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Autore: Eneri_Mess    23/02/2017    2 recensioni
Oikawa ci credeva al destino; credeva in quelle opportunità che scivolano oltre due porte scorrevoli della metro, che si chiudono prima che tu faccia in tempo ad afferrarle e in un istante il pentimento sale con la consapevolezza che non avrai un’altra chance. Oikawa aveva creduto per tutta la sua infanzia che lui e Iwachan insieme sarebbero arrivati sulla Luna; nella sua adolescenza si era convinto con ancora più fermezza che insieme avrebbero vinto il sogno delle Nazionali; da giovane uomo innamorato si era promesso che sarebbe rimasto con Iwachan fino al letto di morte. Ma ogni volta le cose non erano andate in quel modo.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Per il Cow-T, quarta settimana, seconda missione.
Prompt (o meglio, genere?): Angst
N° parole: 10.773 

Prima di leggere: oddio sì, ennesima IwaOi. Riletta parzialmente, anche perché se lo faccio un'altra volta mi cavo gli occhi sul serio. Prende spunto da diverse doujinshi di Gusari, non ha alcuna pretesa, soprattutto... quando leggerete della "Nazionale di Pallavolo Maschile Giapponese a Londra 2012 e Rio 2016" annuite e prendetelo come un enorme What If necessario ai fini della storia. Sostanzialmente si tratta di una Future!AU molto fantasiosa. 
PS: mi sono dimenticata di segnalare "Tematiche delicate" per accenni omofobici.



 
A SpigaRose,
che mi ascolta sempre per prima, 
e perché siamo le madrine di Michi. 

Ad Aredhel,
che ancora non mi ha mandata a quel paese
e si è emozionata tanto. 

A Shikayuki,
che se legge altro angst
mi trasforma in un arrosticino. 
Ops.
 


 

Michi wa Hajime to Tooru no naka de

La strada tra l’inizio e la fine

 

 

Wrapped up, so consumed by
All this hurt
If you ask me, don't
Know where to start

Anger, love, confusion
Rolls the gold nowhere
I know that somewhere better
Cause you always take me there

[Take me home – Jess Glynne]

 

 

Tooru lasciò andare un lungo sospiro, risistemando le gambe al calduccio sotto il kotatsu.

Mentre all’esterno la neve scendeva in fiocchi piccoli, diradati e lenti, risaltando sullo sfondo scuro del cielo, in tv i concorrenti del talent show correvano da una parte all’altra nelle tutine colorate delle rispettive squadre; a ogni gaffe partiva uno scroscio di risate registrate e l’alzatore, annoiato, rispondeva abbassando le tacche del volume di volta in volta. Quando ormai la scena si era ridotta a figurette senza voce si diede allo zapping.

Con la mano libera, in punta di dita, tamburellò la ceramica della tazza da tè, scottandosi e mugugnando infastidito.

 … passiamo la linea alla redazione sportiva

Oikawa prestò nuovamente attenzione alla tv, senza accorgersi della porta scorrevole che si apriva e chiudeva alle proprie spalle.

 … non c’è che dire, un un’estate entusiasmante… un’esperienza che rivivremo solo fra altri quattro anni! Ma prima di parlare delle prospettive di Tokyo 2020, ripercorriamo con un video i momenti salienti delle Olimpiadi di Rio!

« Tooooru, non cambiare! » borbottò Takeru, cogliendo lo zio alle spalle, tanto da farlo sobbalzare e far cadere il telecomando nelle pieghe della coperta. Il neo adolescente fu più rapido a impossessarsene e tenerglielo lontano, mentre si sedeva anche lui al tavolino.

« Come se non avessi idea delle cose accadute alle Olimpiadi! » sbuffò Tooru, cercando di non prestare troppa attenzione alle immagini che scorrevano veloci o volutamente rallentate, con in sottofondo una composizione epica dedicata. Ma era impossibile ignorarle ogni volta che il pavimento famigliare del campo da pallavolo veniva inquadrato. Che loro venivano inquadrati.

« Eddai Tooru! Sono i momenti più belli! Eccoti! »

Oikawa si era abituato da tempo al suo doppio del teleschermo. Se dapprima si era criticato per come la telecamera lo ingrassasse, col tempo aveva lasciato correre, quasi annoiato e in fine del tutto saturo di lodi, critiche, commenti, chiacchiere al suo indirizzo. L’eccitazione iniziale per il proprio esordio nella squadra nazionale – Londra 2012 – era scemato più velocemente del previsto.

Entrare in campo era diventato una sorta di lavoro come un altro. Si alzava la mattina, si allenava, studiava per recuperare gli esami dell’università, e poi pallavolo, pallavolo, pallavolo. Vittorie. Alcune sconfitte. Servizi, alzate, finte, muri, talvolta qualche schiacciata che ancora lasciava tutti col furore nella voce. Persino lui. Erano le piccole scintille di un fuoco morente che resisteva e scoppiettava ogni tanto, come a dire sopravvivo, ancora qualcosa per cui non mollare c’è!

Ma nulla di più. Quel qualcosa per cui i suoi pensieri si rivolgevano costantemente al campo era scivolato via. Smarrito. Perso.

Durante la trasferta delle Olimpiadi di quell’Agosto era stato più impegnato a pensare al caldo, ai disagi, alla tuta macchiatasi accidentalmente, ai pettegolezzi di corridoio, i mi piace su Instagram, il sapore dell’acqua, invece che alla pallavolo. Forse era per quello che avevano perso in finale. Aveva ancora la concentrazione massima per fare anche tre ace in battuta decidendo quale parte del campo avversario colpire, ma non sentiva più nulla di quello che era stato il suo mondo.

La fermezza con cui quel qualcosa mancante si era radicato in lui era tale che si era rassegnato dal fingere di amare ancora spassionatamente ciò che faceva. A salvarlo era la routine, la memoria del corpo che agiva come un riflesso condizionato.

« … wow Tooru, quella palla l’hai sparata a razzo! »

« Takeru parli ancora come un moccioso »

La tazza era più interessante della celebrazione televisiva che nascondeva la sconfitta. Sopportando il calore intenso, Oikawa si lasciò scivolare in gola un sorso dal retrogusto amaro, bruciandosi un poco.

« ‘Kacchan, ma lo zucchero!? » gridò pigramente, un poco infastidito da tutto e da niente, rivolgendosi alla porta in legno. Non giunsero risposte dal corridoio.

« Guarda che la nonna è al telefono »

« Fai il bravo nipote, vai a prendermi lo zucchero e un mochi »

La replica di Takeru fu alzare ancora il volume in concomitanza col commento del telecronista riguardo alla sfumata conquista della medaglia d’oro nella pallavolo maschile. Tooru uscì dal soggiorno con un lamento frustrato, pestando i piedi scalzi.

Fuori dalla temperatura confortevole del kotatsu il resto della casa gli riservò un brivido.

 … un vero peccato aver perso quando la rosa dei giocatori si è dimostrata così affiatata e il nuovo capitano, Oikawa Tooru, più determinato che mai a vincere…

L’alzatore percorse tutto il corridoio cercando di non ascoltare le parole della rubrica sportiva. Di non pensare o soppesare il giudizio.

Cosa ne sapevano loro. Schioccò la lingua prima di rendersene conto, stizzito. Avevano dato l’idea di essere affiatati? Il giocatore con cui si trovava meglio era Ushiwaka, il che era tutto dire.

più determinato che mai a vincere…

Oikawa saltellò sulle piastrelle fresche del pavimento in cucina fino al tappetino sotto il lavandino, che lo salvò da altri spiacevoli brividi. Rovistare nell’armadietto alla ricerca dello zucchero fu come riaprire i ricordi di quell’estate. Si era detto di accantonarli, di lasciarli perdere.

La vittoria era sfumata perché non erano una squadra unita. Avevano rischiato di perdere la semifinale, ma nessuno ne parlava più. Gli errori, il breve litigio a bordo campo, durante un time out, erano passati tutti in secondo piano quando l’avevano spuntata per andare in finale. Ma era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

“Questa è l’ultima volta che un finocchio mi fa da capitano in squadra!”

Il ricordo non se ne andò, capriccioso di attenzioni, interrompendo la ricerca della zuccheriera. Non che il giudizio l’avesse toccato, non gliene fregava niente, come non gliene era fregato negli anni dei bisbigli alle spalle, delle battutine che erano tutto meno che divertenti. Era stata una delle tante inutili uscite da un giocatore pian piano divenuto mediocre ai suoi occhi. Qualcuno per cui non valesse la pena discutere.

Ma starsene zitto non era nella sua natura, come farla passare liscia. Lui non aveva alzato un dito – le parole giuste da rivolgere a un imbecille non erano difficili da trovare ed erano in sé sufficienti più di un pugno da cavernicolo. Tuttavia ne aveva risentito l’assetto della squadra. Squadra che, ipocrita, aveva taciuto per non ingigantire la questione, ma non si era neanche espressa contrariamente. A eccezione di Ushijima. L’ace della loro squadra, senza preavviso, negli spogliatoi, aveva ripreso il discorso ponendosi in sua difesa e c’erano voluti lui e l’assistente del coach per placarlo ed evitare che trapelassero spiacevoli maldicenze e occhi neri.

