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Autore: MelBlake    24/02/2017    6 recensioni
Sono passati sei anni da quando Clarke Griffin è partita per il college. Sei anni e un dolore autodistruttivo dovuto alla morte del padre di cui non è mai stato preso l’assassino.
A ventitré anni, Clarke fa ritorno a casa, ma non aveva immaginato che tornare nei luoghi della sua adolescenza avrebbe riportato di nuovo a galla tanti ricordi e tanto dolore.
Un dolore che pare esploderle dentro dopo l’incontro con l’unica persona ad averla vista nel suo momento peggiore, la notte dell’omicidio del padre.
Bellamy Blake è cambiato anche se Clarke non lo crede possibile e per questo, rimane diffidente come nei confronti di chiunque altro, tranne che degli amici più stretti.
Le cose cambiano quando, in città, arriva Lexa War: nuovo comandante di polizia e allora Clarke vede una speranza per riaprire il caso di suo padre. Ma la situazione è più complessa di quanto sembrasse all’inizio. Suo padre era morto in una rapina, o almeno così le era stato riferito.
Quanto a fondo sarà disposta a spingersi e quanto è disposta a rischiare pur di scoprire la verità? Soprattutto… quando capisce che adesso in ballo c’è anche la sua vita e ormai per tirarsi indietro è troppo tardi…
Genere: Drammatico, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 21: I WANT YOU




'Cause every time we touch, I get this feeling
And every time we kiss I swear I could fly
Can't you feel my heart beat fast,
I want this to last
Need you by my side

'Cause every time we touch, I feel the static
And every time we kiss I reach for the sky
Can't you hear my heart beat so
I can't let you go
Want you in my life

Your arms are my castle
Your heart is my sky
They wipe away tears that I cry
The good and the bad times
We've been through them all
You make me rise when I fall



Perchè ogni volta che ci tocchiamo, ho questa sensazione
e ogni volta che ci baciamo, giuro di riuscire a volare
non riesci a sentire il mio cuore che batte così veloce?
voglio che questo duri
ho bisogno che tu sia accanto a me

perchè ogni volta che ci tocchiamo, sento la staticità
e ogni volta che ci baciamo, raggiungo il cielo
non riesci a sentire il mio cuore che batte così?
non posso lasciarti andare.
Ti voglio nella mia vita

Le tue braccia sono il mio castello, il tuo cuore è il mio cielo
loro asciugano le mie lacrime
i bei tempi e quelli brutti, li abbiamo attraversati tutti
mi hai fatto rialzare quando ero a terra



Clarke udì dal divano la voce di Bellamy, apparentemente ferma ma in cui lei parve riconoscere un’incrinatura incerta.

«Comandante…».

«Blake…».

«Posso fare qualcosa per lei?».

«Clarke Griffin si è trasferita qui, vero?».

A quel punto la ragazza non sentì più parlare, ma dei passi si avvicinarono velocemente e lei si raddrizzò meglio sul divano, finché la sagoma sottile e slanciata di Lexa War non fece ingresso nel salotto.

«Ciao Clarke… ».

«Comandante War? Come mai è qui?».

Clarke lanciò una rapida occhiata a Bellamy, che era rimasto con una spalla appoggiata allo stipite della porta, le braccia incrociate al petto. La sua espressione poteva sembrare tesa, ma più che altro, la ragazza riconobbe una nota scocciata, come se la presenza del comandante lì lo infastidisse.

«Clarke… sono qui per chiederti di passare in centrale in questi giorni. Avrei bisogno di farti alcune domande riguardo alla sera dell’incendio».

La ragazza rimase sorpresa a quelle parole. Tutto ciò che era successo lo aveva riferito a Bellamy che a sua volta ne aveva parlato con Lincoln e da lui la sua testimonianza era arrivata all’ufficio incendi dolosi. Che poi in realtà c’era ben poco da dire dal momento in cui lei stava dormendo quando l’incendio era iniziato.

«Comandante, è tutto nel rapporto consegnato in centrale da Atom Ward, non è stata tralasciata una virgola. Non credo che sia necessario per Clarke recarsi in commissariato, i medici sono stati chiari: niente stress e riposo assoluto» prese parola Bellamy in quel momento, ma Clarke non mancò di notare lo sguardo tagliente che gli rivolse il comandante. Era evidente che tra i due dovevano esserci attriti.

«Non mi sembra di averla interpellata, signor Blake».

Clarke stessa rimase raggelata da quelle parole, ma cercò di mantenere un certo contegno nonostante la risposta l’avesse turbata. D’altra parte Bellamy stava semplicemente cercando di proteggerla… come faceva sempre dopotutto. Gli lanciò un rapido sguardo e vide che lui non sembrava granché scalfito dalla risposta tagliente del comandante War. In quel momento lo ammirò per la sua capacità di incassare il colpo, probabilmente se le situazioni fossero state invertite lei non sarebbe stata capace di rimanere zitta, nonostante fosse consapevole che era la cosa migliore.

