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Autore: Black Swallowtail    18/02/2017    0 recensioni
Nonostante Azure Kuri sia tornata alla normalità, vincolata ad Aidan Reiss dal loro patto, decide di seguirlo nel suo mondo distorto e brulicante, che si nasconde appena al di sotto della superficie della razionalità umana.
I mostri orribili e gli spiriti gentili non smettono mai di vorticare attorno all'uomo, perché, dopotutto, questa è la loro natura, ed è per tale motivo che esistono uomini come Aidan.
E non sempre si tratta di spiriti che vogliono aiutare il prossimo.
Una maledizione ricade inevitabilmente su chi si costruisce attorno un'identità ripugnante e disgusta perfino se stesso — una maledizione che avvelena l'animo e divora la carne.
La rende pietra.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Scary Monsters and Nice Spirits'
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I

How to break a heart.

 

Ci sono innumerevoli modi per classificare una persona. Fin dall'istante in cui il nostro sguardo si posa su qualcuno, automaticamente, la nostra mente è portata a formare un primo giudizio che, inevitabilmente, ci condurrà a credere che chiunque ci sia davanti si comporti, pensi, viva in un certo modo. In un mondo di plastica, dove il viso che mostriamo agli altri è il nostro biglietto da visita, le prime apparenze contano, l'abito fa il monaco. Coloro che dicono altrimenti, coloro che, pieni di ipocrisia, si approcciano dicendo di non avere alcun pregiudizio, mentono. Tentano di ingannare tanto il prossimo, quanto loro stessi, mentre nel frattempo il piccolo demonio del giudizio affrettato entra in loro, a volte senza che nemmeno se ne accorgano.

È normale, siamo fatti così e non c'è nulla di cui vergognarsi. Studi antropologici e sociali si sono sprecati, sulla faccenda, tentando disperatamente di trovare una giustificazione, un motivo per il quale, in un modo o nell'altro, si tende ad inquadrare un individuo basandosi su dettagli marginali, particolari che saltano all'occhio, magari senza nemmeno aver mai parlato direttamente con tale persona. È quasi spaventoso come la nostra mente, rapidamente, senza alcun ordine preciso, crei uno schema sommario, un quadro generale di una persona, che seppur erroneo è in grado di condizionare completamente il nostro rapporto con essa.

L'ho sempre trovato terribilmente affascinante. Non mi ci è voluto molto per capire che, camminando in mezzo ad una folla di uomini dalle facce grigiastre e prive di tratti, risaltare è un tratto distintivo che deve essere manipolato a proprio favore. Rimanere impresso nella mente di qualcuno, attirandone lo sguardo ed imprimendosi a fuoco nei ricordi grazie al proprio modo di fare, di essere, creare una immagine di sé costruita ad arte, proprio come quando si dipinge un quadro, è lo stratagemma per svettare sugli altri. Il modo per essere migliore degli altri.

Per questo, ci ho messo tutto me stesso. Prima, non ero che uno tra i tanti, un'ombra, pallida e fragile, non diversa da tante altre. Mi aggrappavo disperatamente all'idea che, un giorno, mi sarei potuto ricostruire, risplendere e divenire una sagoma definita, guardata con ammirazione, con invidia. Ero sicuro che la mia apparenza avrebbe surclassato tutti, che avrei avuto la mia rivalsa su coloro che mi guardavano disgustati, che ridevano di me—o che, ancora peggio, mi ignoravano. Essere invisibili, in una vita di apparenze, è la peggiore delle maledizioni, la condanna più caustica ed orribile che un uomo possa subire.

Odiavo essere inerme, essere evitato. Uno tra i tanti. Preferivo il disgusto o il disprezzo, le occhiatacce, i sussurri alle spalle; preferivo che mi odiassero e provassero ripugnanza, piuttosto che, nei loro ricordi, essere uno tra i tanti.

