pendevano inerti sui fianchi. Dal colletto dell'immacolata camicia bianca faceva capolino il farfallino, ancora sfatto, le due estremità simili a segnalibri neri su un frontespizio vuoto.

«Sei in anticipo.» le fece notare lui, in tono terribilmente serio.
L'orologio dietro di lui indicava appena le cinque e mezza.

«Fuso orario sbagliato.» si giustificò Mia arrossendo «Mi lasci entrare lo stesso?»

Sebastian finse di rifletterci su, accarezzandosi il mento con fare pensieroso,  poi si arrese ad un sorriso. Spalancò la porta cerimoniosamente, facendo un mezzo inchino che la fece sorridere. «Scusa il disordine…»

Disordine doveva essere l’eufemistica parola in codice che Sebastian utilizzava per definire il completo caos che regnava nell'appartamento, perché Mia non sapeva neanche dove mettere i piedi tante erano le cose in giro.
Sparse sul pavimento del soggiorno c'erano pile di scatole di cartone di quelle che si usano per i traslochi, ora vuote, probabilmente provenienti dai lavori di ristrutturazione del locale, mentre alcuni rotoli di carta da imballaggio a bolle erano stati appoggiati alle pareti in attesa di una sistemazione più definitiva. Il tavolo della cucina, appena visibile dall'ingresso, pareva ricoperto di vinili, come se Sebastian avesse voluto ascoltare qualcosa con il grammofono ma non fosse riuscito a decidere quale album ascoltare – il che era molto da lui. Con una rapida occhiata al soggiorno Mia notò che anche intorno al pianoforte c'erano decine e decine di cartacce gettate in terra.

Nessuna delle stanze era scampata al disordine di Sebastian, eppure il proprietario di casa non sembrava farci  particolarmente caso, dal momento che si muoveva sui ritagli di pavimento ancora liberi con la divertita disinvoltura di un bambino che salta da una striscia pedonale all'altra tentando di non toccare con i piedi l'asfalto.
«Il cappotto appoggialo pure…» Sebastian si guardò intorno con aria confusa, quasi rendendosi conto solo in quel momento della situazione in cui versava l'appartamento. Scosse la testa e aggiunse rivolto a Mia: «Anzi, dallo a me, lo metto in camera… Tu fai pure come se fossi a casa tua.»

Quelle parole caddero fra loro come sassi lanciati in uno stagno, gravi e inaspettatamente dure.
Entrambi ricordavano fin troppo bene che quella era stata casa sua, e solo pochi anni prima. Mia aprì la bocca senza riuscire ad emettere alcun suono.

Sebastian si morse il labbro inferiore e chiuse gli occhi. «Scusami.»

«No, non fa niente… non preoccuparti» rispose lei.
Era un'attrice professionista: mentire era diventato il suo mestiere. Ignorò il groppo che aveva in gola e ripeté:  «Non preoccuparti.»

«Vado ad appenderti la giacca. Torno subito.»

Mia fu grata di vederlo scomparire dietro ad una porta del corridoio, perché le diede il tempo di ricacciare indietro le lacrime che le pungevano gli occhi. Non poteva piangere. Non era più una ragazzina.
Si avvicinò al pianoforte, accarezzandone la superficie con la punta delle dita e chiedendosi se Sebastian componesse ancora.
La risposta era accartocciata sul pavimento in decine di fogli spiegazzati. Mia ne raccolse uno e lo lisciò come meglio poteva, mentre una strana sensazione di rammarico si faceva strada nel suo petto. Era uno spartito scarabocchiato a matita. Le linee del pentagramma erano tutte storte e convergevano nella parte finale, come code di stelle comete, e l'ombra di una cancellatura smorzava il tratto di grafite dove Sebastian aveva cambiato la melodia. Mia non aveva mai imparato a leggere la musica, quindi non avrebbe saputo dire se quella che aveva fra le mani fosse una bella canzone, tuttavia sapeva per certo che nessuno l'avrebbe ascoltata mai.