Avevano perso e se l’erano meritato. Anche perché una vittoria al fianco di simili individui forse l’avrebbe soltanto disgustato.

Lui era stato impeccabile come sempre. Il beniamino delle folle, disponibile coi fan per foto e autografi, uno degli atleti più desiderabili della sua generazione. La sua immagine ne era uscita intatta, anzi, la sconfitta aveva intenerito i media nei suoi confronti e le voci fiacche sulla sua presunta omosessualità erano di nuovo finite nel dimenticatoio. Anche nella sconfitta era sopravvissuto.

« … oh, capisco, sì. Sì sì, ricordo perfettamente com’è. Un periodo pieno e imprevedibile… »

La voce di sua madre lo distrasse. La vide fermarsi sulla soglia, l’espressione sbalordita come se non lo avesse mai visto; si riebbe un attimo dopo.

« Aspetta un attimo Acchan » disse la donna rivolta al cordless, per poi tornare al figlio. « Cosa cerchi? »

Anche Oikawa cadde dalle nuvole.

« Uh… lo zucchero »

« Lì, vicino ai fornelli » indicò e attese finché il figlio non fu alla porta con il barattolo in mano.

All’ultimo, Tooru si voltò di nuovo, prima che nella sua testa i pensieri potessero farsi coerenti e rammentargli che quello che stava per dire fosse deleterio.

« È Akiko-obachan, la mamma di Iwachan? Me la saluti? In famiglia tutto ok? » non si morse la lingua per l’uscita stupida solo per mantenere intatto il savoir faire.

Sua madre contenne bene la scomodità della domanda, ma si ricompose subito.

« Ricambia e ti ringrazia. Tutto a posto. Dice che passerà uno dei prossimi giorni a portarti un regalo per l’anno nuovo. Ora torna di là prima che il tè si freddi » e lo spinse fuori dalla cucina, chiudendosi la porta alle spalle con insolita foga.

Dal fondo del corridoio, verso la porta del soggiorno, arrivava il chiasso di una sigla da anime, ma Oikawa la ignorò. Al terzo passo per tornare alla monotonia del tardo pomeriggio fece dietro front, zuccheriera stretta in mano, e si accostò alla porta della cucina. Ovattata, la voce di sua madre si capiva bene lo stesso.

« … non è una situazione facile, mi rendo conto. Deve tenere duro… »

Tooru fremette un istante. Non c’erano soggetti nella frase, ma la sensazione inequivocabile che si trattasse di Iwachan si palesò prepotente.

« … sta bene, è l’importante. È giovane ed è un bravo ragazzo Acchan, non avete nulla di cui preoccuparvi. Ma dimmi… la questione è risolta? Il tribunale cosa ha deciso? »

La zuccheriera gli sfuggì quasi di mano; se la strinse addosso, mentre con il palmo libero si tappava la bocca per non permettere alla sorpresa di far trapelare mezza sillaba. Il fresco del pavimento era completamente sparito sotto le piante nude dei piedi. Lo starnazzo della tv era un brusio.

« … be’, è una buona notizia. Su, è la fine dell’anno ormai, abbiamo bisogno tutti di pensieri positivi. Vi accompagno al tempio il pomeriggio del primo, quando Tooru porterà Eriko e Takeru in stazione, ok? Così saluto Hajime-chan. Mi mancano quei momenti in cui veniva a cercare Tooru per giocare insieme… le cose cambiano e il tempo passa così in fretta… »

Con un tonfo la zuccheriera finì abbandonata malamente su un ripiano nel corridoio; Tooru non tornò in soggiorno, ma tirò dritto raggiungendo le scale, salendo i gradini due a due fino alla propria camera.

Era rimasta tale e quale a quando se ne era andato a Tokyo per iniziare l’università. Poster alle pareti e ritagli su giocatori a cui si era ispirato e che non erano più solo miti ma conoscenze; la targa celebrativa dei suoi successi alle medie e la bacheca di foto degli ultimi anni di scuola, su cui i suoi occhi furono calamitati per un attimo sospeso nel tempo.

Faticava un po’ a riconoscersi. Il suo sguardo era cambiato e i suoi sorrisi si erano ridotti a poche scelte, troppo spesso più circostanziali che spontanee. Ciò che invece non riusciva davvero a focalizzare era Iwachan. Aveva l’impressione che gli occhi gli stessero giocando un brutto scherzo, rimandandogli il suo viso confuso, sovrapposto a frammenti di quello che ricordava dall’ultima volta in cui si erano visti.

In cui si erano detti arrivederci.

Ed era stato un vigliacco addio.

L’agitazione che l’aveva spinto nella stanza si sgonfiò, lasciandogli addosso una sensazione smorzata, né più preoccupata né meno urgente. Staccò dalla bacheca la foto di loro due la sera del diploma, quando si erano dati ai festeggiamenti, prima con i compagni di squadra, poi in famiglia. Con le dita che si cercavano, intrecciandosi non viste e parlando per il loro segreto.

Più fissava la foto più il ricordo di Iwachan gli arrivava a pezzi scoordinati. Il cipiglio, il sorrisetto da volpe raro da scorgere, il colore degli occhi adombrati, pieni di lui, quando lo sovrastava, e le mani, rudi quanto i suoi insulti…

Si morse le labbra, facendo dietro-front raggiungendo il letto con la foto in mano. Tirò su da terra il proprio borsone, lo stesso delle Olimpiadi, estraneo in quella camera bloccata alla foce della sua adolescenza, e cercò il cellulare. Si era ripromesso di tenerlo spento per tutto il tempo delle vacanze, più che sicuro che il mondo avrebbe potuto far a meno del miglior setter sulla piazza almeno a capodanno. Il telefono iniziò a vibrare a ripetizione non appena trovò campo, la barra in alto che si riempiva di icone e scorci di messaggi, ma le sue dita erano già volate alla rubrica, e lì a scendere fino alla I.

Ancora una foto. Piccola, di profilo, scattata in un momento in cui Hajime contemplava qualcosa fuori dalla finestra di quello che era stato il loro appartamento, la tazza della colazione in mano, addosso solo i pantaloni della tuta… i suoi pantaloni, che aveva risvoltato alla fine. Ricordava quel momento – era certo fosse successo ieri. Come Iwachan non si fosse accorto del suo arrivo finché il click della fotocamera aveva spezzato il silenzio, di come avesse rovesciato gli occhi al soffitto, sorbendo un sorso di tè caldo.

A vederla in quel momento, a distanza di più di un anno – forse due? – era una foto malinconica. Una foto che sarebbe dovuta essere temporanea, data la frequenza con cui le cambiava ogni volta che immortalava un momento diverso. Niente gli aveva detto che sarebbe stata l’ultima. Le cose erano mutate, scivolate via, e a lui sembrava di essere inciampato su un gradino ed essere rotolato giù. Si era rialzato, ma senza aver capito cosa si fosse rotto.

L’immagine del contatto svanì insieme allo schermo, oscurato dallo stad-by. Oikawa lasciò cadere il cellulare sul piumone. Una telefonata. Ecco la folle idea, l’urgenza che l’aveva portato lì dopo aver origliato sua madre dire che Hajime doveva farsi forza, che era ancora giovane, che il tribunale…

Tooru si sedette sul pavimento, abbandonando la testa sul letto mentre il cellulare ogni tanto continuava con i suoi bzz, e lui non smetteva di fissare la fotografia del diploma.

Come aveva fatto la gente intorno a lui e Iwachan a non capire che stavano insieme? Ricordava perfettamente di aver passato l’ultimo anno del liceo appiccicato a Hajime. Perfino lui si era stufato di quel suo sfarfallargli attorno. Tolti Mattsun e Makki, sorbitisi il loro rapporto dall’inizio, gli altri – i compagni di scuola e di pallavolo, gli insegnanti, i commessi dei konbini, i passeggeri dei treni, i loro genitori –  veramente non avevano notato il suo sguardo innamorato? I mille modi che trovava per scivolare a contatto col suo ace, ovunque e in qualsiasi momento?

Più osservava i dettagli, più tutto a lui sembrava palese. Non era stata una passeggiata accettare la svolta di quei sentimenti, non con alle spalle così tanti anni di amicizia, di reciproca presenza, di fratellanza. Rendersi conto che c’era dell’attrazione fisica era stata quasi una commedia, imbarazzante e intima. Unica.  

Oikawa affondò il viso nel piumone per qualche istante e per gli stessi istanti si privò del respiro, avendo più bisogno di trattenere, di tenere a freno qualsiasi ricordo, mentale o fisico, stesse premendo per scappare dalla gabbia dorata in cui aveva segregato ogni cosa.

Aveva faticato. Aveva taciuto e ingoiato per riuscire ad andare avanti e ricostruire qualcosa su quello che era rimasto delle proprie macerie dopo la rottura con Hajime. Giorno dopo giorno si era sforzato a trovare impegni, hobby, qualcuno di nuovo da conoscere. C’era arrivato solo negli ultimi mesi a capire che iniziare incastrarsi in una relazione lo ributtava nel calderone dei ricordi , perché nulla combaciava, perché i gesti erano diversi, come le labbra e il sapore. Da quella decisione si sentiva un po’ più stabile, più immerso nella propria vita, anche se continuava a viverla sempre ad almeno tre centimetri di distanza, per non scottarsi. Forse per quello non avvertiva più affinità neanche con la pallavolo. A tratti si smarriva nell’apatia, come durante le vacanze, giustificandosi che aveva bisogno di riposo, che tanto poi tornavano gli appuntamenti, gli inviti, le iniziative.

