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Autore: Izayoi_1    06/02/2017    0 recensioni
Marta non ci ha mai capito nulla della sua vita, fin dall'infanzia si è sentita sbagliata. Poi la fuga, il successo non cercato e le droghe come mezzo per scappare dalla realtà e quel tassello di passato che le manca per capire come dovrà concludere quel circolo vizioso. Verità difficili a lungo cercate ma che fanno paura e somiglianze così marcate da sembrare di guardarsi allo specchio.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Nuovo personaggio, Slash
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Era seduta al tavolo del balcone ormai da diverso tempo, gli occhi semichiusi protetti dalle spesse lenti scure per evitare che qualche indiscreto raggio solare la infastidisse, le mani reggevano la testa troppo pesante per stare in equilibrio. Aveva fatto anche quella volta nottata e i segni non erano visibili solamente dalle violacee occhiaie che si trascinava dietro da settimane ma anche dall’odore di alcool, fumo e qualche altra sostanza illegale, che si erano annidati in mezzo alla sua folta criniera nera come la pece e che avevano reso il suo colorito pallido. Cercò di muoversi evitando di ritrovarsi distesa sul pavimento e con cautela si accese una sigaretta, quel sapore sul palato non le dava piacere, tutt’altro, la bocca era impastata e il suo corpo le urlava a gran voce di aver bisogno di ingerire dell’acqua, farsi una doccia e dormire, almeno provarci, dato che l’insonnia aveva ricominciato prepotentemente a tenerle compagnia in ogni momento libero che poteva dedicare al riposo.
Si strofinò gli occhi e si stirò, un sorriso leggermente amaro fece capolino sulle sue labbra carnose, “Che misera esistenza ti stai trascinando dietro”. Scosse il capo, commiserandosi e guardando quella distesa verde che era il suo giardino di casa. La verità era che si sentiva un’ingrata, il successo era arrivato veloce, senza che lei si fosse sforzata molto, dandole agio e celebrità, cose di cui molte persone gioirebbero e ne assaporerebbero riconoscenti tutti i frutti ma lei, lei si trascinava in quel presente ancora segnata dal passato, un passato che aveva una folle paura di poter rivivere e che sentiva non essere ancora concluso. Un leggero trillo la distrasse da quei suoi pensieri che vorticavano puntualmente sullo stesso argomento e non senza una smorfia e un passo traballante, si diresse al suo cellulare, gettato per terra qualche ora prima.
Blondie: “Sei viva, oppure devo chiamare l’agenzia funebre?”
Marta sorrise leggermente a quel messaggio che un minimo le scaldò il cuore, qualcuno si preoccupava per lei.
Marta: “Più che altro avrei bisogno di una toeletta completa, non credevo potessi avere un così pessimo odore”.
Una doccia, ne aveva bisogno, il difficile era raggiungerla e non scivolare.
Il telefono suonò di nuovo, ma era stato abbandonato su di una sedia, mentre la ragazza raggiungeva la sua meta.
L’acqua calda sulla pelle olivastra era stata una manna, il profumo di bagnoschiuma alleviava il suo senso di disagio e portava via con sé i ricordi di quella notte trascorsa. C’erano delle voci, voci ovattate da dietro la porta del bagno, la signora  Donovan, la sua governante e madre (non chiesta) a tempo perso, stava impartendo le sue perle di saggezza sulla vita a qualche mal capitato, che molto probabilmente doveva essere Blondie. La sua governante era una bravissima persona, cresciuta tra ordine e disciplina e troppo frequentemente prendeva il suo lavoro in modo troppo zelante, specialmente quando vedeva tornare a casa le due ragazze in condizioni preoccupanti.
Da fuori qualcuno cercò di aprire la porta, graffiando con le unghie la superfice di legno.
“Apri la porta prima che mi faccia sanguinare le orecchie”.
Il tono di Blondie era disperato e quando Marta aprì la porta la trovò addossata alla superfice, come a volersi nascondere.
Sicuramente tra le due la mora era messa nelle condizioni peggiori ma anche la bionda, con il suo caschetto stropicciato, non se la passava bene.
Erano sedute entrambe sul bordo della piscina, con in mano una fumante tazza di caffè nero che avrebbe dovuto “aiutarle” a sentirsi meglio. La televisione trasmetteva la replica della loro vittoria della sera precedente di uno dei tanti dischi di platino che il nuovo pezzo aveva vinto, mentre i cellulari squillavano e vibravano, il loro manager era furioso per il comportamento vergognoso che avevano avuto e, come diceva sempre: “ringrazio che siete solamente in due, perché se foste stati in quattro sarei morto nel salvarvi dai media”, lo ripeteva ogni volta i giornali o la televisione le additavano come immagini sbagliate, scorrette, da non seguire. Eppure amava sentirsi dire quelle cose, infondo se lo era sempre sentito dire, sin dall’infanzia, perché anche se nessuno la voleva, tutti la cercavano e lei ora eri lì, lo considerava un bello schiaffo morale a tutte quelle madri che durante gli anni della scuola chiedevano ai loro figli di starle lontano, quelle brave donne che giudicavano il suo bere e fumare nei bagni della scuola.
