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Autore: ShioriKitsune    13/02/2017    2 recensioni
[Taekook]
"C'è una leggenda giapponese che parla dell'akai ito, del filo rosso del destino che lega le persone destinate a stare insieme dalla punta del mignolo. La leggenda dice che quel filo è così resistente da allungarsi senza mai spezzarsi, da recidersi senza mai tagliarsi, e sempre in grado di trovare l'altra estremità di se stesso."
Genere: Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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«Hyung, qual è il tuo sogno più grande?».

Jeongguk lo guardava con l'interesse dipinto nei grandi occhioni neri, le mani unite sotto il mento a sorreggergli il viso paffuto e infantile.

Taehyung arricciò le labbra, fingendo di pensarci su' per qualche attimo.

«Il mio più grande sogno è passare tutta la vita insieme a te, Jeonggukie», ammise, stringendo gli occhi e rivolgendogli un enorme sorriso.

Il minore sentì le guance andare in fiamme, quindi distolse lo sguardo e si nascose dietro le dita.

«Tae!».

Taehyung rise di gusto, afferrando le mani dell'altro e spostandole dal suo viso. Era così timido, Jeongguk. «Non lo vuoi anche tu?», domandò, inclinando il capo e sbattendo le ciglia.

Jeongguk borbottò qualcosa, allontanandosi in fretta e furia con la scusa del “la campanella sta per suonare e sai bene quanto la maestra non tolleri i ritardatari”, ma una volta di spalle, sorrise.

Era esattamente ciò che voleva anche lui, ma non lo avrebbe mai ammesso.

 

 

Akai ito

 

 

Erano insieme da sempre, Taehyung e Jeongguk, al punto di non ricordare neanche quale fosse stato il loro primo incontro.

Erano cresciuti con l'altro a fianco, una presenza costante ed un punto fermo, una spalla sulla quale piangere e un aiuto che sarebbe arrivato senza neanche il bisogno di chiedere.

Avevano passato l'asilo, le scuole elementari e le medie pensando quasi di essere fratelli: Taehyung era sempre pronto a difendere Jeongguk, più piccolo e debole, dai bulletti che lo sfottevano per i suoi voti eccellenti e Jeongguk, dall'altra parte, lo aiutava con i compiti e teneva a freno il suo temperamento davanti a maestre e professori. Erano un team formidabile, i migliori migliori amici che potessero esistere e si erano ripromessi che lo sarebbero restati per sempre così tante volte da non poterle contare sulle dita.

Poi, l'infanzia aveva lasciato lentamente il posto all'adolescenza, alla scoperta di se stessi e ai primi imbarazzi. Non cambiò nulla tra di loro, fino al momento in cui Taehyung si sentì arrossire dopo un abbraccio di Jeongguk. E no, non era mai stato un tipo timido.

Il più grande realizzò ben presto che quel rossore non era stato un caso isolato e che il cuore che gli batteva all'impazzata ogni volta che Jeongguk era nelle vicinanze poteva avere soltanto una spiegazione. E siccome era sempre stato abbastanza schietto con se stesso, non aveva mai sprecato il suo tempo a negare il fatto che si fosse preso una cotta per il suo migliore amico.

E quando se ne rese conto, tutto prese una piega... beh, strana.

Erano tante le cose che Taehyung amava di Jeongguk, ma non era più solito elencargliele come quand'erano piccoli, non era più solito cercare costantemente un contatto fisico né autoinvitarsi ogni sabato a dormire a casa sua. Si era creato un muro e Jeongguk non lo sapeva neanche.

 

 

«Tae, hai da fare dopo scuola?».

Taehyung si schiarì la voce, fissando lo sguardo sul proprio quaderno. Jeongguk aveva poggiato il mento sulla sua spalla ed era così vicino che il maggiore sperò non sentisse il battito accellerato del suo cuore. Sarebbe stato difficile da giustificare.

«Non so, Guk. Vorrei studiare per quel test».

Non aveva bisogno di guardarlo per sapere che stava roteando gli occhi. «Da quando studi? Non vuoi neanche andare al college, dopo», il minore ridacchiò. «Sei così stupido che pensi di poter vivere di arte. Ma ti prometto che quando sarò un ricco informatico, comprerò uno dei tuoi quadri».