Guardò il cellulare. Avesse anche cliccato sul tasto per la chiamata, cosa sarebbe successo?

Iwachan, quanto tempo! Hai visto che nevicata? Chissà se bloccheranno i treni per Tokyo! Tu quando riparti? Se non torno il Coach si arrabbierà!

Ciao eh! Avevi detto che ti saresti fatto sentire! È passato più di un anno! Rude Iwachan!

Ehi… ciao, come stai? Ho saputo da Mattsun che le cose con la tua ragazza non stanno andando bene, ti va se…

Iwachan mi manchi. Ho sbagliato, ho sbagliato mille volte. Ho perso, hai visto? Ho perso perché… perché non ci sei…

… Iwachan…

 

 

 

Dimenticarsi i guanti era stata davvero una pessima idea. Oikawa si aggrappò alle sbarre del cancello dell’Aoba Johsai a mani nude; voleva accertarsi che fosse più chiuso di quel che sembrava, e le scostò dopo il primo strattone per rinfilarle al caldo nelle tasche.

Visto da lì il cortile era deserto; le mura della recinzione faticose da scalare ma non impossibili, però qualcosa convinse l’alzatore che Iwachan non era lì. Lo sguardo si perse a vagare sulla struttura, un altro pezzo di passato rimasto uguale a se stesso e che Oikawa sentiva di aver sottovalutato nel pensare che sarebbe stato solo un bel ricordo. La prospettiva dell’ambiente nuovo e dinamico di Tokyo, della pallavolo a livello agonistico, di un futuro in ascesa continua, avevano soppiantato la tranquillità della prefettura di Miyagi nella sua mente, tanto che ora aveva l’impressione di riscoprire ogni piccolo angolo con una luce diversa e nostalgica, come se per diciotto anni avesse dato per scontate troppe cose.

La presenza di Hajime era una di queste. Vivo in ognuno dei suoi ricordi, ma ormai sbiadito nel presente dei suoi giorni sempre più monotoni. Si era atrofizzato a vivere seguendo movimenti meccanici tanto che le scintille del rimorso erano presto state soffocate dalla cenere. Persino il sapore della sconfitta, su un palcoscenico mondiale, gli era scivolato addosso come un gusto insipido e passeggero. Un tempo si sarebbe consumato di allenamenti extra, avrebbe sfogato la delusione fino a farsi sanguinare la mano nel colpire la palla in battute rivolte contro l’impalpabile disfatta.

E Iwachan sarebbe venuto a fermarlo e rimetterlo in piedi per guardare avanti.

La sensazione era quella di un disco rotto. La musica filava sotto la punta del giradischi finché non incespicava in una crepa. Dopo un po’ di tentativi e suoni stridenti riprendeva a girare, ma la traccia rimaneva zoppicante, mancante di una voce, di uno strumento che aveva abbandonato il brano.

Tooru si risistemò la sciarpa intorno al viso, strusciandoci bocca e naso arrossato dal freddo, e tornò sulla strada principale quasi deserta, voltando le spalle l’Aoba Johsai perché Iwachan non era lì.

Era il due di gennaio. Aveva reindossato i panni della tranquillità fino alla sera precedente, continuando a rimuginare sulla conversazione di sua madre e a brancolare nel pensiero che mentre lui salutava sua sorella e suo nipote in stazione, lei era uscita per andare dagli Iwaizumi. Avrebbe potuto inventarsi una qualche scusa per doverla raggiunger e “… oh, Iwachan, ci sei anche tu!”.

Questo dopo aver passato quasi una notte in bianco nel fissare la foto contatto di Hajime nel suo cellulare. In realtà, aveva speso buona parte di quelle ore a cercare tracce del suo amico di infanzia, ma per quanto fosse rassicurante sapere che non era cambiato su abitudini quali non interessarsi ai social network – la foto più recente era forse di nove mesi prima? – era frustrante non trovare notizie o indizi. Mattsun e Makki lo avevano taggato ogni tanto, in qualche comune uscita, con foto di birre relativamente artistiche che non gli avevano suggerito nulla.

Ricordava come si chiamasse la sua ragazza, ma a meno che non avesse creato un profilo falso per aggiungerla, il suo account era blindato agli estranei, cosa che gli aveva fatto storcere le labbra e mugugnare lamentele per il gusto di farlo, soprattutto per l’immagine profilo di lei di spalle seduta al bancone di un locale, nulla di più.

I vecchi album di fotografie sul computer erano stati il suo malsano e masochistico rifugio finché non si era addormentato che albeggiava, con l’unica convinzione fissa che le immagini non bastassero, che avesse bisogno di più… che avesse bisogno di rivederlo.

Quel pomeriggio era uscito di casa senza meta ma con lo scopo di girarsi tutti quei luoghi dove avrebbe potuto imbattersi in Iwachan. Se non lo avesse trovato, il piano di riserva era andare direttamente a suonargli a casa, in testa pronte almeno sei scuse diverse pur di parlargli.

E le suddette scuse iniziarono a sfrecciargli in toni melodrammatici in testa, perché non trovò Hajime in nessuno dei luoghi che gli vennero in mente. Dall’Aoba Johsai i piedi lo avevano portato alla Kitagawa Daiichi, ma anche lì in buco nell’acqua. La loro scuola elementare era stata chiusa anni prima e trasformata in una clinica privata, di malinconico conservava molto poco. Rimanevano un paio di palestre, almeno tre parchi e una caffetteria verso il centro città dove erano stati soliti andare quando avevano iniziato a uscire come coppia.

La tasca dove teneva il cellulare si fece sentire vibrando insistentemente. Il buon proposito di tenerlo spento era sfumato da quando aveva ricominciato a pensare a Iwachan; la voglia di chiamarlo sempre a un passo dal fargli cliccare il tasto verde, repressa puntualmente dai dubbi maturati nel tempo.

Si erano lasciati da amici dopo un lungo periodo fatto di fragilità quotidiane e degenze in ospedale, ma la promessa di tenersi in contatto si era presto trasformata in un messaggi monosillabici e una serie di dubbi ridonanti e velenosi. Sarebbero stati capaci di tornare amici come prima? Come sarebbe stato uscire tutti insieme pretendendo di non sfiorarsi? Ne valeva la pena?

Aveva vinto la routine quotidiana, fatta di “non pensarci” e “sicuro lo chiamo domani”, tanto che alla fine si era chiuso in qualsiasi impegno lo tenesse occupato con la promessa che prima o poi lo avrebbe cercato. Ed era passato più di un anno così.   

Tirato fuori il telefono, sul display il nome del contatto era “Non Rispondere Mai 5”, il che significava o qualche giornalista o un fan che era venuto in possesso del suo numero. Silenziò la suoneria e rinfilò il telefono nel giubbotto.

« Oikawa? »

Tooru levò lo sguardo per trovarsi davanti un volto conosciuto e un po’ invecchiato.

« … Irihata-san! »

Il Coach della Seijoh si avvicinò con la sua aria più contenta. Sulle tempie i capelli non erano più scuri come il setter li ricordava, e altre rughe si erano aggiunte al contorno degli occhi e della bocca. Aveva le mani protette da guanti scuri, una sportina a penzoloni e il passo claudicante.

« Tutto a posto? » domandò il giovane, non potendo ignorare il leggero sforzo nel camminare.

« Un piccolo incidente un paio di anni fa » sorvolò con un’alzata di spalle l’anziano. « Tu ragazzo, come stai? Mi hai reso un eroe agli occhi dei miei nipoti durante le olimpiadi, quando hanno saputo che ero stato il tuo allenatore. Continui a perfezionarti »

Gli angoli del sorriso di Tooru traballarono appena insieme al suo tono. « Dice? »

Rimaneva un argomento avvolto dalle spine e dallo sguardo di Irihata l’alzatore ebbe l’impressione di essere tornato a scuola. Era tanto che qualcuno non lo guardava come se sapesse esattamente cosa lui cercasse o di nascondere o di far passare blandamente per insignificante.

« Ti piace ancora la pallavolo » rispose l’ex coach. Non era una domanda ma constatazione che scaldò Oikawa, centrando un punto nel suo animo avviluppato dai dubbi, e che gli fece schiudere le labbra per ribattere, ma non ne uscì un suono. « Non la stai però giocando con la stessa passione e intensità di prima, ho visto bene? »

Nonostante l’altezza e i vent’anni passati, il setter si sentì molto più piccolo e incerto.

« Sono successe un po’ di cose » si giustificò con un sapore amaro in gola.

