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Autore: Vanya Imyarek    23/02/2017    15 recensioni
Italia, 2016 d.C: in una piccola cittadina di provincia, la sedicenne Corinna Saltieri scompare senza lasciare alcuna traccia di sé. Nello stesso giorno, si ritrova uno strano campo energetico nella città, che causa guasti e disguidi di lieve entità prima di sparire del tutto.
Tahuantinsuyu, 1594 f.A: dopo millenni di accordo e devozione, gli dei negano all'umanità la capacità di usare la loro magia, rifiutando di far sentire di nuovo la propria voce ai loro fedeli e sacerdoti. L'Impero deve riorganizzarsi da capo, imparando a usare il proprio ingegno sulla natura invece di richiedere la facoltà di esserne assecondati. Gli unici a saperne davvero il motivo sono la giovanissima coppia imperiale, un sacerdote straniero, e un albero.
Tahuantinsuyu, 1896 f.A: una giovane nobildonna, dopo aver infranto un'importante tabù in un'impeto di rabbia, scopre casualmente un manoscritto di cui tutti ignoravano l'esistenza, e si troverà alla ricerca di una storia un tempo fatta dimenticare.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Tahuantinsuyu'
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                              CAPITOLO 1

 

               DOVE UNA RAGAZZA È SPECIALE

 

 

 

 

 

                                                                      Dal Manoscritto di Corinna

 

 

La leggenda ti dirà che io sono stata inviata dagli dei in persona, rapita dal mio luogo natale e guidata a Tahuantinsuyu perché potessi essere l’aiuto e il sostegno di cui l’Imperatore e il popolo necessitava, in vista dei tempi difficili in cui loro si preparavano ad abbandonare l’umanità. Avrai capito dalla premessa che non è esattamente così che le cose sono andate.

Anche se, curiosamente, di tutte le cose che io e Simay abbiamo raccontato dopo il Silenzio, è quella che si discosta meno dalla verità. Anzi, si allontana dai fatti solo in due punti principali.

 Il primo è che, mentre effettivamente non sono nativa di Tahuantinsuyu, il mio luogo di origine è perfino più lontano di quanto la fantasia del teorico più sfrenato possa concepire. Abbiamo parlato di un paese oltre il mare: io provengo da un altro mondo.

O da un’altra dimensione. Per dire il vero, non ne sono certa neppure io: chi mi ha portata qui non si è dilungato troppo sulle spiegazioni tecniche. E no, questo non è un tentativo di sembrare ancora più sacra o potente: pensi che nella mia posizione ne abbia bisogno?

Il mondo da cui provengo … non saprei come descriverlo. Di sicuro è – o era – più multietnico rispetto a Tahuantinsuyu, era suddiviso in più stati, tra i quali c’erano legami più stretti di quanto non accada qui. Nel mio continente, c’era una vera e propria unione di stati, coalizzati apposta per tenere la situazione politica stabile, evitare guerre e aiutarsi a vicenda; potrai immaginarti che l’ultimo punto non l’abbia rispettato nessuno. Per carità, allora li criticavo, adesso li capisco: mettevano innanzi a tutto il bene della propria nazione, ed è quello il principale dovere di un politico.

 La mia nazione, però, non aveva agguerriti politici a difenderla, e per logica conseguenza era praticamente il pagliaccio dell’unione in esame. Si chiamava Italia … no, non ce la faccio.

Non riesco a descrivere il mio luogo d’origine come se fosse un qualche luogo leggendario e fantastico. Rido al solo pensarci. Non ho idea di come si descriva il proprio luogo d’origine a qualcuno che non l’ha mai visto e non può vederlo … tutto quello che mi viene in mente sono le ballate che narrano dei paesi oltre il mare, quelli dove le case sono fatte di pietre preziose, la gente ha la pelle blu coperta di abiti sontuosi, gioielli e profumi, a prescindere dallo status sociale, e i piatti sono i più sontuosi e stravaganti che la mente umana possa concepire. E non ci sono Kisnar.

L’ultima di queste cose è l’unica che possa essere detta anche per l’Italia: non avevamo divinità capricciose, a quanto mi risulta, e se fosse esistita una malattia del genere, probabilmente avremmo cercato un vaccino. O isolato i malati, esattamente come succede qui.

Ma genericamente parlando, non riesco a farmi venire in mente nulla per rendere l’Italia simile a quella terra favolosa che tu, lettore, ti starai probabilmente immaginando. Sì, era un po’ – parecchio – più tecnologica di Tahuantinsuyu, ma era naturale, data l’assenza di controllo sugli elementi; nel giro di qualche secolo, anche il nostro Impero sarà probabilmente agli stessi livelli. Ma quanto a stabilità politica, burocrazia, organizzazione delle risorse, qualità dei servizi … Tahuantinsuyu è infinitamente più avanti. E sto parlando del Tahuantinsuyu che ho trovato al mio arrivo qui, non di quello che è diventato quando io e Simay abbiamo preso il potere, sia ben chiaro.