Taehyung si voltò di scatto, pronto a rispondere a quelle giocose provocazioni. Ma qualsiasi battuta avesse sulla punta della lingua morì nell'esatto momento in cui i suoi occhi si posarono sul viso di Jeongguk, così bello da togliere il fiato. Indossava uno di quei sorrisi dei quali aveva l'esclusiva, con gli occhi stretti e la frangetta scura che quasi li copriva. Taehyung distolse immediatamente lo sguardo, riducendo la sua risposta ad un banale “«Idiota»” quasi sussurrato.

Sospirò, maledicendo se stesso. Non poteva perdere Jeongguk.

E sarebbe successo presto, se non fosse riuscito a tenere a freno quei sentimenti.

«Non posso, Guk, davvero. La prossima volta».

Jeongguk non rispose, ma il sorriso svanì lentamente dal suo volto. Il secondo dopo si alzò per raggiungere il resto del loro gruppo per il pranzo.

 

 

Il brutto di crescere è che si perde la schiettezza tipica dell'infanzia. Se un bambino ha qualcosa da dire, la dice senza alcun problema: per quanto brutto gli possa sembrare, penserà sempre che sia meglio così.

L'essere adulti, al contrario, innalza le barriere e fa accumulare una serie di vorrei, ma non posso che finiscono per creare distanze insormontabili.

Durante gli anni del liceo, la distanza tra Jeongguk e Taehyung crebbe a dismisura. Taehyung iniziò ad evitare la compagnia del più piccolo (è per il suo bene, diceva) e Jeongguk, non capendo cosa diavolo passasse per la testa dell'altro, dopo un po' decise che corrergli dietro non sarebbe servito a nulla. Fece amicizia con un ragazzo della classe di Taehyung, Park Jimin, e scoprì di avere un sacco di interessi in comune con lui. E quando l'amicizia si trasformò in qualcosa di più, Taehyung si accorse di non riuscire nemmeno a sopportare la vista dei due insieme.

 

«Perché continui ad evitarmi?».

Jeongguk bloccò Taehyung, una sera d'estate, mentre questi tornava a casa da una festa. Non aveva bevuto, non quella sera, e ringraziò il cielo per questo. Se fosse stato ubriaco, probabilmente gli avrebbe detto tutta la verità per poi pentirsene il giorno dopo. Jeongguk lo fissava con espressione grave, mordendosi un labbro a causa della tensione. C'erano così tante cose non dette che ormai non avrebbero saputo nemmeno da dove iniziare.

«Ho solo molto da fare», si giustificò il maggiore, cercando di defilarsi.

Jeongguk strinse i pugni. «Non hai da fare per rispondere hai messaggi di Hobi-hyung, Tae», lo accusò, irritato. «Quindi hai chiaramente un problema con me».

Taehyung sospirò, massaggiandosi le tempie. Era stanco, stanco di fingere, stanco di nascondersi.

Per un lungo periodo, aveva pensato che Jeongguk non fosse minimamente interessato ai ragazzi, e quindi non aveva mai voluto rischiare di rovinare la loro amicizia. Ma dopo Jimin, si rese conto di quanto tempo aveva sprecato, si domandò cosa sarebbe successo se, ma ormai era troppo tardi. Non si sarebbe messo in mezzo alla storia di due persone a lui così care. Aveva finto e ingoiato per così tanto tempo... farlo ancora non sarebbe stato un grande sacrificio.

«Lasciami in pace, Jeongguk. Sono impegnato».

Era sempre quella la risposta.

E Jeongguk, troppo insicuro, lo lasciava andare ogni volta.

 

 

L'estate dopo il diploma, Taehyung decise di andare via. La sua città non aveva più niente da offrirgli, se non costante sofferenza. Tutto ciò che aveva, era ormai perso.

Non aveva un piano – gli artisti non ne hanno mai uno, in fondo – ma decise di andare. Andare e basta. Viaggiare e lasciare che il destino lo portasse dove più gli sembrava giusto. Così, impacchettò le sue cose e prenotò un volo per il Giappone. Ma, prima di andare, lasciò una lettera d'addio.

Egoista forse, ma non si sarebbero più rivisti.

