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Autore: Zomi    21/02/2017    7 recensioni
-Buon appetito- azzardò un sorriso, che tremò inutilmente sulle sue labbra senza rossetto prima di scomparire.
Canestrisce uggiolò di nuovo, sollevando una zampa e posandola sul ginocchio del padrone.
-Perdonami- lo accarezzò –Non sto ancora bene-
Il cane emise un verso strozzato accucciandosi a terra e fissando Izou tornare alla sua finestra, a perdere lo sguardo nella pioggia.
Abbassò per caso gli occhi sulla tazza di caffè che si era preparato come un automa, e una morsa di dolore gli attanagliò lo stomaco.
Caffè al Ginseng.
{FanFiciton partecipante al Sfiga&Crack's Day indetto dal Forum FairyPiece}
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Izou, Marco
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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CAFFE’ AL GINSENG




 
La pioggia cadeva battente contro la finestra, picchiando con ferocia sul vetro.
Sembrava stesse bussando con forza e testardaggine, decisa a voler entrare in quella casa dall’intonaco chiaro e dalle tende arancioni alle finestre.
Forse voleva porta un sorriso al giovane ragazzo addossato alla finestra della cucina e che guardava le pozzanghere ballare al ritmo della pioggia.
Forse voleva specchiare ogni goccia nel suo sguardo grigio, cercando di donargli qualche tonalità più allegra.
Ma non si può donare colore a chi l’ha perso, e Izou li aveva persi tutti.
Scostò la tenda sgargiante, puntando gli occhi al giardino di casa sua.
Il prato inzuppato, la cuccia di Canestrisce fradicia, la staccionata bigia.
Si portò dietro un orecchio una ciocca d’ossidiana sfuggita alla croccia stranamente severa e stretta sopra la sua nuca, facendo scivolare poi le dita sul collo spoglio e sulle pieghe del maglione nero che indossava.
Nessuna sciarpa dai colori primaverili, nessuna collana naif o accessori.
Solo il maglione nero, i jeans rattoppati e gli occhi grigi che si perdevano tra la pioggia mentre la mano reggeva la tazza di caffè fumante.
Era Sabato mattina e non doveva lavorare.
Non doveva uscire da casa e guidare nel caso cittadino, fino al centro città e allo studio in cui lavorava.
Poteva starsene in casa e mimetizzarsi con l’uggiosità malinconica della pioggia, annegando il suo malessere nel caffè beige che ancora fumava nella tazza.
O almeno avrebbe voluto se il suo labrador non avesse abbaiato, ricordandogli la sua esistenza.
-Perdonami Canestrisce- tentò di sorridergli, accarezzando l’enorme testone nero che lo aveva colpito sulla gamba posando la tazza sul ripiano della finestra –Ora ti do da mangiare-
Si allontanò dalla finestra, i passi che seguivano una rotta già segnata dall’abitudine sulle piastrelle della cucina, accompagnandolo ad afferrare il cibo in scatola per Canestrisce.
Afferrò la ciotola del cane, non pronunciando alcuna battuta, alcun rimprovero sulla golosità del mastino o sul provare una dieta vegana per animali domestici.
Svuotò il contenuto nella ciotola e la posò sul tappetino posto vicino alla porta che dava sul retro, tornando a farsi sorreggere dalle pareti della casa.
-Buon appetito- azzardò un sorriso, che tremò inutilmente sulle sue labbra senza rossetto prima di scomparire.
Canestrisce uggiolò di nuovo, sollevando una zampa e posandola sul ginocchio del padrone.
-Perdonami- lo accarezzò –Non sto ancora bene-
Il cane emise un verso strozzato accucciandosi a terra e fissando Izou tornare alla sua finestra, a perdere lo sguardo nella pioggia.
Abbassò per caso gli occhi sulla tazza di caffè che si era preparato come un automa, e una morsa di dolore gli attanagliò lo stomaco.
Caffè al Ginseng.
Quello che fumava e macchiava la sua tazza color arcobaleno era caffè al ginseng.
La morsa si ramificò dallo stomaco alla gola, limandogliela e raggiungendo il palato con acida forza.