Non avevamo un re o un imperatore: avevamo una democrazia, ovvero un sistema in cui il popolo poteva teoricamente eleggere i propri rappresentanti. Enfasi sul teoricamente: in realtà, i rappresentanti in questione eleggevano a loro volta i propri rappresentanti, i quali andavano effettivamente a governare; e in tutto questo ti lascio immaginare dove andassero a finire gli interessi della popolazione, che dovrebbero essere alla base di questo sistema.

La burocrazia … non me ne parlare. Come è possibile che un paese dove le comunicazioni a distanza vengono fatte tramite messaggeri corridori sia più veloce ed efficace nell’applicare le sue leggi di uno in cui i messaggi possono essere tecnologicamente inviati dall’altra parte del pianeta in meno di un secondo? C’è anche da dire che il sistema di Tahuantinsuyu, pur non essendo particolarmente semplice, è estremamente rigoroso e raramente contempla eccezioni. Non dico che la corruzione qui non esista, tutt’altro; è solo che in Italia era molto più facile passare una qualche mazzetta e poi, in tutte quelle complicazioni di leggi dai toni pomposi e ingarbugliati, alterare le cose in modo da far sembrare tutto regolare.

Ho menzionato l’organizzazione delle risorse e la qualità dei servizi? La burocrazia si metteva di mezzo, lì, invece che facilitare le cose, e potevi trovarti ad aspettare anni per l’esito di un processo per un reato insignificante; inoltre, i rappresentanti dei politici ovviamente facevano i propri interessi, distribuendo tra loro la maggior parte delle ricchezze tra la loro categoria, quindi ne restava relativamente poca per tutti i servizi di istruzione, medici, legali, etc. Probabilmente resteresti sconvolto se ti dicessi l’equivalente dei soldi spesi per l’educazione della futura classe dirigente, o quanti erano i soldi spesi per la ricerca medica (lì era organizzata dallo Stato, non dal clero, e si notava), o anche solo la paga di un impiegato statale (qualunque cosa dall’assistente burocrate al maestro di scuola).

Certo, non devi figurarti che fosse solo un posto di crudeltà inenarrabili paragonato al nostro Impero: non c’era la schiavitù, per dirne una, la cura delle malattie era comunque molto più avanzata, e le donne avevano molti più diritti (potevano lavorare, fare gli stessi lavori degli uomini, e fare quelli che più piacevano loro, a prescindere dall’ambiente familiare).

Era possibile scegliere di non sposarsi, e non c’era nessun test che garantisse ai giovani la loro unica possibilità di aumentare il proprio status sociale: ognuno si faceva strada nella vita con le sue capacità e le possibilità economiche della sua famiglia- ora che ci penso, questa è una lama a doppio taglio: anche il più grande dei geni, se la sua famiglia era troppo povera per assicurargli studi validi, probabilmente finiva a fare lo spazzino. Ed era possibile possedere ben più di due vestiti, quando ne compravi li sceglievi tu e non lo Stato, ed era una regola valida per chiunque, non solo per le classi più alte.

Penso di aver esaurito il contesto generale del luogo in cui vivevo; e del resto, questa è la storia del tempo che non ho passato lì. Passerò a contestualizzare il modo in cui io vivevo. Ti aiuterà a capire come e perché mi sia trovata qui, suppongo, e ti darà una chiave di interpretazione per le mie azioni successive.

 I miei genitori si chiamavano Giovanni Saltieri e Cecilia Gagliani.

Non so cosa scrivere oltre. È la prima volta in quasi un quarto di secolo che scrivo i loro nomi da qualsiasi parte, che devo raccontare a qualcuno di chi fossero, come vivessero, che personalità avessero, come si rapportassero a me. È una cosa di cui non sono mai riuscita a parlare neanche con Simay, e come se mi infilassero una palla in gola, quando cerco di parlare a lui della mia vita precedente, e mi lascia lì a cercare le parole, per non trovarle, e concludere niente.

 Con i miei figli, poi, ho quasi paura di parlarne. Cosa penserebbero del fatto che io ho, essenzialmente, abbandonato la mia famiglia? Avrebbero paura che potrei fare la stessa cosa anche a loro? E come si sentirebbero, verso questi nonni che non hanno mai conosciuto e che mai potranno conoscere?

Basta con le mie preoccupazioni! Tu, ovviamente, vuoi la tua storia. Farò del mio meglio per raccontartela.

Mio padre era avvocato, mia madre commessa in un centro commerciale (immagina un edificio enorme, contenente tanti negozi. I proprietari si limitavano a lavorare lì, non ci vivevano dentro). La crisi si faceva sentire anche su di noi, ma non eravamo troppo poveri. Classe media, potrei dire, un po’ come i burocrati di rango più modesto. Come dovrei descriverli … fisicamente?

