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Autore: mars_gold    19/02/2017    0 recensioni
In un futuro in cui gli uomini hanno creato dei cloni umani per scampare il più possibile alla morte, dimenticando il rispetto per ogni essere vivente, può un libro di storia salvare tutto ciò che è andato perduto?
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~~“Non c’è peggior nemico di colui che non ha nulla da perdere.”
Mi rigirai il bracciale tra le mani. La stanza era ancora avvolta nel buio della notte ma non avevo bisogno della luce per vedere la scritta incisa, le mie dita e la mia mente la conoscevano a memoria.
Il giorno in cui ero scappata dal centro cloni, quella scritta mi era sembrata così vera, così adatta alla mia situazione, a ciò che avevo provato in quel momento.
Ma era passata più di una settimana e non era più così.
C’erano un sacco di cose che avrei potuto perdere.
Mi rigirai su un fianco tenendo stretto in mano il bracciale; quel pensiero mi terrorizzava in un modo che non riuscivo neppure a concepire.
Al centro cloni sapevo qual era il mio ruolo, non ero altro che carne da macello, facilmente sacrificabile, sapevo leggere e scrivere solo perché in quel modo avevo trovato un passatempo. Nessuno mi aveva mai trattata come un essere umano, nessuno tranne la persona che mi aveva regalato quel bracciale. E quella persona era morta il giorno dopo avermelo regalato.
E quel giorno avevo imparato la regola fondamentale del centro cloni: niente affetti, niente amici, niente oggetti propri. Là dentro non c’era nulla che potessi perdere perché era già tutto perso in partenza.
Da quando ero scappata, invece, avevo guadagnato tanto e capito che in realtà c’erano un sacco di cose che potevano essermi portate via.
E non riuscivo a sopportarlo, non riuscivo a gestirlo. Quel pensiero mi teneva sveglia la notte facendomi sussultare ad ogni singolo rumore, mi costringeva a vivere nella paura occupando costantemente la mia mente, mi spingeva a scrivere su interi quaderni il mio nome fino a che la mia mano non mi faceva male; motivo per cui avevo imparato a scrivere anche con la sinistra.
Il mio nome era diventato il simbolo di tutto ciò che potevo perdere. Avere un nome proprio per me equivaleva ad avere un’identità, era un modo per dire che io esistevo, che esistevo come persona, come singolo individuo che aveva dei propri pensieri, delle proprie emozioni, delle proprie conoscenze, dei propri diritti.
Temevo ogni giorno che quel nome e tutto ciò che rappresentava mi potesse essere tolto.
E temevo ogni giorno che la persona che mi aveva dato quel nome mi potesse essere portata via.
Perché anche il mondo fuori dal centro cloni non era di certo un paradiso, e in fin dei conti avrei dovuto aspettarmelo, no? I centri come quelli in cui ero rinchiusa non si erano di certo costruiti da soli.
Qualcuno sapeva la verità e aveva fatto di tutto per impedirci di svelarla.
Il giorno dopo che Federico mi aveva portata a casa sua ci eravamo subito messi al lavoro per trovare un modo per diffondere ciò che sapevamo; avevamo fatto copie del libro, inondato internet di notizie ma... niente. Tutto veniva cancellato e rimosso nel giro di pochissimi secondi.
E nel frattempo i giorni erano passati e non avevamo fatto nessun progresso, anzi temevamo che qualcuno avesse iniziato a tenerci d’occhio, così avevamo smesso del tutto di tentare.
E i miei demoni avevano iniziato a svegliarsi.
Per primo: il senso di colpa. Quando ero scappata non mi era nemmeno passata per la mente l’idea di avvisare tutti gli altri cloni, di dire ciò che avevo scoperto e di trovare una soluzione insieme; avevo pensato solo a me stessa ed ero sfuggita via.
Peggio ancora, da quando ero fuori non ero riuscita a fare nulla per aiutarli e anzi, temevo che una parte di me fosse felice del fatto che non avessimo fatto progressi, altrimenti avrei dovuto espormi, magari ritornare là dentro. Dubitavo fortemente di averne la forza.
Li avevo abbandonati al loro destino. Avevo posto me, la mia libertà, sopra ogni altra cosa.
Sarei mai riuscita a rimediare? Mi avrebbero mai perdonata?
Ogni volta che pensavo a tutto questo un altro pensiero lo seguiva a ruota: Federico, si sentiva così anche lui? Perché non aveva fatto nulla per salvarci tempo prima?