« Non ti preoccupare Oikawa. Si chiama crescere » disse il Coach ridendo di gusto e allungandogli una pacca sulle spalle con l’affettuosità di un nonno. « Quando eri all’Aoba Johsai ti ho lasciato le redini della squadra e non me ne sono mai pentito. Sapevo che te la saresti cavata. Eri un buon capitano e sapevi tirare fuori il meglio degli altri, ma soprattutto sei intelligente e appassionato. Non lasciarti trascinare dal mondo ragazzo, non da una finale persa, o peggio… da qualcosa di irrisolto »

La faccia del giovane esprimeva il più completo sbalordimento; distolse lo sguardo come se Irihata non avesse parlato genericamente ma avesse appena chiamato per nome e cognome il suo tormento interiore. Come se avesse saputo a tutti gli effetti cosa fosse successo negli ultimi anni.

Oikawa era da tempo che accatastava sopra il problema scuse e indefinite domande per continuare a ritardare l’inevitabile momento in cui si sarebbe di nuovo trovato in ginocchio col cuore in mano. Prima o poi sarebbe successo. Quello che non credeva era che il momento sarebbe arrivato all’improvviso, senza qualche realizzazione preparatoria, un cartello a caratteri cubitali con “Attenzione, organizzati, non si scappa più”. Si sentì ancora di più un ragazzino sciocco.

« Grazie Coach » riuscì a dire dopo qualche secondo di indecisione. Aveva voglia di chiedergli di più, di confessare qualcosa di quel nodo alla gola, ma anche quello era un altro modo di procrastinare. Come cercare Iwachan nei loro luoghi di infanzia con la scusa e la speranza di imbattercisi per caso. Come continuare a fissare foto di lui senza chiamarlo. Aver fantasticato inutilmente in quell’ultimo anno che il suo ricordo potesse finire chiuso da qualche parte nella sua memoria senza più fargli sentire la mancanza della persona più importante che avesse al mondo.

« Siamo solo al due di Gennaio e mi state facendo rimpiangere i miei allievi tutti casa e palestra come eravate voi – e per via dello sguardo un po’ colpevole un po’ disorientato dell’ex studente, Irihata continuò, indicandosi alle spalle – prima ho incontrato Iwaizumi al konbini. Non ve li fate proprio mancare i pensieri per la testa, voi due »

Tooru si bloccò e non registrò più niente. Un flash, nella sua testa, gli rimandò quella foto che teneva nel profilo contatto di Iwachan, quella mattina come tante altre. A rallentatore il suo corpo ricominciò a muoversi, irrigidito dalle ginocchia in giù, una parte di sé avrebbe preferito tenerlo ancorato al terreno per non farlo andare nella direzione indicata dall’ex allenatore. Abbozzò un saluto, un augurio per l’anno nuovo con voce impostata; un istante dopo le sue gambe sembrarono improvvisamente fatte d’aria e Oikawa, svoltato l’angolo, corse, corse, corse.

Con un’occhiata, e forse un minimo ancora di coerenza nel frastuono di battiti che aveva in testa, si accorse che era a un paio di vie di distanza da casa di Hajime. Affondò le scarpe nello strato di neve senza preoccuparsi di incappare nel ghiaccio, senza preoccuparsi, quando svoltò repentinamente, di travolgere un passante e farfugliare un mi dispiace poco sentito. Nell’agitazione la sciarpa si allentò, lasciando che il freddo gli penetrasse dal naso fino alla gola, seccandogli le labbra.

All’imbocco della via di casa Iwaizumi c’era una sola persona per strada. Di spalle, in un pesante giaccone verde militare, una busta della spesa appesa al gomito, camminava senza fretta, sembrava quasi che dondolasse.

Quando Tooru arrivò a pochi metri, rallentando per non finirgli addosso di peso – lo avrebbe fatto, lo avrebbe voluto travolgere in un abbraccio e sciogliere quella tensione in una risata isterica – tutte le frasi che aveva preparato, i teatrini per attaccare bottone, finirono inghiottiti da un improvviso vuoto e da una consapevolezza che assunse la forma di un’ennesima scomoda domanda.

Cos’erano diventati di preciso?

Erano tornati amici?

Puoi pensare a qualcuno che hai amato, che hai faticato a mettere da parte per non smettere di vivere, di cui conosci la sensazione della pelle nuda addosso, dentro, come a un amico? Quello che era anche un fratello, figlio di altri genitori, e con cui hai diviso tutta la tua vita?

Hajime era distratto, o forse la neve aveva attutito abbastanza i passi del setter, perché non si accorse della sua presenza finché Tooru non lo afferrò per il braccio.

Oikawa non misurò la forza, non ci pensò minimante, il martellante bisogno di sapere che fosse lui, in carne, ossa e realtà. Niente più foto e ricordi. Sotto le dita, affondate negli strati dei vestiti, avvertì nitidamente il muscolo dell’ace irrigidirsi.

Nelle fantasie dell’alzatore il suo Iwachan non lo fulminava con un’occhiata che avrebbe messo in fuga un eventuale assalitore; ruolo che, in effetti, si stava trovando a ricoprire. Nelle proiezioni sul loro rivedersi, lui lo beccava per caso seduto su una panchina, esprimeva un sorpreso quanto nostalgico “… Iwachan?!” e il suo ex, dopo un primo smarrimento, si esprimeva in un impacciato sorriso soppiantato presto dal suo broncio di fabbrica.

Una favola di Natale, un film pieno di cliché uscito solo in homevideo perché, in fondo, non era che una storia banale, un miracolo sotto la neve, un canovaccio che risolveva i buchi di trama con la speranza, l’amore e la magia di quel periodo dell’anno.

Oikawa non si aspettò lo sguardo successivo di Hajime, un panico sgranato, quello che ti prende alla bocca dello stomaco e ti fa reagire come fossi un animale in mezzo alla strada, al buio, abbagliato inaspettatamente da un paio di fanali. Un’espressione che credeva estranea ai lineamenti di Iwachan, tanto che per un istante temette di aver sbagliato persona.

« Iwa- »

Tooru comprese a metà la reazione di Hajime e cominciò nell’istante in cui abbassò gli occhi e il resto del suo nome si spense insieme al proprio fiato. Sentì molto più del freddo di quel due Gennaio quando un terzo sguardo incrociò il suo.

Minuscolo, due occhietti incolori sopra gote arrosate e il resto del viso coperto da una sciarpa. Un cappottino rosa a pois rossi, un berretto color caramello con due orecchie tonde sulla sommità. Un’espressione curiosa, ma appena imbronciata, così uguale a una che Tooru conosceva tanto bene.

Oikawa si era preparato a diverse possibilità. A una riconciliazione come a un litigio fatto di risentimenti e botte. A un silenzio pesante come a un’altra partita miseramente persa.

Non avrebbe potuto prepararsi a Michi.

 

 

Tooru aveva seguito Hajime dentro casa. Nonostante la famigliarità dell’ambiente, all’alzatore sembrò di trovarsi in un luogo estraneo. Le luci erano tutte spente, l’attaccapanni dei cappotti vuoto, non c’erano scarpe lasciate in attesa di essere usate.

Non si parlarono realmente – « Puoi accendere tu la luce? » « …eh? Sì » « Le pantofole nuove sono nell’armadietto in basso » « Uh ok ». A malapena si scambiarono qualche occhiata, quasi in flagrante, però non lasciarono tra loro mai più di un metro di distanza. Oikawa si mosse goffamente, come se per la prima volta in vita sua avesse perso la sintonia col proprio corpo. Davanti a lui, Hajime aveva le spalle fin troppo dritte. Si risistemava la piccola in braccio mentre depositava la spesa in cucina e poi la spogliava della giacca e della cuffietta di lana, arruffandole i capelli scuri.

Lei, intanto, curiosa, cercava di continuo l’ospite di casa Iwaizumi da sopra la spalla di Iwachan. Tooru non riusciva a ignorarla come la vocina nella sua testa, ancora in tilt, tentava di imporgli. Non che afferrasse molto dei contorni generali di quello che gli passava sotto gli occhi. L’alzatore continuava a muoversi e basta, a seguire l’ex compagno in una penosa imitazione dei tempi del liceo.

Oikawa deglutì ancora, il senso di disagio continuava ad arrampicarglisi addosso alla stregua della marcia serrata di tante formiche, facendogli sfregare braccia o collo per un prurito che aveva radici interne.

« Oi »

La voce di Hajime fu la nota più giusta e sbagliato al contempo, ma gli fece rialzare il viso. Erano di fronte la camera di Iwachan. Quest’ultimo aveva una mano pronta ad aprirla, l’altra ancora a reggere la creatura minuscola accoccolata tra l’incavo del collo e il petto. Continuava a esserci, a non sparire. Non era un’allucinazione. Non era uno scherzo.

Quello che Oikawa mise davvero a fuoco fu solo la targhetta sulla porta, simile alla sua, un pastrocchio di pasta malleabile e colori a tempera realizzato alle elementari. Qualcosa che era rimasto lì da sempre, al contrario di loro.

Tooru si concentrò per far sembrare al meglio che stesse per ascoltarlo, accennando della nonchalance lungi alla sua portata in quel momento.

« Dammi un po’ di tempo » riprese Iwachan, e se Oikawa non fosse stato totalmente frastornato avrebbe riconosciuto nel tono tanto basso qualcosa di molto simile al suo stato d’animo. « La metto a dormire e… parliamo »

Oikawa annuì automaticamente a qualsiasi cosa avesse detto.