 Sì, mi somigliavano, se qualcuno se lo stesse chiedendo. Anche loro avevano la pelle chiara – è un tratto etnico – e gli occhi tondeggianti. Mia madre aveva i miei tanto lodati occhi all’ingiù, che tra parentesi non erano considerati molto attraenti dalle nostre parti. Mio padre aveva i capelli neri, come me, ed era più alto; mia madre li aveva castani chiari, del colore della corteccia dei Duheviq per intenderci. Mio padre si teneva parecchio in forma, qualche ora di palestra dopo l’ufficio la faceva sempre; a vederlo, probabilmente avresti pensato che fosse un guerriero invece che un burocrate. La forma fisica di mia madre rispettava tutti i canoni della bellezza di Tahuantinsuyu; il che significa che in Italia non faceva che lamentarsi di quanto dovesse dimagrire.

Adesso puoi figurarteli mentalmente, quando ne parlo, ma come descrivo il loro carattere? L’ultima volta che li ho visti avevo sedici anni, e prima di aver messo su una famiglia propria, nessuno è davvero giusto verso i propri genitori. Basta con le descrizioni a sé stanti!

Ho deciso: partirò descrivendo come andò la mia giornata fino a quando non fui contattata dal mio rapitore, da lì avrò vari spunti per spiegarti.

Non avevo ricevuto visite di avvertimento, segnali premonitori o simili: quando mi alzai dal letto, pensavo che sarebbe stata un’altra giornata terribile a morire di noia a scuola. Mi vestii e andai in cucina ad aiutare mia madre ad apparecchiare la tavola (sì, in Italia la maggior parte delle case avevano diverse stanze, anche quelle della gente comune. E io e i miei genitori dormivamo anche in stanze diverse).

Ricordo che mia madre mi guardò storto per i miei vestiti, e io mi arrabbiai subito con lei. Cos’avevo addosso? Ah, sì: pantaloni lunghi di pelle nera (li portavano anche le ragazze, dalle mie parti, ed erano piuttosto aderenti), anfibi neri (stivali molto robusti), una maglietta (una tunica corta, senza spacchi) argentata, e di sicuro la giacca (una mantella con le maniche) di pelle nera con le borchie. Mia madre odiava la giacca di pelle nera con le borchie. Diceva che mi faceva sembrare una poco di buono. Naturalmente, questo mi faceva amare ancora di più la giacca.

 E non dimentichiamo le mie ciocche blu! Sì, è vero che quando sono arrivata a Tahuantinsuyu, avevo delle ciocche di capelli tinte di blu. Ma non erano un simbolo di regalità o sacralità, come sento dire a parecchia gente ormai: al contrario, tingersi in quel modo era considerata una cosa molto trasgressiva da fare.

“Ciao” grugnì come buongiorno. Io grugnii di rimando. “Quand’è che cresci e inizi a vestirti in modo decente?”

“Non fossi già cresciuta, non mi vestirei come piace a me” replicai. Il rispetto per i genitori non era così radicato come a Tahuantinsuyu, come potete vedere.

Mio padre entrò in quel momento, ci guardò, e fece un gesto religioso a invocare la protezione del Dio. Sbuffai. Lui non mi criticava mai per i miei vestiti, ma questo non me lo rendeva più simpatico di mia madre. Parlava sempre dei nostri scontri in merito come se fossero cose di poco conto, tipiche dell’adolescenza: prima o poi sarei cresciuta e avrei messo la testa a posto. Sul primo punto, me ne posso rendere conto solo ora, aveva assolutamente ragione: i vestiti non erano un buon pretesto per scontri continui con mia madre.

Ma all’epoca lo vedevo come un segno di sufficienza. E io volevo che dessero importanza alle mie scelte, i miei vestiti erano parte integrante della mia identità, nessuno a scuola li aveva come me. Mentre tutte le altre ragazze portavano opere di grandi sarti come Barbie bamboline leziose (quasi di sicuro non era vero, ma mi piaceva pensare così) io portavo vestiti controcorrente, che mi distinguevano dalla massa di pecore vanitose.

Gli altri a scuola mi prendevano in giro, gli insegnanti mi criticavano e mi davano voti più bassi per il mio aspetto da teppista (non posso credere di aver pensato questo. Ricordo benissimo che non studiavo niente!), ma a me non importava: io ero diversa da loro, e non avevo paura di affermare la mia individualità.