Poteva essere la canzone più bella di sempre e nessuno l'avrebbe ascoltata mai.

 
---

Quando Sebastian tornò si era infilato le scarpe e portava fra le braccia una scatola di cartone simile a quelle che erano disseminate per tutta la casa, ma assai meno leggera. Proprio per evitare che le pareti cedessero sotto al peso degli oggetti, gli angoli erano infatti stati rinforzati con dello scotch da pacchi, che contribuiva a conferire alla scatola un aspetto ancora più vissuto. Su un lato, nella calligrafia ondulata di Sebastian, c'era scritto soltanto Mia – un nome crudelmente ironico visto che lei non gli apparteneva più.

Mia era seduta sull'orlo del divano con le mani in grembo. Una fede nuziale sottile e dorata scintillava al suo anulare sinistro. Sebastian si costrinse a distogliere lo sguardo.
Appoggiò lo scatolone sul tavolino del soggiorno, sopra ad una coltre di vecchi giornali.
«Ok, dovrebbe essere tutto.
» mormorò «Niente di valore, ovviamente… sono solo vecchie cose, ma ho pensato ti facesse piacere riaverle.»

«È così, ti ringrazio.» rispose lei, questa volta senza nemmeno sapere se era una bugia o meno. Non era certa delle ragioni per le quali era tornata da lui, ma dubitava potessero essere contenute nella scatola che Sebastian le aveva appena portato: se non aveva avuto bisogno di quelle vecchie cose negli ultimi cinque anni, perché avrebbe dovuto averne bisogno ora? Era venuta a riprendersele era solo per avere un pretesto per giustificare la sua presenza in una casa che non poteva più chiamare sua - ma in quel mucchio di vecchi oggetti non c'era nulla che potesse servirle davvero...
O almeno così pensava.

Niente di valore, aveva detto Sebastian, eppure Mia non avrebbe potuto immaginare nulla di più prezioso.
La scatola conteneva – questo era l'unico modo per definirli – ricordi.
Vecchie videocassette -  Cantando sotto la pioggia, Via col vento, La donna che visse due volte – che sua zia le aveva regalato quando aveva dieci anni. Alcuni libri. Il copione di uno spettacolo mai andato in porto. Un orribile peluche a forma di granchio che Sebastian aveva vinto per lei sparando a delle lattine (e corrompendo il giostraio, sospettava Mia, visto che come cowboy non se la cavava un granché). Un maglione azzurro, che a dire il vero le piaceva così tanto da averne comprati due. Lo spartito di una canzone che Sebastian aveva scritto per il suo compleanno – una specie di Happy Birthday rivisitata in chiave jazz. Un vestito di seta giallo, quello che Mia aveva indossato la sera del loro non-primo-bacio, quando la suoneria di un cellulare li aveva interrotti.
«Hai conservato tutto...» sussurrò, rivolta più a se stessa che a Sebastian.

Lui si era seduto accanto a lei e l'aveva osservata estrarre ogni oggetto dalla scatola con la cura con cui si trattano degli antichi reperti. Non aveva mai staccato gli occhi dalla scatola, come se temesse che sarebbe scomparsa per magia se solo avesse distolto lo sguardo. Mia era rimasta affascinata da oggetti a dire il vero molto ordinari e a Sebastian venne in mente un film che avevano guardato insieme, uno in cui una sirena si divertiva a collezionare posate e cavatappi terrestri.
Sfoderò uno dei suoi soliti sorrisi sghembi.
«Stai scherzando? Memorabilia originali di Mia Dolan!  Sono sommerso di offerte su Ebay... per fortuna è ancora tutto in buone condizioni!»

