Fanfic su artisti musicali > Justin Bieber
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Autore: brooklynbaby_    14/02/2017    0 recensioni
«Monta su, ragazzina, ho avuto già abbastanza guai stasera per colpa tua» le feci cenno col capo di salire dietro di me. Ma lei restò immobile, guardandomi con tanto d’occhi. I capelli le si erano increspati alla radice, non avrei saputo dire se per l’umidità o la paura, e aveva la pelle d’oca.
Anni '70.
Brooklyn, un ragazzo scanzonato che cerca di farsi strada nel mondo della musica.
Manhattan, una ragazza acqua e sapone che studia per essere ammessa alla Juilliard.
Solo un ponte li divide, solo la musica li unisce: Justin Bieber e Lana Del Rey, finiranno nella stessa band, in un viaggio che li porterà fino a Woodstock.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Justin

Era il 1969, quasi l'alba di un nuovo decennio. Eppure la mia vita sapeva di novità quanto la zuppa domenicale della nonna: puntuale, ineluttabile, una vera tortura. Chaz Coley, senza neanche voltarsi, spinse verso di me il sacchetto di White Castle. Afferrai alla cieca un panino e lo addentai, avevo un gran fame. Il mio stomaco insofferente continuava a mandare orribili borbottii. 
"Mangi come un maiale" Chaz mi guardò disgustato. 
Con la bocca ancora piena gli feci un sorrisetto menefreghista e le briciole del panino finirono sulla mia t-shirt slavata e poi sui suoi sedili. 
"E stai un po' attento!" sbottò. "Se non riporto l'auto a mio fratello come l'ha lasciata, mi sega" borbottò.
"Va al diavolo" urlai di rimando, alleggerendo un po' la tensione che avevo nella testa. 
Quella Dodge Challenger nera non era nostra, nè io nè Chaz avremmo potuto permetterci un quarto di dollaro delle sue rifiniture in argento. Ma il mio amico sapeva quanto fosse importante per me quell'appuntamento, così aveva fregato quella macchina all'autofficina di suo fratello, prima che lui potesse accorgersene.
Ma, ahimè, se avevo sperato di fare bella figura con quel gioiellino, mi ero sbagliato di grosso. La nostra non era che una delle tante macchine di lusso che sfilavano lungo le vie di Manhattan, tutte tirate a lucido. Inoltre avevamo dovuto parcheggiare in seconda fila, così che entro un paio di minuti eravamo stati stanati dai portierti degli eleganti palazzi ai lati della strada, dovevano averci già bollato come intrusi non desiderati.  
Quella mattina, però, nulla mi avrebbe fermato, quindi continuai a sorvegliare il numero 240 della Settantaquattresima Strada, la mia Mecca: la sede della Sony Music. Fu così che lo vidi: Douglas Conan, responsabile del dipartimento 'Nuove Stelle', e anche la mia ultima speranza di chiudere un contratto entro l'anno. Non potevo lasciare che scappasse. Mi precipitai fuori dall'auto, rovesciando sull'asfalto quel che restava del mio pranzo. 
"Signor Conan!" mi sbracciavo, cercando di attirare la sua attenzione mentre gli correvo incontro. 
"Signor Con- Oh porca vacca!" esclamai, poco prima che una Aston Martin, grigio metalizzato, inchiodasse a qualche centimetro da me. C'era mancato poco che mi mettesse sotto. Quanto meno questo aveva attirato l'attenzione del signor Conan su di me.
"Ma è matto?" mi guardò tanto d'occhi. Accorciai la distanza tra me e lui, e gli tesi la mano sudata. 
"Signor Conan, io sono.."
"Figlio di puttana!" la voce del mio potenziale assassino coprì la mia. 
"Non è esattamente questo il mio nome" dissi, con un sorriso imbarazzato. "Sono Justin, Justin Bieber, si ricorda di me?" chiesi speranzoso.
non poteva non ricordare, gli avevo inviato una decina di lettere. Avevo prosiugato il mio ultimo stipendio per incidere quella demo da spedirgli. 
"Bieber, Bieber..." si pettinava la barba bianca con una mano. "Sinceramente no" sentenziò.
"Vuoi scusarmi ragazzo? adesso sono molto impegnato" si voltò per varcare la soglia. 
"Signor Conan sono un artista emergente, le chiedo solo pochi minuti del suo tempo..."  usai un tono quasi supplichevole. 
"Scusa davvero, Jason" disse distrattamente. "Oh e stai attento la prossima volta" si raccomandò indicando la strada, dove un grosso autobus seguiva il declino della Settantaquattresima. Avrei fatto meglio a buttarmici sotto. Avevo anche sprecato i 10 cents dei panini. 