Come se avesse in qualche modo sentito i miei pensieri, vidi la porta della mia stanza aprirsi e la figura di Federico stagliarsi contro la luce proveniente dal corridoio.
-Sei sveglia. – Disse. Non riuscivo a scorgergli bene il volto ma dal suo tono di voce non mi sembrava affatto sorpreso.
-Sì. – Risposi con un filo di voce alzandomi a sedere. Non richiuse la porta dietro di sé ma si avvicinò comunque al mio letto, i suoi passi erano leggeri, silenziosi.
Si sedette sul bordo facendolo scricchiolare.
-Perché? – Chiese. C’era un misto di preoccupazione ed esitazione nella sua voce.
Nessuno si era mai preoccupato per me, almeno, non per i miei sentimenti, era una cosa così nuova, così strana.
Le persone si preoccupano quando ci tengono a qualcuno... era abbastanza per potermi fidare di lui?
Non sapevo cosa rispondere, non ero abituata a dover spiegare cosa provavo, non sapevo nemmeno se esistessero parole adatte a ciò che stavo sentendo in quel momento.
Il termine “paura” non si avvicinava nemmeno lontanamente alla morsa che mi stringeva lo stomaco.
-Tu perché sei sveglio? – Domandai in risposta. C’erano un sacco di altre domande che avrei voluto fargli, un sacco di domande poco piacevoli e che avrebbero avuto toni piuttosto colorati. Ma non potevo, e non perché avevo paura delle risposte, quanto piuttosto perché se non mi fossero piaciute sarei stata costretta ad abbandonarlo, ad andarmene da sola.
E avevo un disperato bisogno di compagnia, di qualcuno con cui parlare, di qualcuno che si prendesse cura di me, che mi insegnasse a cucinare, ad usare gli schermi e gli ologrammi, o semplicemente che dicesse ad alta voce il mio nome.
Lui sbuffò passandosi una mano sulla fronte completamente ignaro dei miei pensieri.
-Volevo andare fuori, controllare la situazione nelle strade, faccio fatica a dormire di notte. – Rispose.
Poi rimase in silenzio, in attesa. Io però non dissi nulla, non sapevo cosa dire.
Passarono parecchi secondi.
-Lo sai che sei al sicuro qui. Cosa ti spaventa? – Chiese allora.
Tutto. Pensai. Mi spaventavano gli schermi, le telecamere, le automobili fuori, le luci, le urla nelle strade, il mio riflesso allo specchio, il mio nome, i miei pensieri, lui, le persone in generale, il fatto che fosse seduto sul bordo del mio letto, il fatto che desiderasse che si avvicinasse, il fatto che non sapevo se fidarmi o no di lui, i fogli consumati a scrivere, la mia rabbia, i coltelli da carne e quelli da verdure, il surriscaldamento globale, l’idea che non ci fosse nulla da fare, la mia voglia di distruggere tutto.
-Non so più chi sono. Non so come si vive qui fuori. – Risposi infine a voce bassa. Quella era la cosa che mi spaventava più di tutte. Un bambino impara crescendo come si vive, ma io avevo speso la mia infanzia e la mia adolescenza a ripetere lo stesso identico giorno per 365 giorni, per 18 lunghi anni.
-Imparerai, io ci sono riuscito, non vedo perché per te dovrebbe essere diverso. – Commentò Federico alzandosi dal mio letto.
A volte era facile dimenticare che anche lui era come me, che non aveva sempre vissuto in libertà. Sembrava così a suo agio in quel mondo che era dannatamente facile dimenticarsene.
Si ricordava cosa volesse dire essere un clone? Si ricordava di tutte le persone che si era lasciato alle spalle?
Un giorno sarei diventata anch’io come lui? Lo ero già?
Si diresse verso la finestra e scostò di poco la tenda dandomi le spalle. La luce della luna illuminò i suoi capelli chiari, erano lisci e le punte gli toccavano le spalle.
-Tu eri spaventato? – Domandai. Non era la prima volta che glielo chiedevo ma lui si era sempre limitato solo ad annuire. Ecco, in quei momenti sembrava un povero clone incapace di spiegare cosa avesse provato, ma in tutti gli altri... in tutti gli altri aveva una sicurezza e un controllo di sé che mi disarmava.
