L’eccellenza di un dono sta nella sua adeguatezza,
piuttosto che nel suo valore.
Charles
Dudley Warner
Il
piacere è il fiore che passa; il ricordo, il profumo duraturo.
Jean de
Boufflers
Rosie
ha quasi otto anni. Non le piace più legare i capelli in due buffi codini
sbilenchi come quando aveva cinque anni; ora predilige trecce e code di cavallo
molto simili a quelle che per anni lui ha visto riproporsi in successione addosso
a Molly Hooper (che costituiscono un pezzo della sua armatura, insieme alle bluse
policromatiche e ai maglioni atrocemente brutti, nello stesso modo in cui
quella di Sherlock è costituita da un cappotto di lana scuro, completi d’alta sartoria e un cappello che lui
finge di detestare, ma che segretamente ama).
Il
suo gusto preferito di gelato è il pistacchio (“Ma solo se di Bronte,” dice con
un’espressione seria e compunta che sembra rubata ad un sommelier, degna di una
vera intenditrice qualificata). La sua risata è contagiosa e limpida come una
calda giornata estiva. Il suo film preferito è Paulie e nonostante lei lo neghi con veemenza, John sa che adora ancora
gli spettacoli di marionette del Little
Angel Theatre.
Rosie
ha quasi otto anni, manca poco più di
una settimana al suo compleanno e tra inviti a forma di mongolfiera, portare
avanti l’organizzazione di una festa a tema (Il mago di Oz. Sul serio, cosa diavolo gli era saltato in mente?
Pensava che l’ultimo istinto suicida fosse stato decidere di diventare il
coinquilino dell’unico Consulente Investigativo al mondo. Evidentemente era
stato in errore.), ingaggiare un ammaestratore di scimmie e cercare la
pasticceria giusta, alle varie e quotidiane acrobazie di un padre vedovo va ad
aggiungersi un’ulteriore fonte di preoccupazione: trovare il regalo perfetto.
Non
che John Watson non abbia fantasia. Lui è dotato di grande immaginazione, grazie tante, una fervida inventiva,
dopotutto è un blogger, no? Un blogger che si limita a mettere a nudo fatti
realmente accaduti in quella che lui considera un po’ la sua seconda vita, la
sua vita nascosta, le avventure di un eroe quando sveste i panni in incognito
del suo alias più ordinario.
John
Watson ha molta fantasia, tuttavia la fantasia non basta, non è sufficiente
quando ci si ritrova a combattere ad armi impari contro avversari formidabili.
I
rivali per l’amore di sua figlia non ricorrono a trucchi subdoli e infidi. I
loro regali non si contraddistinguono perché sono particolarmente costosi (lo sono, ma non è questo il punto), ma perché
sono unici e speciali e così
peculiari, tutte caratteristiche, queste, degne di lei, degne della persona
unica e speciale e peculiare che è sua figlia. La sua piccola Rosie.
“Non
più così piccola, John,” sussurra una voce sagace che proviene dal retro della
sua coscienza.
John
è tentato di roteare gli occhi per la marginale reazione di noia
provocata da quell’appunto. Può sentire il sorriso nelle parole di lei e
immaginare – ricordare – la sua
risata, ricostruendola con una scrupolosità che ha del maniacale.
“Sarà
sempre la mia piccola,” ribatte, non senza una certa dose di malinconia e
amarezza.
Chiude
gli occhi e per un attimo il traffico di Londra tace, il sole si oscura e il
mondo si ritrae come la risacca, traducendosi in un brusio indistinto quando la
mano di un fantasma si poggia sulla sua guancia e l’illusione di un respiro che
profuma di marzapane lambisce la pelle sensibile della sua mandibola.
“Nostra,” è il rimprovero bonario che
riceve in risposta, ad un soffio di bacio.
“Nostra,”
lui concede e non riesce a trattenere oltre l’istintiva tentazione di toccare la
sua pelle, i suoi capelli. Credere per vedere, non vedere per credere. La sua
mano non incontra resistenza e afferra il vuoto. Il vuoto di un’assenza che gli
anni non hanno reso più facile o meno brutale. L’eco di Mary Watson svanisce in
un raggio di sole inaspettato e nell’improvvisa ricomparsa della cacofonia del
centro londinese, capace per un attimo di stordirlo.
John
scrolla bruscamente la testa e raddrizza le spalle in un’abitudine ormai
consolidata. La patina di tristezza permane, come la vaga reminiscenza che da
sempre l’accompagna. No, non da sempre. Che ha assunto una forma specifica dopo
la sua morte.
