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Autore: Francine    11/02/2017    5 recensioni
I hear Jerusalem bells are ringing
Roman Cavalry choirs are singing
Be my mirror my sword and shield
My missionaries in a foreign field
For some reason I can not explain
Once you know there was never, never an honest word
That was when I ruled the world
(Coldplay,
Viva la Vida, 2008)
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gemini Saga, Pisces Aphrodite
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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The Mirror

 

La pelle di Saga è tonica e giovane. Fresca, se paragonata a quella del Sommo Sion. Profuma degli stessi unguenti che il vecchio sacerdote usava per dissetare un corpo stanco che resisteva per scommessa o per fede, o per tutte e due le cose assieme.

Ma la pelle di Saga, no; la pelle di Saga è quella di un uomo giovane. Non un ragazzo, come lui – un bocciolo di rosa all’atto di schiudersi – no; Saga ha passato la ventina, ma è ancora giovane. Le sue mani sono forti, la sua presa salda. E non puoi reggere il Trono di Athena se l’artrite ha curvato le tue dita rendendole inservibili, deboli, stanche.

Sono state proprio le mani a tradirlo: non c’erano più le macchie dell’età. Le dita erano dritte. La pelle elastica. Ma tutto questo è passato inosservato agli occhi dei suoi compagni. Quando ha accennato la cosa al Cancro, questi gli ha risposto che «solo le fimmine s’imminchioniscono appresso a ‘ste ccose», segno che no, Death Mask non aveva fatto caso alle mani del Sacerdote. Ma, d’altro canto, Death Mask è sempre stato un tipo che non vede più in là del proprio naso, fino a quando qualcuno non gli indica l’argomento della discussione. E anche in quel caso, c’è il serio rischio che il Cancro guardi il dito, e non la luna.

Shura avrebbe potuto notare come le mani del Sacerdote fossero miracolosamente ringiovanite; ma Shura non è Death Mask. E mettere la pulce nell’orecchio del Capricorno avrebbe significato accendere la miccia di una polveriera. Una miccia molto, molto corta, che si sarebbe portata dietro Capricorno, Pesci e tutto il Santuario. Perché che un Santo di Athena dia di matto ci si può stare, ma che qualcuno si sia sostituito al Sacerdote è un’ipotesi che spalanca le porte a congetture più profonde – Quando? Come? Perché? – su cui Yngve non è ancora sicuro di volersi affacciare.
È sicuro – lo è sempre stato – che sotto la maschera del Sacerdote ci sia Saga. Lo ha riconosciuto dalla cicatrice che corre tra pollice e indice e arriva a metà avambraccio, un segno che neppure gli unguenti e i cataplasmi del Sacerdote sono riusciti a cancellare, non del tutto almeno; non ai suoi occhi.

Yngve ricorda molto bene quella cicatrice. Quando era piccolo decorava il polso destro di Saga, e lui gli chiedeva di poterla toccare. Lo incuriosiva la consistenza al tatto di quella linea spezzettata e inspessita che gli solcava la pelle come un rammendo malriuscito. Saga lo accontentava, permettendo alle sue piccole dita di indugiare su quella cicatrice.
«Ce l’avrò anch’io?», gli chiedeva, gli occhi del mare al mattino smarginati di incertezza e sincero timore.
Saga gli rispondeva di no. Non come la sua, almeno.
«Le cicatrici non sono per tutti», diceva, alzandosi, gli occhi blu che splendevano all’ombra dei cipressi.

«A che pensi?»

La voce di Saga è profonda. Calda. Avvolgente. Una voce da attore che ti increspa la pelle come una mano sul velluto.
Yngve scuote la testa, i capelli che galleggiano attorno alle sue spalle.
«A niente», mente.

E infatti Saga lo apostrofa: «Bugiardo.».

Yngve sorride.
«Pensavo alla tua cicatrice.»

Gli occhi di Saga si colorano di perplessità. Sono belli, i suoi occhi; di un blu profondo, mai cupo; un blu che suggerisce solitudine, quiete, raccoglimento, pace. Un mare in cui lasciarti ricadere, in cui galleggiare a pelo dell’acqua. Un mare senza onde.

«Non dirmi che sei ancora ossessionato dalla mia cicatrice», ribatte, liquidando la questione ad un capriccio infantile.

«Sì. Ma non per i motivi che pensi tu.»

Yngve si vanta di possedere una pelle perfetta. Inviolata, se si esclude quel neo civettuolo sotto l’occhio sinistro che gli accende lo sguardo: non un livido, non una cicatrice, neppure le ginocchia sbucciate da bambino.

«E quali sarebbero, dunque?», gli chiede Saga.

