Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Rossini    23/02/2017    0 recensioni
Prosegue la saga de "Le cronache dei draghi e dei re", cominciata con "L'apprendista di fuoco". Il sistema è ormai sovvertito: la pace che per secoli era perdurata, adesso è stata interrotta da una serie di trame, guerre e rivolgimenti che hanno persino portato al ritorno di un'antichissima dinastia. Ma i fratelli del re appena deposto sono ancora tutti in circolazione, per quanto sparsi su tre continenti. Spetta dunque al nuovo sovrano Targaryen gestire questa complessa situazione, che diviene ancora più ingarbugliata pensando alle misteriose e oscure energie che all'est e all'ovest risorgono sotto forma di vita e fiamme. Esiste forse qualcosa che i Sette maghi del passato più ancestrale, col tempo decaduti e divenuti schiavi, nascondono a tutti i partecipanti - nessuno escluso - di questo ennesimo e disastroso gioco del trono?
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri
Note: Lime, Otherverse | Avvertimenti: Non-con, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 1
IL GIURAMENTO
 
 
 
                Molto tempo prima, quando gli uomini stavano via via divenendo simili agli uomini, e gli dèi e i demoni ancora si confondevano tra loro e tutti insieme abitavano la terra, il più grande maestro nell’elaborazione dell’energia proveniente dal buio e dalle tenebre, attendeva. Rifiutava per se medesimo l’appellativo di “Oscuro”, che pure la gran parte della massa delle genti del mondo, sia quelle sotto la sua giurisdizione che a maggior ragione quelle sotto la giurisdizione degli altri Grandi Sette, si ostinavano ad adoperare. Né preferiva quell’altro, usato da gente più colta e raffinata, ma comunque profondamente ignorante nella materia che riguardava la sua persona, ovvero “la Spia”. Né l’oscurità né tantomeno lo spionaggio c’entravano alcunché con il suo tipo di potere, che lui traeva sostanzialmente da quel fenomeno ancora pieno di misteri – anche se, come tutto il resto, di certo legato al potere dei Cinque Maestri – che era l’alternarsi del giorno con la notte. Differentemente da alcuni degli altri Grandi, lui non aveva appreso i suoi poteri direttamente da uno dei Cinque. Lui era uno di quei maestri umani che aveva in qualche modo “inventato”, o per meglio dire “scoperto”, la sua stessa arte. Non così era stato per quello che veniva chiamato il Sicario, che aveva appreso la sua arte direttamente da Requiem, né per il Guerriero, che l’aveva appresa da Kyrios, né ancora per il Folle, che l’aveva appresa da Kimera, e né per l’Eremita che l’aveva appreso da Luxia, la più vicina tra i Cinque Maestri, per cuore e anima, al mondo degli umani.
                Il maestro Nidhogg, invece, era l’unico tra le cinque creature dell’origine che ancora non aveva definitivamente “sciolto” la propria magia. Con questo termine comunemente s’intendeva il momento in cui uno dei Cinque decideva di affidarsi completamente a un uomo e confidargli i suoi segreti: quello che sapeva, o aveva intuito, sul mondo che circonda gli uomini, le bestie, le piante, i diavoli e gli dèi. Nidhogg era buono e profondamente disponibile: aveva insegnato a molti uomini, ma ancora nessuno era esplicitamente stato scelto come suo discepolo.
                E poi c’erano quelli come lui, il maestro del giorno e della notte, vale a dire: il Guardiano, che aveva sperimentato un originalissimo modo di sfruttare l’energia di Kyrios, gestendo il fuoco dell’interno della terra non per crearne fiamme, ma per sommuovere lo stesso sottosuolo e controllarne sabbie e rocce, e il Servo, totalmente – e anzi quasi ciecamente – devoto ai Cinque, che invece aveva rivolto il proprio sguardo – come lui – al mondo di sopra, anziché a quello di sotto, e che era riuscito a carpire molti segreti della volta celeste, e in particolare nei momenti in cui essa si trovava in uno stato di tempesta.
                Dei segreti di quelli che in un certo senso avrebbe potuto definire suoi “confratelli”, in quanto tra gli esseri umani più evoluti e potenti mai esistiti (e che in verità non gli erano neanche lontanamente parenti), il maestro del buio in realtà poco altro sapeva. Sapeva di quello che riguardava lui personalmente: che era in grado di controllare tutte le ombre, la sua e quelle altrui, e di dargli uno spessore materiale. Che si era raffinato talmente tanto in quell’arte della materializzazione delle ombre, da essere in grado di dargli perfino forma simile a quella umana e, d’altro canto, poteva mutare a suoi piacimento la sua stessa carne n sottile ombra, per poi tornare di nuovo sottoforma di uomo quando meglio credesse. Era probabilmente la più o meno consapevolezza che fosse in grado di fare qualcosa del genere, unitamente al ruolo che aveva deciso di ritagliarsi nella società degli uomini, che aveva fatto in modo di attribuirgli quel tristo epiteto: quello di Spia.