Si
trova nel quartiere di Kensington per delle commissioni quando lo nota con la coda dell’occhio. La
vetrina con le imposte di legno verde chiaro, la tenda per esterno su cui è
scritto il nome del negozio. Un negozio di animali.
Perché
no? Già, pensa, mentre un’idea comincia a farsi strada nella sua mente
consolidandosi in proposito, perché no?
Il fiore che passa.
La
festa si rivela un disastro di dimensioni colossali.
Come
leggendogli nel pensiero, la mano di Molly si poggia sulla sua spalla in un
gesto di conforto. Il suo sorriso possiede qualcosa di rasserenante e John
lascia che parte dell’imbarazzo e dell’ansia deprimenti che prova si disperdano
nella tranquillità dei modi pacati di Molly Hooper.
“E’
stato un disastro,” dichiara la voce imperturbabile di Sherlock e
John ripiomba nella vergogna. Incassa le spalle e sprofonda un
po’ di più nel divano, portandosi una mano alla fronte.
Il
rumore inconfondibile di uno scappellotto – non uno dei leggendari schiaffi di
Molly Hooper, ma qualcosa di abbastanza simile - risuona inconfondibile nel
silenzio del salotto.
John
azzarda un’occhiata incuriosita quando, dopo un paio di minuti contrassegnati
da bassi mormorii di accuse e patrocini tra i due, Sherlock torna al suo fianco
con un’aria sufficientemente contrita e gli porge una tazza.
Lui
abbozza un sorriso, ma alla fine gli esce soltanto una smorfia e un sospiro di
stanchezza e disappunto. “Non è di un tè che ho bisogno.”
Sherlock
non batte ciglio. “Non è tè che ti sto offrendo, infatti.”
John
prende la tazza, storcendo il naso e ne studia il contenuto con aria critica.
“Whisky?”
“Scotch
whisky,” lo corregge in tono pedantesco Sherlock e John annuisce prima di berne
un sorso generoso.
Sherlock
non si siede sulla poltrona di fronte, ma su quella accanto. Incrocia le gambe
e poggia i gomiti sui braccioli. Quando Molly entra nella stanza e gli porge un
piattino con una fetta della torta di compleanno di Rosie, Sherlock la
ringrazia e le sfiora il polso con un’espressione intensa il cui valore è
inequivocabile.
John
distoglie lo sguardo. C’è qualcosa
nell’intimità dei gesti che si scambiano,
così cauti e misurati, la prudenza con cui si toccano, come se
uno dei due
fosse fatto di cera e l’altro fosse il sole che potrebbe
scioglierlo se osasse
avvicinarsi troppo. Guardarli a volte è penoso e toccante. Non
soltanto perché
gli fa pensare a quanto ha perduto, quel tipo di amore insostituibile,
un
miracolo che se si è abbastanza fortunati si trova una volta
nella vita.
Piuttosto è per tutto ciò che rappresentano: le due
persone che, insieme a sua
figlia, hanno ricostruito dalle macerie il suo mondo, che sono la sua
famiglia, assieme alla signora H. e a Greg. Molly e Sherlock
racchiudono la meraviglia di
qualcosa di incredibile, sono l’ancora che lo lega al passato,
così come Rosie
è il futuro e le infinità possibilità pronte a
schiudersi ogni giorno, belle o
brutte che siano.
Il
ciangottare del pappagallo lo riporta alla realtà. John posa lo sguardo sul
trespolo a forma di albero che è stato sistemato provvisoriamente nell’angolo
vicino alla finestra e aggrotta la fronte. “Come diavolo mi è saltato in
mente.”
Sherlock
apre la bocca, probabilmente per concordare sulla sua plateale idiozia,
ma, prima che possa fiatare, Molly gli rifila una gomitata ammonitrice
nel fianco.
“Un
pappagallo,” John continua, massaggiandosi la tempia. “Un pappagallo. Dovevo essere impazzito. Per non parlare del resto.”
“A
tua discolpa,” interviene Sherlock, “posso dire che per quanto rappresentassero
una scelta audace sin dal principio nessuno, nemmeno io, avrebbe potuto
prevedere che le scimmie cappuccine avrebbero reagito in quel modo quando è
scoppiato quel palloncino. Una volta addestrate e acclimatate ad una vita
domestica, sono compagne affidabili e solitamente non –”
Un’occhiata
severa di Molly basta ad interrompere il suo soliloquio.
Sherlock
ammutolisce e si sfrega il labbro inferiore con il pollice, come se stesse
ponderando sulle prossime parole che intende pronunciare.