Mia probabilmente avrebbe riso, se non fosse stata così assorbita dall'ultimo oggetto rimasto sul fondo della scatola. Un altro libro, non diverso dai precedenti se non fosse stato per il rettangolo di carta arancione che ne fungeva da segnalibro. Mia lo riconobbe subito: il biglietto del cinema d'essai dove avevano guardato Gioventù bruciata – un altro bacio mancato, anche se Mia non poteva dire che non si fossero rifatti in seguito, regalandosi baci sui tram e in planetari deserti. Avvertì una punta di dolore nel rendersi conto che il biglietto era stato infilato fra le pagine di un libro mai concluso e lasciato a metà, un po' come la storia d'amore fra lei e Sebastian.
Estrasse anche quest'ultimo ricordo dalla scatola e, trattenendo il respiro, lo aprì.
Il biglietto scivolò dalle pagine del libro aperto e cadde sul pavimento. Ad un primo sguardo, complice il completo disordine della stanza, Mia non riusciva a vederlo.«Sarà finito sotto al divano…»

«Lascia, faccio io…» si propose Sebastian alzandosi e facendo per inginocchiarsi, ma lei lo fermò prendendogli con dolce fermezza la spalla. Era una cosa che voleva fare da sola.

«Ti sgualcirai il completo. Il poliestere si rovina subito.»

«È lana.» ribatté lui piccato, prima di arrendersi ad un sorriso.

Lei glielo restituì e si chinò sul pavimento, piegandosi in avanti per tentare di dare un'occhiata sotto al divano, ma era troppo stretto e buio perché si riuscisse a vedere qualcosa. Avrebbe dovuto procedere alla cieca… tanto quanti biglietti del cinema poteva avere Sebastian sotto al divano? Allungò la mano, cercando di ignorare il velo di polvere che le si appiccicava alla pelle, e si spostò a destra e a sinistra fino a che non le sembrò di toccare qualcosa con la punta delle dita. Era troppo spesso per essere il biglietto perduto, ma forse si trattava comunque di qualcosa di importante. Mia lo trascinò verso di sé, rivelando il misterioso ritrovamento alla luce.

Si trattava di una busta, lunga e stretta. Un tempo doveva essere stata bianca, ma il tempo e la polvere l'avevano resa di un color grigio opaco. Mia si rialzò, continuando ad osservare incuriosita la lettera. A chi si era dimenticato di rispondere Sebastian? Il timbro postale recava la data di cinque anni prima – un ritardo imperdonabile se si fosse trattato di auguri natalizi...
Ma non si trattava di questo, evidentemente: in alto a destra, accanto al francobollo, campeggiava lo sbiadito logo della società luce e gas.

Mia rimase a guardare la busta per un istante senza capire e poi un mezzo sorriso le affiorò alle labbra.
Alzò gli occhi su Sebastian: «Ricordi quando ci hanno staccato la luce elettrica e abbiamo dovuto cenare a lume di candela per una settimana? ...forse ho finalmente capito il perché!»
Gli sventolò la busta davanti agli occhi, critica e divertita al tempo stesso. «Una bolletta dimenticata! Un vero classico…»

Sebastian non parve particolarmente dispiaciuto.
«Però devi ammettere che con tutte quelle candele in giro è stata la settimana più calda della tua vita… oh scusa! Ho detto calda? Volevo dire romantica e poetica e…»

Mia si abbandonò ad una risata, gettando la testa all'indietro come una bambina. Era così bella, quando rideva. Per un attimo perdeva la corazza di sarcasmo con cui affrontava il mondo e tornava quella che doveva essere stata prima di trasferirsi ad Hollywood, prima di rendersi conto quanto dura potesse essere, a volte, la vita dei sognatori.

Sebastian la guardò rigirarsi la busta fra le mani con quel sorriso spensierato. Forse avrebbe voluto fare qualche altra battuta, solo per vederla ridere ancora, ma Mia di colpo mutò espressione. Doveva essersi accorta di qualcosa sul retro della lettera, perché la stava scrutando con  la fronte aggrottata e la bocca semiaperta, in un'espressione di cupa sorpresa.
«Cosa c'è?» le domandò lui.

Non ricevette alcuna risposta. Stava iniziando a preoccuparsi.