Yngve si immerge, poi solleva di scatto la testa, i capelli che fluttuano all’indietro e gli ricadono sulle spalle. Umidi. Come quelli di Saga.

«È stata lei a farti scoprire» gli confessa, «e a volte mi chiedo se tu non l’abbia fatto apposta.».

Saga corruga le sopracciglia.
«Apposta

«Se non volessi essere scoperto. Come se fosse una specie di test», aggiunge Yngve, che si è accorto di essersi avventurato in acque limacciose.

«Forse», ribatte Saga con un sorriso sghembo. «Hai sempre avuto buoni occhi, tu.»

«Grazie», commenta Yngve, appoggiando la testa al bordo della vasca. «Si sta bene qui.»

«Uno dei vantaggi dell’essere Sacerdote», risponde Saga. «Devi idratare la pelle, quando hai una certa età», e una nota divertita gli arrotonda la voce.

«Un posto ideale per pensare», dice Yngve osservando il soffitto: un mare di marmo bianco latte, una tavoletta nuova di zecca su cui lasciar correre lo stilo. Oppure, no? Oppure da rimirare, immaginando la bruttura dello sfregio del pennino su quel panorama candido? «Chi altri lo sa?»

Sente Saga irrigidirsi. L’acqua è cambiata. Il cosmo prodigioso di Gemini è appena un sussurro, un rumore di fondo tra gli altri, ma lui lo riconosce. Lo riconoscerebbe tra mille. Saga sta pensando, perché deve dirgli che c’è qualcun altro, oltre a lui, che condivide questo segreto. Pochi, altrimenti si chiama pettegolezzo, ma Yngve non se ne stupisce. Sarebbe strano il contrario, pensa un attimo prima che Saga gli riveli l’identità del terzo congiurato.

«Death Mask.»

Yngve sgrana gli occhioni e li porta su Saga.

«L… lui?!»

Lo vede annuire. E poi lo sente aggiungere: «Ho dovuto», e il cuore di Yngve riprende a battere.

Gliel’ha rivelato. Non ci è arrivato da solo, non l’ha preso per il culo fingendo di non sapere. O forse sì?, si chiede Pisces.
«Perché?»
Glielo chiede come farebbe un bambino testardo, la stessa luce negli occhi, la stessa, cocciuta disapprovazione a colorargli la voce.

«Perché lui è una risorsa preziosa.»

«Un sicario prezioso, vorrai dire.»

Saga gli scocca un’occhiata indecifrabile.
«Siamo tutti sicari, Yngve. Tu, io, il Sacerdote. Siamo i sicari di Athena.»

Gli piace sentire il suo nome in bocca a Saga. È uno dei pochi a pronunciarlo correttamente; ma non gli piace essere costretto ad affacciarsi su un panorama desolato, a guardare dentro uno specchio che riflette l’assoluta verità. Non si è mai pronti per la verità e per il suo rasoio, più affilato di Excalibur. Certo che sono sicari. I sicari di Athena. Si ammantano di tante belle parole, ma è tutta cosmetica, come il maquillage di attrici e fotomodelle. Athena parla, e loro eseguono. Né più, né meno. Tutto il resto, è mera retorica. Cipria e belletto.

Saga lo osserva, studiandone il profilo.
«Tu», gli dice, calamitandogli lo sguardo ed incatenandolo nel suo, «ci sei arrivato da solo».

«Mi stai indorando la pillola, Sacerdote?»

«Quel tono non ti si addice, Yngve», ribatte Saga. «Sei troppo bello per essere anche acido.»

«Quindi?»

«La mia era una constatazione. Pura e semplice. Rendo onore al merito.»

«Sarà. Ma io mi sento lo stesso preso per il culo.»

«Queste espressioni lasciale a qualcun altro, Yngve.»

«Sempre perché sono troppo bello, eccetera eccetera? Hmpf. A volte ho l’impressione che anche tu mi abbia scambiato per una bella bambolina, Saga…», e gli occhi di Yngve si assottigliano.

«Io to vedo per quello che sei.»

«E cosa sarei?»

«Un uomo. Fatto di carne, ossa, sangue e desideri.»

«Ma?»
Perché c’è un «ma» a galleggiare nelle parole di Saga, come un piccolo pezzo di legno sballottato dalla marea.

«Ma se costruisci la tua immagine puntando sull’estetica, non puoi permetterti passi falsi. Sono come le unghie sulla lavagna. Stridono, hai presente?»

«Pensavo che avessimo lasciato le nostre maschere fuori da questa vasca», ribatte Yngve, indicando con lo sguardo la corazza dei Pesci e i paramenti del Sacerdote, testimoni silenziosi del loro incontro.