 Ai miei genitori, naturalmente, questa situazione non garbava per nulla, non solo per i vestiti in sé e per sé, ma anche per l’isolamento da parte dei compagni, e per l’antipatia dagli insegnanti che mi fruttava. E questo mi faceva infuriare davvero, perché io ero sempre stata isolata dai miei compagni, fin da quando ero una tenera bimbetta che credeva che il trucco scuro fosse un peccato capitale, ma apparentemente per loro era diventato un problema solo adesso che mi vestivo in modo che a loro non piaceva, fattore cui attribuivano tutta la colpa. Era una cosa che mi mandava in bestia, e una grossa fonte di attrito con i miei genitori.

 Tornando alla famosa mattina, anche mia madre guardò storto mio padre, non apprezzando la mancanza di sostegno nella sua crociata per farmi cambiare stile, ma non disse nulla, mise la colazione in tavola e si sedette al suo posto in una posizione di impettita alterità e disdegno che mi sono scoperta a copiare diverse volte nei primi anni del mio regno. Mio padre si sedette in modo molto più rilassato, e io avrei potuto essere seduta peggio solo se avessi messo i piedi sul tavolo.

Mia madre rifiutò di parlare per tutto il tempo, ignorando i tentativi di mio padre di parlare con lei, e il pover’uomo dovette ripiegare sul cercare di parlare con me, chiedendomi della scuola, se avessi organizzato qualcosa con degli amici per il weekend, e dai, non era possibile che non avessi gli amici, lui quand’era ragazzo usciva con i suoi compagni tutti i giorni festivi, era assurdo che al giorno d’oggi non si facesse più! Fu una mezza tortura per me, non mi lasciò con nessun genere di gentili sentimenti nei suoi riguardi, e dire che il poveretto stava solo cercando di aiutare.

Schizzai a prendere le mie cose per la scuola appena finito di mangiare e di sparecchiare, e uscii di casa il più in fretta che potevo, salutando frettolosamente i miei genitori.

Amavo quel momento: mi sentivo sempre come se mi fossi liberata da una gabbia, avessi finalmente acquistato la libertà di comportarmi come volevo, senza nessuno a guardare e giudicare con cui dovessi poi convivere, e camminavo sempre con passo più leggero e spedito, subito dopo essere uscita di casa.

 Adesso posso sapere solo io quanto vorrei, potendo modificare una singola cosa di quel giorno, aver speso più tempo a salutarli, aver detto loro qualcosa di carino, almeno cercato di far capire loro che malgrado tutti i nostri attriti, io li amavo davvero, non erano persone così orribili da spingermi ad abbandonarmi, non me ne sarei mai andata di casa di mia spontanea volontà.

È stata l’ultima volta che li ho visti.

Ma ovviamente non lo sa nessuno, quando potrà davvero essere l’ultima volta che vedrà una persona amata, no? Talvolta penso che vorrei che la vita fosse strutturata come uno spettacolo, o un romanzo. Quando ti separi da una persona spendendo un sacco di parole sia amorevoli che rabbiose, o in una sola linea incredibilmente secca, oppure resti a guardarla a lungo mentre si allontana, o ancora senti una musica drammatica in sottofondo, allora sai che è l’ultima volta che la vedrai, e puoi passare altro tempo con lei, tornare indietro e chiedere scusa, farle capire, in qualche modo, che per te è stata davvero importate. O non andartene direttamente.

 Continuo a divagare, ti chiedo scusa: è la prima volta che mi metto a scrivere qualcosa, e questo qualcosa è la storia dei primi, movimentati anni che ho trascorso qui. E del brevissimo tempo che questa storia spende nel mio mondo di origine.

Ti dicevo, dopo aver lasciato i miei genitori, mi diressi verso la mia scuola. Era vicina, ci potevo tranquillamente arrivare a piedi. Da noi, non c’era un’unica scuola di studi superiori per tutti quelli che passavano l’esame di ammissione: l’ingresso era libero, purché si fosse passati attraverso altri otto anni di studi e si fosse in grado di pagare, potevano essercene diverse in ogni città invece che una sola nella capitale, e ne esistevano diverse tipologie.

In ogni tipologia, ci si concentrava su un diverso tipo di istruzione: prevalentemente scientifico, prevalentemente letterario, oppure un istituto professionale (simile a quando i giovani fanno gli apprendisti presso qualche artigiano, solo a livello di massa).

La mia scuola era quella ‘prevalentemente letteraria’, altrimenti nota come liceo classico; non era stata una mia idea andarci. Io non avevo mai amato particolarmente la scuola e lo studio, e personalmente, non me ne fregava nulla di finire a fare la cameriera o la ristoratrice invece che l’avvocato come mio padre. Ma c’era bisogno di qualcuno cui passare lo studio, altrimenti era un colossale spreco di soldi, e anche se così non fosse stato, che liceo da poveracci era il professionale? Sarebbe stato imbarazzante dire di avere una figlia all’alberghiero, lo stesso che dire di avere una figlia stupida; il classico, invece, era la scuola dei geni.