E forse, alla fine, Jeongguk meritava un po' di sincerità.

 

Jeongguk scoprì della partenza di Taehyung tramite un'amicizia in comune.

Lui ed il maggiore non si parlavano più da un po', e Jeongguk si era sempre chiesto dove avesse sbagliato, e quando esattamente le cose tra loro fossero arrivate al capolinea.

Il pensiero lo aveva tormentato per così tanto tempo da lasciarlo sveglio la notte, fino al momento in cui aveva decido di lasciarlo andare, di arrendersi.

Taehyung, in ogni caso, non avrebbe mai ricambiato i suoi sentimenti.

E così, aveva cercato di andare avanti, di voltare pagina, con Jimin e tutto il resto.

Ma la notizia della partenza di Taehyung lo distrusse al punto che gli fu difficile anche solo respirare. Perché aveva sempre pensato che, prima o poi, avrebbero risolto tutto. Che sarebbero tornati quelli di un tempo, se non qualcosa di più. Invece il maggiore era semplicemente andato via, senza spiegazioni. Jeongguk era così confuso, così ferito, da non riuscire neanche a piangere.

 

La sera dopo la presunta partenza, Jeongguk sentì bussare alla porta della sua stanza. Era sua madre.

«C'era questa per te, nella posta», mormorò, lasciando la busta sulla scrivania senza aggiungere altro.

E Jeongguk, in qualche modo, sapeva cosa fosse ancor prima di riconoscere la familiare grafia.

La scartò con foga, sentendo il magone in gola crescere mentre tirava fuori la lettera che Taehyung gli aveva lasciato.

 

 

 

Jeonggukie,

se stai leggendo questa, probabilmente sai già della mia partenza. Mi dispiace di non avertelo detto, ma ho i miei motivi.

A dir la verità, questi motivi sono gli stessi che, in un modo o nell'altro, mi hanno costretto ad andare via.

Mi sono accorto di provare qualcosa per te quando ero troppo piccolo per rendermi conto che nascondertelo ci avrebbe fatto solo male e troppo grande per avere il coraggio di dirtelo.

Mi sono innamorato di te dopo aver passato tutta la vita insieme, pensando che il mio fosse un sentimento sbagliato e che non meritasse di venire alla luce.

Mi sono innamorato di te per ogni tuo gesto, ogni risata, ogni sorriso che sfoggiavi quando pensavi di non essere visto;

per tutte le volte che ti ho battuto durante una partita e tu te la prendevi, ma non riuscivi a mantenermi il muso troppo a lungo;

per tutte le volte in cui ti ho difeso dai bulli, fin quando non siamo cresciuti e non sei stato tu a difendere me;

per tutte le volte in cui, a casa tua, avrei solo desiderato stringerti a me un po' più forte, invece di allontanarti così stupidamente.

E quando ho capito davvero... era troppo tardi, Jeonggukie. Hai Jimin adesso, e il solo pensiero che tu sia felice mi basta.

Con questa lettera, voglio solo darti le risposte ai tuoi perché. Le risposte che per anni ti ho negato, ma che meritavi più di chiunque altro.

Mi dispiace, Jeongguk, per aver rovinato tutto.

Sono innamorato di te, e per questo devo andare via.

 

 

Jeongguk fissò quelle parole dalla grafia confusa per un tempo che gli parve infinito. Le fissò così a lungo, imprimendone il significato nella sua testa.

E quando riuscì, dopo ore, a sollevare lo sguardo, decise che aveva bisogno solo di una cosa nella sua vita.

E, di certo, non era una laurea in informatica.

 

 

 

 

 

Quattro anni dopo

 

 

Nella classifica delle città che Taehyung amava, Tokyo era sicuramente al primo posto.

Così simile a Seoul eppure così diversa, gli ricordava casa ma senza fardelli: quelli li aveva lasciati indietro quando aveva deciso di andare via e non si era più guardato alle spalle.

E Taehyung ne aveva visti di posti, così tanti nonostante la sua giovane età, perché aveva trovato nel viaggiare un modo per conoscere se stesso e, da allora, non aveva più smesso.

Piccoli lavoretti e via, senza fermarsi mai in un posto troppo a lungo. Era la sua natura, in fondo. Sfuggevole e cangiante, degna di un artista squattrinato. E a lui andava bene così.