Izou amava il caffè al ginseng.
O almeno aveva provato ad amarlo, ad apprezzarne il gusto naturalmente dolciastro rispetto al caffè normale, il colore annacquato e il profumo meno amaro.
Ci aveva provato.
Per quattro lunghi mesi aveva vissuto di caffè al ginseng, sopportandone il sapore inconsistente e il colore inadatto.
Aveva tentato con tutte le sue forze di farselo piacere, di trovarne una qualità.
Ce l’aveva messa tutta.
Ci aveva provato solo per lui.
Solo per Marco.
La prima lacrima ebbe almeno il buon gusto di avvisarlo del suo arrivo pizzicandogli l’occhio,  fornendogli l’opportunità di passarsi un dito sulla ciglia asciugandola ancor prima che scivolasse sulla guancia, celandola al mondo intero.
Non avrebbe più versato alcuna lacrima per Marco.
Né per lui né per ciò che gli aveva negato.
No, non avrebbe più pianto.
O almeno ci avrebbe provato, perché era impossibile dimenticarsi di lui.
Del suo sguardo nero e tagliente che non permetteva a nessuna emozione di trasparire.
Delle sue labbra carnose e da baciare, che raramente e solo per pochi eletti si erano piegate in un sorriso caloroso, e lui era stato tra quei pochi.
E la sua voce, calda morbida e baritonale, le sue mani grandi in cui sentirsi protetti, il suo corpo a cui dormire abbracciati, la sua anima che brillava di una luce bluastra e rigenerativa.
Si passò una mano sugli occhi, ora umidi, ridacchiando a ritmo con i primi singhiozzi.
Patetico.
Non riusciva proprio a dimenticarlo eh?
-Come se si potesse…- addossò il capo alla finestra, il pugno che picchiava sul vetro.
 
 
Lo aveva conosciuto al bar del palazzo in cui lavorava.
Marco aveva ordinato un caffè al ginseng e lui, spavaldo e sordo ai sussurri isterici e materni di Nami, glielo aveva rubato da sotto la mano.
-Ops!- si era permesso di ridacchiare con faccia tosta –Credevo fosse il mio caffè al ginseng… perdonami!-
Aveva sentito su di sé l’espressione ammutolita e imbarazzata di Nami, ma soprattutto aveva sentito la scossa elettrica e folgorante con cui lo sguardo del biondo l’aveva attraversato.
L’aveva squadrato da capo a piedi, e Izou era quasi certo che si sarebbe aggiudicato un buon gancio in pieno viso da quel solitario biondino che aveva notato –perché chiamarlo “stalkerare” come faceva Nami era così cacofonico- già da qualche settimana fare colazione in quel bar.
Si, un pugno si aspettava Izou, non certo che Marco piegasse la labbra in un ghigno e gli offrisse il suo caffè, ordinandone un altro per sé.
Era stato il primo caffè al ginseng di Izou.
Era stato il primo che avevano condiviso.
Era stato il primo di una lunga serie.
 
Nami gli aveva sempre rinfacciato la buona stella che l’aveva protetto quel giorno.
Non solo si era visto offrire un caffè.
-… ma al ginseng fa schifo Nami!-
Non solo aveva evitato una zuffa al bar ma aveva avuto anche la fortuna sfacciata che quel Marco, così silenzioso e solitario nelle pause pranzo che si concedeva nell’orario lavorativo, sopportasse di buona voglia la sua compagnia.
-Perché a te invece ti pagano per sopportarmi vero?-
-È una clausola speciale nel mio contratto d’assunzione- gli aveva tirato la linguaccia la rossa, prima di lasciarlo alla sua ormai abituale pausa mattutina con Marco.
Si erano conosciuti così.
Tra un caffè al ginseng e l’altro, a volte sostituiti da qualche cappuccino e una brioche, raramente da un tramezzino, spesso da un fiume di parole e conversazioni fitte e sazianti più di qualsiasi altro cibo.
Izou non avrebbe saputo dire con certezza quando si accorse di essersi innamorato di Marco.