E come ho già detto prima, non c’erano test che ti sistemassero in base alle tue reali attitudini; la scelta era del ragazzo o, molto più spesso, dei genitori. Così mi ero ritrovata inchiodata al classico, a morire di noia con traduzioni di lingue morte, libri e poesie noiose, e filosofie di tipi fuori di testa morti qualche millennio prima.

Su questo punto sono un po’ più indulgente verso la me stessa di ventiquattro anni fa: ero stata costretta a studiare cose che davvero non mi interessavano, per prepararmi a una professione che non mi interessava; e anche se la parte sui ‘filosofi fuori di testa’ avrebbe potuto prepararmi a Malitzin se solo ci avessi dato peso, e mi sono effettivamente ritrovata a fare parecchia avvocatura (di me stessa) negli anni precedenti all’incoronazione, quegli studi non mi sono effettivamente serviti a nulla.

Come c’era da immaginarsi viste queste premesse, non andavo affatto bene: avevo voti bassissimi, gli insegnanti mi sgridavano in continuazione, mi ritrovavo ogni anno con esami di riparazione a settembre, e si capiva che morivano dalla voglia di bocciarmi, ma il preside si metteva di mezzo, perché insomma, non si poteva bocciare la figlia di Saltieri (in una città relativamente piccola come la mia, quello di un buon avvocato era un gran nome).

‘E allora?’ direte voi: se ero la figlia di un uomo importante, avrei dovuto impegnarmi più degli altri ed essere punita con più severità, perché dovevo tenere alto l’onore della famiglia. Ma questo è come le cose funzionano a Tahuantinsuyu, non in Italia.

Nella testa dei miei compagni le cose funzionavano in modo ancora diverso, ovvero che tutti avrebbero dovuto essere valutati secondo gli stessi criteri; specialmente nella testa di quelli che il classico l’avevano scelto e si impegnavano sul serio. Metti insieme queste informazioni con i miei vestiti ‘trasgressivi’ e il mio costante atteggiamento da ribelle verso l’autorità scolastica: era la ricetta perfetta per non farmi soffrire da quelli che davvero si impegnavano, o invece farmi apprezzare molto da quelli che cercavano un bersaglio da insultare e prendere in giro senza fare la figura degli stronzi.

Ma questo non era un deterrente dal comportarmi in questo modo, anzi: loro mi odiavano perché ero così diversa, perché non me ne fregava niente dell’opinione degli altri e non avevo paura di affermare me stessa e le mie opinioni. Loro erano solo un branco di pecore senza cervello, che piegavano il capo davanti al giudizio degli altri in cambio di approvazione e bei voti e mi schifavano tanto solo perché io non ero come loro: io ero speciale.

Così convinta della mia indiscutibile unicità e conseguente superiorità rispetto a chiunque altro, passavo il mio tempo nella scuola. Quel giorno particolare non fu minimamente diverso dagli altri, quel giorno che se i miei mi avessero chiesto ‘com’è andata oggi?’ avrei risposto ‘niente di particolare’. Fui distratta per tutto il tempo in cui gli insegnanti spiegavano … non ricordo nemmeno di cosa stessero parlando l’ultimo giorno di scuola a cui sono andata. Di sicuro a greco stavano parlando di uno dei primi due poemi epici … solo non mi ricordo quale. Nessun professore badò al fatto che avessi gli auricolari (un marchingegno che permette di ascoltare musica senza che nessun altro la senta) nelle orecchie, non ero nei banchi più visibili apposta.

Gli intervalli tra una lezione e l’altra li passai da sola come al solito, mentre tutti gli altri chiacchieravano e spettegolavano tra loro, a parte quel momento in cui quasi litigai con la mia grande nemesi della scuola, una ragazza di nome Sofia … non mi ricordo il cognome.

 “Scusa, mi senti con quegli auricolari?” cercò di richiamare la mia attenzione. Finsi di no, e continuai a tamburellare con le dita sul banco, a ritmo della musica. “Terra chiama Corinna Saltieri! Terra chiama Corinna Saltieri! … abbiamo un problema di comunicazioni. Il cervello che abbiamo cercato di contattare non è al momento raggiungibile”

 A quel punto davvero mi esasperai, anche perché se quella continuava a fare chiasso mi avrebbero scoperta i professori.

“Che hai?” le chiesi, in tono secco e irritato. Allora pensavo di suonare forte e sicura di me stessa; Sofia probabilmente pensava che suonassi infantile e patetica; adesso concordo con la seconda, anche se continuo a pensare che neppure lei suonasse come la campionessa della maturità.

“Pare ci sia stata una connessone!” commentò lei, “Dopo quanto tempo? Abbastanza perché tu non pensassi che Omero abbia composto Paint it black?”

La guardai male. Stupida mocciosa viziata, pensai. Come si permetteva di venire lì a criticarmi? Perché proprio io?