                Parte dei suoi “confratelli”, e in particolare: il Folle, l’Eremita e il Guardiano, avevano scelto – chi in una maniera chi in un’altra – la via dell’insegnamento agli uomini, o comunque dell’allontanamento dal potere derivante dal rapporto con le cinque creature dell’origine, e dal ruolo di “signori degli uomini” che tale potere inevitabilmente era finito per significare. Gli altri tre: il Sicario, il Guerriero e il Servo, invece – anche loro ciascuno in una sua originalissima maniera – erano completamente devoti alla causa o dell’ausilio diretto ai Cinque, o del controllo sugli uomini, cosa che comunque li legava in qualche modo alla volontà dei Cinque. Lui invece era l’unico dei Grandi Sette a trovarsi a metà: insegnava parte del suo sapere a giovani uomini che desideravano conoscere. Anzi, condividere la sua scienza era uno dei momenti più interessanti della sua giornata. Tuttavia non aveva scelto, come il Folle, l’Eremita e il Guardiano, di slegare completamente questa sua attività dal rapporto con i Cinque e con gli altri fra i Sette Grandi maestri (il Sicario, il Guerriero e il Servo). Dunque non praticava un’attività di distaccamento dal resto della società, ma anzi governava quel pezzo di mondo che dai Cinque gli era stato assegnato. La metà delle genti del mondo conosciuto, poteva reputarsi sua suddita, mentre l’altra metà veniva governata dal maestro Guerriero.
                Tuttavia questo suo modo di fare, talvolta ammiccante alla stretta filiazione con i Cinque e talvolta invece a una certa indipendenza, veniva secondo lui visto con un po’ di sospetto un po’ da entrambe le compagini. Ed era anche per questo che si era finito per ribattezzarlo “la Spia”. Se poi a questo si aggiungevano il suo genere di studi, che riguardavano la creazione di cose simili agli uomini ma che uomini non erano, che riguardavano la metamorfosi della carne umana in qualcosa di molto più oscuro, misterioso, impalpabile, e che negli ultimi tempi lo avevano portato a sperimentare nuovi anatemi in grado in minima parte di controllare la volontà degli uomini meno savi; di entrare nelle loro teste e lì creare immagini di cose che in realtà non accadevano… ecco tutto questo faceva della figura del maestro delle ombre, una figura ambigua, non esplicitamente considerata malvagia dalla povera gente, come certe altre erano finite per divenire, ma certo degna di sospetti e speculazioni.
                Ma tutte quelle differenze stavano per terminare. Lui, e tutti e sei i suoi confratelli, erano stati scelti per andare a giurare a Cair Dedalos. Aveva provveduto affinché il più saggio dei suoi discepoli potesse continuare a tramandare le sue conoscenze ai posteri ma… egli non conosceva neanche la metà delle cose che lui conosceva. Dunque molta della magia del giorno e della notte era destinata ad estinguersi con lui. Era pur sempre un uomo, sebbene tra i più savi mai esistiti, e la sua natura si sostanziava di dubbi e paure. Aveva deciso, come gli altri suoi confratelli, di affidarsi ai Cinque. Loro erano le creature più sagge di tutte, le più perfette. Avevano insegnato agli uomini quello che gli uomini sapevano, ed erano la causa di molte delle cose che li riguardavano. Erano i loro padri e madri. E dunque nessuno dei sette maestri era stato in grado di opporsi alla loro tragica decisione: i sette sarebbero divenuti le creature più potenti del cosmo, perfino forse anche degli stessi Cinque che li avevano scelti. Ma sarebbero rimasti per sempre vincolati a un incantesimo inscindibile, che avrebbe fatto di loro non più degli uomini, ma qualcosa di… profondamente diverso. Creature completamente vincolate alla stessa magia che li rappresentava e nella quale erano specializzate, e dunque completamente schiave. Sette schiavi supremi al servizio del genere umano, così inquietantemente confuso e incattivito in quei tempi infausti. Sette schiavi magici che avrebbero dovuto proteggere per l’eternità il genere umano… da se stesso. Ma il prezzo richiesto ai più grandi fra gli uomini, era incredibilmente alto: ne andava della loro stessa natura di uomini… e questo gettava il maestro delle ombre in preda alle più oscure paure ed inquietudini.
                Da tempo ormai si trovava in questa condizione, poiché da tempo i Cinque lo avevano avvertito. E così presumibilmente avevano fatto con gli altri sette savi fra gli uomini. Ed era quasi sicuramente per questo che una missiva dell’Eremita lo aveva di recente informato di prepararsi, perché sarebbe venuto a prenderlo… e insieme avrebbero dovuto recarsi a Cair Dedalos: la città dei draghi.
                L’Eremita dapprima bussò alla sua porta, e dopo entrò senza attendere il permesso. Tra loro due tali formalità non erano necessarie: non lo erano mai state. Era anziano, con il viso scarno e pochi capelli sparuti e bianchi. Il naso era adunco, e un po’ lungo. Le labbra sottili. L’espressione sul viso, estremamente savia eppure insieme estremamente pacifica, come sempre. E, come sempre, indossava il suo consueto e povero saio di sacco, stretto in vita da una corda, e poi ai piedi un paio di vecchi sandali consumati. Quella era la consueta divisa con la quale non era raro osservare non solo lui, ma anche tutti quelli che – in ogni parte del mondo – potevano essere annoverati come suoi discepoli. Un ordine di individui, particolarmente devoti a Luxia, che si riunivano in comunità e andavano insieme ad alloggiare in vecchi ruderi, dove sostanzialmente condividevano quasi ogni momento della loro vita: quello della preghiera comune, quello del lavoro della terra, quello dell’ausilio ai poveri come loro, quello del pasto, quello del sonno, quello del comune studio delle arti del Maestro Mawldor.
                «Fratello Mawldor…» salutò dunque il maestro delle ombre «Da quanto tempo!»
                «Davvero tanto, vecchio amico mio. Davvero tanto. Sei pronto?»