Il
pappagallo, quel maledetto pappagallo, continua a ciangottare. E’ così rumoroso
che in un primo momento John non se ne accorge, ma poi, nella confusione che si
fa largo sul viso di Sherlock, gli occhi di entrambi si fissano su Molly che, a
capo chino, sta - piuttosto inefficacemente, va detto - cercando di nascondere
il sussulto convulso delle sue spalle.
“Molly,”
Sherlock dice, allungando una mano verso di lei, preoccupato.
Ma
John è un medico e anche se non lo fosse avrebbe già riconosciuto i sintomi. Non
sa bene come reagire o cosa provare. Perché, mirabile dictu, Molly Hooper sta tremando, producendo una sequenza
di suoni strozzati che - non importa con quanta difficoltà e ostinazione lei
stia tentando di sopprimere o silenziare, coprendoli con entrambe le mani –
sono chiaramente, inconfutabilmente risate.
E
sul serio, l’espressione di assoluto sconcerto che compare sul viso di Sherlock
nel momento in cui se ne rende conto è qualcosa di comico e impagabile e John
vorrebbe avere a portata di mano il cellulare per immortalare quel momento con
un video.
“Leee
sciim-mmi-eee,” Molly singhiozza tra una risata e l’altra, arrendendosi alle
risate e scostando le mani dal volto. Irrefrenabili, imprevedibili, le sue
risate riempiono il salotto come un’onda incontenibile e impetuosa di buonumore
ed euforia.
Le
labbra di John si arcuano involontariamente verso l’alto e anche quelle di
Sherlock si arricciano in modo sospetto prima che lui, cogliendo il suo
sguardo, si affretti a nascondere quel principio di sorriso dietro le nocche della
mano e assuma un’aria di superiorità. “Molly,” dice come per richiamarla
all’attenti e restituire una parvenza di decoro a una giornata che non ne ha
avuto alcuno.
“Ma
le scii-” singhiozzo “scimm-mmie.”
“Molly,”
Sherlock ripete con maggiore forza.
Molly
si sforza di darsi un contegno. Non sembra vergognarsi particolarmente di quel
breve interludio di ilarità a sue spese. Ha la faccia arrossata e i capelli
sono leggermente scarmigliati – alcune ciocche si sono liberate dal fermaglio e
dall’acconciatura alta -, ma gli occhi sono luminosi come stelle e c’è qualcosa
di remotamente familiare in lei, come l’ombra della donna che è stata in un
momento diverso delle loro vite, prima di Magnussen, prima di Sherrinford,
prima di Norbury, prima del caos che quella concatenazione di eventi avversi ha
riversato sulle loro vite come un’orda inferocita. E’ l’ombra della giovinezza,
della loro primavera.
“Ammetto
che quello è stato un imprevisto.”
Sentendosi
finalmente alleggerito dal peso insostenibile del senso di colpa, John ridacchia
e il disagio, l’inadeguatezza, l’impotenza che ha provato fino a quel momento
scompaiono del tutto. Ha rovinato il compleanno di sua figlia, una figlia che ama
teneramente e che molto probabilmente non gli rivolgerà la parola per i
prossimi due o tre mesi, ma Dio, Dio
se ne è valsa la pena.
Molly
risponde al suo sorriso con uno ancora più ampio mentre Sherlock si limita a
squadrare entrambi come se fossero loro spuntati coda e artigli.
“E
la torta…” John scuote la testa, sghignazzando apertamente. “Chi poteva
immaginare che quel ragazzino, che il diavolo si porti il suo nome-”
“Abhay,”
Sherlock lo blocca sovrappensiero.
“Cosa
hai detto?” John scambia un’occhiata interdetta con Molly. E’ stata una
giornata interminabile e ricca di avvenimenti, ma che Sherlock ricordi il nome
di uno degli invitati? Ha dell’assurdo, suona persino più inconcepibile della
trafila di calamità che si sono avvicendate nel corso di quell’infernale
pomeriggio.
“Il
suo nome. Abhay Appleby.” Sherlock alza gli occhi al cielo. “Sul serio, John e
sarei io l’insensibile. Direi che le buone maniere, in aggiunta a un rimorso di
coscienza, dovrebbero quantomeno indurti a ricordare il nome del bambino che
hai mandato in shock anafilattico.”
“Io
non-” John si strozza con le parole, non riuscendo a decidere se cedere
all’impulso di ridere o colpirlo. Sul serio, quale bambino è così sfortunato da
essere allergico al cioccolato?
“Sì,
che lo hai fatto. E’ inutile negarlo. C’erano dei testimoni che ti hanno visto
mentre gli offrivi la torta, inclusi me e Molly e per quanto il nostro rapporto
di amicizia e stima reciproca rappresenti un incentivo sufficiente a
convinermi a testimoniare in tua difesa, mentire per te non rientra nel pacchetto.”