« Allora uso un attimo il bagno » esclamò all’ultimo con un’allegria da uccidere un morto.

Rifugiarsi in bagno fu una fune di fuga. Rimase aggrappato alla maniglia, diffidente dall’affidare l’equilibrio alle proprie ginocchia tremanti. Tutto di lui tremava, dallo stomaco alla trachea. Il cuore poi era finito da qualche parte al livello delle caviglie. Probabilmente ci aveva anche camminato sopra mentre vedeva dondolare davanti a sé quegli occhietti incolori che già immaginava avrebbero virato al verde. Ne era assolutamente certo. Come era sicuro che sarebbe rimasto chiuso in quel bagno finché non fosse suonata la sveglia e lui avesse aperto gli occhi nel suo letto di Tokyo, con il cellulare che trillava di messaggi di Twitter e l’odore della città ad annunciargli un nuovo giorno uguale agli altri.

Non suonò nulla, eccetto il tu-tum costante nelle orecchie. Oikawa stava ancora osservando la propria mano stretta alla maniglia, il marrone della porta, come fosse l’unico mondo veritiero e salvifico. Non c’erano rumori intorno, nel corridoio. La casa era vuota ma calda. L’occhio gli cadde sul termosifone e, per moto spontaneo, lo toccò, trovandolo piacevolmente confortante. Da lì si portò finalmente davanti allo specchio del lavandino e non si stupì di essere bianchiccio, con gli zigomi sfumati di rosa.

Aprì il rubinetto dell’acqua e si diede una sciacquata, e poi un’altra. Non si svegliò. Niente sveglia e niente secchiata d’acqua. Niente film da cui tirarlo fuori.

Iwachan era a meno di tre passi da lui e in braccio teneva sua…

La propria…

Oikawa rialzò il capo allo specchio, gocciolante, le ciocche di capelli appiccicate ai lati degli occhi, sulla fronte, il volto di chi aveva terminato un allenamento pesante.

Iwachan aveva avuto una…

Buttò fuori l’aria rumorosamente, sciacquandosi ancora la faccia, strofinandosela mentre la sua memoria recente ricalcava tutti i passi dall’atrio alla camera dell’ace e non inquadrava altro che quel visino tondo, senza lineamenti definiti ma familiari.

Ora ricordava. Era fine autunno, inizio inverno di due anni prima, l’ultima volta che aveva visto Iwachan. I messaggi erano durati qualche settimana. Poi il silenzio. La distanza. Promesse seppellite da sabbie mobili mentali. Il tempo. Una linea di partenza, ma su piste diverse, in direzioni diverse, destinate ad allontanarsi. Ognuno per conto proprio.

Lui e Iwachan ci avevano messo forse quattro mesi per seppellire definitivamente la loro relazione, la loro storia e i loro ti amo.

Chiuse gli occhi e ingoiò il sapore della bile. No. Ci avevano messo molto di più, ma nessuno dei due aveva guardato davvero in faccia le incrinature, le pieghe storte, le esitazioni accumulatesi di giorno in giorno.

In fondo, nove mesi per la nascita di un bambino erano soffiare su un Dente di Leone se paragonati ai loro ventiquattr’anni di tutto.

Ma sembravano essere bastati. Optò che fosse il motivo per cui Iwachan non si era più fatto sentire. Si erano detti di tornare a essere amici, non migliori amici. Chiamarlo per dirgli che sarebbe diventato… diventato… quello che era, forse non rientrava nelle clausole del loro accordo. Avrebbe dovuto chiederglielo all’epoca, quando ancora poteva.

Ehi Iwachan, se la tua vita dovesse cambiare radicalmente me lo farai sapere?

Perché riguardava un po’ anche lui, no? Metà della sua anima ce l’aveva ancora Hajime, insieme più o meno a tutta la parte del suo cuore in grado di innamorarsi. Lui non se ne sarebbe più fatto niente di quei pezzi di sé, quindi perché chiederglieli indietro? Però così, ora… quello che era rimasto, quelle ferite, quelle dislocazioni, stavano tornando a contorcersi e sanguinare. Tooru le sentiva fin troppo dolorosamente.

Lui cosa aveva fatto in due anni?

Quale scusa si era raccontato fino a quel pomeriggio per non chiamarlo? Forse avrebbe dovuto vergognarsi invece di piangere. Aveva avuto tutto il tempo del mondo, settecentotrenta giorni per due parole in fila che avrebbero potuto smorzare quella realtà, probabilmente non realizzarla, cancellarla prima che nascesse.

Si guardò allo specchio, deglutendo.

Se lo avesse cercato prima, se fosse tornato in ginocchio da lui quando ne aveva l’occasione, il suo Iwachan non sarebbe stato di qualcun'altra. Non ci sarebbe stata alcuna cosina dalle guance tonde a fissarlo curiosa. E lui non si sarebbe chiuso in quel bagno a sentire il pavimento mancargli sotto i piedi.

Si sedette sul bordo della vasca, passandosi le dita tra i capelli per ravvivarli dalle goccioline d’acqua e finire col premere i polpastrelli sulle palpebre chiuse, in un patetico tentativo di fermare le lacrime. Esalò un’imprecazione, o la pensò a voce alta, ma neanche comprese lui stesso.

Tutto quello che capiva era la confusione di inutili immagini. Di logoranti se e ma, e la sua mente che sparpagliava ombre di Iwachan in quei ricordi dove sarebbe dovuto essere. Dove lo voleva. A Rio a lamentarsi con lui del caldo, del tifo antisportivo, gustando insieme cibi troppo piccanti, a saperlo a bordo campo, come portafortuna, come la più granitica delle sicurezze. Lo proiettò nel suo letto a Tokyo, al posto di quelli con cui si era convinto di poter voltare pagina. A fargli compagnia la mattina, a colazione. A salvarlo dai pensieri che ondeggiavano tra le ultime tracce di sonno e il primo sorso di caffè, quando la solidità del presente era sfuocata e lui vulnerabile alla malinconia delle sue debolezze. Come in quel momento.

Bussarono alla porta. Il setter trasalì per paralizzarli prima di completare il gesto, senza rispondere.

« Oikawa? »

Tooru non si sentiva pronto ad aprire la porta. Dopo tanto pensarlo non era più sicuro di voler guardare in faccia Hajime.

Seguì del silenzio, prima che Iwaizumi abbassasse la maniglia, rimanendo però bloccato fuori. A Oikawa sembrò di sentire un sospiro.  

« Sono quasi venti minuti che sei lì dentro » un’altra pausa, lunga. Le parole non vennero fuori facilmente. « Ti senti bene? »

No.

No. Non è niente.

Credo che vederti con in braccio tua… mi abbia appena fatto capire che non c’è più posto per me.

« Oikawa apri »

« U-un momento! Sei senza pazienza » e nel dirlo premette lo sciacquone del gabinetto e in successione aprì il rubinetto dell’acqua. « Ci sono ci sono » e si sfregò il viso sulla manica, pizzicandosi le guance per mascherare con un po’ di rossore il colorito cadaverico.

Girò la chiave e aprì la porta in un unico gesto, rapido e senza rimuginarci. Tirò gli angoli della bocca, mostrò il candore dei denti e quasi si espresse in un ta dan, pur di non lasciare spazi vuoti in cui cadere.

Hajime, sulla soglia, non reagì in nessuna maniera. I lineamenti del suo viso erano semplicemente fermi, appoggiati sulle ossa come un bozzetto definito ma standard.

« Hai lasciato l’acqua aperta » disse, senza rimprovero.

« … che sbadato »

Si mossero insieme, entrambi proiettati verso il lavabo, quasi incastrandosi nella cornice della porta. Si bloccarono prima del passo successivo – in cui le probabilità davano una collisione del novanta percento – e restarono con gli occhi paralizzati l’uno dallo sguardo dell’altro. Sgranati e immobili.

« Faccio io » dichiarò Hajime, scivolando via dalla stretta degli occhi di Tooru. Chiuse il rubinetto galeotto ma non si voltò indietro. Parlò, ma come se l’interlocutore fosse chiunque ma non Oikawa.

« Del tè andrebbe bene? »

Il setter annuì, per rendersi conto che di spalle difficilmente l’assenso sarebbe stato colto.

« Benissimo »

 

 

Oikawa era seduto sul divano come fosse stato su una sedia di chiodi. Rigido, con le dita si torturava il cinturino dell’orologio, guardandosi intorno guardingo; aveva la sensazione che da un momento all’altro qualcosa o qualcuno sarebbe sbucato fuori all’improvviso e lui sarebbe stato impreparato all’impatto. Per cercare di calmarsi si mise più comodo, abbandonando la testa sulla spalliera del divano – lo stesso su cui aveva passato i pomeriggi quando andava dagli Iwaizumi – e tese l’orecchio per ascoltare i rumori dalla cucina. Hajime stava preparando il tè e trafficando con cassetti e sportelli. Se chiudeva gli occhi Tooru riusciva a ricollegare gli stessi piccoli tonfi, tintinnii e fruscii a quelli che faceva quando avevano abitato insieme.