«Mia, che cosa c'è?»
Con un passo colmò la distanza che li separava e scrutò la lettera che le stava tenendo in mano. Perfino guardandola al contrario, riconobbe la calligrafia familiare di Laura. Aveva scarabocchiato un Chiamala!  sotto ad un numero di telefono.

«Oh, deve essere il numero di quella ragazza! Mia sorella me ne parlava in continuazione, dicendo che era perfetta per me… Ricordo che a quel punto le ho chiesto se a questa ragazza piacesse il jazz e Laura ha avuto la faccia tosta di rispondermi “Probabilmente no”.»
Sebastian si abbandonò ad una risata dura e secca.
«Ma di cosa credeva che avremmo parlato, se non le piaceva il jazz?»

Fino a quel momento, da quando le si era avvicinato e aveva iniziato la solita  filippica in difesa del suo genere musicale preferito, Mia era rimasta in silenzio, con lo sguardo fisso sulla lettera. Aveva controllato e ricontrollato l'elenco di cifre, leggendole fra sé e sé ad un tono di voce troppo basso perché lui la sentisse e sperando di essersi sbagliata.
«È il mio numero.» mormorò.

Le sue parole rimbombarono nel silenzio del soggiorno, increspato solo dal ticchettio del metronomo sopra al pianoforte.

Sebastian scosse la testa, con decisione.
«No… non può essere.»

«Sebastian, è il mio vecchio numero! Credo di saper riconoscere il mio vecchio numero di telefono!» ribatté lei con voce stridula, le dita tanto strette intorno alla busta da avere le nocche bianche. Si sentiva mancare l'aria. Forse era colpa di tutta quella maledetta polvere. Iniziò a respirare affannosamente.

Sebastian esitò un istante, incerto se toccarla o meno, poi le sfiorò dolcemente una spalla con fare rassicurante: «Hey. Va tutto bene-»

«No, non va tutto bene!» rispose lei, pur iniziando a respirare più normalmente. «Come… come hai detto che si chiama tua sorella?»

«Laura… ma non capisco come-»

«Laura, Laura, Laura... » ripeté Mia, cercando di ricordare di chi si trattasse. «Ma certo! Laura Wilder, dell'ufficio contabilità. Passava a prendere il caffè nella pausa pranzo, durante il mio turno.  Con il tempo siamo diventate amiche. Insisteva di avere in mente il ragazzo giusto per me, pieno di idee e progetti per il futuro. “Un sognatore o un folle, dipende a chi domandi!” Un giorno mi ha chiesto se si era presa troppe libertà a lasciargli il mio numero e io le ho detto che non mi dispiaceva, che valeva la pena di fare un tentativo.»
Abbassò di nuovo lo sguardo sulla busta impolverata, tutta spiegazzata sotto alla sua presa.
«Il tipo non mi chiamò mai. Stronzo.»

Rimasero entrambi in silenzio, persi nello stesso ricordo di una serata incantevole, un tramonto rosa e azzurro e una ragazza che gli diceva: “Non è strano che continuiamo ad incontrarci? Significherà qualcosa”.

Sul momento Sebastian non se ne era reso conto, ma era sempre stata lei: in coda in autostrada, in piedi in un ristorante elegante, in prima fila ad un concerto per una festa privata, scarabocchiata su una busta. Non è buffo come il destino conceda sempre più di una possibilità di accorgerci di chi è perfetto per noi?

Fu Mia a spezzare il silenzio.
«Non significa nulla.» decretò con il tono più convinto che riuscì a trovare. «È solo una coincidenza.»

Sebastian inarcò un sopracciglio. «Anni fa lo avresti definito un segno.»

«Un segno che dovresti fare le pulizie più spesso!» replicò lei, senza astio nella voce, ma solo una punta di amarezza. Era vero: anni prima era convinta che l'universo avrebbe sempre trovato un modo per unire chi era destinato a trovarsi, anche dopo svariati tentativi andati a vuoto, un po' come nel gioco del memory le carte devono essere voltate più volte in coppia con altre figure prima di accorgersi di quali siano identiche.
Ma adesso era cresciuta e doveva smetterla di tormentarsi a chiedersi come sarebbe potuta andare se e iniziare a vivere nel presente. Perché era felice, lo era davvero. Per la prima volta nella sua vita non le mancava nulla, e il solo prezzo da pagare era stato che le mancasse qualcuno.