Un duo, si, solamente lei e Blondie, di cui non ricordava il vero nome, l’aveva sempre chiamata così fin dal loro primo incontro avvenuto quattro anni prima. I loro caratteri erano troppo particolari, la bionda apparentemente calma poteva combinare qualche serio danno quando meno lo si aspettava e la mora era decisamente una mina vagante, con seri problemi nel rispettare chi la circondava. Per questi motivi e molti altri alle giovani non era nemmeno passato per la testa che ci potesse essere qualcun altro al di fuori di loro. Specialmente quando si trattava di musica, entrambe erano gelose dei loro pezzi, delle loro idee, dei loro strumenti, persino del modo in cui riuscivano a canalizzare quell’estro, che trovarsi era stata una salvezza, condividere sarebbe significato la rovina. Per questo, senza nemmeno dirselo avevano scartato tutti gli aspiranti compagni che si erano proposti di far parte di quella strana accoppiata, trovando da subito il proprio equilibrio. Perché un equilibrio, se pur minimo e labile, lo avevano, gli serviva per riordinare le idee che potevano nascere nel bel mezzo della notte, mentre si trovavano a letto con il tipo del momento, oppure durante un’intervista che veniva interrotta per non farsi sfuggire la scintilla artistica e l’entusiasmo. Marta sorrise a quei ricordi che le avevano portate fin lì, guardando l’amica che fissava dubbiosa l’acqua della piscina.
 
Quattro anni prima:
Erano già trascorsi quattro anni da quando la bionda l’aveva trovata, a quel tempo Marta era scappata di casa dopo una furiosa lite con il padre che l’aveva lasciata priva di forze, con il cuore letteralmente in pezzi e il sentimento di essere rifiutata, sbagliata, che si era stabilito in lei in pianta stabile. Così senza un soldo si era rifugiata a New York, dove per la prima settimana si era ritrovata a dormire su di una panchina davanti una stazione di polizia, convinta che sarebbe stata un minimo più al sicuro. Per più di un anno aveva fatto la vera fame e cercava di andare avanti pulendo alcune case, facendo le consegne a domicilio, lavorando come aiuto cucina e cameriera in diversi ristoranti di serie B, ma non si pentiva, avrebbe preferito fare persino di peggio pur di non tornare indietro, ma certamente un peso le gravava nel petto, aveva abbandonato nella sua vecchia stanza l’unica cosa che la facesse sentire bene e la comprendesse, che non la riteneva una bestia come facevano tutti, qualcosa che lei non vedeva nemmeno più come un oggetto ma una persona in carne ed ossa, una persona che non la vedeva sbagliata e che con quelle sue sei corde le carezzava quel groviglio disordinato di capelli e le dava pace. La sua Gibson SG “diavoletto”, ma no, lei non l’aveva mai chiamata così, lei la chiamava Farrokh, in onore di colui che Marta aveva scelto come suo vero padre, Freddie Mercury. In quei giorni newyorkesi la ragazza pensava spesso al suo Farrokh, e pregava che nessuno per vendetta gli facesse del male, che nessuno sfogasse la sua rabbia su quello che per lei era una parte del proprio corpo, tutto ciò che desideravano farle per punirla doveva essere fatto a lei ma non al “suo Farrokh”, la cosa più dolce che la vita le avesse regalato. Ed era proprio in quei periodi di lontananza che si aggirava come una falena ad una fiamma intorno ad un negozio di musica poco frequentato e con le vetrine impolverate, ma era proprio lì che una Epiphone SG rossa aveva catturato la sua attenzione, non era nera opaca come la sua, però un minimo dal vetro della dimenticata vetrina quello strumento l’aveva chiamata e lei senza pensarci due volte, con la sua solita impulsività, si era precipitata nel negozio, dando subito a vedere al proprietario il fatto che non si potesse permettere nemmeno un plettro. Alla fine, dopo oltre un’ora che si aggirava tra quegli strumenti il proprietario senza mezzi termini l’aveva pregata o di comprare o di andarsene e lì presa dall’astinenza di non toccare una chitarra da tantissimo tempo, crollò in ginocchio, i capelli davanti agli occhi che nascondevano le pupille rosse per le lacrime trattenute e la mano era stretta intorno al ginocchio.