A dire il vero, se le situazioni fossero state invertite, questo avrebbe comportato che sarebbe dovuto succedere qualcosa di brutto a Bellamy e non ci voleva neanche pensare, probabilmente sarebbe andata fuori di testa.

Deglutì una volta, poi tornò a fissare gli occhi in quelli verdi del comandante.

«Immagino di doverlo fare se non c’è alternativa. Ad ogni modo, come diceva Bellamy, non ho molto da aggiungere rispetto a ciò che è stato riportato sul verbale da Atom Ward».

«Dobbiamo avere la versione ufficiale. Basta che ti presenti in centrale domattina alle 09.30» e, detto ciò, la donna si alzò e, con un ultimo saluto rivolto ad entrambi, si diresse da sola verso l’ingresso. D’altra parte Bellamy non si prese nemmeno la briga di accompagnarla.

«Che modi» commentò Clarke non appena udì la porta richiudersi.

«Non farci caso, io ormai ho avuto abbastanza a che fare con lei da imparare a non prendermela. Anche Lincoln dice che è piuttosto… dura».

«Sarà, ma secondo me ha tutto a che fare con l’educazione e il rispetto, che non mi pare di aver visto».

Bellamy scrollò leggermente le spalle e tornò a sedersi al suo fianco.

«Ti accompagnerò in commissariato domattina. Dubito che mi lasceranno entrare, ma cerca di ricordare il più possibile di quello che hai riferito ad Atom per il rapporto, ok?».

«Certo, ma come ho detto anche al comandante stavo dormendo quando tutto è iniziato, perciò posso solo riferire cosa è successo da quando mi sono svegliata in poi».

«E quello dovranno farsi bastare. In effetti ti dirò che mi sembra un po’ strana come richiesta, ma se serve a non fare infuriare quella donna è meglio non contraddirla; Lexa War è già una rottura normalmente, figurati se la si fa innervosire».

Clarke emise una risata leggera, poi di nuovo abbassò il capo verso lo scatolone che stavano esaminando poco prima dell’arrivo del comandante War, prendendo nuovamente tra le mani la foto di Jackson Sahel con un gruppo di altri medici, inclusa sua madre.

«E se le inviassimo per e-mail la foto da un indirizzo anonimo? Murphy potrebbe farlo, è un hacker… ».

«Principessa… vuoi davvero fare terrorismo psicologico a tua madre?».

La ragazza sbuffò.

«È lei che ne sta facendo a me da quando ho scoperto che è invischiata in questo casino. Non riesco a pensare ad altro, maledizione».

«Capisco che sia frustrante, ma cerca di rilassarti, d’accordo? Lo so che te l’ho già detto un milione di volte e che sono ripetitivo e noioso, ma ne verremo fuori, ok? Te lo prometto».

A quel punto Clarke sorrise in modo più rilassato.

«Non sei né ripetitivo né noioso. E se non fosse stato per te probabilmente adesso sarei già impazzita da un pezzo… o sottoterra dal momento in cui mi hai salvato la vita due volte».

«Due volte?».

«Beh, la prima quando non ti ho dato retta a casa di Murphy e per questo ti sei anche beccato una coltellata, mentre la seconda… l’incendio, lo sai benissimo».

Bellamy per un momento parve rabbuiarsi, poi parlò nuovamente.

«Clarke… ce l’avresti fatta anche senza di me. Inoltre se io in primis non ti avessi portata lì, non ci sarebbe stato bisogno di difendersi da un pazzo armato».

«Sì, e se io non ti avessi coinvolto in questa storia a quest’ora tu saresti spensierato e con molti problemi in meno ai quali pensare».

«Io sono rimasto coinvolto la notte del 17 novembre di sei anni fa, il resto è stata una mia scelta. È stato allora che le cose sono cambiate, che io sono cambiato… e che i miei sentimenti sono cambiati, nonostante non lo abbia capito fino al tuo ritorno qui. E adesso basta parlarne Principessa, perché tutto questo parlare di sentimenti mi sta facendo venire il diabete, ok? Tu sai cosa importa».

Clarke rise, ma non poteva negare di esserne rimasta sorpresa. Quella era la cosa di più simile ad una dichiarazione che mai avrebbe potuto ottenere da Bellamy Blake.

Senza dire un’altra parola, lasciò nuovamente scivolare la foto nella scatola e prese il volto del ragazzo tra le mani, baciandolo.

Lui parve stupito per un istante, nel quale restò fermo immobile, poi le sue braccia la avvolsero e lui ricambiò con trasporto.