                «No. Ma che cosa cambierebbe? Dobbiamo farlo comunque…»
                «È per il bene degli uomini»
                «Per il bene degli uomini esclusi noi stessi, vorrai dire»
                «Vecchio mio, ci sono già fin troppi confratelli pervasi dal dubbio. Non dirmi che anche tu ti annoveri tra loro: l’incantesimo non funzionerà se non verrà percepito un senso di amore e totale – cieca – fiducia nei confronti di quello che ci accade. E il nostro sacrificio in quel caso potrebbe essere vano. So che hai paura: anch’io ne ho molta. Ma la diffidenza è un lusso che… ormai non possiamo più permetterci»
                «Sì, lo so bene. So bene ogni cosa che m’aspetta, e sono convinto di farlo e di seguirti in questa avventura. Solo… se pensi che il mio cuore non tremerà quando il momento sarà venuto… io questo non posso assicurartelo. Non posso assicurarlo a te, come non posso assicurarlo a nessun’altro dei nostri confratelli, né ai nostri padri e alle nostre madri. E men che meno posso assicurarlo a me stesso»
                «Tremerà anch’io il mio, fratello, te l’assicuro… tremerà anche il mio. Vogliamo andare?». E fu così che s’incamminarono, ma non prima che il grande maestro del giorno e della notte non ebbe preso congedo da tutti i suoi numerosi e affezionati discepoli. E specie dal più preparato di loro, l’unico che in parte aveva appreso l’arte della manipolazione delle ombre: il caro e affezionatissimo Yusseth.
                Il segreto della magia di Mawldor si trovava nell’acqua, l’arte di cui più su tutti era maestra il drago Luxia: era lei che sostanzialmente gli aveva aperto la strada. Naturalmente, il maestro del giorno e della notte non aveva la benché minima idea di come il suo confratello facesse, ma a Mawldor bastava una quantità minima d’acqua – una pozzanghera – per decuplicarne le dimensioni e servirsene come più volesse: come arma, come più comodo mezzo per l’irrigazione degli svariati terreni di proprietà dei monasteri sotto il suo controllo, perfino come mezzo di trasporto. Si dice che una delle sue frasi più celebri, fosse: «Datemi una goccia d’acqua, e io vi creerò un mondo». Ma quest’ultima informazione era più saggiamente da annoverare tra le voci relative alla leggenda sul personaggio, piuttosto che a quelle relative alla sua storia. Eppure, l’acqua sapeva davvero usarla, e sapeva usarla in maniera impressionante.
                Pure i discepoli del maestro Guardiano, come quelli dell’Eremita, erano finiti per organizzarsi in monasteri. Non si sapeva chi davvero per primo avesse cominciato a sperimentare questa originale forma di organizzazione della vita degli studiosi, però almeno un dato di fatto era incontestabile: l’Eremita aveva esteso molto di più del Guardiano il suo sapere per il mondo e dunque, normalmente, se ci si trovava di fronte a un savio in tonaca e sandali usurati, era assai più probabile che si trattasse di un discepolo di Mawldor piuttosto che di uno del maestro delle sabbie e delle rocce.
                Quando, trasportato l’uno dalle acque e l’altro dalle ombre, i due savi confratelli raggiunsero il luogo dove abitava il Maestro Helmon, i pochi discepoli di quest’ultimo li indirizzarono verso un sentiero che li avrebbe condotti a una valle con un mastodontico monolite al centro. Lì Helmon usava recarsi quando desiderava restare un po’ da solo. E lì i due confratelli si diressero: avevano ciascuno la stessa confidenza con Helmon, che normalmente avevano fra di loro; disturbare Helmon mentre fosse in preghiera o in meditazione era una questione che nient’affatto l’impensieriva. Ma giunti lì, il maestro delle rocce, il Guardiano, non c’era. «È strano…» constatò l’Eremita, chinandosi a raccogliere con la punta delle dita dell’acqua da una pozzanghera, e assaggiandola con la punta della lingua. I due non ebbero il tempo di speculare oltre; un uomo incappucciato venne fuori da dietro un faggio in penombra e lì attaccò. Per un normale uomo, sarebbe stato folle attaccare anche uno solo di loro. Ma quello non era un normale uomo: i movimenti erano troppo repentini e troppo ben studiati. Quello era qualcuno addestrato, come loro, nelle arti magiche.
                Era agilissimo, nonostante possedesse una massa senza dubbio superiore a quelle della Spia e dell’Eremita, i quali erano uomini abbastanza gracili. L’Eremita provò a riversargli contro un’onda d’acqua, ma egli mutò tale onda in sabbia e tornò a indirizzarla verso chi l’aveva evocata. Il maestro del giorno e della notte, invece, provò il suo nuovo trucco di recente sperimentazione: tentò di penetrare la mente del suo avversario. Non vi riuscì: era dunque un tipo dalla salda volontà, non un gaglioffo qualsiasi mandato lì ai ciechi ordini di qualcuno. Ma la stazza, e il fatto che avesse un potere legato alla terra, già fece sospettare alla Spia qualcosa; a ulteriore conferma, finalmente, accadde quello che ormai da troppi secondi si aspettava…
                La terra incominciò a tremare. Dunque quell’individuo doveva essere un discepolo del confratello Guardiano, l’uomo che aveva studiato il potere delle forze che animano la terra e generano le rocce e le montagne: il Lipomante. Ma un discepolo forse traditore?