Il ricordo sembrava un sogno, o una sua proiezione personale, con i bordi sfumati, un filtro di luce completamente diverso, e pace. Tanta tranquillità, la freschezza delle prime routine domestiche, qualche occhiata furtiva –

« Non ti addormentare sul tavolo »

« Non lo farò, però sei ipnotico »

« Mphf »

« … rude, Iwachan »

- e quei brevi discorsi frammezzati da carezze leggere di complicità.

Una mano si poggiò sulla sua spalla – più una pressione veloce, incerta e maldestra nel misurare la stretta. Oikawa riaprì le palpebre all’istante e rimise alta la guardia, ricordandosi solo vedendolo che non c’era nessun altro in casa, a parte lui e Hajime.

« Il tè » spiegò Iwachan. Il suo sguardo indugiò poco sull’ex compagno e alla fine si sedette lì di fianco, a una distanza che avrebbe voluto essere più vicina e lontana al contempo. « Se sei stanco… »

« No » tagliò il setter, rimettendosi dritto. « Tutto ok, grazie »

Lasciarono che di nuovo il silenzio indugiasse tra loro. Il nervosismo era stato palpabile da subito, ma la distanza da colmare era così piena di possibilità da logorare i nervi. Tooru odiava non avere neanche un bandolo della matassa da seguire per cercare di tenere sotto controllo la situazione. Aveva voglia di piangere e abbracciarlo, e allo stesso tempo alzarsi e uscire da quella casa che sembrava diventata una camera a gas.

Ma…

Era ancora lì. Lì per sentire dalla bocca di Iwachan quello che gli serviva per andarsene una volta per tutte? Aspettava quello? Di chiudere una parentesi che gli aveva portato via due anni di vita? Perché a guardali adesso, in prospettiva, vedeva finalmente la lancetta del suo tempo muovere un ticchettio in avanti da quando si era fermata il giorno che si erano detti arrivederci. Era assurdo, ma qualsiasi altra cosa successa in quel lasso di tempo aveva perso di spessore, se mai ne aveva avuto.

Per la prima volta da tanto, Oikawa avvertì come se la vita reale gli fosse stata ri-iniettata nelle vene e tutto avesse riacquistato peso e consistenza.

Tuttavia nessuno dei due parlava.

Tooru allungò la mano verso il vassoio con le tazze fumanti, il bisogno di fare qualcosa, ma finì solo per scottarsi le dita.

« Auch »

« Attento » e nel dirlo, Iwaizumi lo fermò per il polso.

Fu come darsi la scossa, ma senza alcuna scintilla; ritirarono entrambi il braccio e si guardarono allo stesso modo di qualche minuto prima, sulla porta del bagno. Tesi, incapaci di decidere la mossa successiva. In bilico, quando l’entrare in contatto sembrava l’innesco sopito di un qualche ordigno interiore.   

È ridicolo, pensò Oikawa, ma si morse un labbro non riuscendo a dire nulla di udibile. Però la sua mano si allungò e, titubanti, le dita si strinsero alla manica di Hajime, tirando appena. Si sentì un bambino, si sentì il bambino che era stato molti anni prima, quando il giorno di prima elementare aveva scoperto che non sarebbe stato nella stessa classe del suo amico di giochi. Anche allora gli si era aggrappato alla stessa maniera, piagnucolando.

« I-Iwachan »

… mi sei mancato.

« Io… volevo chiamarti »

Sono uno stupido.

« … ma… »

Sono arrivato troppo tardi.

« … non sono riuscito a s-smettere… »

Faceva male.

« Di pensare a… a noi »

fa male.

Le lacrime erano calde, caldissime. Non lasciò andare la presa su quella manica, quel pezzettino di Iwachan che si stava concedendo, ma con la mano libera si sfregò le gote. Non riuscì a fermare il pianto e un singhiozzo si liberò dal peso opprimente della gabbia toracica per risuonare patetico nella stanza. Finì col coprirsi gli occhi col palmo, reprimendo e reprimendo. Anni che lo faceva e ora i sentimenti scalciavano per sopraffarlo.

Non riusciva a seguire i propri pensieri. Era tutto come due anni prima, qualcosa che anche essendo presenti, protagonisti della scena, proprio non attaccava, come la neve troppo sottile. Solo che in quel caso erano passati due giorni dall’ultima volta che aveva sentito l’equilibrio statico della sua routine ancora infrangibile nel suo procedere sempre uguale, uno scudo costruito da ripensamenti e rimpianti. La monotonia, i passi tutti uguali, la sua ancora fissa che gli ripeteva “va bene così. Io e Iwachan non abbiamo più nulla da spartire. Un giorno ci incontreremo per caso e ci saluteremo come conoscenti di lunga data”.

Un torpore che assomigliava a una vita normale, nulla di diverso da quello che vedeva nella gente che gli passava di fianco. Lui, a differenza, forse poteva vantare di essere un campione, poteva nascondersi dietro alla propria fama per risultare meno patetico. Anni di passione e allenamento dovevano pur essere serviti alla memoria del corpo, ad aiutarlo nella sua nuova vita. Anche se aveva perso.

« I-Iwachan » singhiozzò di nuovo.

Aveva perso.

La finale, la felicità, la passione, la volontà, Hajime.

Un verso grottesco, che se lo avesse sentito dall’esterno, da qualcun altro, gli avrebbe fatto accapponare la pelle, gli sfuggi di gola, insieme a un altro singhiozzo. Era tutto così liberatorio che iniziava a non capire più la situazione, quando fosse successo. Anni, mesi, giorni, ore… l’ospedale, la riabilitazione, il silenzio nella camera, l’insonnia prima e le ore di sonno ridotte poi perché c’era poco da sognare. Un cellulare che vibrava di messaggi senza sfumature, gente che non voleva vedere a cui sorrideva, una persona che aveva iniziato a odiare conoscendone a malapena il nome.

E poi, sempre Iwachan a rimetterlo in piedi.

Sempre.

Nel momento forse più buio, quello dove Oikawa aveva tradito persino il proprio corpo, Iwachan lo aveva recuperato, lo aveva tratto fuori da qualcosa che aveva sottovalutato, perché non gli importava più molto.

Ora che la sua vita era fatta di una nebbia costante, di un tramonto grigio che talvolta dava l’idea di durare mesi, seguito da notti pallide, slavate, e albe malinconiche… poteva ancora sperare di essere salvato? Poteva sperare di riavere anche solo un pezzo di lui? Ma se sì… sarebbe stato in grado di dargli valore?

La domanda gli strozzò il respiro. Chiuse la bocca, pensando a quanto immeritati suonassero quei singhiozzi da lui. Cosa stava facendo? Rivedeva Hajime dopo due anni e quello di cui era capace era riversargli addosso il suo dolore?

Perché lui era andato avanti?

Lasciò andare di colpo la presa sulla sua manica, tremando, imponendo al proprio petto un nuovo blocco.

« M-mi dispiace » incespicò, e si scusò con la tazza del tè, l’unica cosa che riuscisse a guardare. Aveva gli occhi spalancati, il pizzicore ai lati così fastidioso che con le dita tentò di mitigarlo. Le gote erano fradice; non si era emozionato così neanche una volta a Rio, né che si trattasse di vittoria o sconfitta. Gli sembrava proprio di non esserci stato in Brasile. Su quel divano si sentiva così pesante, così dentro i propri vestiti che gli stava venendo la nausea di sé. Forse…

« Tooru »

Se c’era un modo per fermare il mondo dal vorticargli dentro era sentire il proprio nome pronunciato da Hajime. Pareva dire Basta così, smettila e – il cuore fece una capriola non richiesta seguendo un intuito fantasioso – sono qui.

La presa sul suo polso fu gentile, ma non esitante. Le lacrime negli occhi, Oikawa ne era certo, gli sfalsarono la visione, perché Iwachan aveva un’espressione pallida e sofferta che il setter non aveva mai visto prima. Lo osservò passarsi le dita sul viso senza delicatezza, come se volesse cancellarsi da solo i sentimenti che stavano prendendo il sopravvento; dita che, con la stessa ruvidità, Tooru aveva sentito su di sé tante volte, troppe poche col senno delle promesse, rimanendo un malinconico ricordo.

Iwachan non lo guardò in faccia. Nessuno dei due sembrava in grado di farlo. La presa sul polso divenne più salda, necessaria, e per un attimo Oikawa sentì la corsa del suo sangue arrestarsi nelle vene da qualche parte.

« Tooru… »

Le volte che Hajime non era stato in grado di esprimersi erano state due in tutta la vita in cui Oikawa lo aveva conosciuto; escluse le partire in cui avevano perso, dove lì il motivo era stato l’orgoglio a prendere il comando delle sue emozioni. No, le volte che intendeva il setter erano altre, quelle dove il suo Iwachan non era riuscito a elaborare ciò che aveva dentro e gli era apparso tanto vulnerabile da temere si sarebbe spezzato. Le ricordava a pelle, ancora capaci di togliergli il respiro.