Forse al suo primo sorriso spontaneo, o al tredicesimo caffè al ginseng quando gli aveva rivolto un’occhiata gentile e serena, o forse quando lo aveva salutato con un bacio sulla guancia.
Si era innamorato, e il caffè al ginseng gli era parso più buono.
 
-Sono gay- gli aveva detto all’uscita dal cinema in una domenica pomeriggio –Te ne sei accorto vero?-
Marco aveva sollevato un sopracciglio, osservando Izou e la sua camicia violacea accompagnata da un gilet nero e le braccia vestite fino ai polsi di braccialetti di mille colori.
-È facile intuirlo- gli aveva risposto, sempre così criptico e gentile.
-È difficile non notarlo- lo aveva corretto, camminandogli a fianco.
Erano rimasti in silenzio fino all’incrocio, in attesa che il semaforo dei pedoni diventasse verde.
Allo scomparire della luce scarlatta, la lingua di Izo aveva preso coraggio dando voce a quella domanda che da qualche settimana tormentava il moro.
-E che il mio interesse a te non è solamente volto a una relazione d’amicizia…- aveva preso un profondo respiro -… questo lo sai?-
Marco non si era voltato a guardarlo, aveva continuato ad attraversare la strada sulle strisce lasciando che Izou lo seguisse in una disperata ricerca di una risposta.
-Izou- lo aveva chiamato giunto sull’altro alto della strada.
Aveva deglutito anche il cuore, annaspando tra un’apnea e l’altra.
Non avevano mai varcato quel sottile confine, così labile e incorporeo, che divideva il conoscersi come amici dal conoscersi come amanti.
Izou non gli aveva mai chiesto il suo orientamento sessuale e d’altra parte chiedere al moro il suo era come chiedere a un bambino se la Nutella gli piaceva: la risposta era ovvia e non necessitava di essere espressa ad alta voce.
Pendeva dalle labbra di Marco, pronto alla peggiore delle risposte, ma quando il biondo si piegò appena su di lui, ad annientare la lieve differenza d’altezza che li distingueva con le sue labbra, tutte le cose ovvio che popolavano il colorato mondo di Izou parvero vacillare.
-Sono gay- aveva sorriso Marco –Te ne sei accorto vero?-
 
I caffè al ginseng erano diventati una routine aromatica delle loro mattine.
Il giovedì a casa di Marco per la serata pizza un evento speciale.
Il cinema una ricorrenza della domenica.
E Izou non era mai stato così felice.
Poter trascorrere anche un sol minuti con Marco lo rendeva felice, e non gli importava se lui era goffo in confronto all’eleganza naturale del biondo, o troppo ironico e istintivo.
Amava far inarcare le labbra del maggiore in un lieve sorriso divertito con le sue battute o baciare quelle stesse labbra in un semplice gesto d’affetto.
Izou amava Marco.
Lo amava e avrebbe fatto di tutto per lui.
Anche amare il caffè al ginseng.
E lo aveva fatto.
Aveva amato il caffè al ginseng per quattro lunghi mesi.
Poi, l’aroma dolce e il colore chiaro del caffè orientale, avevano assunto il sapore di un pugno allo stomaco e le sfumature di un cuore diventato cenere.
 
Era successo al bar di Makino in un sabato pomeriggio di sole.
Stavano parlando di non ricordava bene cosa.
Sembrava che tutto andasse bene, che niente fosse fuori dal normale: Canestrisce dormicchiava ai piedi del tavolo, alcuni bambini si macchiavano il viso con il gelato, lui smaniava per tornare a casa a fare l’amore e Marco ghignava accarezzandogli l’ovale del viso in una muta e provocante esca maliziosa.
Era successo in un attimo.
Una coppia di ragazzi era passata vicino al loro tavolo magnetizzando lo sguardo di Marco, che si era sollevato come scottato posandolo sulla figura di uno dei due.
-Ace?-
Izou aveva avvertito una scia fredda bruciargli la schiena mentre il ragazzo moro della coppia si voltava verso di loro, a sorridere smagliante a Marco.
Al suo Marco.