                L’Eremita e la Spia persero l’equilibrio. Subito, il secondo – una volta che fu con la schiena per terra – mutò in ombra e rese invisibile il suo corpo, in modo da non permettere all’aggressore di sferrargli il suo colpo definitivo. Una pioggia di sassi fece per abbattersi sul solo vecchio Eremita, il quale sarebbe stato spacciato, se da invisibile che era il maestro del giorno e della notte non avesse scagliato un denso fumo di tenebre attorno al grosso aggressore incappucciato, impedendogli di prendere una mira corretta, e facendo in modo che la tempesta di sassi si abbattesse da tutta un’altra parte. Nel frattempo, il maestro delle fonti, con l’ausilio del proprio potere, riuscì a sgattaiolare fuori dalla mira dell’aggressore. Dunque, creò una pozzanghera sotto i piedi di quest’ultimo, che scivolò all’indietro perdendo l’equilibrio. Funi d’ombra gli strinsero i polsi e le caviglie; il maestro Eremita gli salì addosso e puntandogli la mano alla gola fece: «Un solo brusco movimento… e riempio i tuoi polmoni di tanta di quell’acqua da farti perdere qualsiasi possibilità di respiro seduta stante». La risposta dell’aggressore misterioso sorprese non poco i due confratelli. Sostanzialmente, si trattò di una grassa risata. Una grassa risata che culminò con le parole: «Devo dire – ahahah – che siete sempre due temibili avversari – ahahah – ma a mia difesa – ahahah – faccio notare che avete dovuto agire in combinazione. Non è stato così l’ultima volta, eheheh». Insieme, il maestro delle fonti e quello del giorno e della notte domandarono con immenso stupore: «Helmon?!»
                «E chi, se no?» rispose quello, togliendosi il cappuccio e mettendosi in piedi. Praticamente non era più la stessa persona che i due più anziani maestri ricordavano. L’ultima volta che l’avevano visto, non era molto più che un ragazzino. Oh, certo: avevano udito anche loro le storie di quel loro comune discepolo, che si era specializzato nelle arti della terra, che era riuscito a elaborare anatemi che nessuno mai era riuscito a fare. Che, come lo stesso Mawldor aveva già fatto diverse decadi prima, si era spogliato di ognuna delle sue proprietà terrene, aveva raccolto quello che all’inizio era un piccolo gruppo di accoliti, e si era rifugiato tra i meandri di una foresta. Ma non l’avevano più rivisto. Helmon era un giovanotto di statura certamente già considerevole, ma certo non lo ricordavano così alto! E poi, Helmon non aveva mai avuta tutta quella massa, né tutta quella barba. Era magro e glabro, ai tempi in cui Mawldor gli aveva insegnato i segreti dell’acqua e la Spia quelli delle ombre. Solo il suo sorriso giocondo era rimasto il medesimo.
                «Ti avremmo sconfitto anche singolarmente» polemizzò ancora il vecchio Mawldor «Solo che ci avremmo impiegato ancor più tempo e fatica»
                «Come volete voi, maestro, ahahah»
                «Sei divenuto davvero abile» constatò invece seriamente il maestro del giorno e della notte «Mi domando come tu ci sia riuscito… la mia arte, si presumeva sarebbe stata l’ultima e invece… spunti tu con questa cosa del fuoco nel sottosuolo, e della materia che compone le rocce e tutte le altre pietre. Sbalorditivo, a dir poco sbalorditivo»
                «Grazie, maestro»
                «Helmon» riprese il vecchio maestro delle fonti «Tu sai perché siamo qui»
                «Ma certo, il giuramento di Cair Dedalos. Abbiamo ricevuto tutti quel messaggio»
                «Sì, ma… più nel dettaglio?». A questa questione, Helmon non aveva una risposta. Perse del breve tempo per tentare uno sforzo, e poi concluse: «No, più nel dettaglio non saprei che dire». Fu allora che Mawldor si liberò in ciò che meglio sapeva e che più adorava fare: una lunga, appassionata, spiegazione. «Siamo tutti dei dottori molto esperti ciascuno nella propria disciplina qui» cominciò «Eppure ritengo che perfino voi non sapreste darmi una risposta soddisfacente a una domanda semplice, quand’anche profonda. Dunque, miei illustri e stimati colleghi, vi domando: qual è… la magia più potente di tutte?». Nessuno rispose, e il vecchio dominatore dell’acqua proseguì da solo: «Non avete una risposta, come è giusto che sia. O meglio: ne avete mille, il che sapete bene che corrisponde… a non averne una. Dentro di voi vi starete domandando, ma dov’è che il vecchio vuole arrivare? Voglio arrivare… alla magia comunitaria. La maestra Luxia e il maestro Nidhogg c’insegnano… che non esiste forma di magia più potente da quella che scaturisce dal confronto con un altro. L’amore, l’odio, la paura, la rabbia, il coraggio. Sono tutte forze che ci connaturano e che fanno di noi… esseri dalle potenzialità magiche. Siamo esseri nati per fare gruppo, ed anche la magia è una nostra caratteristica… che non si estranea da questa connotazione»
                «Ah» fece la Spia «Ho capito»
                «Che?» chiese il giovane Guardiano «Cosa?
                «Vuole raggiungere il Folle, ma per farlo… ha bisogno di noi»
                «È così» confermò l’Eremita «Non posso rintracciarlo senza il vostro aiuto»
                «Ma perché cercare Meredjuxor?» si domandò ancora Helmon «Abbiamo ricevuto tutti il messaggio: è sicuro. Lo vedremo a Cair Dedalos»
                «Non dubito… che tutti e sette abbiamo ricevuto il messaggio. Dubito… che tutti e sette parteciperemo. E quel genere di magia, ho i miei dubbi che riuscirà con tutti presenti, figurarsi se qualcuno come Meredjuxor decidesse di farsi da parte»
                «Voi l’avete conosciuto! Ne è davvero il tipo?»