Probabilmente pensava che poiché non avevo vestiti alla moda, non spettegolavo e non uscivo con loro per fare acquisti in negozi che non mi piacevano, non fossi allo stesso livello suo e delle sue amiche affettate. Be’, purtroppo per lei, io ero più avanti. Io avevo una testa funzionante, e mi ero resa conto che tutte queste cose le facevano le ragazze più idiote, quelle che aderivano strettamente e senza neppure pensarci a quello che la classe dominante ordinava loro. Io non ero così, io ero diversa, ed era il motivo per cui mi attaccavano.

“Quello lo sapevo anche prima che lo spiegasse la prof” replicai. “Almeno non ho avuto bisogno di sentirlo durante una lezione per avere una conferma”

Sofia sembrò confusa e a corto di parole – vincevo! Due delle sue compagne si guardarono tra loro con un’espressione da ‘che battuta stupida’ (saranno state intelligenti loro!) e l’ultima scoppiò a ridere.

 “Sempre meglio avere una conferma nella vita!” replicò allegramente. “La curiosità di indagare su cose che a tutti gli altri sembrano scontate … sì, ha ucciso qualcuno, ma ne è valsa la pena”

Le sue compagne scoppiarono in risatine acute. “Uuh, che filosofa!” furono i commenti.

 Devo dire, quella frase … quella sull’indagare, non le prese in giro delle sue amiche intendo … mi è sempre rimasta impressa da allora. Sono sicura che quella ragazza - Annachiara? Annarosa? Cominciava con Anna, comunque – non aveva la minima idea di quello che mi stava per succedere, a meno che la sua apertura mentale non raggiungesse livelli spropositati, ma per come andò a finire quella storia, inizio a pensare che fosse la cosa più simile a una profetessa qui. Allora, naturalmente, era solo una presa in giro da parte di una ragazza cretina della cricca di Sofia, quindi dovevo guardarla storto e risponderle male.

 “Suppongo che tu vivrai a lungo, se andiamo per intelligenza”

 “Ti rendi conto che non sei più divertente e simpatica, vero?” replicò Sofia. Annaqualcosa si illuminò e rispose entusiasticamente qualche scherzo a proposito della mia convinzione che fosse così intelligente da non farsi sgamare, ma ormai la mia attenzione era calamitata da Sofia.

 “Perché, tu credi di esserlo?”

 “Tu stai sempre da sola, fai del tuo meglio per trattare di merda gli altri e ti comporti come se tutto ti fosse dovuto. Io frequento un sacco di gente, mi sforzo di far divertire e sentire a proprio agio gli altri. Direi che la proposizione ha trovato riscontro ontologico”

Non avevo idea di cosa volesse dire l’ultima frase, ma la sua argomentazione non mi convinse minimamente. Anzi, aveva detto esattamente tutte le cose per cui avevo una risposta ben preparata.

“Al contrario, questa è la differenza tra essere veri ed essere dei falsi paraculi”

Una delle amiche di Sofia bisbigliò qualcosa.

“E tu come lo sai che non sono vera anch’io?” lei la ignorò, a sua volta troppo concentrata su di me.

“Perché ti guardo, e vedo una che non ha un centimetro di stoffa che non sia stampato da qualche parte su una rivista, fa strilli acuti e si comporta in modo orribilmente lezioso. Sei chiaramente qualcuno che si sta sforzando di piacere”

 “E tu allora - “

 “Volete andare al posto?” sbottò l’insegnante, entrata di soppiatto senza che nessuna se ne fosse resa conto.

 Sofia e la sua banda obbedirono, e io restai lì per buona parte della lezione a sentirle bisbigliare, sicuramente a proposito di me. Passai tutta la lezione a maledirle mentalmente. Reazione abbastanza esagerata, direi … ma non così rara per quell’età.

Scrivendo queste cose, questo litigio infantile da entrambe le parti, mi chiedo cosa sia successo a quelle ragazze. Chissà come avranno reagito alla mia scomparsa, se qualcuna se ne sarà data la colpa almeno parzialmente, chissà come avranno superato la scuola, che studi avranno fatto in seguito, come si saranno sistemate nella vita … che strano, è il genere di cosa che mi viene spesso da pensare quando ricordo qualcuno del mio mondo d’origine, ma non quando penso a qualcuno di Tahuantinsuyu. Un po’ discriminatorio? Chissà.

Ma a volte mi ritrovo ossessionata dal pensiero di cosa sia successo nel mio mondo, dopo la mia scomparsa. Come siano andate a finire le cose in quel Paese mezzo disastrato, come siano andate avanti nella loro vita tutte le persone giovani che conoscevo, come i media abbiano gestito la mia scomparsa – sarò stata una di quei casi citati per pochi minuti nelle trasmissioni apposite, o avranno fatto un polverone mediatico attorno alla faccenda? Con interviste ai familiari, dichiarazioni di avvistamenti in tutto il Paese, e fiori inviati alla mia famiglia da emeriti sconosciuti?