-Ehi Marco!-
Lo scambio di saluti, le presentazioni, le mani del biondo che stringevano quelle del ragazzo con le lentiggini mentre i loro occhi non smettevano di incrociarsi e illuminarsi, aizzando vecchie braci nelle iridi azzurre del biondo.
L’accompagnato di Ace, un brunetto dal pizzetto e dagli occhi grigi come nebbia, non aveva mosso un sol muscolo né si era presentato, lasciando Marco e Ace a parlare di vecchie aneddoti quasi fossero soli.
Izou era diventato parte dello sfondo, e quando si era permesso di tossicchiare per richiamare l’attenzione del suo ragazzo, il biondo lo aveva guardato come se fosse apparso dal nulla, le palpebre aperte e richiuse più volte per capacitarsi di ciò che vedevano davvero.
Si era scusato, strappandogli un sorriso, lo aveva presentato come “Izou, un amico” spezzandoglielo per poi tornare a parlare labile e con le labbra piegate a sogghignare con Ace.
Il cuore di Izo aveva iniziato in quel esatto momento a sussurragli dubbi e parole che non voleva ascoltare, mordendosi il labbro a ogni sorriso che Marco regalava allo smagliante Ace, tamburellando il piede sotto il tavolino innervosendo Canestrisce che fiutava nell’aria il profumo di un cuore in preda all’agitazione.
Alla fine Ace aveva salutato cordiale e gentile, aveva stretto un’ultima volta la mano di Marco abbassando lo sguardo e regalandogli un sorriso amaro per poi incamminarsi con il silente Law –c’era voluta una buona dose di pazienza e tempo per scoprirne il nome- posando una mano sulla sua spalla a massaggiarla in segno di conforto.
Gli occhi a mandorla di Izou non li avevano lasciati un solo istante, finché non erano scomparsi oltre il bancone del bar. Solo allora si era rivolto a Marco, scrutandolo fremente di agitazione.
-È simpatico- aveva esordito sorridendo, attirando gli occhi cerulei del ragazzo e le sue labbra carnose ancora inarcate all’insù.
-Sì- si era portato alle labbra la tazza di caffè al ginseng fumante.
-È un tuo amico…- non una domanda, ma una certezza orami -… un tuo caro amico-
-Si, lo è- lo sguardo rivolto alla vetrata e all’esterno –Ormai lo è-
Il nervosismo di Izou si era accentuato, i battiti del cuore un sottofondo rimbombante nelle orecchie.
-Marco chan- lo chiamò, senza il suo tono svenevole e innamorato -Voi stavate insieme?-
La tazza portata alle labbra nuovamente, un nuovo sorso.
-Sì- il terzo, il più prevedibile –È il mio ex-
-E…- aveva tamburellato le dita attorno al suo caffè beige e dolciastro, frenato dalla paura di sapere, di avere la certezza che quei sguardi, quegli occhi brillanti e focosi del biondo non fossero accesi solo dai ricordi di un amore non più pulsante e sfumato, ma da altro -… provi ancora qualcosa per lui?-
Lo fissò guardare oltre lo specchio della vetrata del bar, immergendosi in chissà che ricordi e immagini, sorridendo al suo stesso riflesso. Soprapensiero, perso e sorridente.
-Marco…- gli aveva accarezzato la mano tremante, spaventandosi quando lo sentì parlare, con tono distaccato ma sofferente, quasi che rivelare le sue emozioni ad alta voce lo uccidesse.
-Lo amo- non si era voltato a guardare Izou negli occhi –Io amo Ace-
Il cuore si incendiò da solo, consumandosi e diventando cenere in un attimo.
Poté percepire il calore dello scoppio nel suo sterno, il rapido consumarsi della carne e di ogni emozione che il suo povero cuore aveva contenuto fino ad allora.
Una volta aveva paragonato Marco a una fenice, che brucia e si consuma solo per rinascere più maestosa di prima, ma ora a bruciare era lui e non vi era nulla di solenne e magnifico: c’era solo dolore e tanta voglia di urlare.
Marco amava Ace.
Non lui, non il ragazzo stravagante e ironico con cui divideva la sua vita da quattro mesi a quella parte, non lui che lo adorava e apprezzava ogni singolo dettagli della sua stoica e silenziosa presenza.