                «Questo è inesatto, mio vecchio allievo. Io in passato, l’ho veduto. Spesso ci ho parlato. Ma conoscere è un azione che richiede ben oltre questo. Richiede quantomeno essere in grado di aspettarsi… cosa un uomo potrebbe essere orientato a fare in determinate circostanze e cosa no. E non è questo il caso»
                «Meredjuxor» cominciò a spiegare anche il maestro delle ombre «È un uomo molto complicato. Lo sai anche tu: la pensa molto diversamente rispetto a tutto ciò che il maestro Mawldor ha testé illustrato. È ancora alla ricerca di un sapere sempre più alto e, per farlo, ha preso tutte quelle teorie, che tutti noi conosciamo, relativamente alla vita lontana dal terreno e… le ha condotte all’estremo, isolandosi da tutto e tutti, fuorché gli alberi e il vento. C’è chi dice che sia stato avvistato meditare seduto sopra una colonna, per un periodo di tempo che – stando alle dicerie – potrebbe andare da pochi giorni a… anni. E per tutte queste ragioni, è praticamente introvabile. Nessuno lo vede da non si capisce quanto»
                «Ma la magia comunitaria che lui tanto depreca…» concluse il vecchio Mawldor «Può fare il miracolo di portarci da lui. Tuttavia ho bisogno di entrambe le vostre energie per mettere in pratica un incantesimo del genere. A Cair Dedalos sono sicuro che ci saremo tutti: noi tre, e poi Corarus, Tararus e Xenorus. Il Guerriero, il Servo e il Sicario. Nessuno di loro ha ragioni per non esserci, né la tempra per contravvenire a una disposizione dei Cinque. Su Meredjuxor invece… conservo parecchi dubbi».
                Il giovane e vigoroso maestro Helmon non aggiunse altro. Anche lui, come già aveva fatto il maestro del giorno e della notte, salutò i suoi allievi in un ultimo, commosso, congedo. Poi giunse le proprie mani con quelle della Spia e dell’Eremita, ed enunciò la formula che ben conosceva, anche se mai aveva tentato di applicare. Lo fece ripetutamente: due, quattro, dieci volte. Per un lungo tempo non accadde nulla. Poi però, tutti e tre i manti videro una luce… divennero un tutt’uno di acqua, ombra, sabbia e terra. E raggiunsero la foresta del maestro Meredjuxor.
                Il maestro che più di ogni altro – da un punto di vista delle abilità – era vicino ai Cinque, in quanto in grado di instaurare uno speciale rapporto non con un singolo elemento naturale, bensì con l’intero sistema stesso che governava il mondo, i segreti della nascita, della crescita e della morte, e quindi in definitiva quelli della vita nel suo completo, quelli che erano utili per comunicare con le forme di vita animali e vegetali, ecco esattamente lui era Meredjuxor. E se ne stava là: sulla cima di un albero spoglio, seduto a gambe incrociate, mentre sopra di lui ruggiva e scoppiava la tempesta. Stremati per l’incantesimo che erano stati costretti a fare, Mawldor, Helmon e il maestro del giorno e della notte furono costretti a ripararsi: con la pioggia fitta che c’era, i loro pur funzionali cappucci non sarebbero serviti a molto. Ciascuno si riparò come meglio poté: l’Eremita, meglio di tutti, usò il suo potere per fare in modo che la pioggia semplicemente evitasse la sua persona. La Spia si posizionò sotto un ramo particolarmente robusto di una grossa quercia secolare lì accanto. Il Guardiano fece librare un grosso e piatto masso e se lo posizionò a pochi piedi da sopra la testa. Dunque, furono pronti a parlare.
                Ma il maestro Meredjuxor, il Folle, lui non lo era. Non si voltò a guardarli, non scese giù dall’albero e neanche aprì gli occhi. Continuò la meditazione, come se non avesse udito lo scroscio procurato dall’arrivo al suo cospetto degli altri tre maestri. Dunque Mawldor fece: «Meredjuxor». Il maestro delle fonti era il più anziano della compagnia, e l’unico che poteva permettersi di rivolgersi chiamandolo per nome al maestro della natura. Il maestro delle ombre e quello delle energie della terra, al massimo, avrebbero osato usare il nome solo se accompagnato dall’epiteto “maestro”: Meredjuxor doveva avere qualcosa come trecento anni.
                La reazione del vecchio in cima all’albero, una volta giunto lo stimolo del collega, fu odiosa quanto chiaramente non sorprendente. Il maestro del giorno e della notte se l’aspettava, e infatti arrivò: un colpo di tosse, niente di più. Neanche troppo forte, un cosa giusto per dire: “so che siete qua, ma non mi interessa”. Allora Mawldor prese e decise di optare per qualcosa di più impegnativo: usando la su arte, cominciò a realizzare dinanzi alla faccia del più vegliardo dei maestri una serie di mirabilie fatte con l’acqua piovana: cose talmente belle, che raramente la Spia avrebbe potuto dire di averne viste di simili nell’intera sua esistenza. Meredjuxor però rimase imperturbabile. Non restava altra scelta: a un cenno del sempre più esperto maestro delle fonti, Helmon si decise a poggiare una mano sulla spalla del vecchietto, permettendosi per giunta un: «Hey!». Non l’avesse mai fatto. Rapidamente, prima una parte del corpo dello stesso maestro della natura mutò in legno e imprigionò la mano del più giovane dei maestri. Dopodiché, due rami di pianta rampicante, lunghi e ben saldi, gli si attorcigliarono sulle caviglie e tirando forte lo strattonarono via dal loro padrone. Quello che accadde in seguito, è presto detto: dapprima, rami su rami riuscirono a imprigionare contemporaneamente tutti e tre gli ospiti che si erano presi la briga di interrompere le meditazioni del vecchio. Dopodiché, a turno, chi in una maniera e chi in un’altra, i tre ospiti riuscirono a liberarsi, per poi ricadere in ulteriori trappole, sempre diverse. Trappole fatte di vegetali e talvolta persino di animali. Il fatto di fondo fu che nessuno riuscì ad interrompere la preghiera di Meredjuxor fino a quando la notte non fu piena e la tempesta non si fu placata. Circostanze che casualmente corrisposero al momento in cui l’anziano maestro delle forze della natura ebbe deciso che la sua meditazione era finita.