“Esci fuori dal negozio, non ho soldi da darti”
“Non voglio i tuoi maledetti soldi vecchio, voglio solo suonare, mi manca e io ne ho bisogno”
“Sei per caso una tossica?- il vecchio l’osservò meglio e poi continuò- Il problema non è mio, esci fuori di qui prima che ti faccia uscire io”.
Si trovava ad elemosinare, quanto si faceva pena in quel momento.
“Mi faccia suonare anche un’ora a settimana fuori al suo negozio e se farò qualche dollaro glielo darò a lei per l’uso della chitarra”.
Non sapeva da dove le era venuta quell’idea, forse dagli strumenti impolverati e dal negozio mal concio aveva inconsciamente capito che il tallone d’Achille di quell’uomo erano i soldi e per una volta da quando si trovava nella Grande Mela ci aveva preso.
Il sabato dalle 17.00 alle 18.00 lei si trovava puntuale fuori quel negozio a far vibrare quelle corde, muovere le dita e sentire il calore che le montava nel corpo come se si trovasse a letto con il migliore degli amanti, per quell’ora a settimana Marta aveva la forza di affrontare il resto dei giorni che la dividevano dal sabato e dio, quando era quel giorno lei si sentiva come una bambina il giorno del suo compleanno.
Fu in quei mesi che una bionda di nome Emily aveva sentito di questa chitarrista mal ridotta, dai lunghi capelli riccioluti, jeans sporchi e strappati e converse bianche dalla suola semi-rotta, che si esibiva nel Queens una volta a settimana e l’aveva cercata, aveva chiesto di lei, ma nulla, nessuno sapeva niente, eppure settimana dopo settimana le voci giravano. Alla fine, però, dall’alto dei suoi primi ingaggi che la facevano sentire una dea tra gli insetti, la ragazza si era vista costretta a scendere in strada per andare a cercare quella sconosciuta che tanto la incuriosiva. “è puro rock, come non se ne sente più dagli anni ’80” e lei voleva questo, qualcuno che disprezzasse il genere moderno fatto di seni strizzati in reggiseni push-up, di chiome impomatate biondo platino e di giovani che cantavano solo pensando al tema del momento, lei voleva qualcuno che le facesse sentire le unghie conficcate nella schiena, che le facesse perdere ogni inibizione e che la riuscisse a trascinare in quel mondo che cantava. Stava correndo fuori dalla metro, erano le 17.45 e qualcosa faceva andare le gambe della bionda veloce in direzione di quello sconosciuto negozio. Eppure quando arrivò, accaldata e con il respiro corto, lontana da quella chioma di capelli neri, capì che l’aveva trovata, che aveva trovato quella metà che tanto stava cercando. I rumori della strada, il traffico, gli insulti degli automobilisti, nulla, non sentiva niente, nemmeno gli spettatori che aveva vicino la distrassero, quel modo di muovere le dita, i movimenti sinuosi del bacino, come se invece di suonare stesse facendo l’amore con quella chitarra, la isolarono da ciò che la circondava, facendole vedere solo quel groviglio di capelli scuri che coprivano una parte del viso della chitarrista; era un sentimento strano, Emily si sentiva come un toro che aveva puntato il torero, come se quei movimenti della ragazza la spingessero a prendere la carica e puntarla senza lasciarla andare, incornandola, se fosse stato necessario, basta che avesse suonato con lei. Di sicuro il loro primo incontro non fu dei più idilliaci, la mora con i suoi occhiali da sole e il chiodo nero aveva un pessimo carattere, schivo, di poche parole e quelle che usava erano tutt’altro che gentili, ci vollero inseguimenti, volò quasi un pugno perché la bionda non mollava la presa, ci furono pressioni e preghiere per convincerla almeno una volta a suonare in uno studio accompagnata dalla sua voce e nonostante Marta avesse cominciato a suonare senza voglia e con l’espressione scocciata, dopo i primi minuti le due si guardarono in modo particolare, un modo che nemmeno Emily sapeva spiegare ma si lessero dentro l’una all’altra e nonostante la mora, alla fine delle prove, non l’avrebbe ammesso il suo “ci vediamo la prossima volta”, stava a significare che ci stava dentro.
Eppure quattro anni dopo erano lì insieme, non solo legate dalla musica ma anche da un legame tra sorelle; Blondie essendo più grande di Marta si sentiva in dovere di difendere la “sorellina” e di fargli combinare qualche casino di troppo coprendo le sue bravate, mentre dal canto suo Marta era sempre troppo impegnata a digrignare i denti se qualcuno insultava troppo pesantemente la sua amica, che essendo dotata di un animo gentile e poco incline alla lite, incassava gli insulti abbassando la testa e piangendo di nascosto. 