La mia famiglia ... soprattutto, le mie preoccupazioni sono incentrate su di loro. Come i miei genitori abbiano continuato a vivere senza di me, se abbiano pensato che me ne fossi andata volontariamente o che sia stata rapita, se mi abbiano creduta ancora viva, come abbiano retto alle domande della polizia, se il resto della famiglia sia stata in grado di sostenerli adeguatamente. Non posso saperlo; ma spero che, all’interno di questa situazione, le cose siano andate loro al meglio che potessero andare.

Ma ora basta! Mi sto rendendo conto che mi sto aggrappando a ogni singola inezia e riflessione che possa trovare su quella giornata. È come se avessi paura di essere nuovamente separata da quel mondo e dalla mia famiglia, se smetto di parlarne. Ma tu – di nuovo - vorrai sapere di come io sia riuscita a passare da un mondo all’altro; ti chiedo scusa e accontento la tua curiosità.

Successe mentre stavo tornando a casa da scuola, non ho idea di come sia stato fisicamente possibile, non ho idea di cos’abbiano visto le altre persone per strada, ma io ero lì che camminavo senza neppure far caso a dove stessi andando, con i miei auricolari invariabilmente sistemati nelle orecchie, e gradualmente iniziai ad avere una sensazione strana, come se mi fossi trovata immersa in un campo elettrico, e iniziai a vedere strane scariche simili a fulmini all’angolo della mia visuale.

 “Sto male, adesso mi siedo e mi sdraio un attimo, chi se ne frega se sono in mezzo alla strada-“ feci in tempo a pensare.

“Corinna Saltieri!”

Non so se poter definire una ‘voce’ quella che pronunciò quelle parole. Sembrava che diverse scariche elettriche fossero state combinate insieme affinché il loro suono formasse qualcosa di simile a delle parole. Ci rimasi di sasso, immobile, troppo confusa per fare alcunché. La mia visione diventò di un bianco abbagliante.

No, cos’era questo? Un sogno. Avevo sognato tutto fino a quel momento, non importava quanto fossero state sensate le cose fino a quel momento. Oppure mi ero addormentata in classe. Non importava, adesso che lo sapevo, mi sarei svegliata di sicuro!

La scarica elettrica somigliò a una risata, a questo punto. “Nessun sogno” fece poi.

Il cuore prese a martellarmi in petto. Doveva essere un sogno, non era normale che l’elettricità facesse cose simili, non in mezzo a una strada che era stata normale fino a un attimo prima, e io avevo solo pensato, non avevo emesso una parola!

“Non importa che tu esprima vocalmente i tuoi pensieri” dissero le scariche. “Nel funzionamento del tuo cervello, c’è energia. Ci sono io. So esattamente quello che pensi”

 Che? Cosa succedeva, cos’era questa cosa?

“Io sono il fenomeno che voi umani, da queste parti, chiamate Energia” mi rispose la voce. “E questo è essenzialmente tutto quello che devi sapere su di me. Davvero, sarò l’ultima delle tue preoccupazioni tra poco”

Ma che cavolo? Già era inconcepibile che un … fenomeno fisico avesse una coscienza, se era l’ultima delle mie preoccupazioni … era un sogno, era un sogno!

“Ti conviene lasciar perdere questa corrente di pensiero. Non ti aiuterà. Vedi, Corinna Saltieri, tu sei la persona perfetta per il mio esperimento”

Era possibile che Scherzi a parte (uno spettacolo in cui alla gente venivano, appunto, fatti scherzi) potesse organizzare qualcosa di simile?

“Non ho idea di cosa significhi la tua teoria. Non ti sorprendere, non è incoerente – l’Energia no ha una coscienza in questo mondo. Io esisto dove tu stai per andare. Ma c’è lo stesso, è il modo in cui ho potuto creare il collegamento … sembra che l’Ente non sia stato contento di quello che abbiamo combinato io e i miei fratelli, se ci sono gli umani ma gli Elementi non hanno una coscienza”

 La situazione stava diventando un delirio completo, e io non ci capivo nulla. Stavo solo tornando a casa! Non avevo chiesto per allucinazioni o visioni mistiche o che altro! O magari stavo impazzendo. In effetti, suonava come una spiegazione più plausibile rispetto al sogno. Già di solito non ero mica tanto normale, non sarebbe stato …

“Ah! E qui ti volevo!” se è possibile per delle scariche elettriche suonare felici, quelle lo fecero.

 “Cosa?” mi sfuggì prima ancora che potessi rendermene conto.