Ci sono state volte in cui ho urlato, contro la mia immagine riflessa nello specchio, ordinaria come tutte le altre, né più, né meno. Non mi importava di avere amici, ma solo di avere successo, di essere guardato da tutti, osservato con la reverenza che si riserva a chi si trova un gradino al di sopra degli altri.

Perciò, quando finalmente mi sono lasciato alle spalle le scuole intermedie, ho colto l'opportunità al volo. Mi sono ripromesso di non dover più guardare il mio riflesso con quella ripugnante insoddisfazione, il mio personale tarlo che mi ha divorato per così tanto tempo. Ho iniziato la mia ricostruzione, pezzo per pezzo, in modo che la mia intera figura possa essere, agli occhi di tutti, esempio, motivo di venerazione, ma anche di invidia. Sì, ho capito che non c'è altro modo, per poter divenire un qualcuno per gli altri. Per godere dei loro sguardi, del loro amore, del loro odio. L'apparenza è la mia arma. Voglio nascondere quel che ho dentro, non voglio che qualcuno veda questa meschinità strisciante e grondante, questa necessità di essere guardato.

L'apparenza è quel che conta. Non c'è altro che gli occhi altrui debbano scrutare. Per tale motivo, ho iniziato con un'attenzione quasi chirurgica a formare la mia nuova identità, a divenire una persona ambita; ho lavorato sul mio fisico e sul mio rendimento scolastico, sul mio modo di parlare, sul modo di vestire e comportarmi. I voti si sono alzati, e così le chiacchiere sulla mia intelligenza; il mio fisico si è modellato, e le occhiate d'invidia e apprezzamento hanno iniziato a seguirmi, una dopo l'altra; la mia carriera nel comitato studentesco è stata abbastanza rapida da portarmi al ruolo di tesoriere in appena qualche mese, e così sono divenuto sinonimo di integrità e affidabilità. Ho lavorato ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni istante, pur di apparire come sono ora.

Poggio la mano sul rubinetto, lasciando scorrere acqua gelida tra le mie dita, lasciando che si accumuli nei palmi delle mie mani, mandandomi leggeri brividi lungo le braccia, prima di gettarla con forza contro il viso; il freddo pungente mi aggredisce al volto, quasi come a volermi strappare via la pelle. Ancora una volta, alzo lo sguardo, verso lo specchio sporco della scuola, dove si riflette la mia sagoma ansimante, piegata sul lavello, che mi restituisce uno sguardo indecifrabile. No, non indecifrabile; sono sicuro che, se solo volessi, se solo vi guardassi meglio all'interno, lo capirei. E proprio per questo, per sfuggire alla verità, evito di guardarlo. Non voglio darle ragione. Non voglio lasciarmi influenzare dalle sue parole; ora ho tutto quello che ho sempre voluto. Ho l'ammirazione, la fama, l'invidia. Ho gli occhi che mi seguono e i sussurri che mi accompagnano. Getto ancora acqua sul mio viso, serrando le palpebre, scacciando l'immagine del ragazzo che ricambia il mio sguardo.

Deciso a non guardarlo, a non prestargli più nemmeno un secondo della mia attenzione, affondo il viso nella manica, asciugandolo rapidamente. Il rumore del getto che scivola attraverso il tubo e scroscia contro la ceramica, facendo schizzare piccole gocce fino alle mie guance.

Un mezzo sorriso si apre sul mio viso senza che me ne accorga. Non ho nulla di cui preoccuparmi, dopotutto. È solo un momento come un altro, un piccolo vacillare, che tornerà ad assestarsi, nel momento in cui ogni cosa ricomincerà a scorrere normalmente, proprio come dovrebbe. Devo dimenticare le sue parole, scrollarmele di dosso, cancellare qualsiasi cosa mi abbiano fatto. Lei, d'altronde, ha deciso di andarsene, è stata lei a separare le nostre strade a quel modo. L'invidia, la gelosia, devono averla divorata dall'interno e corrosa, non è di certo colpa mia. Non c'è modo che sia colpa mia, perché, alla fine, questo è quel che ho sempre voluto.