 
Lana

"Quel tipo era una ragazzaccio, chissà da quale quartiere malfamato proviene" borbottò mio padre. "Te lo dico io" continuò con aria saputa. "Si divertono, quelli lì, a fare bravate del genere. Fingono che tu li abbia investiti, si fanno pagare un capitale dalla polizza e vivono solo di truffe. Dei mascalzoni, ecco cosa sono" 
"Sì, papà..." risposi distrattamente ravvivandomi i capelli nello specchietto laterale. Odiavo i miei capelli, il modo in cui ricadevano in molli pieghe sulle spalle, insipidi. Li cotonavo all'ultimo grido, ma non riuscivo mai ad ottenere il volume che volevo. Avrei tanto voluto avere una di quelle chiome afro, alla Gloria Gaynor. 
"Non voglio mai vederti al fianco di uno di quei ragazzi, chiaro?" il tono severo di mio padre richiamò la mia attenzione. Assentii.
Ce ne restammo entrabbi zitti, mentre la radio suonava la Die Fledermaus Overture di Strauss. Le mie mani pizzicavano il cruscotto come dita sui tasti di un pianoforte. A guardarle meglio, mi accorsi che erano pallide ed emaciate, non avevano conosciuto neppure un giorno del torrido sole di quella primavera del 1969. Pensai alle mie amiche con una punta di malinconia e un pizzico d'invidia: proprio quella mattina avevano fatto una sortita alla spiagga di Coney Island. Quanto a me, il duro lavoro per l'ammissione alla Juilliard non avrebbe lasciato posto alla spensieratezza. 

"Avanti Pauline, non tenermi sulle spine" la pregai, morendo di curiosità.
"Sei seduta? Farai meglio a farlo" squittì all'altro capo del telefono la mia amica. 
"Sì, sono seduta" chiarì seccata ed impaziente. 
"Lana, non è una spiaggia come tutte le altre! Le ragazze indossano tutte dei costumi talmente striminziti da lasciare poco e nulla all'immaginazione. Per non parlare dei ragazzi, non sono degli stoccafissi come tutti i nostri amici. Sono così divertenti e non ascoltano altro che rock!" 
Mentre Pauline si profondeva nella descrizione di quella sua insolita mattinata in spiaggia, io sognavo ad occhi aperti e rimpiangevo di essermene restata ad ammuffire nel vecchio salotto della signora Isabelle, accerchiata dalle piume dei suoi uccellacci imbalsamati. Ma l'audacia non era mai stata il mio forte, trasgredire le regole nella famiglia Wooldridge non era ammesso. E la trasgressione veniva pagata oltre che con la reclusione nella propria camera, con la scottante delusione che si poteva leggere negli occhi dei miei genitori senza troppo sforzo. 
"Pensa che ho perfino parlato con uno di loro.." quelle parole di Pauline mi misero sull'attenti. 
"Mi ha squadrata e poi, con un fare tutto suo, mi ha urlato 'ehi bimba, vieni a fare il bagno con noi?" 
"E tu cosa gli hai risposto?" le chiesi, mentre arrossivo al solo pensiero di trovarmi nei suoi panni.
"Che non avevo il costume, ovvio. E indovina lui? Mi ha detto che era sicuro che la mia biancheria doveva essere altrettanto alla moda dei bikini delle altre" sghignazzò Pauline. 
"Ma sei fuori come un balcone? Non posso credere che trovi divertente tanta insolenza!" 
"Oh, andiamo, non fare la barbosa, sarebbe piaciuto anche a te!" avrei voluto obiettare, ma sentii il passo nervoso di mia madre avvicinarsi. 
"Devo lasciarti adesso, Pauline.." le dissi laconica.
"British?"
"British"
British era il nome in codice in uso tra me e Pauline, da usare solo in casi di emergenza, ovvero quando mia madre dava di matto. Lei era dello Yorkshire, con una passione sfegatata per tutto quello che fosse inglese. E odiava che tenessimo il telefono occupato per delle ore. 

Mia madre irruppre nella mia stanza e con tono spazientito quasi urlò: "quante volte ti ho detto di non tenere occupato il telefono così a lungo? Scommetto che era di nuovo Pauline. 
Delutii silenzionsamente, restando in silenzio. 
"Lana, tesoro, ti ho detto mille volte che non mi piace quella ragazza. E' sempre in giro a combinare chissà che con chissà chi, non voglio che ti distragga dai tuoi obiettivi" mi guardò con una punta d'orgoglio negli occhi, specchio del futuro che lei immaginava per me radioso. 
Mi carezzò una guancia, e mi lasciò sola e piuttosto impensierita. A volte mi sembrava che il mio futuro fosse stato già scritto per me da qualcun altro. Non avevo una personalità, ma soltanto una decisione interiore tanto ampia e vacillante come l'oceano. 