Con un colpo di reni, Saga si avvicina. Gli afferra la testa tra le mani – mani grandi, forti, virili – e adesso la cicatrice è molto vicina alle labbra di Yngve. Vuoi che io la baci, in atto di sottomissione e fedeltà?, dardeggiano gli occhi di mare al mattino del Santo dei Pesci; ma Saga non risponde. Gli incatena lo sguardo nel suo e gli sonda l’anima, fino in fondo. Poi, rapido com’è arrivato, Saga si ritrae e si appoggia con le braccia al bordo della vasca, dandogli le spalle.

«Pensi mai al destino, Yngve?»

«Il… il destino?», e il giovane svedese sbatte le palpebre, scoprendo di non sapere più che pesci pigliare. «Quello con la maiuscola?»

«Sì. Tyche», sussurra Saga, il mento abbandonato sugli avambracci. «Il sommo Sion ha traghettato il Santuario per più di duecento anni. Duecento, te ne rendi conto? A pensarci, mi tremano le vene dei polsi», e Yngve scopre che la pelle di Saga adesso è come velluto increspato dal vento. Velluto blu, come i suoi occhi che fissano un punto indefinito oltre il colonnato.

Duecento anni. Roba da far venire le vertigini.
«È una bella età», commenta, trincerandosi dietro ad un sarcasmo sghembo.

«Anche per uno del popolo di Mu», commenta Saga. «Ma come avrebbe potuto guidarci contro Ade? Un uomo che si reggeva a malapena in piedi quando soffiava il vento? No, per proteggere il mondo devi avere spalle larghe e mani forti. Una presa salda. Una mente lucida, che veda oltre…»

«E tu cosa hai visto, Saga?»

«Una vertigine di nuove possibilità.»

«Raccontamele.»

E Saga racconta. Delle informazioni apprese spulciando la biblioteca di Sion. Delle corazze gemelle. Del numero delle schiere infernali. Centootto contro ottantotto. Senza contare le costellazioni perdute.

«È tutto un gioco», mormora Saga, la voce ridotta ad un fruscio di carta nel vento. «Una pantomima. Secolo dopo secolo. Ma deve vincere Athena, se non vogliamo che il mondo piombi nel caos.»

«Per Athena?»

«Sempre per lei. Solo per lei.»
Pausa. Gli occhi di Saga sembrano persi dietro a qualcosa, un fantasma che Yngve non percepisce perché, forse, non è la sua coscienza quella da tormentare.

«E tu pensi che un cambio di strategia possa…»

«Sì», e Saga riporta lo sguardo blu sul compagno. «Una possibilità è sempre meglio di niente.»

«Ma è come giocare a poker con gli dei! Te ne rendi conto?»

«Sì. Ma ricordati che si gioca a poker contro le carte dell’avversario, non con quelle che si hanno in mano.»

«Vuoi bluffare. Contro Ade?», e Yngve storna lo sguardo dal viso di Saga. «Pazzesco…»

«La vita è pazzesca, Yngve. Prima che Athena piombasse nelle nostre esistenze, gli dei stessi erano poco più che leggende. Favolette per bambini. Il sogno di qualcuno altro, lontano nel tempo e nello spazio. Quindi, perché no? Perché non imbrogliare le carte e cogliere il nemico di sorpresa? Le schiere di Ade si aspettano che Athena sia qui. Al Santuario.»

«Perché, non lo è?», e una risata sinistra echeggia nella sala da bagno del Sacerdote, rimbalzando sul marmo candido delle pareti e delle colonne. «Smettila! Potrebbe arrivare qualcuno!»

Yngve si è alzato, l’acqua che scorre a rivoli sulla pelle increspata e lo sguardo fisso sulla porta. Una mano di Saga cattura il suo polso.
«Siediti», gli ordina. «Fallo da te, prima che ti ci costringa io.»

Yngve resiste. La presa di Saga è salda e forte, una morsa d’acciaio sulla nuda pelle.
«Non verrà nessuno, perché ci sei tu qui con me. Il valoroso e bellissimo Aphrodite, Santo della costellazione dei Pesci.»

«Mi stai sfidando?»

«Sappiamo tutti come finirebbe, Yngve. E io non ho mille giorni da sprecare in trastulli da bambini», e la presa di Saga tira Yngve verso il basso. E le sue ginocchia si piegano, e l’acqua lo ricopre di nuovo, nascondendo le sue nudità e il suo disagio.