Che gli invidiavo. Al centro cloni ero abituata a mantenere la mia mente fredda, zero emozioni, zero sofferenze.
Ma adesso... Pensai. Da quanto ero scappata le mie emozioni si erano svegliate inondandomi come un fiume in piena, come un vulcano in esplosione.
Non sapevo più nulla. Non sapevo più nulla di me, del mondo che mi circondava, delle persone.
Come potevo fidarmi? Come potevo parlare con qualcuno?
Federico si voltò di nuovo verso di me e mi osservò in silenzio. I suoi occhi scuri sembravano analizzare la mia anima. Rabbrividii.
-Lo sono tutt’ora. – Disse ad un certo punto, a voce talmente bassa che una parte della mia mente pensò di esserselo solo immaginato. –Ma non è un buon motivo per ritirarmi nella mia stanza senza più uscire. –
Colpita e affondata. Abbassai velocemente lo sguardo.
L’occhio mi cadde sul bracciale che stringevo ancora tra le mani. Me lo risistemai sul polso.
-Non so cosa fare. – Confessai. –La mia testa è... non lo so, peggio di un Carnevale. –
Lo sentii sospirare.
-Fammi quella domanda. – Disse. Alzai lo sguardo, i suoi occhi mi inchiodarono.
-Quale domanda? – Chiesi con la gola secca.
-Quella che ti tieni dentro da quando sei qui, quella che ti tormenta ogni volta che mi guardi, fammela. – Incrociò le braccia davanti al petto e aspettò, senza mai battere ciglio, senza mai spostare lo sguardo da me.
Non potevo più fingere di niente. Non potevo mentirgli.
Questa volta fui io a sospirare.
-Quando sei scappato hai cercato di salvare gli altri cloni? – Dissi tutto d’un fiato. Lui socchiuse gli occhi per un attimo, come perso nei ricordi.
Mi aveva detto di essere scappato poco più di un anno prima ma non aveva aggiunto molti dettagli.
-Ci ho provato. Ho fatto leggere il libro che ti sei portata dietro a un paio di cloni, i miei compagni di stanza, uno di loro è andato a spifferare tutto a uno dei dottori. Il giorno dopo il suo letto era vuoto. Così me ne sono andato. –
Il mio cuore si gonfiò di una nuova emozione: tristezza. Persino il buio della stanza non riusciva a celare l’espressione di dolore che Federico aveva sul volto, una cosa del genere non si poteva fingere, e poi non avevo bisogno di prove per credergli, sapevo che c’erano cloni convinti di essere gli eroi di una grande causa. Ci avevano indottrinato bene.
-Una volta fuori ho cercato di far sapere a tutti la verità, ho conosciuto altri gruppi di cloni evasi, ma non sono mai tornato là dentro; per lo stesso motivo tuo, immagino. –
Sorrisi amaramente. -Ti senti in colpa? – Chiesi.
-Ogni fottuto secondo. Per questo quando sei arrivata tu ero così felice, penso d’avvero che potremmo cambiare le cose... Dobbiamo solo trovare il modo più adatto. – Si passò le mani sul viso. -A proposito, ti va di andare a fare una passeggiata? Così finalmente potrai incontrare gli altri cloni evasi, chissà, magari con loro ci verrà qualche altra idea. –
-U-uscire? Adesso? – Chiesi allarmata. Lui annuì lentamente dando un’occhiata alla finestra.
-Non puoi nasconderti per sempre. So che sei spaventata, so che hai paura ma se resti rinchiusa qui non è come essere rinchiusi là dentro? Quella notte hai rischiato, sei corsa via e non ti sei guardata indietro, credevo che d’ora in poi avresti vissuto sempre così. –
Lo credevo anch’io, ma poi il mondo mi era crollato addosso, il senso di colpa mi aveva schiacciata e la paura mi aveva paralizzata.
Solo perché tu gliel’hai lasciato fare. Disse una vocina nella mia voce. E quella voce e Federico avevano ragione.
La paura potevo ignorarla, il mondo si poteva ricostruire e il senso di colpa... c’era un solo modo per cancellarlo: fare qualcosa per salvare tutti i cloni.
Avevo solo bisogno di una piccola spinta.
-Dì il mio nome. –Dissi. Federico sorrise, scuotendo leggermente la testa, cancellando la tensione e il dolore che aveva sul volto.
-Ti va di uscire, Celeste? – Chiese gentilmente.
-Sì, andiamo. -
   
 
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