“Tu sei così poco normale, che potrebbe anche capitarti qualcosa di straordinario” commentarono le scariche, deliziate. “Sei esattamente quello che cercavo. Brava ragazza”

Non potei fare a meno di sentirmi, malgrado tutto, leggermente lusingata da quelle parole. Insomma, suonava quasi come se fossi stata scelta apposta io tra tutte le persone al mondo, per un qualche scopo particolare!

 “Sì, sì!” crepitarono le scariche, sempre più esaltate. “Ecco perché ti ho scelta. Ma, poverina, non ci stai capendo nulla. Vedi, ti ho già menzionato che io arrivo da un altro mondo: sì, quelle teorie sugli universi paralleli cui stai pensando sono … più o meno … confermate. E sai com’è, essere la coscienza di un Elemento è più noioso di quello che non sembri. Per la maggior parte sei manipolato dalla gente. Voi umani siete quelli che fanno le cose buffe. Così ho deciso di provare quello che voi chiamate un esperimento: prenderò qualcuno da un altro mondo e lo porterò nel mio, per vedere come si comporterà e come reagiranno gli altri attorno a lui! Tu sei la fortunata prescelta”

 “No! Frena!” intervenni. “Anche ammettendo che tutto questo sia reale, io non ho nessuna voglia di finire in un altro mondo! A me piace questo, e non voglio avere niente a che fare con qualsiasi esperimento –“

“Figurarsi” le scariche fecero qualcosa di simile a un sospiro. “Questo è esattamente quello che vuoi: un contrassegno di diversità e unicità. Se dovessi darti retta e lasciarti qui dove sei, avrei il tuo rancore per il resto dei tuoi giorni, perché avevi la possibilità di vivere un’esperienza straordinaria, e io ti ho lasciata rinunciarvi. E sia mai che io abbia tanto biasimo! No, ragazza, tu avrai quello che vuoi!”

“Ma ti ho detto che non voglio niente del genere!” protestai. Mi sentivo il cuore battere all’impazzata nel petto, e mi sembrava che mi mancasse l’aria. Oddio, cosa stava per succedere? Ero davvero finita nelle mani di una specie di divinità pazza e così noncurante di quello che volessi? Stava fresca se si aspettava che io stessi lì a subire … il problema era che non sapevo come fermarla.

E se non ne fossi stata in grado? Se fossi stata davvero rapita? Come me la cavavo in questa situazione?

 “Ti ho già spiegato che questa è probabilmente la massima delle tue aspirazioni” replicarono le scariche, come se stessero parlando a una bambina cocciuta e un po’stupida.

 “Ma sei scemo!” urlai. Adesso iniziavo a sentirmi male non solo nel senso tradizionale della parola, ma anche nel senso che mi sentivo come se fossi all’interno di un qualche campo energetico, con elettricità che passava tutto attorno a me e i capelli che mi si rizzavano in testa. Probabilmente era così.

No, no, no, io non volevo andare da nessuna parte! Non importava quanto Energia mi ritenesse speciale, io volevo solo andarmene a casa!

“Non ho quello che voi chiamereste un cervello” commentò la cosa che mi stava portando via. “Però sono all’interno del tuo. Questo in che posizione mi mette?”

“Nella posizione di chi non capisce niente, perché io sto chiaramente pensando che voglio tornare a casa!”

 “E io sono più previdente, perché so che tra nemmeno un anno rimpiangeresti di aver perso l’occasione. Inoltre, il trasferimento è quasi completato. Non ti piacerebbe, se tu lasciassi adesso”

 No, no! Non era possibile, io non volevo lasciare il mio mondo! Perché proprio a me, tra tutte le persone al mondo?

Le scariche formarono di nuovo quella loro risata. “Ah, e qui ti volevo. Perché tu? Avrai forse qualcosa che ti separa e ti rende unica da tutti gli altri, come hai pensato per la maggior parte della tua vita? Ma no, lo sanno tutti che per un esperimento si deve prendere la regola, non l’eccezione! Ed eccoti qui, esemplare del tipo più comune di essere umano: quello che crede di essere speciale!”

 

 

 

 

 

Ladies & Gentlemen,

ebbene sì, come anticipato nella descrizione della storia, Corinna viene proprio dal nostro Bel Paese. E a proposito del ritratto che ne ha dato: tenete presente che non sempre le idee dei personaggi coincidono con quelle dell’autore. Questo vale per la situazione attuale dell’Italia, come per altre tematiche che verranno affrontate in seguito. Io voglio solo scrivere una storia, con dei personaggi ben definiti, e per come l’ho pensata io, Corinna al punto della sua vita in cui scrive è una che quando pensa a un Paese, ne considera principalmente lo stato politico ed economico; e queste sono le sue idee sul suo luogo d’origine. Se avete idee differenti, non c’è nessuna intenzione di offendervi.

Finita questa dichiarazione, mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto: sarei davvero curiosa di sapere cosa ne pensate della nostra protagonista!

  
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