Tacciono, le dita di Saga sempre strette attorno al polso di Yngve, perché il giovane Pesci non commetta una qualche sciocchezza. È stato sempre un tipo emotivo, quel ragazzetto dalla pelle bianchissima e l’accento impossibile. E se dovesse voler sgusciare via, se volesse scappare urlando, rivelando così la verità che si cela dietro la maschera del Sacerdote, sarebbe davvero seccante doversi disfare di uno come lui. Molto seccante. Yngve lo capisce dallo sguardo di Saga.

Non si deve arrivare fino alla tana dell’orso se non si è certi di volerlo catturare, diceva sua madre. E lui nella tana c’è caduto proprio adesso. Saga si comporta come farebbe un orso disturbato nel bel mezzo del letargo. Lo guarda, perplesso e attonito, come se nella sua testa non fosse possibile che un intruso sia penetrato nei suoi segreti con la grazia di un trabucco lanciato giù da un colle. In genere l’orso impiega pochi attimi per decidersi ad attaccare l’intruso e a farne uno spuntino. Se non è la cucciolata, è un invasore. E se non è un invasore, allora si tratta di una preda, gli ripete la voce di sua madre, e Yngve sa che il calmo e pacato Saga sta per saltargli alla gola. Quindi si placa. Si rilassa. Riporta il suo sguardo sul compagno, e chiede: «Dov’è Athena?».

«Al sicuro.»

«Al sicuro, dove

«Dall’altra parte del mondo», e le dita di Saga lasciano la presa, un lieve rossore a ricordo di quel contatto. Che ti sia di lezione, sembrano dirgli gli occhi di Saga, mentre Yngve si massaggia il polso.

«Chi lo sa?»

«Tu ed io.»

«Nessun altro? Nemmeno Death Mask?»

«No. Nessun altro. Nemmeno Death Mask.»

Restano in silenzio, Saga che attende e Yngve che pensa, che mette insieme le informazioni ricevute, che compone le tessere del mosaico tentando di dare loro una forma, un disegno, un’immagine. Il viso di Athena.

«Perché?», gli chiede Yngve. Scoprendosi a corto di fiato. L’acqua della vasca è sempre di un placido tepore, ma adesso ha freddo. Dentro, nell’anima. Perché l’abisso su cui Saga lo sta costringendo ad affacciarsi lo sta chiamando. È un buco nero che vortica sotto di lui, e Yngve non è così sicuro che i suoi piedi resteranno ben ancorati al suolo o che, piuttosto, non spiccheranno il salto per un volo senza ritorno e senza impegno. Così, tanto per vedere l’effetto che fa.

«Te l’ho detto», risponde Saga. «Per proteggerla.»

Yngve vorrebbe chiedergli da chi, ma gli mancano le parole. Gli manca il coraggio di immergersi ancora. Qualcosa, dentro di lui, lo sta frenando. Qualcosa – la voce melodiosa di sua madre – gli sussurra all’orecchio che no, lui non è pronto per conoscere la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. In primo luogo, perché nella verità non si inciampa, come se fosse una buca nel terreno o la radice sporgente di un platano. La verità va cercata e trovata, come il Santo Graal o la pentola d’oro dall’altra parte dell’arcobaleno. E poi, perché la verità non è un vaso di amarene sotto spirito da sgraffignare dal ripiano della dispensa. La verità taglia, come la lama di un rasoio. E lascia il segno. Una cicatrice. E bisogna avere le palle per portare le cicatrici a testa alta, come fa Saga.

E tu non hai abbastanza fegato, Yngwie.
Tu dici, mumie?

«Quindi», e Aphrodite chiude gli occhi, «anche la morte di Aiolos rientra nel tuo piano?».

«Nel disegno capriccioso del fato», replica Saga. «Io sono solo un esecutore materiale.»

«Un sicario», e Yngve sente Saga sospirare.

«Un sicario, sì», e il Santo dei Gemelli tamburella le dita sul bordo di marmo della vasca.

«Ripeto. Quindi?»

Perché Yngve sa che Saga non gli ha fatto questa rivelazione come se fosse una confidenza innocua tra due amici, una di quelle che servono a cementare il rapporto tra commilitoni, così che quello che scenderà in battaglia al tuo fianco non sia più un estraneo, ma qualcuno con cui hai riso, bevuto e scherzato; un amico, o qualcosa che gli assomiglia molto. Qualcuno da raccogliere per i capelli, issarti in spalla e riportare indietro, oltre la trincea, sapendo che lui avrebbe fatto lo stesso per te.

Saga vuole qualcosa da lui, ma a Yngve è venuta a noia tutta questa sciarada, questo giocare a nascondino con le parole. Vuole tornare a nuotare in acque più limpide, dove sentirsi a proprio agio senza l’assillo dello sguardo del predatore fisso sulla nuca.