Ma se avesse dovuto scegliere un posto in cui fermarsi, un porto sicuro in cui sarebbe potuto tornare ogni qualvolta che avesse avvertito il bisogno di dover raccattare i pezzi, quello era Tokyo.

Tokyo e i suoi colori, i suoi profumi e le sue notti che davano di eterna giovinezza, degne di una città che non dorme mai.

Tokyo e le sue due facce, ognuna con più sfaccettature di quante si potessero contare a primo impatto.

Tokyo e la sua immutevole, seppur in costante cambiamento, reputazione da città perfetta, perché anche andare a lavoro può sembrare meno pesante, se lo si fa prendendo un treno con la faccia di un Pokémon stampata sopra.

Taehyung amava Tokyo per tanti motivi: i piccoli posti, per esempio, quelli meno frequentati che racchiudevano una magia tutta loro, come la piccola traversa della Takeshita Dori, ad Harajuku, che vendeva le crépes più buone di sempre; oppure il parco a Shinjuku, quello nei pressi della stazione, al cui interno una crew di street dancer passava giornate intere ad allenarsi, o ancora il giardino di Rose a Kaminakazato, in cui più di una volta aveva passato ore e ore a dipingere, indisturbato.

E poi c'era il posto preferito di Taehyung, un insolito posto preferito mettendo in conto la poesia degli altri, ma questo aveva qualcosa di ancora più speciale.

Uscita nord della stazione di Ueno, prima di finire fuori dall'edificio e sulla strada, un piccolo café sulla sinistra.

Un posto banale, frequentato da passanti frettolosi e scorbutici, in ritardo per il lavoro o per qualsiasi altra loro faccenda.

Taehyung ci era capitato esattamente il primo giorno in cui aveva messo piede a Tokyo, quattro anni prima, per un caffè al volo e magari qualche indicazione. Aveva un qualche tipo di valore sentimentale per lui così, dopo quattro anni e di passaggio da quelle parti, decise di tornarci.

Quando il campanello suonò, avvertendo il personale del suo ingresso, il tempo sembrò fermarsi.

La prima cosa che Taehyung notò, fu il nome del commesso dall'altra parte del bancone: non c'era nessun kanji, disegnato sulla targhetta che aveva attaccata al petto, solo katakana.

Il cuore iniziò a battergli freneticamente, mentre cercava in se stesso il coraggio di alzare lo sguardo sul volto del non-poi-tanto sconosciuto.

Ma non ce ne fu bisogno, perché quando Taehyung decise di potercela fare, un paio di braccia gli erano già strette intorno alla vita, e l'odore familiare dell'unica persona che avesse mai amato gli invase le narici.

«Hyung»

Solo una parola, ma bastava.

Dove sei stato?

Ti ho cercato così tanto

Che ci fai qui?

Sono qui per te

Come hai potuto

Non ha importanza ormai

Sei qui

Sei davvero qui

 

 

 

C'è una leggenda giapponese che parla dell'akai ito, del filo rosso del destino che lega le persone destinate a stare insieme dalla punta del mignolo. La leggenda dice che quel filo è così resistente da allungarsi senza mai spezzarsi, da recidersi senza mai tagliarsi, e sempre in grado di trovare l'altra estremità di se stesso. Taehyung non aveva mai creduto in quel genere di storielle, ma dovette ricredersi.

Perché bastò un solo sguardo, per far tornare ogni cosa al suo posto. Per incastrare quei pezzi di puzzle dispersi per così tanto tempo. Per rendere quel filo rosso ancor più resistente, nonostante tutto.

 

 

 

Taehyung continuò ad amare Tokyo per tanti motivi, ma l'avergli ridato Jeongguk era di certo uno di questi.







nda:
Ciao a tutti!
Per chi mi segue: so benissimo che questa non è tra le mie migliori storie, e per questo mi scuso T-T ma ero in una specie di blocco e quando questa mi è uscita dalle dita, mi sono detta "perché no?"
Quindi, nonostante sia diversa dalle mie solite Taekook, spero possiate apprezzarla almeno un pochino, anche se non è nulla di speciale.
Alla prossima!
   
 
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