“Non
l’ho fatto di proposito, razza di idiota.”
“Certo
che no.” Il sorriso obliquo di Sherlock è deliberatamente provocatorio. “Ho
fiducia che tutti questi anni insieme abbiano affinato le tue capacità di
potenziale assassino.”
E’
più forte di lui. La situazione è talmente ridicola che John scoppia a ridere,
seguito a ruota da Molly. Ride fino ad avere le lacrime agli occhi, ride fino a
farsi dolere lo stomaco, ride fino a quando la sua risata diventa un suono
rauco e la gola gli brucia.
Quando
si riprende, John lascia vagare lo sguardo per il salotto devastato. La festa
fallita lo ha trasformato in un campo di battaglia: c’è uno scompiglio imperante
di bicchieri di plastica, di palloncini sgonfi e tovaglioli sparsi sul pavimento, di carta da
regalo strappata e pezzi di cibo e bevande rovesciate in pozze appiccicose.
“Non
so quale sia stato il momento peggiore,” si ritrova a considerare ad alta voce,
senza rendersene conto.
“Credo
che possiamo tutti concordare su quale sia stato il momento migliore,” dichiara Sherlock con uno
scintillio di pura malizia.
“Quando
una delle scimmie ha cominciato a spulciare la testa di quella signora,”
decreta Molly con assoluta convinzione e senza la minima esitazione.
John
chiude gli occhi e la scena si delinea con raccapricciante precisione sulle sue palpebre chiuse: lo
scoppio del palloncino e il consequenziale stato di fermento delle scimmie.
L’addestratore che aveva cercato di riportare ordine, di acciuffarle nella
baraonda che ne era scaturita. Quando una delle scimmie impazzite si era
arrampicata sul trespolo, Ventimiglia il pappagallo aveva aperto le ali e preso
il volo finché aveva deciso di scegliere come trespolo alternativo il bastone
da passeggio della nonna di Astrid Warwick e-
“Il
maldestro tentativo di John di salvare la vita al povero Abhay,” sentenzia
Sherlock con altrettanta decisione e un brillio di autentico divertimento negli
occhi azzurro polvere che lui può definire solo come riprova della sua malvagità.
“E quando il suo regalo di compleanno ha ritenuto opportuno beccargli la testa
come una noce di cocco.”
“Quando
la tenda ha preso fuoco-”
“Quando
la scimmia ha rubato il parrucchino-”
“Okay.
Okay. Avete reso l’idea. Sono un pessimo padre e un pessimo organizzatore di
feste di compleanno. D’ora in avanti lascerò a voi l’incombenza di occuparvene.”
“Stai
scherzando, vero?”
John
si irrigidisce e per un istante spera di avere soltanto immaginato la voce che
ha appena parlato. Ma la verità poche volte corrisponde ai desideri che si
esprimono e questa non è una di quelle rare occasioni.
Rosie
è di fronte alle scale e John non riesce a inquadrare l’espressione sul suo
volto corrucciato. E’ rabbia o delusione o dispiacere –
“Mi
dispiace di avere rovinato il tuo compleanno,” John biascica prima che lei cominci
le sue recriminazioni. Non che non lo meriti, è più che meritato, è –
“E’
stato il migliore compleanno.” Rosamund va a sedersi sul divano accanto a lui.
Indossa ancora il suo vestito da festa – verde, al momento è il colore che ha
eletto a preferito. E’ sporco di marmellata sul davanti, probabilmente è
successo dopo che una delle scimmie ha cominciato a lanciare i tramezzini sugli
ospiti e i bambini hanno seguito a ruota il suo esempio e in breve la
situazione è degenerata e ne è nata una battaglia di cibo.
A
giudicare dalla sua faccia perplessa, Sherlock condivide in pieno il suo disorientamento,
ma non Molly. Oh, non Molly. Molly è sempre stata capace
di intuire i pensieri e le intenzioni di Rosie, di capirla profondamente,
completamente, incondizionatamente, come solo una madre saprebbe fare. Il
pensiero è crudele, agrodolce eppure John è così grato, nell’ingiustizia di
quella realtà, che sua figlia abbia scelto qualcuno come Molly Hooper in
qualità di surrogato materno.
“Tu-”
John batte le palpebre e deglutisce a vuoto, in preda allo stupore. “Dici sul
serio? Il tuo preferito? Davvero?”
“Ha
quasi ridotto all’estinzione la tua combriccola di amici, ha trasformato il
salotto di casa vostra nel palco di un’esibizione circense e ti ha regalato un pappagallo,”
Sherlock inventaria i suoi clamorosi fallimenti di padre con fredda
noncuranza e alle orecchie di John ogni critica suona più
infamante
e denigratoria della precedente.