Marco non amava Izou.
Amava Ace.
Amava le sue gote spruzzate di lentiggini, non quelle pallide di Izou.
La chioma corvina e ribelle, dalle ciocche mosse e morbide di Ace, non la crocchia disordinata e indomabile del ragazzo che manteneva gli occhi grigi su di lui non riuscendo nemmeno a respirare.
Marco amava il sorriso solare e spontaneo di Ace, quel ragazzo che sorrideva alla vita, non il moro che si faceva deridere dal destino e che ironizzava su tutto.
Marco amava Ace, e non Izou.
Tentò di parlare, di esprimere a voce il dolore che gli stava squarciando il petto, ma non ci riuscì.
Le mani tremavano bruscamente sul ripiano del tavolino, costringendolo a nasconderle sotto di esso ed ad abbassare anche gli occhi, umidi e rossi di iraconda delusione.
Se Marco amava Ace, che ci faceva lui lì?
Era un tappabuchi?
Riempiva il vuoto che Ace aveva lasciato nella sua vita mettendo fine alla loro relazione?
Era uno svago, un passatempo?
Un divertente sollazzo temporaneo?
Un scaccia pensieri che lo faceva ridere e basta?
Che cosa ci faceva Izou lì, nella vita di Marco, se lui non lo amava?
-E allora io che ci faccio qui?- aveva parlato ad alta voce guardando un’ultima volta lo sguardo blu di Marco, accarezzando Canestrisce con mano tremante e guidandolo per il guinzaglio fuori dal bar, le ceneri dei suoi sentimenti a tracciare la via d’uscita.
Era stata l’ultima volta che aveva visto Marco.
Era stato il loro ultimo caffè al ginseng.
Era stata l’ultima volta che aveva sopportato il falso sapore dolciastro di quell’inutile caffè.
 
 
Il ticchettio della pioggia non si era fermato.
Batteva ancora forte e deciso contro la finestra, bussando interrottamente.
Gli occhi di Izou erano fissi sulla tazza di caffè ormai freddo posata sul davanzale.
Il liquido beige e dolicastro si era freddato col passare del tempo e il moro lo studiava con occhi spenti.
Odiava il caffè al ginseng.
Lo odiava con tutto se stesso.
Gli ricordava i sorrisi di Marco, i pomeriggi trascorsi ad amarlo non accorgendosi di essere un palliativo per il suo cuore battente per qualcun altro, le ore a fare l’amore con lui, i sospiri mal trattenuti e le paure di non essere adatto.
Usato.
Marco lo aveva usato.
Lo aveva fatto innamorate, del suo sorriso caldo, della sua voce roca, del suo sguardo sottile, di lui.
Lo aveva fatto innamorare perdutamente del caffè al ginseng.
Per cosa poi?
Solo per dimenticarsi di qualcun altro, per riempire lo spazio vuoto che il suo cuore aveva perso.
La rabbia gli strozzò il fiato, storcendogli le labbra nude di rossetto.
Con mano ferma afferrò la tazza e la portò al lavandino della cucina, svuotandola del suo contenuto.
Il caffè al ginseng gorgogliò giù per lo scarico scomparendo alla sua vista.
Si chiese perché ancora si preparasse una brodaglia del genere con il caffè istantaneo comprato settimane prima.
“Perché buttarlo sarebbe uno spreco!” lo ammonì una vocina dentro di sé, ma aveva la strana tonalità di voce della sua amica Nami e non era nemmeno certo che si riferisse proprio al caffè al ginseng istantaneo.
Sospirò, desiderando che anche il suo dolore potesse sparire giù per lo scarico se solo fosse riuscito a toglierselo di dosso e a gettarlo nel lavandino.
Ma ciò avrebbe significato dividersi dai mille ricordi felici che aveva vissuto con Marco, negarli e disprezzarli totalmente, nonostante il loro prezioso carico emotivo.
Cancellare ogni traccia del biondo e di ciò che significava per lui.
Aveva più da perdere che da guadagnare in quell’orribile situazione, e non era certo che fosse la parte peggiore.