                Continuando ad evitare di rivolgergli la parola, il vecchio maestro guidò dunque l’Eremita, la Spia e il Guardiano – i suoi “confratelli” – verso una specie di grotta che aveva agghindato come luogo dove riposare ed eventualmente conservare del cibo. Lì offrì perfino delle misere fette di pane mezzo rancido ai suoi ospiti. Dunque, gli fece capire – sempre senza parlare – che se volevano potevano cercare di trovarsi un’alcova lì dentro, infine si mise a dormire. Mawldor non provò nemmeno ad insistere. Si adeguò alla situazione e fu il secondo a crollare. Quella notte, al di fuori della grotta, i due più giovani dei quattro maestri presenti si confrontarono su quello che stava per accadere. Il maestro del buio invidiava quello delle rocce per lo spirito solare con cui aveva deciso di affrontare la situazione. Gli domandò se anche lui non avesse paura di rinunciare alla propria umanità: quello gli rispose che in effetti già da lungo tempo aveva abbandonato tutta una serie di costumi, che molti uomini perseguivano, e che secondo lui lo avrebbero allontanato dalla grazia degli dèi. E questa era già una verità: il maestro del giorno e della notte sapeva bene che il suo giovane, aitante, collega, da lungo tempo ormai aveva optato per una vita di pane e acqua, quando lui continuava a bere vino e ingurgitare piatti prelibati; una vita di sostanzialmente solo lavoro e preghiera, quando lui partecipava a gare di caccia con il falcone e assisteva a spettacoli di guitti itineranti. Ma la sua domanda, quello che più torturava il suo cuore in quella dannata notte prima della loro comune e definitiva mutazione, in realtà poneva una questione assai più profonda. Un circostanza che Helmon non aveva ancora capito. Fu così che allora che il maestro delle ombre decise di affrontare la questione un po’ più direttamente. «Sì ma, Helmon, essere uomini» disse «Non significa solo quello di cui tu stai discorrendo… cibo e passatempi sono solo uno degli elementi che connaturano l’umanità. Essa è fatta di… una serie di cose che… che non possono essere calcolate. Vanno al di là della nostra stessa logica, e sono talmente mutevoli e impenetrabili che si mischiano e si compongono diversamente per ciascuno di noi. La… rabbia, la paura…»
                «Vecchio mio, mi stai davvero dicendo che temi il Giuramento per la rabbia e la paura?»
                «Sì, ma non soltanto. Anche per la gioia, e per l’odio… e per l’amore»
                «L’amore?»
                «Tu, per esempio… conduci una vita distante dalle pressioni del mondo, è vero. Ma lo fai in cenobio. Non sei affezionato ai tuoi discepoli? Non ti commuove pensare che non ritroverai più quello tra loro più competente, quello più svogliato, quello più scalmanato, quello più dolce, quello più affezionato, quello più freddo e… insomma… via discorrendo?»
                «Senza dubbio. Ma i Cinque ci hanno insegnato che le vie del destino non sono mai univoche. Non… si tratta di un capitombolo costante verso un dirupo. Si tratta di una rete di strade, come nelle grandi città. Questa è la vita. E perciò… anche se ammetto che le prospettive sul breve termine non sembrerebbero suggerirlo, debbo anche necessariamente pensare che non è possibile escludere che… un giorno… li rincontrerò. Con altri volti forse, con altre storie. Ma lo farò»
                «Helmon…»
                «Sì»
                «Tu hai mai conosciuto l’amore?»
                «Senza dubbio, vecchio mio. L’amore per gli dèi. L’amore per gli dèi». Il maestro del giorno e della notte a questo punto non seppe bene cosa concludere. Non capiva se il suo giovane vecchio allievo delle sabbie e delle rocce fosse estremamente saggio o estremamente ingenuo. Ma non se la sentì di indagare oltre, pensava che non avrebbe trovato in lui le risposte che stava cercando. Pensava che in realtà non avrebbe davvero potuto trovarle in niente e nessuno. Se è vero che tutti gli uomini sono simili, ma diversi, allora le sue paure erano sue soltanto, e poteva riuscire a comunicarle solo fino a un certo punto. Si addormentò probabilmente per ultimo, in preda a sempre più imperiosi dubbi e confusioni. Ma non lo disse. Non lo disse più.
                Quando si svegliò, Mawldor stava parlando a Meredjuxor e Meredjuxor stava rispondendo. Probabilmente aveva manifestato delle contrarietà all’inizio, mentre ancora il maestro del buio era nel meglio del suo sonno più profondo, ma apparentemente, stando a quello che si poteva comprendere, aveva deciso di attenersi alla decisione di Kimera, il drago di cui lui era il più fedele e affezionato discepolo. Non era convinto, ma Kimera lo era. E se Kimera lo era, per lui andava bene così. Mawldor era stato piuttosto astuto a buttare l’argomento su quella questione, la quale in effetti – dal punto di vista di Meredjuxor, uomo senza dubbio tutto d’un pezzo per non dire ostinato – era definitivamente inattaccabile. La sua fede nelle cinque creature dell’origine, e in particolare verso la sua maestra, era decisamente fuori discussione, un critico avrebbe detto persino “cieca”.