E’
davvero grato a Molly quando l’ennesima gomitata nelle costole lascia Sherlock boccheggiante
e a corto di fiato.
Gli
occhi grigioverdi di Rosie si socchiudono e una ruga di concentrazione la
invecchia precocemente. Sembra decisa a riflettere con estrema attenzione su
quello che Sherlock ha detto prima di esprimere ulteriori giudizi. Il suo
sguardo saetta per un istante verso il trespolo e la ruga diventa più profonda.
Nella
sua mente, John impreca in modo colorito e profuso. Ripensa ai regali di
Sherlock (“Un microscopio Omegon a visione binoculare!”) e Molly (“Biglietti
per Wicked!”), all’esaltazione di Rosie quando li ha scartati.
“Per
colpa tua Abhay è stato ricoverato in ospedale,” Rosamund dice con un tono curiosamente privo
d’inflessione e occhi tanto più adulti di quelli che ci si aspetterebbe da una
bambina della sua età.
Sotto
il peso del suo sguardo da tartaruga millenaria, John Watson si riscopre ad
invidiare il bambino invisibile di quel libro che Rosie ha letto di recente, Miss Peregrine o qualcosa di simile. “Lo
so.”
“La
mamma di Astrid ha detto che siamo la famiglia più svitata che abbia mai
incontrato.”
“E’
qualcosa di estremamente gentile detto da lei, considerata la natura della
relazione clandestina che intrattiene con la sorella del marito e che sua
figlia mostra i primi sintomi di dacnomania,” si intromette Sherlock. L’intimazione
di Molly – sussurrata a mezza voce, ma udibilissima - di smettere di parlare non
lascia adito a eventuali contestazioni da parte di Sherlock.
“Ti
infastidisce?” John domanda.
Rosie
inclina la testa su un lato e i riccioli biondi seguono docilmente quel
movimento, riversandosi in una cascata dorata sulla sua spalla minuta. “Non
particolarmente. Quello che la mamma di Astrid ha detto è vero?”
Ancora
una volta, John risponde alla domanda con un’altra domanda. “Tu cosa ne pensi?”
“Non
mi importa.” Sua figlia è implacabile e storce il naso in modo adorabile. “Ma
dovrebbe, vero? Bisogna sempre rispettare le opinioni delle altre persone.” Nel
dirlo, lei incrocia gli occhi di Molly come un cucciolo in cerca di conferma.
Molly, che ha un braccio incastrato nella curva spigolosa di quello di Sherlock
e gli sta scherzosamente tirando un orecchio, le rivolge un piccolo cenno di approvazione.
Osservando
la grazia con cui lei indossa il suo abito macchiato, con cui non nicchia neppure
di fronte alle meschinità gratuite di una donna orribile che lui ha appena bandito da
casa sua, John prova un repentino moto di orgoglio nei confronti di sua figlia,
intenso e struggente come solitamente è soltanto il ricordo di Mary.
La
tira a sé in un abbraccio da orso e nei riccioli profumati di lei annusa l’odore
inconfondibile di mandorle che ormai le associa. Lei gli avvolge le braccia
attorno al collo come quando era un po’ più piccola di adesso e la sua
testolina trovava posto nella sua spalla, incastrandosi comodamente nell’angolo
tra il collo e la spalla.
“Papà,”
la sente dirgli a voce bassa nell’orecchio, come un segreto che intende
condividere soltanto con lui, “non dobbiamo tenere il pappagallo, vero?”
John
produce un verso che è metà risata e metà sbuffo mentre le promette che
restituirlo sarà la prima cosa che farà la mattina successiva.
N/A:
Una
cosina piccina, senza tante pretese, che era nata come qualcosa di divertente e
breve. Una drabble o tutt’al più una flashfic in cui il povero John era alle
prese con la ricerca del regalo perfetto per Rosie e macinava imprecazioni su
imprecazioni contro un padrino e una madrina a caso e i loro regali
eccezionalmente anticonvenzionali – leggasi giri in mongolfiera, lezioni di
tiro con l’arco et cetera, per la disperazione del padre in questione xD
Spero
che il tono umoristico non risulti strano o forzato. Sono disabituata a
scrivere cose allegre (!) e quando lo faccio me ne sconvolgo io per prima.
Grazie per l’attenzione e, come al solito, un abbraccio forte a tutti voi che avete
dedicato un po’ del vostro tempo alla lettura, in particolar modo a queste note
sconclusionate.
Un forte abbraccio :)