Presente
Non erano passati molti giorni dalla loro ultima serata di bagordi ma il loro agente le aveva così incastrate tra interviste e prove che alle giovani non restava granché tempo per pensare al divertimento e più Marta si sentiva sotto pressione più cresceva il suo bisogno di ubriacarsi e smetterla di avere per la testa certe immagini del suo passato, aveva bisogno di sentire quel famoso CLICK nella testa per smettere di pensare.
Quelle settimane si trovavano a Los Angeles per una serie di interviste a tappeto alle quali si cerca di rispondere in maniera diversa, ironica, provocante, sapendo, però, di non riuscire nell’intento come si sperava e, anzi, in alcuni momenti ci si trovava persino a fare lunghe pause per capire la frase tanto la testa era invasa da alcuni fumi. Le giovani si sentivano il collare stretto intorno al collo, stretto dal loro agente che doveva tenerle fuori dai guai per qualche giorno, giusto il tempo di distogliere un minimo l’attenzione mediatica negativa da loro e “riabilitare” in parte i loro nomi. Ma più i giorni passavano e più le due rocker sentivano sulle spalle il peso e la tensione alla quale stavano andando incontro, poiché da lì a qualche giorno era stata organizzata una diretta nazionale in prima serata dedicata esclusivamente alle due “Riot girl”, come erano state “affettuosamente” battezzate dalla stampa, lo scopo era sedare la smania di curiosità che muoveva i loro fan a chiedere, domandare, investigare, non solo sulla loro vita artistica ma anche privata, presente, futuro e passato…e Marta sentiva già odore di mattatoio. Da quando aprivano gli occhi a quando andavano a dormire avevano nelle orecchie la voce dell’intero staff che gli ripetevano la scaletta, i loro cambi d’abito, le loro uscite ed entrate di scena, quasi anche quando potevano o meno respirare. La situazione stava cominciando ad essere insostenibile, complice anche le velate minacce proveniente da Albert, l’agente, per un loro, se pur piccolo, errore.
Erano nella camera di Marta, comodamente sedute in balcone mentre un leggero vento alleviava il calore e le fatiche della giornata, stavano bevendo qualche bicchiere per allentare i nervi e poi avrebbero riposato, i sonniferi della mora erano già ben disposti sul comodino pronti per essere mandati giù. Ridevano e scherzavano quando con ben poca grazia, Luke, il galoppino di Albert, mise davanti al muso delle ragazze la lista completa degli ospiti d’onore che avrebbero assistito alla serata:
-Aerosmith
-Roger Taylor e Brian May
-Alice Cooper
-Slash e Duff
Di sicuro tutti nomi appartenenti a delle leggende della musica e una notizia del genere poco prima di “dormire” era una bella iniezione di adrenalina. Marta già si immaginava a sbagliare un semplice assolo e Blondie già si vedeva afona davanti al pubblico in delirio, così presa dal panico e dall’ansia la bionda uscì dalla camera dell’amica sussurrando un qualche mantra portafortuna, come faceva ogni volta e pregando tutte le divinità esistenti di essere aiutata. Con aria rassegnata Marta prese le sue molteplici pasticche e si infilò sotto le coperte ma i minuti passavano e lei continuava ad agitarsi, vedendo davanti a sé quegli sguardi severi e pronti a giudicarla, vedeva Brian May che la beffeggiava per la sua scarsità nel suonare e di lì a poco il senso d’insoddisfazione, d’incapacità arrivò prepotente, accompagnato da alcuni immagini passate: un grande ingresso buio con una finestra aperta che faceva passare una leggera brezza estiva, e lei era lì, si vedeva, aveva appena compiuto sette anni e dalla parte notte sentiva urla rabbiose, pianti disperati, oggetti infranti e gesti compiuti con forza per far sputare le troppe pillole che sua madre aveva ingerito. Marta si mise seduta sul letto con il volto madido di sudore, improvvisamente sveglia e tremante, c’era una sola cosa che poteva fare in quei casi, una sola cosa che le mura strette di quella stanza non le permettevano, una sola cosa che le riusciva bene, scappare.


Angoletto dello scrittore
Ho deciso di scrivere questa storia perchè da qualche tempo sono "ossessionata" dall'idea di creare un personaggio nettamente diverso da quelli delle mie diverse storie; un personaggio che si adatta alla perfezione con la mia passione per i Guns e per la chitarra, così senza pensarci troppo su ho deciso di creare questo "mondo" fatto di fughe e vizi eccessivi, di passioni, sogni e alchimie musicali. Spero vi sia piaciuto e vi abbia incuriosito, alla prossima.
Izayoi
   
 
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