                Fu così che il viaggio riprese, questa volta senza magia. All’inizio a piedi, fino al villaggio degli uomini più vicino, e poi a cavallo fino alla città dei draghi. A raggiungere Cair Dedalos fu una compagnia di quattro maestri: giorno e notte, energie del sottosuolo, fonti e vita. Quanto agli altri tre Grandi fra gli uomini, la compagnia dei quattro li avrebbe incontrati direttamente lì, nel centro abitato più popoloso del mondo conosciuto. Tararus (il Servo), maestro delle energie del cielo in tempesta, era l’attendente diretto dei Cinque. Lavorava per loro, e per loro amministrava la città indipendente di Cair Dedalos: non l’aveva praticamente mai abbandonata. Corarus (il Guerriero), discepolo di Kyrios, sarebbe giunto probabilmente con tutto il suo seguito fin dalla remota capitale della regione occidentale, area del mondo degli uomini di cui lui era re. Da dove invece Xenorus (il Sicario), maestro dei ghiacci e discepolo del drago Requiem, sarebbe giunto, questo nessuno lo sapeva. Svolgeva delle mansioni al diretto comando dei Cinque, anche lui come Tararus, ma differentemente dal Servo, lui normalmente veniva mandato in giro per il mondo ad occuparsi dei compiti più svariati.
                Il primo di questi tre altri confratelli che la Spia, l’Eremita, il Guardiano e il Folle incontrarono, fu per l’appunto Tararus, che li accolse nella reggia delle Cinque Torri e gli offrì il prelibato nettare degli alberi di Audorya. Tutti l’avevano già bevuto, ma decenni e decenni prima: e non è il tipo di vivanda che può trovarsi in alcun altro luogo, diverso da quello della sua origine. Dunque è scontato dire che i quattro viandanti appena sopraggiunti alla città furono ben lieti dell’offerta gratuita appena ricevuta dal signore di Cair Dedalos. Ma non ebbero il tempo di trastullarsi oltre: con Tararus, ammantato con raffinati abiti da principe e accompagnato dal più bel destriero bianco che forse il maestro delle ombre avesse mai veduto in vita sua, i quattro viandanti si diressero subito ad Audorya.
                La foresta che guarniva tutt’attorno la città, come un prezioso collare su una pelle bianca cui il marmo di Cair Dedalos rassomigliava, veniva appunto denominata Audorya. Così come lo stesso nome prendeva la montagna dalla quale si distaccavano poi le cinque irregolari colline che componevano le dimore dei cinque draghi. Una volta giunti a un’immensa radura quasi al centro della foresta, che tutt’e cinque ben conoscevano, Tararus, Helmon, Meredjuxor, Mawldor e il maestro delle ombre attesero. Non sapevano se prima sarebbe arrivato qualcuno dei draghi, oppure i due tra i sette più savi degli uomini che ancora tardavano: Corarus e Xenorus. Ma l’attesa non fu lunga: e fu proprio quest’ultimo ad arrivare per primo, in groppa ad uno dei suoi più unici che rari falchi giganti ammaestrati. Creatura senza dubbio bellissima e impressionante, così come impressionante era l’idea che Xenorus fosse stato in grado di ammaestrarne qualcosa tipo tre di quegli animali, dalla natura normalmente così libera e selvaggia. Passò poco, e all’arrivo di Xenorus fece seguito quello di Corarus, il re del mondo occidentale. Abiti da soldato di alta classe, furioso corsiero da guerra, nero come il carbone, grossa, pesante e puntuta corona di acciaio di un brillante grigio-scuro. Al suo seguito, come prevedibile, un’orda di galoppini ed inservienti: qualcuno armato, ma non tutti; qualcuno a cavallo, ma non tutti. Tutti invece profondamente rumorosi e scalpitanti: un urto piuttosto evidente e fastidioso con l’armonia e la pace che normalmente risiedevano tra le fronde di Audorya.
                Venne il turno dei Cinque, nella loro forma artificiale, prodotta dalla magia, che in qualche modo li faceva assomigliare agli uomini, anche se senza dubbio uomini al di fuori dal comune. Tutti bellissimi. Tutti algidissimi. E tutti decisamente troppo alti, più di qualsiasi uomo sulla terra. Tanto che il falcone gigante da ricognizione sul quale viaggiava Xenorus, al loro confronto era perfino quasi proporzionato. Giunsero insieme, ma per primo da est marciò Kyrios, in mantello rosso e gonna di scaglie. Le sue sembianze erano decisamente quelle più legate al primevo aspetto che caratterizzava lui e i suoi fratelli e sorelle. non aveva capelli e i suoi stretti e glaciali occhi rossi erano senza dubbi più simili a quelli di un serpente che a quelli di un normale uomo. Accanto a lui, c’era suo fratello Nidhogg, l’unica creatura dell’origine che non aveva tra i sette presenti un discepolo di riferimento, anche se da tempo pareva avere un rapporto molto speciale con una donna degli uomini di Cair Dedalos di nome Phira. Nidhogg aveva fulgidi capelli dorati e lunga barba del medesimo colore. Ma il suo sguardo, e in generale l’espressione sul viso, si sarebbe detta da “uomo più maturo”, rispetto all’altro drago maschio e biondo, il quale si trovava completamente alla punta ovest: Requiem. Un giovane bellissimo, anche lui dai lunghi capelli dorati, ma senza barba e dai brillanti occhi azzurri color del ghiaccio. Nidhogg aveva una elegante veste rossa e azzurra, mentre Requiem teneva in mano una lancia, e indosso un corpetto da combattimento e una cintura chiodata. Al centro tra i due, si trovavano le due femmine: Luxia e Kimera. Entrambe molto simili, di un biondo quasi bianco, entrambe vestite di una semplice tunica di un candore quasi abbagliante. Ma i capelli di Luxia erano sciolti sulle spalle, mentre Kimera li aveva raccolti in due stretti chignon, con due vezzosi nastrini multicolori. Gli occhi della prima erano di un azzurro quasi glaciale, molto simili a quelli di Requiem, gli occhi della seconda erano di un verde scuro che virava verso il castano, come un germoglio primaverile che non ha ancora deciso se essere ramo o foglia. Per quanto riguardava la sola Luxia, poi, essa perfino nel suo aspetto richiamava la sua più stretta vicinanza al mondo degli uomini, più di qualsiasi altro suo fratello o sorella: come infatti le sembianze di Kyrios parevano esser quasi più vicine a quelle di un rettile che a quelle di un uomo, quelle di Luxia erano praticamente pressoché umane osservate grossomodo da qualsivoglia punto di vista.