Sebastian scrollò le spalle. «Forse hai ragione. Dovrei davvero dare una ripulita a questo posto…»

«Magari trovi il numero di qualche altra ragazza perfetta per te.» aggiunse Mia, abbozzando un sorriso.

«Magari.»

Sempre che uno non creda alla favola dell'anima gemella, che è la sola ed unica destinata a noi.

«Vuoi una mano con quello?» gli domandò lei indicando il farfallino ancora sfatto, l'unico dettaglio imperfetto che increspava il fascino di Sebastian.

«Oh, no, non c'è problema.»

«Ti sto facendo fare tardi. Il minimo che possa fare è rendermi utile.»

«Sono tutto tuo allora.»
Sebastian spalancò le braccia in modo teatrale, ma nel suo tono di voce non c'era traccia di allegria.

Mia fece un paio di passi verso di lui. Con i tacchi aveva quasi la sua stessa altezza, ma cercò di concentrarsi soltanto sul farfallino e non sulle familiari labbra di Sebastian o sulla quasi invisibile cicatrice che aveva sul mento. Era bello notare da piccoli particolari – piccoli come una cicatrice o un'interiezione in ungherese o il modo di sorridere con gli occhi prima che con le labbra – che Sebastian non era cambiato.  Mia annodò il farfallino in fretta e probabilmente male, solo per staccarsi da lui prima di baciarlo e commettere l'ennesimo errore.

«Non voglio davvero farti perdere altro tempo. Il Seb's apre fra meno di mezzora e anche io dovrei tornare da… tornare a casa.»

«Certo. Vado a prenderti il cappotto.»

«Ti ringrazio.»

Mia digitò il numero del servizio taxi. Era ora di tornare a casa e alla realtà. Si avvicinò nuovamente al tavolino e iniziò a rinfilare nello scatolone i vari oggetti, tentando di riordinare quei ricordi in un cassetto della memoria che da quel momento in avanti avrebbe tenuto chiuso. Congedò ognuno di essi con un tacito ringraziamento che suonava più o meno come Grazie per avermi fatta sentire amata. Negli ultimi anni Mia era stata ammirata, intervistata, emulata ed adorata  ma l'amore…. L'amore lo aveva provato in una sala cinematografica d'essai, davanti ad una pellicola che deflagrava sullo schermo.

«Devo chiamarti un taxi?» 
Sebastian nel frattempo era tornato con il cappotto e la osservava con aria interrogativa, il telefono in mano.

«No, grazie, l'ho appena fatto io…» rispose lei. Esitò un istante e aggiunse: «Ma già che ci sei, per favore, segnati questo numero: 401-»

«Aspetta, di chi è?» la fermò Sebastian, confuso.

«Quello di una ragazza a cui piaceresti molto.»

«Pensavo mi avessi consigliato di cercare i prossimi contatti telefonici sotto ai mobili di casa.» replicò lui inarcando un sopracciglio.

«Così è più comodo, non credi?» esclamò allegramente Mia, finendo di dettargli il numero. «Ma ti dico subito che non è molto esperta di jazz, ma è da poco che lo ascolta… quindi non essere troppo esigente. E prova a chiamarla, in questi giorni. Le farà piacere sentirti.»

Sebastian non riusciva a sorridere.
«Mia... »

«Grazie di aver conservato le mie cose. È stato un pensiero gentile.» rispose lei, ignorandolo. Si infilò il cappotto, anche solo per avere una scusa per non dover sostenere il suo sguardo.

«Mia.. È il tuo numero, non è vero?»

Lei parve offesa. Gli scoccò un'occhiata di rimprovero.
«Non sono così prevedibile!»