La porta alle mie spalle si apre con un leggero scricchiolio, facendomi irrigidire di colpo. Chiunque sia entrato, dal passo leggero ed esitante, rimane sulla porta, senza osare avvicinarsi, come in attesa di una mia reazione. Stringo le labbra, deciso a non voltarmi di scatto, come l'impulso mi ha detto di fare quando ho sentito il cigolio dei cardini, ma mi spingo a farlo con calma, quasi casualmente, come se avessi solo appena finito di lavarmi le mani o rinfrescarmi il viso e stessi accingendomi ad andarmene. In questo modo, riesco a ricompormi, a scacciare il viso e le parole che prima mi stavano tormentando, e a mettere insieme una delle mie espressioni più tranquille, per nascondere questo istante di debolezza, in cui la mia maschera, l'apparenza che ho arduamente costruito, è caduta. Non ci metto molto a capire il motivo dell'esitazione della persona sulla porta; non è la prima volta che mi ritrovo in una situazione del genere, sicuramente non sarà l'ultima, ed ogni volta ne traggo un certo piacere, quasi una sorta di lusinga. Qualcuno direbbe che in me c'è una certa vena di sadismo, ma in realtà sbaglierebbe enormemente, perché so perfettamente quanto anche questa sensazione sia artificiale.

So benissimo che la piccola ragazza che trema visibilmente di fronte a me, per quanto tenti di nasconderlo, si dichiarerà non a me, ma alla mia facciata, alla mia apparenza, alla mia reputazione. Così come la sua infatuazione è fasulla, così come l'oggetto del suo interesse è falso, allo stesso modo ogni mio sentimento a riguardo non può essere che sabbia nella bocca, asciutta e scricchiolante, forse perfino tagliente. È minuta, dai capelli così ordinatamente tagliati in modo da ricaderle simmetricamente poco al di sopra delle spalle, una frangia tenuta con cura maniacale a nasconderle parzialmente gli occhi; ogni cosa, di lei, grida di timidezza e sconforto, di un imbarazzo di fronte al mondo che mi punge come fiele.

Lo ricordo perfettamente, quell'imbarazzo. Quella sensazione di inadeguatezza. Stringo i denti, li contraggo talmente forte che, per un istante, credo di aver prodotto uno stridio udibile alla ragazza; ma anche se così fosse, mi sembra troppo presa dall'ansia per ciò che sta per fare. Con il tempo, ho imparato a riconoscere certi atteggiamenti. Ho osservato così a lungo, in silenzio, e con così tanto fervore, che alcuni comportamenti ormai sono come scritti in un piccolo manuale che tengo in un angolo del mio cervello.

“Posso aiutarti?” le chiedo, avvicinandomi abbastanza poterla toccare in viso, allungando semplicemente la mano. Il mio tono di voce è gentile, viscosamente gentile, quasi da poter sentirle mie stesse parole appiccicarsi tra di loro, in una sorta di docile incoraggiamento a questa povera, tremante ragazza. Lei annuisce, meccanicamente, il tremore delle gambe evidente, ma senza aggiungere altro, come se qualche ingranaggio si fosse inceppato. Stringo i pugni, i denti affondati nel labbro per un secondo, senza che se ne accorga, trattenendo la sensazione di rigetto che sta salendo attraverso il mio stomaco, fino alla mia bocca. Più la guardo, più desidero che sparisca, più voglio che lei, la sua tremante figura, la sua ripugnante apparenza, la sua debolezza, la sua maschera piena di graffi e brutture, se ne vada.

“Forse perché ti ricorda qualcuno, Jeiv?”

Quel suo tono di voce quasi malinconico mi irrita, ed è qui, nonostante non voglia più sentirlo. Le sue parole sono veleno. Serro i pugni, le mani nascoste nella tasca, mentre questa ragazzina continua a faticare perfino a pronunciare una sillaba.

Mi disgusta.

