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Autore: udeis    24/02/2017    1 recensioni
La storia del destino di un regno e di chi ne è stato artefice e compartecipe.
1. Re -Io, che preferii l'azione a un'immobile sconfitta, misi in moto gli ingranaggi del fato di mia spontanea volontà.
2. Figlia dell'inverno - Nessuno sembrava amare l’inverno, così iniziai a detestarlo anche io perchè mi aveva fatto diversa da tutti gli altri.
3. Strega - I suoi occhi neri come la notte come fuoco consumano il mio animo.
4. Fame - Avevo fame e mi sarei nutrita ad ogni costo.
5. Quello che ho perso - in poche e semplici parole avevano negato il mio sacrificio, non gliel'avrei permesso.
6. Appartengo alla terra - appartengo alla terra e alla terra tornai tra pianti e maledizioni.
7. Il principe che venne da lontano - C’era una volta un principe in cerca di una terra da poter chiamare sua
8. Dea - io ricordo solo le donne che mi videro
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Note: secoli e secoli dopo, ho deciso di dare più spessore alla mia oneshot, aggiungendo nuovi punti di vista alla vicenda. Dopo averci pensato attentamente, ho deciso che non modificherò nè aggiornerò questo capitolo, tranne che nel titolo (che passa da "il destino del mo regno" a "il re"). La storia ha partecipato a un concorso e la recensione è proprio la valutazione del contest, quindi non mi va di aggiornarlo e rendere invalido il lavoro del giudice. Quindi abbiate pazienza, il primo capitolo è rimasto e resterà quello originale e ampliamente migliorabile. Ho provato a mettere in pratica i suggerimenti del giudice dalla seconda storia in poi. Fatemi sapere cosa ne pensate e se ci sono riuscita.



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Il destino del mio regno
 
 
Si diceva che la strega più abile e potente vivesse in uno dei villaggi del Monte Argento. Fu per questo che, quando capii di non avere più alcuna risorsa per far fronte alla carestia, sellai il mio cavallo e partii nella notte, senza scorta alcuna e con il capo cosparso di cenere.
 
Giovane re, di un regno altrettanto recente, ero succeduto a mio padre nei doveri del trono da troppo poco tempo per essermi già adagiato alle mollezze della corte. Da ragazzo avevo girato i sobborghi della città e ascoltato i racconti di fame e di guerra dei cavalieri. Avevo visto mia madre soccorrere i bisognosi e mio padre aprire le porte della cittadella ai rifugiati.
Tenni fede alla loro memoria: condivisi le scorte di palazzo, ridussi i miei pasti, misi in atto ogni possibile strategia, ma la carestia non sembrava avere fine; e anche se, come in ogni altra terra nota, il mio regno abbondava di streghe, nessuna aveva potere sufficiente per far cessare quella piaga. La maledizione lanciataci da una natura ostile era troppo potente per essere fronteggiata da donnicciole di campagna, più dedite alle erbe che alla vera e propria stregoneria.
 
Io, che preferii l’azione a un’immobile sconfitta, io, che partii tra disperazione e speranza, diviso tra responsabilità e incoscienza, misi in moto gli ingranaggi del fato di mia spontanea volontà.
 
Arrivai a Zalis al tramonto del settimo giorno: non mangiavo da quattro, non dormivo da due. La strega mi attendeva all’ingresso del villaggio con un cesto di frutta in mano: “Ti aspettavo”, mi disse, ed io la segui nella sua semplice casa di campagna.
Lì, con occhi freddi e voce chiara, affermò che non mi avrebbe aiutato perché le conseguenze delle sue azioni avrebbero potuto essere disastrose e imprevedibili.
Le chiesi, urlai, credo, cosa c’era di peggio che lasciare morire di fame donne e bambini. Tacque; ed io la supplicai, perché avevo abbastanza uomini, risorse e coraggio per affrontare qualsiasi conseguenza. Le offrii ogni cosa per la salvezza del mio regno, ogni cosa, persino la mia vita, persino il trono stesso: nulla mi sembrava più gravoso da perdere che il mio stesso popolo. Non accettò.
 
Rifiutò ogni cosa ed io, con la sua stessa gelida calma, maledii lei e la sua stirpe, lei e la sua congrega che negavano aiuto al loro re e al suo regno nel momento più buio della sua giovane vita.
Maledii le streghe e la stregoneria: lo tuonai dal mio castello e lo urlai in quella casa, perché volevo che, la stesse immagini di morte che mi perseguitavano negli incubi, colpissero quella donna con violenza.
Volevo che sperimentasse il senso di colpa che provavo per i sudditi che condannavo a una lenta morte d’inedia e disperazione. Volevo che assaggiasse l’avvilimento che mi pervadeva ogni qualvolta che condannavo alla forca chi si era dato al brigantaggio per fame. Volevo che provasse con ribrezzo il disgusto che sentivo, guardando le mosche ingrassare nelle orbite vuote e scarne dei cadaveri della città bassa.
Sconfitto dal suo silenzio, annientato dal suo rifiuto, tornai nel suo villaggio da Re, non più da supplice, e comandai ai miei soldati di arrestarla.
La portai al castello, la feci sfilare per la città e lapidare dal popolo infuriato, la rinchiusi in una cella e la condannai a morte, ma quella maledetta donna riuscì a beffarsi di me ancora una volta, morendo di parto in quel vano umido e scuro in cui l’avevo confinata.
Il suo corpo fu bruciato in piazza con rabbia e disperazione, come triste monito, come inutile vendetta, come estremo sacrificio a una natura indifferente.
 
Il regno rifiorì lentamente e la bambina, nata in una cella umida e scura, crebbe nella luce e negli agi del palazzo reale, diventando quanto di più bello il regno ed io avessimo mai visto.
 
La carestia tornò con la stessa implacabile crudeltà vent’anni dopo, nonostante i canali e i mulini, nonostante gli incantesimi delle streghe rese devote dalla paura. L’angoscia piombò sul regno come una cappa scura ed io fui riportato d’un tratto ai tempi della mia prima giovinezza e, come allora, esaurii presto ogni mia risorsa.
Questa volta, però, non c’era nessuna strega sul Monte Argento ad ignorare le mie suppliche, nessun corpo da bruciare nella speranza di propiziare il ritorno dell’abbondanza: avevo la possibilità di salvare il mio popolo prima ancora che iniziasse a soffrire seriamente le penurie della fame. Avrei fatto qualunque cosa per scongiurare una nuova ecatombe.
La giovane, nata in una cella umida e progenie di una donna maledetta, fermò la carestia su mio ordine: fu allora che morì. Ed Io, che vent’anni prima, avrei affrontato qualsiasi conseguenza con animo indomito, non ressi, però, la morte di una figlia che era mia, anche se proveniva dal ventre dell’unica strega che avessi mai condannato.
 
Nel mio doloroso delirio, mentre il reame appassisce con me, giorno per giorno, non so più a chi siano appartenute le fatali parole che hanno segnato il mio destino e quello del mio regno.
 
“Lasciate pure che muoia di fame. Ho un anatema crudele da dedicarvi: che vi tormenti il senso di colpa; che ogni anima che avete condotto alla morte infesti i vostri sogni. Che non ci sia pace per voi, per la vostra prole avvelenata, e per tutti malvagi di spirito che vi assomigliano. Ricordate le mie parole, ricordatele bene!”

  
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