Sebastian premette il tasto di chiamata.
Una suoneria iniziò a risuonare nella stanza. Proveniva dalla tasca del cappotto che Mia aveva appena indossato.
«A quanto pare sì.»

«Ok, d'accordo, d'accordo è il mio nuovo numero... » ammise lei. «Ma volevo davvero che lo avessi. Tu… mi manchi, Sebastian.»
Forse se ne era resa conto solo in quel momento, rivedendolo in piedi nell'ingresso di casa, un po' come non si capisce quanto si era stanchi fino a quando non ci si infila sotto le coperte.

«Anche tu mi manchi.»

«E allora torna nella mia vita!» esclamò lei, prima di realizzare che Sebastian non se ne era mai andato – non davvero, non completamente -  e correggersi dicendo: «Resta, nella mia vita. Non dobbiamo perderci per forza, potremmo-»

«Non credo sia una buona idea, Mia.»

«Oh…»

Dalla profonda malinconia della sua voce, lei capì che quella di Sebastian non era una richiesta, ma una supplica. Chiedeva di lasciarlo andare, lasciarsi andare a vicenda. Chiedeva di lasciarlo dimenticare, concedendogli un vantaggio di almeno altri cinque anni e un'altra bolletta dimenticata prima di rimettersi in contatto con lui. Chiedeva di lasciarlo – dato che l'ultima volta non lo aveva fatto e se ne era partita e basta.

Gli si avvicinò per dargli un bacio sulla guancia, solitario e solenne come può esserlo solo una promessa o come l'ultima nota di uno spartito.
«Abbi cura di te, Sebastian.»

«Anche tu.»

Si staccò da lui in fretta e gli voltò le spalle prima che potesse leggerle sul volto tutto il dolore che stava provando. Raccolse lo scatolone e si avviò verso la porta. Galantemente gliela aprì lui, visto che le mani di Mia erano impegnate. La donna varcò la porta, ma non fece che un paio di passi prima di voltarsi e chiamare:
«Sebastian…»

Era così bella, spettinata, sulla porta, con in mano un pericolante scatolone strabordante di cose. Sembrava una ragazzina appena arrivata al college. Sebastian non poté fare a meno di pensare che sembrasse più giovane della donna che si era presentata alla sua porta in tacchi e chignon. Più giovane e più vulnerabile, se erano davvero lacrime quel luccichio del suo sguardo.
«Sì?»

«Ci pensi mai, a come sarebbe potuta andare?» gli chiese lei in fretta, come se quella domanda le fosse stata in bilico sulle labbra tutto il tempo e solo allora avesse finalmente perso l'equilibrio. «Se qualcosa fosse andato storto – o per il verso giusto - se avessimo fatto entrambi scelte diverse?»

Sebastian soffocò una risata amara.

Se ci penso?
Lo suono ogni sera.
Suono la nostra versione della storia, suono di valzer fra le stelle e di muri della cucina dipinti di giallo, di un bambino biondo, di viaggi in auto e clacson rotti da vicini esasperati.

Riusciva a vedere davanti agli occhi immagini di momenti che non aveva mai vissuto davvero, solo sognato – ma questo non li rendeva meno reali: avevano i colori brillanti dei quadri di Van Gogh e i contorni indefiniti tipici dell'impressionismo francese. Prendevano vita ogni volta che Sebastian suonava una certa canzone, come in una sinestesia ricorrente per cui ad ogni nota corrispondeva un colore e ogni accordo era una pennellata.

«Penso che saremmo stati felici.» rispose infine con disarmante sincerità, infilandosi i pollici nelle tasche.
Non voleva mentirle, perché quella era probabilmente il loro ultimo addio e non si sarebbe permesso di macchiarlo con una bugia.

Mia non rispose nulla, ma il velo di lacrime nei suoi occhi si fece più evidente, quasi che, con quella risposta, Sebastian le avesse confermato le sue peggiori paure.