-Perché dev’essere così difficile odiare qualcuno che si ama?- sbottò sbattendo la fronte sulla mensola che sovrastava il lavello.
Canestrisce sbuffò baritonale, più per il fastidioso stato in cui vegetava il suo padrone che per la domanda filosofica.
Izou lo guardò di striscio prima di accucciarsi affianco a lui, steso a terra col testone tra le zampe e la coda oscillante appena sollevata dal pavimento, gli occhioni neri fissi sul viso pallido del moro.
-Non sono un bello spettacolo, eh Canestrisce?- gli accarezzò il capo, facendolo scodinzolare più animatamente.
Forse doveva solo lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare da capo.
Sarebbe stato ben lontano dai caffè la ginseng e dai biondi, forse anche dai bar in generale.
Avrebbe vissuto in clausura.
Sospirò nuovamente.
-Che schifo amare!- sbottò non staccando il palmo dal pelo nero del cane, il muso sollevato da terra per godersi meglio le bentornate attenzioni del suo padrone.
-Bau!- uggiolò quasi a rispondergli, strappandogli un sorriso.
-Forse dovrei…- borbottò Izou ma il campanello lo interruppe aizzandosi contro l’abbaiare inferocito del mastino.
-Buono! Buono!- cercò di calmarlo il moro correndo ad aprire –Sarà Nami!- si rivolse al cane, ritto sulle zampe e denti digrignati –Oh sciocco di una cane: solo perché ha un gatto non la sopporti! Razzista!-
Arrivò alla porta e abbassò la maniglia, continuando a rivolgersi al labrador con tono minaccioso.
-Se non la smetti di abbaiare le dirò di portarsi Gattovipera la prossima volta che viene a trovar…-
-Ciao-
Percepì i muscoli indolenzirsi di colpo al suono di quella voce.
Le ossa scricchiolare e il rumore della pioggia rimbombare ovattato, come se provenisse da un temporale lontano.
Provò a concentrarsi, a distinguere il noioso rumore affannoso del suo respirare dal crepitio della pioggia, tentando di capire se avesse realmente sentito quel saluto pronunciato con tono caldo e basso o se lo fosse solo immaginato.
Canestrisce aveva smesso di abbaiare rabbioso, e ora ricambiava il suo sguardo giudicandolo con occhio severo in attesa che si voltasse a salutare il suo ospite.
Dovette latrare di nuovo per disincantare Izou, costringendolo con un uggiolio acuto a voltarsi verso la porta ancora spalancata.
Con gola secca e la mente in disordine il moro puntò gli occhi sulla figura di Marco in attesa davanti a lui sotto il porticato.
Non riuscì a pronunciare una sola parola nel guardarlo.
La giacca bagnata per il temporale, il cappuccio calato sul capo ma che non riusciva a coprire del tutto le ciocche bionde, le labbra strette e serie, gli occhi… no, quelli non aveva il coraggio di incrociarli.
-Ciao- tentò di nuovo, una mano in tasca e l’altra dietro la schiena.
-Ciao- ripeté monocorde il moro, le mani tremanti attaccate allo stipite della porta.
Non capiva.
Marco era lì, bagnato fradicio davanti a casa sua una settimana e tre giorni dopo la loro muta rottura.
Era lì, e  lo stava salutando.
Si passò una mano sugli occhi, massaggiando anche la fronte e storcendo le labbra confuso.
Forse era un’allucinazione.
Aveva perso anche il poco buon senso che aveva a disposizione e ora vedeva e salutava il suo Marcochan ovunque. Oggi davanti alla sua porta, domani magari in bagno sorridendo come un ebete allo spazzolino da denti.
Respirò a fondo, riportando lo sguardo alla figura del biondo, accertandosi che fosse realmente lui e non la produzione folle della sua mente malata in combutta con il suo cuore spezzato.
-Cosa…- cercò di schiarirsi la voce, stringendo la manica del maglione nero tra le dita -… cosa fai qui?-
Lo vide sussultare – e Marco non sussultava!- muovendo un passo verso di lui mentre i suoi di passi invece indietreggiavano.