Il primo lutto nella vita di Iwaizumi era stato suo nonno, quando aveva sei anni. Hajime si era rifiutato di capire il concetto di morte, facendo preoccupare genitori e parenti, e arrivando a rompere la cornice con la foto commemorativa messa sull’altarino del soggiorno. Per Tooru era stata la prima volta che non aveva potuto vedere Iwachan per quasi tre giorni, perché “Hajime-chan non sta bene tesoro, lasciagli un po’ di tempo” e davvero, lui non capiva, perché quando era infelice andava sempre a cercare l’amico. Era anche stata la prima volta che Tooru aveva disubbidito ed era scappato in un momento di distrazione di suo padre, riuscendo a intrufolarsi dagli Iwaizumi. Non era pronto a vedere i giocattoli di Hajime sparpagliati in terra e rotti, come non lo era stato nel trovare l’amico raggomitolato sul letto a piangere. A sei anni Tooru non aveva idea del perché gli fosse venuto mal di pancia all’improvviso, senza neanche mangiare troppe caramelle. Si era arrampicato sul materasso e si era messo di fianco al suo Iwachan, passandogli le ditina nei capelli spinosi e finendo anche lui col piangere.

Della seconda volta Tooru conservava ancora il tremore e il calore come una collana di diamanti. Hajime, nel pieno di una notte di Agosto in cui erano finiti addormentati tra snack e videogiochi, lo aveva svegliato baciandogli la nuca, stringendolo a sé e chiedendogli un consenso ad amarlo che a distanza di anni ancora gli echeggiava nelle orecchie. A ciò erano passati giorni di silenzio, di attesa per elaborare il passaggio della loro relazione a qualcosa di nuovo e allo stesso tempo atteso. Iwachan si era trincerato nel mutismo fino alla sera del matsuri, finché non gli aveva chiesto scusa e le loro dita si erano intrecciate a suggellare i loro sentimenti.

In quel momento, sul divano, in quel due Gennaio coperto dalla neve, Oikawa lo vide nelle stesse condizioni, senza parole, con un gomitolo interiore da sciogliere di cui non trovava il bandolo.

Tooru gli prese il viso tra le mani per un impulso che scavalcò quei settecento trenta giorni di codardia e silenzio. La distanza tra loro si esaurì come una pila scarica senza più alcuna utilità. La pesantezza dell’affetto represso sembrò alleggerirsi al contatto, quel tanto che bastò a rendere il momento solo loro, privo di rimpianti e rimorsi, privo di preoccupazioni. Soltanto loro, nell’equazione della nostalgia, e nel risultato di trovarsi insieme.

Oikawa ci credeva al destino; credeva in quelle opportunità che scivolano oltre due porte scorrevoli della metro, che si chiudono prima che tu faccia in tempo ad afferrarle e in un istante il pentimento sale con la consapevolezza che non avrai un’altra chance. Oikawa aveva creduto per tutta la sua infanzia che lui e Iwachan insieme sarebbero arrivati sulla Luna; nella sua adolescenza si era convinto con ancora più fermezza che insieme avrebbero vinto il sogno delle Nazionali; da giovane uomo innamorato si era promesso che sarebbe rimasto con Iwachan fino al letto di morte. Ma ogni volta le cose non erano andate in quel modo.

Eppure, nel momento in cui si spinse a baciare Iwachan, provò la sensazione più rassicurante di tutte. Era giusto così. Si trovava esattamente dove sarebbe dovuto essere, come il più desiderato dei deja-vù e come se quei due anni fossero stati solo una strada trasversale, un perdere la bussola necessario per ritrovare l’occasione più preziosa della propria vita.

 

 

Hajime non gli negò nulla. Né la propria bocca, né porzioni della propria pelle via via più spoglie di vestiti. Lo tirò a sé, a cavalcioni sulle proprie gambe, e rimasero così per un tempo scandito da labbra che necessitavano di essere ascoltate e nutrite di baci, e mani che ricercavano i loro passati territori sul corpo l’uno dell’altro.

Maglioni e camicie finirono al loro fianco alla rinfusa, seguiti dal resto; l’odore e il sapore della pelle liberata dagli strati invernali funzionò come afrodisiaco, come reminiscenza di quello che avevano avuto un tempo e di cui, su quel divano, tornavano in possesso.

Furono dita intrecciate, visi premuti nell’incavo del collo, un ritmo che oscillava tra il recuperare ciò che per la lontananza era andato perduto e il dilatare ogni sensazione fino a renderla un’impronta indelebile nel corpo, dentro e fuori.

Oikawa rovesciò la testa indietro, aggrappandosi alle spalle di Iwachan; pensò un’ultima volta a quanto fosse stato stupido a cercare in qualcun altro quell’alchimia solo loro, prima di annegare ogni ragione nel piacere. La pelle di Hajime era la sua, calda e tesa alla stessa maniera. I gemiti di Hajime erano i suoi, frammezzati da respiri rubati alla poca aria che li separava. Il cuore che batteva contro il suo torace era suo; non aveva cambiato cadenza, una musica che Tooru avrebbe riconosciuto e ascoltato notte e giorno.

Non cambiò nulla anche quando gli ultimi palpiti dell’orgasmo si acquietarono lasciandoli con i muscoli languidi, le menti placide come un mare che carezzava la riva mentre i polpastrelli sfioravano la pelle bollente e sudata in un solletico piacevole.

Tooru gli strinse le braccia intorno al collo, nascondendoci il volto; Hajime risalì con la mano fino alla sua nuca e con l’altra al fianco, e lo tenne contro di sé, in quel morbido silenzio di ansimi che sapeva di ritorno a casa.

Nessuno dei due diede all’altro motivo per muoversi, anche solo di incontrarsi con lo sguardo. Oikawa continuava a zittire la voce nella sua testa, tornata più prepotente dopo quell’improvvisa e impensata – insperata – riconciliazione. Era tutto ancora una girandola di emozioni, ma non riusciva a ignorare completamente il sangue che pulsava troppo veloce a ricordargli che non erano completamente soli. Ma se avesse potuto rimanere così ancora per un po’…

Andando contro ciò che aveva appena desiderato, il setter si scostò dal proprio nascondiglio per guardare in faccia Iwachan. Era ancora rosso sulle gote e sul naso, gli occhi lucidi in cui specchiarsi. Vedeva solo lui, Tooru non ebbe bisogno di domandarlo, e gli diede un altro bacio, perché non sapeva che farsene davvero delle domande dopo così tanto tempo e tanta sofferenza interiore. Hajime sembrò della sua stessa idea, perché da uno sfiorarsi di labbra tornarono a divorarsi, mordersi, leccarsi, ancora e ancora.

Iwaizumi si irrigidì a un suono per Oikawa del tutto nuovo e che neanche registrò per quello che era, la mente impastata. Si sentì scostare con fermezza, forse un po’ troppa, e vide Iwachan rivolgere l’attenzione al corridoio. L’attimo successivo, con quello che il setter identificò in fine come un vagito, stavano di nuovo occhi negli occhi, anche se quelli di Hajime abbandonarono subito il contatto. Sentire il cuore incrinarsi era qualcosa a cui Tooru era abituato, ma faceva sempre male. Le priorità erano cambiate.

« Devo alzarmi » e Iwaizumi lo disse con un filo di voce che sapeva di colpevole.

Si rivestì di intimo e pantaloni dandogli la schiena, e sparì nel corridoio mentre si infilava le maniche della camicia. Il setter non gli scollò l’attenzione di dosso, seguendo ognuno dei movimenti come se lo stesse aiutando nel processo. Vederlo andarsene, anche solo cambiare stanza, gli strinse la bocca dello stomaco come una mano fredda. Dubbi, ripensamenti, li sentì posarglisi sulle spalle simili a uccelli del malaugurio.

Non poteva neanche dire di preciso cos’è che avevano rimesso insieme, se dei sentimenti, delle promesse mute, un desiderio riportato a galla intrappolato a macerare in mezzo ai rimorsi. Qualcosa era, perché non c’erano state spiegazioni, avevano scelto di provarlo addosso, fisicamente. Iwachan non era riuscito a parlarne e questo era un dettaglio che il setter non avrebbe potuto trascurare.

Tooru era già nel corridoio, allacciandosi i pantaloni e risistemandosi il pullover, quando realizzò un particolare tanto basilare che per una volta si diede dell’idiota in tutta onestà.

Avevano appena fatto l’amore – perché l’intensità era stata quella – e il dettaglio che la bambina nella stanza di Hajime avesse una madre lo folgorò come una raffica di vento improvvisa. Col pavimento freddo a pizzicargli i piedi scalzi, si passò una mano sulla bocca, occhieggiando la porta schiusa della camera; quella consapevolezza, più simile a una verità che avrebbe dovuto essere scomoda e frenante, non riuscì davvero a tenerlo lontano dalla soglia. Di nuovo lontano da chi non era riuscito a dimenticare, né a smettere di amare.

Chiese al proprio cervello una pausa per liberare in parte dalle catene quanto aveva represso nell’anima fino a sbiadire se stesso, e tutto con l’intento di non soffrirne. Sofferenza che aveva pianto per buona parte tenendo per la manica il suo mondo, chiedendogli scusa, chiedendogli di rimanere, chiedendogli di amarlo di nuovo.