«Ma alla fine lo siamo anche così, no?» aggiunse lui in fretta, per tentare di rimediare a quello che aveva appena detto. «Tu hai la tua carriera, la tua famiglia…»

«E tu hai il locale…» aggiunse lei, in un tono che voleva essere convincente ma risultava solo incerto.

«Già, il locale…»

«Ce l'abbiamo fatta, Sebastian. Noi siamo quelli che ce l'hanno fatta. Abbiamo realizzato i nostri sogni prima di essere costretti a rinunciarci.»

Mia conosceva abbastanza il mondo dello spettacolo da sapere che la gente chiama sognatori i folli che hanno avuto successo e folli i sognatori che non lo hanno avuto.
Lei e Sebastian erano stati abbastanza fortunati da rientrare nella prima categoria, tuttavia entrambi conoscevano bene il suono delle porte sbattute in faccia. Avevano ricevuto più rifiuti di quanti amassero ricordare e molte volte erano stati ad un passo dall'arrendersi, mollare tutto e lasciare la città di stelle a qualcuno di più bravo – o anche semplicemente più forte – di loro. Ma non lo avevano fatto. Avevano resistito e il tempo li aveva ricompensati rendendo i loro desideri realtà, anche se il prezzo da pagare si era rivelato maggiore del previsto.

Mia appoggiò lo scatolone di ricordi per terra, in mezzo a loro, ponte e muro nello stesso tempo.
Prima che potesse aggiungere qualcosa, Sebastian riprese a parlare.

«Quindi per rispondere alla tua domanda: sì, ci penso… ma  so che non dovrei farlo. È la prima regola che impara un pianista jazz.»

«In che senso?» chiese lei, appoggiandosi alla cornice della porta.

«Nel senso che ogni nota diventa quella giusta nel momento in cui l'hai suonata. Sai, la gente pensa che nelle improvvisazioni jazz tutto sia casuale, tutto sia libera ispirazione. Nessuna regola, nessuno schema… e in parte è vero. Non devi seguire uno spartito, quindi sei completamente libero di suonare qualsiasi nota tu voglia. Però una volta che l'hai suonata, ecco, non puoi tornare indietro. Non esiste nessuna risposta esatta, ma tutte le risposte sono definitive.  Ed è per questo che per me le improvvisazioni jazz sono così affascinanti… perché anche se sono fatte sul momento, il risultato è tutto fuorché casuale. Ogni nota era perfetta così come è stata suonata, nel momento in cui è stata suonata, e non potrebbe essere sostituita con nessun'altra… e questa è secondo me la regola numero uno: le scelte che facciamo diventano giuste nel momento in cui le facciamo. Vale nella musica e vale nella vita.»

Mentre Sebastian parlava gli occhi gli brillavano e la voce aveva acquisito la disinvolta scioltezza che avevano le sue mani quando suonavano una scala.
Mia sarebbe potuta restare a guardarlo per ore, perché Sebastian sembrava perfettamente felice e la felicità era il completo che gli donava di più. Il sorriso gli si addolciva, lo sguardo gli si accendeva. Qua e lá gesticolava animatamente, più per convogliare il proprio entusiasmo in un movimento fisico che per una reale intenzione di mimare qualcosa.

Mia lasciò definitivamente perdere tutta la faccenda del jamais vu e si ricordò di essersi innamorata di lui per il modo appassionato in cui parlava di ciò che amava.
Oh, il suo amore per il jazz...
Quando lo aveva conosciuto, Mia aveva pensato che al mondo non potesse esistere qualcosa che Sebastian amasse più del jazz, ma forse era stata la prova vivente del contrario.



 



Angolo dell'autrice
Vorrei solo ringraziare chiunque sia arrivato fin qui, perchè la storia mi è venuta più lunga del previsto (nella mia mente era una flashfic, giuro) e perchè La la land ancora non ha una sezione su questo sito, per cui grazie.
Se volete lasciate una recensione, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate - o anche ricevere/fornire supporto morale per il finale del film XD
Un abbraccio, la la landers
Itsamess

 
  
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