«Quindi», fa Saga, dopo un lasso di tempo indefinibile, «ho bisogno che tu vada a controllare come stia.».

«Come stia… Athena?», e Saga annuisce.

«Aiolos l’ha affidata ad un giapponese, in punto di morte. Lui l’ha cresciuta, allevata, amata come se fosse sua nipote. Solo che questa persona è morta, pochi giorni fa. E io ho bisogno di sapere se Athena sia tutt’ora al sicuro. Se non vi siano pericoli, per lei. È una questione delicata. E posso affidarla soltanto a qualcuno di mia completa fiducia. Qualcuno che agisca con discrezione.»

«Dovrai raccontarmi per bene cosa è successo in tutti questi anni», dice Yngve, specchiandosi nello sguardo serio di Saga. «Devo pur essere informato, giusto?»

«Giusto», risponde Saga. «Ma questo ci prenderà tempo. E non ne abbiamo, purtroppo.»

«Saprò accontentarmi, Santità.»

A questo punto, nessuno dei due può tirarsi indietro. Ci siamo spinti troppo oltre, si dicono l’un l’altro, con lo sguardo ed i silenzi che riempiono la sala da bagno del Sacerdote. Saga parlerà, Yngve ascolterà. Ma prima di perdere l’equilibrio e cadere oltre il punto di non ritorno, Saga pone un’ultima, doverosa domanda al suo compagno.

«Sei il mio uomo, Yngve?»

E prima che le labbra di Aphrodite rispondano di sì, Yngve sente di aver ottenuto la sua prima cicatrice. Non sul viso, non sulle braccia o sulle gambe, nossignore. Saga gliene ha appena inferta una sull’anima. Dove fa più male.


 

 

                  



 



Note: avevo in mente questo progetto da tempo immemore. È uno dei tanti bozzetti messi su carta durante il mio lunghissimo blocco dello scrittore. Quando la frustrazione non ti fa distinguere una lucciola da una lanterna, ma intanto ti vengono in soccorso delle idee - che immersa nel buio come sei non riesci a distinguere se siano torce o l'alone sfocato dei fuochi fatui - le metti su carta per sicurezza, dai loro voce e corpo e le lasci a macerare. Hai visto mai che?
Poi passa il tempo, passano le stagioni, un trasloco di mezzo, un'altra vita e poi, un bel giorno, ti ricapita tra le mani quel vecchio quaderno dalla copertina rigida e dai una scorsa. E ti dici che sì, il materiale è buono. Sì, puoi dargli una chance e metterlo per iscritto, sforbiciando, pulendo, alleggerendo. Così, eccocci qui, con la prima storia di un trittico, tutta dedicata ad Aphrodite dei Pesci, e scritta tra 2008 e 2009, prima che il custode della Dodicesima Casa mi facesse sangue. Lui è lo specchio, ovviamente.

Il tutto nasce dal ritornello della canzone Viva la Vida dei Coldplay.
Non saprei dire a cosa si riferisca esattamente questa canzone. In rete sono incappata in una versione secondo cui ci si riferirebbe nientepopodimenoche a Cristo. Lui sarebbe la voce narrante, che chiede a chi lo ascolta di essere il suo specchio, la sua spada e il suo scudo, ossia di difendere la fede (la spada e la scudo) e di riportarla così come lui l'ha spiegata (lo specchio).
Premesso che questa versione mi sa un po' troppo di Bible Belt (quella fascia dell'America dove la religione permea ogni aspetto possibile e immaginabile della vita delle persone) , mi piace la metafora usata. Lo specchio per riflettere esattamente quanto si è detto, lo scudo a difesa e la spada per combattere. La voce narrante, a questo punto, il burattino dai fili tagliati, altri non può essere che Saga. 
Lo specchio è Aphrodite (che nel mio headcanon si chiama Yngve). Lo scudo e la spada chi saranno?
Lo scopriremo solo vivendo, anche se è palese di chi possa trattarsi.
Vi avviso, però: le altre storie arriveranno chissà come e chissà quando. Portate dunque pazienza, ché la vita non fa che strattonarmi per la giacchetta, fregandosene bellamente di quello che vorrei io.

Mumie significa mammina in svedese. Almeno, questo è quanto ho scoperto girovagando in rete.

Non so perché Aphrodite sia così geloso di Death Mask. Questa storia si svolge all'incirca nel 1983, in concomitanza con la morte di Mitsumasa Kido (e, se non ricordo male, Saori dice a Seiya che il vecchio patriarca se n'è andato tre anni prima dell'inizio della Guerra Galattica).  
   
 
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