Il respiro profondo che incanalò nei polmoni, a occhi chiusi, un’ultima volta solo con le proprie trepidazioni, lo riempì di una leggerezza senza costrizioni, che da ossigeno divenne la prima dose di antidoto alla realtà incolore in cui si era nascosto.  

Quando entrò nella camera aveva un piccolo sorriso coraggioso, un sorriso che riuscì a sostenere anche quando davanti a sé ebbe soltanto Hajime e quella cosina sgambettante in braccio. Non era facile affrontare la concretezza dei fatti, ma in quel momento sarebbe stato più arduo allontanarlo dal suo Iwachan. Doveva solo rompere il ghiaccio. Ricercare tra le ombre quella che lo facesse tornare a essere l’Oikawa di sempre.

Un po’ gli venne da ridere, e un poco ancora gli si inumidirono gli occhi, ma andava bene così.

« Ma sei sicuro sia tua? »

Iwaizumi non lo aveva sentito arrivare e si voltò con un’espressione che aveva del suscettibile. Aprì la bocca ma finì col non replicare.

Oikawa non demorse, avvicinandosi ancora. Gli occhi della piccola erano incollati ai suoi movimenti, spalancati come due piccole polle d’acqua. Sarebbero stati verdi di sicuro, si ripeté Tooru, anche se il taglio non era quello di Iwaizumi.

« Dico sul serio, non ti somiglia. Per niente! » ribadì senza riuscire a stare serio, necessitando di gonfiare le parole come palloncini a elio. Tremava, e aveva bisogno di mascherarlo, però quel visetto era al contempo così carino e il broncetto tanto perfetto da risultare rassicuranti. Forse, Oikawa ci ripensò solo molto tempo dopo, fu in quel momento che se ne innamorò. « Non me l’hai ancora presentata »  

« Oi… » c’era molto di più da dirgli del semplice chiamarlo, e nulla riguardava quel momento, una scena dal retrogusto tanto amaro. Iwaizumi non capiva. Se ci fosse riuscito, se avesse compreso di più di Tooru, probabilmente non si sarebbero trovati in quella situazione. Lui non avrebbe vestito panni tanto pesanti e foderati di spine.

Scrutò Oikawa lì di fianco, sentendo sul palato ognuna delle miglia che li separavano. L’apparenza era quella di uno schermo della tv. Iwaizumi era lo spettatore che non poteva mettere bocca nella scena. Scena in cui si sentiva fuori contesto, e questo gli impediva di trovare lo stesso ritmo dei due sorrisi che lo circondavano. Uno che non sentiva di meritava e un altro che aveva tradito.

« Oh! » esclamò Tooru, rizzandosi. « Mi ha sorriso! Iwa-chan, hai visto!? È stato un attimo! »

L’atmosfera si sciolse e si riempì di tiepida aspettativa quando la bambina lasciò la presa dalla camicia paterna e protese la piccola manina verso il setter. Fremette nell’abbraccio che la reggeva e continuò a fissare Oikawa con insistenza, allungandosi nella sua direzione, ma entrambi gli adulti non si mossero, il fiato bloccato in gola.

« P… posso? » domandò Tooru, esitante ma più perché l’insieme gli stava facendo uno strano effetto e tentò di guadagnare tempo. Aveva già levato la mano, quando, vedendo in prospettiva la sua e quella della bambina, si accorse che un dito sarebbe stato più che sufficiente. Il suo indice fu circondato dalle cinque ditina morbide e Oikawa sentì il petto per intero fare una capriola.

« M-mi ha sorriso di nuovo! » si ritrovò a dire, nel bisogno profondo di dare corpo a una parte di quella strana sensazione felice che lo stava punzecchiando ovunque. L’ultima volta che si era emozionato tanto per un bambino si trattava di Takeru, e all’epoca lui aveva si e no dieci anni, e ogni nuova trovata della vita era meravigliosa. Credeva si sarebbe diviso tra sentimenti contrastanti per quella cosetta minuscola in braccio al suo Iwachan, ma se lo aveva pensato, così se l’era dimenticato.

« Si chiama Michi » disse Hajime piano, ancora una volta lo sguardo rivolto altrove.

Fu più forte di Tooru, a quel punto. La domanda gli rotolò fuori dalla bocca di fretta, in caccia di una minima spiegazione.

« Dov’è la madre? » si umettò le labbra. « È… Kaori? »

« Abbiamo preso strade diverse » disse Hajime in un tono così amorfo da dare l’idea di una replica preimpostata. Non sembrava nemmeno lui.

E a Oikawa non importava di sapere altro in quel momento. Né di lei né dei retro scena della loro storia. Quando si era svegliato quella mattina con in testa l’intenzione di riallacciare i rapporti con Iwachan non aveva idea che sarebbe finita in pianti, momenti di passione e con una bambina a sbavargli una delle preziose dita che lo avevano reso una stella alle Olimpiadi di Rio.

Una bambina che si doveva sforzare a riconoscere come la figlia di Iwachan.

« Michi è troppo carina per essere tua » ridacchiò ancora, e poi fu preda di un improvviso desiderio. « Posso prenderla in braccio? »

Iwachan lo guardò come avesse appena parlato in un’altra lingua, ma non riuscì a dirgli di no. Quel pomeriggio non riusciva davvero a dirgli niente.

« Uaaho, ma è leggerissima » enfatizzò Oikawa, sistemando le mani sotto la guida di Hajime. « È normale che sia tanto piccola? » continuò, ma quando ne incrociò ancora gli occhi, e quelli di entrambi brillarono, tutto passò in secondo piano. « Ciao principessa, se vuoi puoi chiamarmi Magnifico Tooru! »

La bambina vagì contenta e da lì furono tutti strani versi e « Ahi ahi ahi » quando le piccole manine si appesero ai ciuffi del setter, tirando senza pietà e con smorfiette sbrodolose di saliva. La stanza di riempì di risatine, di acuti e pernacchie.

« Oi… »

« Cosa? » Tooru cadde dalle nuvole, un sorriso tanto vero che gli stavano facendo male le guance. Ma l’espressione di Iwachan era rimasta la stessa di quando lo aveva incontrato, con qualcosa di pesante a impedirgli di distendere i lineamenti. Nonostante Michi continuasse a giocare con i suoi capelli, portandoseli in bocca, l’attenzione di Oikawa fu tutta per Hajime, preoccupato per quel qualcosa che non riusciva a esprimere. « Dimmelo e basta, qualsiasi cosa sia »

Il respiro fu un fremito. Iwaizumi si guardò intorno, ovunque, portandosi le mani ai fianchi, nervoso. Ne scostò una e se la passò tra i capelli.

« Tornerò a Tokyo in settimana » fece una pausa. Tooru annuì, trattenendo quell’“anch’io. Possiamo andarci insieme” spontaneo che gli salì alle labbra per mettergli pressione. Sembrava stesse lottando con qualcosa contro cui aveva già perso. « Torno per… per disdire l’affitto. E licenziarmi »

Oikawa sgranò gli occhi marroni come se gli avessero appena strappato sotto il naso un disegno per cui aveva impiegato ore per renderlo perfetto. Non fece in tempo a domandare nulla che Hajime riprese.

« Da solo è… complicato » e altrettanto complicato pareva ammetterlo. « Il tempo, il lavoro, le spese… e Michi è… piccola, non può rimanere mai da sola, e… » quegli ‘e’ sarebbero potuti proseguire all’infinito, ma Oikawa avrebbe continuato a sentire un non ce la faccio di sottofondo così stridente da graffiare.

Iwachan e il non farcela non andavano d’accordo nella stessa frase. Stonavano e basta, stonavano e facevano male. Un binomio che smuoveva la parte più profonda, affezionata e protettiva di Oikawa, quel novanta percento di sé che rappresentava il migliore amico, il fratello e l’uomo innamorato di Hajime.

Parlò di petto, cuore e respiro; il cervello tradusse e basta.  

« Venite a stare da me »

 




*lascia direttamente le cassette da riempire di pomodori* Non lanciateli, sono povera, è tutta roba buona da mangiare. 
Se non avessi il cervello così fuso da questa storia e dal Cow-T saprei cosa scrivere qui, spiegare un paio di cose, ma se ci fossero domande (bho, spero?) risponderò nei commenti o sulla pagina (spam time! Nefelibata ~ )

Una precisazione sul titolo: Michi wa Hajime to Tooru no naka de gioca sui significati di Hajime e Tooru nella doujinshi extra di Gusari "Shukufuku no Namae wa", dove per l'appunto significano "Inizio e Fine (o perseverare fino alla fine)". Grazie alle parole omofone, Michi si può considerare "strada", ma in un prossimo capitolo spiegherò meglio l'origine del nome (spoiler!). 

Bene, termina qui (per ora) questo supplizio smielato da romanzetto rosa di bassa lega. Mi scuso di nuovo se i caratteri sembreranno OOC (*butta Oikawa giù dalle scale), spero che le mie "spiegazioni" più avanti siano convincenti. E mi scuso per tutti gli headcanon infilati a destra e sinistra, ma si sono scritti da soli. 
Vogliate bene a Michi, lasciatele un commento! *fugge*


Nene <3 
   
 
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