Intanto il mio fratellino ne approfittò per sgusciare all’interno della stanza.
«Lana!» si aggrappò ad una delle mie gambe, stringendola così forte che temevo m’avrebbe bloccato il sangue.
«Joshua, così mi farai male» mi lamentai, ma non potei non sorridere a quell’affetto che mio fratello mi riservava. Sapeva essere davvero dolce, se voleva, ma sapevo che era anche abbastanza furbo da non lasciarsi scappare l’occasione di fare moine solo per ottenere ciò che voleva.
«Vuoi vedere cosa ho imparato?» con un sorriso tenero balzò in piedi sul mio letto, stropicciando tutte le coperte. Aprì la bocca per rimproverarlo, ma lui fu più veloce.
«Eenie, meenie, miney, moe, catch a tiger by the toe. If he hollers, let him go. My mother said to pick the very best one and you are not it» smise di recitare a ritmo quella canzone e aspettò fiero che dicessi qualcosa.
«Sei stato bravissimo!» battei i palmi, applaudendo forte come a un attore sulla scena.
«La fermo sentire a papà» il suo sorriso sfumò e d’un tratto mise su il broncio.
«Ehi, cosa c’è piccoletto?» mi sedei accanto a lui sul letto.
«Papà ha dimenticato di nuovo i biglietti della partita, domani saranno finiti » mugolò, stringendo le braccia al petto e riuscendo a risultare buffissimo.
«Papà è molto impegnato, lo sai…» provai a consolarlo, ma spiegate ad uno gnomo imbronciato che i grandi sono troppo occupati per ricordarsi della partita Yankees contro Mets. Teneva così tanto a quel match. I biglietti erano in vendita al Washington Park di Brooklyn. Fissai il viso triste di Joshua e un’idea insana accallappiò la mia mente. Dovevo andarci, quella era l’unica occasione di attraversare il ponte. Raccolsi il briciolo di coraggio che mi ritrovavo e dissi: «Andrò io a prendere i tuoi biglietti, ma tu non devi dire a nessuno che sono andata a Brooklyn, chiaro?» mi abbassai alla sua altezza, per guardarlo diritto negli occhi. Gli tesi la mano e lui la strinse, scuotendola forte.
«Sei la sorella migliore del mondo, Lana» si strusciò sul mio viso, stringendo le braccia attorno alla mia pancia.​
«Mamma sarà fuori tutto il pomeriggio, tu di’ a Dorothy che sto poco bene e voglio restare a letto» gli spiegai ogni cosa, in modo che non potesse far saltare il mio piano. Mio fratello era davvero intelligente, per essere un bimbo di sette anni, sapevo di potermi fidare.
«Puoi mettere dei cuscini sotto le coperte, così sembrerà che stai dormendo» suggerì.
«Bravo piccoletto»
«L’ho visto fare nei film» si vantò.
 
 
 
 
Dei grossi nuvoloni minacciavano Manhattan, ma il lato di Brooklyn, dall’altra parte del ponte, sembrava libero. Presi un golf crema dall’armadio e lo cacciai nella borsa di stoffa, insieme ai miei ultimi risparmi. Avrei sbancato, ma avevo un’irrefrenabile voglia di trasgredire e scoprire cosa c’era dall’altra parte, il “lato sbagliato del ponte”, così lo chiamava mio nonno, di Manhattan da generazioni. ​Dalla finestra osservavo l’esistenza ordinata dell’Upper East Side, gente che portava a spasso il cane, ragazzi che, vestiti come uomini d’affari, si avviavano verso i bar alla moda, fattorini delle consegne, taxi che sfrecciavano. Sarebbe stato facile trovarne uno che mi portasse fino al Washington Park. Potevo farcela, inspirai.  
 
 
                                                                                    Justin
 
«Questo non puoi proprio perdertelo!» era mezz’ora che cercavo di convincere quella vecchia talpa di James ad acquistare l’ultima copia del nuovo cd dei Pink Floyd. Se fossi riuscito a venderle tutte entro fine sera, Larry, il mio datore di lavoro, mi avrebbe anticipato la paga. Non pagava mai il venerdì, come tutti gli altri in città, diceva che non mi sarebbe rimasto nulla in tasca dopo il week-end. Aveva dannatamente ragione, ma quei soldi mi servivano per comprarci il biglietto dei Mets, in vendita fino al week-end, e avevo promesso di disfarmi di tutte le copie, in cambio dei verdoni.
«Mhh» mormorò James, annusando il vinile.
«Non è una figa James, non deve avere un buon odore» esclamai spazientito. Conoscevo la filosofia di James sui vinili, diceva che era il vinile a scegliere te e non tu a scegliere il vinile. Ma stasera avevo poca pazienza per quel suo disturbo ossessivo-compulsivo.
«Shh, mi sta parlando» m’intimò lui, i capelli a formare un cespuglio sulla sua testa. Troppe anfetamine, era proprio fritto quello lì.
«Lo prendo» si decise, finalmente. Gli sorrisi cordiale, ma dentro al petto il mio cuore ballava la cucaracha. Sfilai il vinile dalle sue mani, che mi guardò un po’ male, per portarlo a cassa e saldare il conto.
«Fammi sapere se miagola» gli feci un occhiolino, ridandoglielo. Aveva bisogno di una donna, avrebbe smesso di credere che i vinili potessero fargli le fusa.
«Lo farò, amico, lo farò» rispose, tutto serio e andò via, lasciandomi da solo nel vecchio Good Vibes. Un negozio di musica, come ce ne sono tanti a Brooklyn, ma avevamo la nostra clientela affezionata e James era uno di questi.
 