Marco si fermò, appena pochi centimetri da lui, dal suo respiro dalla sua crocchia così dannatamente in rodine e controllata.
Non lo aveva mia visto così.
Non ave amia visto Izou indossare vestiti dai colori scuri senza l’aggiunta di qualche sciarpa sgargiante o accessorio luminoso. Non lo aveva mai visto senza rossetto nero sulle labbra o senza un sorriso. Non lo aveva mia visto con i capelli in ordine e mansueti, tenuti a briglia dall’elastico della crocchia.
Non aveva mia visto Izou senza colori e senza vita.
Prese un respiro profondo, scivolando con la mano da dietro la schiena al davanti, frapponendo tra lui e il moro un piccolo vassoio di carta con sopra due tazze richiuse di caffè.
Il stomaco di Izou iniziò a riempirsi di acido a quella vista, gorgogliando come poco prima aveva fatto il lavandino della cucina.
-Ti ho portato del caffè- parlò calmo e caldo Marco, puntando gli occhi sul volto pallido del moro –Caffè al Ginseng-
-Detesto quella brodaglia!- storse le labbra disgustato, voglioso di fargli del male, di ferire lui e il suo dono.
Non voleva caffè, non voleva i ricordi che la bevanda portava di loro due: rivoleva Marco.
Ma era un desiderio impossibile.
-Lo so- continuò piegando appena le labbra –Anch’io non lo sopporto-
Izou lo fissò finalmente in viso, fronteggiandolo con lo sguardo.
Non gli importava che anche a lui quella schifezza facesse schifo.
No!
Non lo aveva cercato dopo l’incontro con Ace, non gli aveva dato spiegazioni e non lo aveva chiamato.
Per dieci lunghi giorni non aveva dato notizia di sé, nemmeno per scusarsi o cercare di rimediare, non si era interessato a lui e ora, in un stupido sabato mattina di pioggia, veniva a dirgli che detestava il caffè al ginseng?
Cosa gliene poteva importare?
A lui non importava più nulla.
Aveva solo una gran voglia di picchiarlo, di caricare un pugno e colpirlo al viso.
Fargli male, male fisico e doloroso, così tanto da fargli conoscere il dolore vero.
Un’unghia spezzata delle sue poteva essere una buona perdita pur di sfogarsi e non sentirsi più così male.
Strinse le dita della mano nel palmo, stringendo i denti  e pronto ad avventarsi su di lui, quando lo vide abbozzare un sorriso amaro, quasi quanto il caffè, e piegare il capo a studiargli l’ovale delicato e diafano mostrandogli i suoi occhi scuri colmi di dolore.
-La mattina in cui ci siamo conosciuti non avevo ordinato del caffè al ginseng- gli sorrise sforzandosi di essere controllato nella voce –Il barista deve essersi sbagliato-
Il moro ascoltava, silenzioso e con gli occhi lontani da quelli di Marco.
-Mi ero lasciato da poco con Ace- Izou storse le labbra al nome -E non avevo voglia di provare nulla di nuovo o etnico: volevo solo il mio caffè nero e amaro-
La mano con cui reggeva le tazze di caffè vibrò lievemente e Izou scattò involontariamente a reggere il cartone con la mano libera dal tenere la porta aperta, frenando il tremolio di Marco.
-Ma poi sei arrivato tu- sbottò in un sorriso meno tirato –Con la tua spontaneità e la voglia di vedere ridere la gente. Tu con i tuoi caffè a ginseng… e ho voluto provare-
-Provare cosa?- sbottò Izou, severo e violento –Provare a prenderti gioco di me?-
-Provare a rivoler bene a qualcuno- gli rispose con quel suo tono apatico, ma con una nota furente a colorarla –Provare a fidarmi ancora-
Sembrava in bilico tra il voler esprimere ciò che lo faceva sorridere in quel modo forzato e il tacere.
Lo fissò passarsi la mano tra i capelli bagnati, abbassandosi il cappuccio e facendo gocciolare il giaccone sul pavimento dell’entrata, non staccando mai gli occhi da Izou.