                Fu Luxia a prendere la parola per prima: «Benvenuti, nostri discepoli». Poi Kimera: «Vi ringraziamo per l’impegno che avete acconsentito a prendere per il bene dei vostri simili». Nidhogg: «Riteniamo che questa sia l’unica delle strade percorribili, e purtroppo richiede un vostro sacrificio». Requiem: «Ma chi più si sacrifica in vita primeva, più vivrà di grazia a vita nova». Kyrios: «Così almeno ci pare che debba essere». Infine ancora Luxia: «Per il bene dell’esito dell’esperimento, è giusto che vi chieda se vi sentite davvero pronti. Maestro Corarus?»
                «Sì, signora» rispose l’unico fra i maestri ad avere una corona sulla testa.
                «Maestro Xenorus?»
                «Sì» rispose quello che era appena sceso giù da un falcone gigante.
                «Maestro Tararus?»
                «Sì» disse il maestro ammantato come un principe, governatore della città libera di Cair Dedalos.
                «Maestro Meredjuxor?»
                «Sì, mia signora. Sono pronto» fece Meredjuxor, e parlò forse più di quanto il maestro delle ombre non lo avesse mai sentito fare.
                «Maestro Mawldor?»
                «Sì, mia signora»
                «Maestro Helmon?»
                «Sì, signora»
                «E… maestro Braff?». Per un attimo il maestro del giorno e della notte si confuse. Per un attimo sperò non essere quello il suo nome, o dimenticò che lo fosse. Per un attimo, il sorriso dei suoi studenti, e di Yusseth in particolare, gli parve essere l’unica alternativa del mondo. Ma tornò subito in sé e rispose con un semplice: «Sì»
                «I maestri hanno acconsentito!» proclamò a questo punto Luxia, e Kimera procedette: «L’incantesimo del Giuramento di Cair Dedalos può cominciare!». E fu subito un’intensa luce di mille colori che lo sprofondò nell’abisso più oscuro dell’inconsapevolezza. Il maestro Braff non seppe più niente: né dov’era, né cos’era. Non c’erano più i suoi confratelli, lì attorno a lui. Né i suoi padri e le sue madri lì a difenderlo. Si trovava disperatamente da solo in mezzo al suo più profondo dolore. Il corpo fisico, quasi fin da subito non riuscì più a percepirlo. Ma la sua anima… era come se tutto il dolore che si potesse provare nel corpo, in quel momento lo stesse subendo una parte di lui che neanche sapeva che esistesse. Ma anche il dolore non era nulla: nulla in confronto alla vera prova. Probabilmente era questo che rinunciare alla propria umanità significava, era questo il vero prezzo che l’incantesimo del giuramento richiedeva di pagare: più il corpo di Braff si spegneva, e più nella sua mente si susseguivano, sempre più vivide, le immagini della sua vita di tutti i giorni. I momenti in cui, da governatore della sua regione – quella orientale – aveva rischiato di venire alla guerra con il re di quella occidentale, proprio quel confratello allievo di Kyrios, Corarus, che adesso probabilmente stava patendo i suoi medesimi dolori. E poi i momenti in cui era sceso per le strade, tra la gente, acclamato o contestato. I momenti in cui gli era stato richiesto di dirimere questioni di grande rilevanza tra parti in contesa. I momenti in cui aveva assistito i poveri, o le vittime di una grave alluvione che aveva sconvolto una certa area. E poi c’erano i momenti con i suoi allievi, qualsiasi momento: mentre insegnava, mentre rimproverava, mentre rideva… mentre vedeva crescere negli occhi di un suo allievo la consapevolezza di aver capito qualcosa, di aver raggiunto un traguardo, di esser stati in grado di fare quello che era loro obiettivo fare. Quello sguardo negli occhi di Yosseth, poi, era stato qualcosa di indescrivibile, di inimmaginabile. Tanto che in quel momento il maestro delle ombre non poté che domandarsi se davvero la conoscenza, prima la scoperta e poi la consapevolezza del proprio stesso sapere, potesse ispirare una gioia talmente potente. Quei momenti passati ad apprendere sempre di più, sempre più nel dettagli, con sempre più passione e amore.
                Più la sua umanità si andava perdendo, e più quelle immagini non volevano saperne di allontanarsi dalla sua memoria. Tutto ciò fino a quando il corpo non fu completamente mutato, e divenne un denso accumulo di fumo e ombra, tutto percorso da continui refoli di potere e magia, con al centro un teschio nero e su di esso un paio di occhi rossi come il sangue.
   
 
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