«Com’è andata, ragazzino?» Larry continuava ad apostrofarmi in quel modo, anche se da quando mi aveva assunto, tre anni prima, ero cresciuto di dieci centimetri ed ero visibilmente più alto di lui, ora.
«Ho venduto anche l’ultima copia» sorrisi soddisfatto, sfregandomi le mani.
«Te li sei meritati, ma vedi di non finire sul lastrico» cacciò controvoglia l’incasso e ne prese il giusto per la mia paga. Strabuzzai gli occhi quando mi trovai di fronte quei venticinque dollari. Di solito me ne toccavano solo venti, e anche se non era un grande aumento, erano comunque cinque bigliettoni in più.
«Larry…» stavo scioccamente per farglielo notare.
«Dovrai pur comprarla una Coca Cola, a questa maledetta partita…» mi precedette.
«Non capisco perché ti ostini ad andarci, tanto i Mets perderanno anche quest’anno» scosse la testa, scettico.
I Mets invece andavano alla grande. Erano riusciti ad arrivare in finale, con 99 vittorie, 62 sconfitte e avrebbero disputato la finale contro gli Yankees. So a cosa starete pensando, nessuno avrebbe scommesso un penny che i Mets avrebbero sconfitto gli imbattuti Yankees del Bronx, ma provate a privare uno di Brooklyn di un sogno…
 
 
Montai sul mio Gilera rosso e giallo, perennemente a secco e diedi qualche pedalata. Avvertivo il cigolio della catena male oliata, mentre procedevo in direzione di Park Slope. Era quasi il crepuscolo le strade di Brooklyn pullulavano di coetanei che andavano a gettarsi in qualche disco, giù a Bay Bridge e vecchi padri di famiglia che rientravano nel caldo accogliente delle loro Brownstones. Avrei fatto meglio a sbrigarmi, o non avrei trovato più i biglietti. Giù per la Quindicesima Strada, poi a sinistra, costeggiando a ovest il Prospect Park. Risalendo lungo la Terza e la Quarta Strada per raggiunge il Washington Park. Il borbottio stanco del mio Gilera, non fece voltare nessuno, semplicemente perché non c’era più nessuno in fila al botteghino. Vuoti sacchetti, una volta pieni di cibo d’asporto, e altre cartacce lasciavano una scia. Doveva esserci stata parecchia calca, sperai che non ci fosse stato il sold out.  Al botteghino riuscivo a scorgere solo una figura femminile, che doveva star litigando col venditore, a giudicare da come si sbracciava. Mi feci più vicino, fino a sentire quello che stava dicendo.
«Guardi» avvicinò al faccione di quell’uomo, con un berretto dei Mets sulla testa, una pagina di un quotidiano sportivo «C’è chiaramente scritto che per i bambini al di sotto dei dieci anni il prezzo è ridotto» disse in tono esasperato. Evidentemente doveva star ripetendo quell’informazione da molto prima che io arrivassi.
«Signorina, per la centunesima volta…» masticava annoiato il suo chewingum quell’uomo «Non so cosa scrivano sui giornali, non faccio il giornalista, io gestisco il botteghino e qui» indicò il listino dei prezzi «C’è scritto chiaramente venti dollari, o ce li ha o niente biglietto.» Mi avvicinai ancora un po’ e sentii chiaramente quella ragazza dai capelli ramati sbuffare.
«E’ una questione di principio» protestò.
«Sia buona, compri l’ultimo biglietto e mi faccia andare a casa» sghignazzò l’uomo del botteghino, fregandosene delle sue “questioni principio” almeno quanto me ne stavo fregando io in quel momento, cioè poco e niente. Era l’ultimo biglietto, non potevo permettere che lo avesse lei.
«Dia a me quel biglietto» risolsi, avvicinandomi mentre tiravo fuori i dollari spiegazzati dalla tasca. Quando d’un tratto la giovane ragazza, che finora non si era neppure accorta di me, si voltò, fissandomi come se fossi l’unica persona rimasta sulla faccia della terra. E come se questo le provocasse un lancinante fastidio.
   
 
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