Mi disgusta terribilmente.

Vorrei che sparisse dalla mia vista.

Sento di nuovo il bisogno di gettarmi acqua sul viso, di strofinarlo, lavarlo con rabbia, fino a scrostare via questa sensazione agghiacciante che cresce dentro di me, che rifiuto con tutto me stesso, come si sopprime l'istinto di vomitare. Con uno sforzo quasi disumano, riesco a parlare di nuovo, piegandomi appena verso di lei, “Stai bene? Stai tremando.” Il mio tono non è così convincente come vorrei, ma lei è troppo assorbita da questo insormontabile ostacolo del parlare, per rendersi conto dell'impercettibile variazione nella mia voce.

“Sai, Jeivel...” bisbiglia, un filo di voce vibrante, pieno di esitazione, mentre il suo viso inizia a tingersi di un vago rossore, quasi una fiamma che si allunga sulle sue guance. Posso sentirne il bruciore, posso sentirne la vergogna e l'unica cosa che vorrei, ora, è potermi allontanare, smettere di guardarla, di dover sopportare questa lenta tortura, questo specchio distorto che ho davanti. “Sei sempre così gentile e—Non so come dirlo, ma...” affonda il viso nelle mani, iniziando a tremare appena. Devo sforzarmi per controllare il mio respiro, perché se lo lasciassi libero, inizierei ad ansimare.

“Tu mi piaci davvero tanto.”

Se non fossi stato così vicino a lei, probabilmente non avrei capito il significato di questo basso sussurro che ha appena emesso, quasi come togliersi un peso dal petto, perché inizia di nuovo a respirare normalmente. Si è tolta un macigno che la stava soffocando, nel confessare questi orribili, artificiosi sentimenti. Gentile, lei mi crede gentile, magari anche altruista, onesto. Integro moralmente. Mi viene da ridere ogni volta, perché persone come lei sono le peggiori. Sono le più fragili e si muovono istintivamente verso chi mostra loro un minimo di compassione per la loro situazione.

“Mi dispiace,” un sorriso di scuse si apre sul mio volto.

Come faccio a saperlo? È semplice. È terribilmente semplice, ma allo stesso tempo così nauseante e orrido che il solo pensiero è come una coltellata nell'addome, per me.

“Non riesco a guardarti.”

Io ero come lei.

“Mi disgusti.”

Tremi, piangi, arrossisci. Stai in silenzio e non parli, in disparte, ricevi solo occhiate vacue, ributtanti. La tua debole, incrinata maschera, non è nulla.

Ma sopratutto… Ah, qualcuno mi aiuti, perché, sopratutto, tu sei troppo simile a quel vecchio me che disprezzo.

Sei uno specchio distorto che sogghigna e ride, mi sbeffeggia.

Fugge piangendo, silenziosamente, nascondendosi in se stessa, senza fare rumore nemmeno nel dolore, ferita. Le mie mani tremano ed il mio respiro è pesante, come se avessi appena corso una maratona, come se fossi crollato sulle mie ginocchia deboli e incapaci di reggere il mio peso. Non so cosa ho fatto ma, per un secondo, qualcosa in me si è spezzato ed è andato in mille pezzi. La mia maschera si è spaccata e i fantasmi hanno avuto la meglio su di me. Sono sicuro che, se alzassi gli occhi, vedrei il suo viso triste riflesso nello stesso specchio sudicio dove prima ho evitato il mio. I suoi occhi sarebbero pieni di disapprovazione, di un'abissale, divorante tristezza, che mi farebbe a pezzi, mi ingloberebbe e mi costringerebbe a guardare nel passato.

Ho perso il controllo, ho spezzato un cuore—ho sfogato il disprezzo che tenevo in corpo.

Ma quell'odio, quella repulsione, non erano per lei. Erano per me.

Non riesco ad alzarmi, le gambe deboli, immobili.

Sento il corpo pesante…

Come se fosse fatto di pietra.

   
 
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