-Volevo dimenticare il male che provavo, provare qualcosa di nuovo- fissò Izou storcere il naso, le mano serrata in un pugno contro la porta –Ma poi…-
-Ma poi non è cambiato nulla!- sbraitò il moro, la mano dalle nocche bianche –Ace rimane l’uomo di cui ti sei innamorato e io…-
-E tu sei diventato caffè al ginseng!- parlò con enfasi, sollevando la mano libera dal reggere i caffè a quella di Izou premuta sulla porta, stringendola tra le dita in una carezza violenta.
-Sei diventato quotidiano- si sporse verso di lui –Il caffè non amaro ma dolce, non scuro e duro ma di un colore estraneo, morbido-
Gli prese la mano ancorata alla porta, staccandola con fatica e portandosela alle labbra desideroso di un contatto.
-Sei diventato il caffè che non volevo ma di cui ho bisogno- baciò ogni singola falange di Izou, rafforzando la presa quando percepì la mano fremere per il tremore doloroso che scuoteva il suo proprietario.
-E credi…- lo sentì trattenere la voce rotta dall’ira -… che venire qui a dirmi che sono uno stupido caffè al ginseng, che tra l’altro detesto, mi curi dal dolore di sapere che sei stato con me solo per dimenticarti di un altro?-
-Non sono mai stato con te per dimenticare lui- strinse con forza la sua mano –Sei tu che lo hai cancellato-
-Hai detto di amarlo!- urlò con forza, facendo scattare innervosito anche Canestrisce, calmo fino a quel momento –Ami lui, non me!-
Marco lo fissò serio non accennando a voler lasciare la presa sulla sua mano, ancora premuta sulle sue labbra.
-Amo anche il caffè nero- avanzò di un passo, spingendo il cartone dei caffè contro il busto di Izou –Ma non posso vivere senza quello al ginseng- sollevò appena i due contenitori, abbozzando un sorriso mesto –Amo il caffè al ginseng… di quello nero non me ne faccio più nulla-
Il labbro di Izou iniziò a tremare pericolosamente, coinvolgendo il corpo e la mano che reggeva il cartone porta vivande, fino a costringere Marco a sfilarglielo gentilmente dalle mani e posarlo sul primo mobile che faceva capolino sulla porta, aprendo le braccia e stringendosi al petto il moro piangente e singhiozzante.
-T-tu…- tirava su con il naso, la voce acuta come sempre quando si emozionava o cedeva al turbinio di sentimenti che lo colorava ogni giorno -… t-tu mi ha-hai fatt-to così male!-
-Lo so, scusami- gli baciò le tempie, sciogliendogli la crocchia severa.
-P-per colpah tu-tua… in-indosso un ma-maglione n-nero!- lo colpì sullo sterno -È fuori moda quest’ann-no!-
Sorrise aspirando avido il profumo di carta di riso che emanava la chioma corvina, maledicendosi per quanti stupidi giorni aveva lasciato trascorrere prima di capire quanto amasse quel ragazzo troppo emotivo e spontaneo che gli piangeva addosso.
-Mi dispiace- gli sollevò il viso, rigato dalle lacrime, baciando le labbra e mordendole piano –Mi dispiace-
Izou singhiozzò ancora, ignorando lo sbuffare uggiolante del suo cane, aggrappandosi ai polsi del biondo.
-Se provi a farmi di nuovo così male io…-
-Non accadrà- lo baciò con forza, a prometterlo con tutto l’amore che provava per lui –Ti amo. Io amo te!-
Lo fissò annuire, asciugandosi sulla manica del giaccone le lacrime e strappandogli un sorriso, prima di abbassare gli occhi alle tazze di caffè.
Ormai erano fredde, e la continua pioggia battente aveva rovinato gran parte del cartone che le reggeva.
Izou storse appena il naso, tirando all’interno della casa il suo Marco.
-Odio il caffè la ginseng- affermò lapidario, prima di rabbonirsi e sorridere –Ma se lo ami tu lo amo anch’io-
Marco ghignò, passando i pollici sulle gote del moro, abbassandosi di nuovo a baciarlo.
-Tranquillo- schioccò le labbra sulle sue -È cappuccino-
 
 
 

 
   
 
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