Clarke adorava le braccia di Bellamy e adorava quando lui la stringeva in quel modo, si sentiva rinchiusa e protetta in un mondo in cui nulla avrebbe potuto toccarla, perché quel mondo era creato e composto soltanto da Bellamy e questo la faceva sentire al sicuro.

Sospirò sulle sue labbra e lui ebbe un tremito, un segnale che Clarke aveva imparato a riconoscere e che le faceva capire quanto il ragazzo si stesse trattenendo. Dunque si staccò dal suo corpo e lo guardò negli occhi.

«Sai Clarke, dovresti avvertirmi prima di passare a questi intermezzi passionali, in modo che possa prepararmi psicologicamente… e fisicamente».

Lei sorrise con una certa malizia, che ebbe come l’impressione che non gli fosse sfuggita.

«Coglierti di sorpresa è divertente» disse senza staccare per un secondo gli occhi da quelli scuri e profondi di Bellamy.

«Lo vedremo, il giorno in cui deciderò di dare ascolto al mio corpo invece che alla mia testa».

A quelle parole Clarke si mise a ridere apertamente, mentre lui scuoteva il capo, seppur con un sorriso sulle labbra.

«Ormai ho perso il conto di tutte le volte in cui te l’ho già detto, ma tu… mi manderai all’inferno, Principessa».

«Fa caldo all’inferno… » soffiò lei a mezzo centimetro dal suo collo, giocherellando con l’orlo della sua maglietta.

Lo sentì irrigidirsi e sospirare pesantemente.

«Mi vuoi proprio morto, vero?».

La ragazza si allontanò quel tanto che bastava per guardarlo in faccia e constatare che aveva chiuso gli occhi.

«Mai» disse soltanto, stampandogli un breve bacio sulle labbra.

Fu allora che lui riaprì gli occhi, scuotendo la testa.

«Sì, è ufficiale: tu mi ucciderai», ma sorrise nel dirlo e sorrise anche Clarke, seduta sulle ginocchia di fronte a lui.

«Allora… » riprese poi la ragazza dopo qualche attimo di silenzio «… che si fa?».

«Sotto quale fronte, Principessa? Perché se ti riferisci alle indagini dobbiamo pensare a qualcosa, mentre se parli di qualcos’altro… » Bellamy lasciò in sospeso la frase, ma a Clarke non sfuggirono i sottointesi che implicava.

«Mi sto riferendo proprio alle indagini».

«Maledizione. Beh, in tal caso penso che innanzitutto domani ti dovrò accompagnare in centrale per risolvere questa faccenda con il comandante. Una volta eliminato questo avremo già un grosso pensiero in meno».

«Già, se non altro Lexa War smetterà di ronzarci intorno».

Bellamy le diede un buffetto sulla guancia.

«Come mai ti infastidisce tanto?».

Clarke parve imbarazzata.

«Non mi è piaciuto il modo in cui ti ha trattato».

A quelle parole il ragazzo sorrise.

«Ehi… a me non importa niente di cosa dice quella donna, ok? Non voglio parlare di lei, non voglio crearmi pensieri a causa sua, perciò, come ti ho già detto… affrontiamo un pensiero alla volta, d’accordo? Lei è il primo e domani lo risolveremo, per il resto… riconosci qualcuno di questi medici? Chiaramente oltre Sahel e tua madre… qualcuno con cui potremmo parlare… ti viene in mente qualcosa?».

Clarke prese la foto dalle mani del ragazzo e la osservò attentamente, fino ad individuare un uomo dall’aria familiare che poteva essere sulla sessantina.

«Il dottor Roden!» esclamò indicandolo e a quelle parole anche Bellamy si fece più vicino.

«Non mi dice nulla».

«Era amico dei miei genitori, ricordo che veniva a trovarci di tanto in tanto quando ancora abitavamo in Alabama. Si trasferì qui a New York prima ancora di noi, credo che fu lui a mettersi in contatto con mia madre per quel posto da primario all’Ark Medical Center».

«Sai se ci lavora ancora?».

«Credo che ormai sia in pensione, ma dovrebbe vivere qui nei dintorni».

«Bene, allora abbiamo trovato come impiegare la giornata di domani, Principessa».

«Mi dispiace Bellamy, ho come l’impressione di farti perdere tutto il tempo che hai a disposizione per prepararti al tuo esame. Potremmo fare dopo quella data».

«Clarke, tornerei operativo dopo pochi giorni, mi sembra inutile perdere questo tempo inutilmente. Non ti preoccupare per me, io riuscirò a sostenere l’esame in ogni caso, d’accordo?».

Lei annuì.

«Va bene».

«Allora è deciso. Avanti Principessa» disse poi prendendola tra le braccia e stringendola a sé per un momento «Adesso è l’ora di andare a letto».

«Ma Bellamy, è ancora presto!».

«Ho detto che è l’ora di andare a letto, non di dormire. Comincia a pensare a un bel film da vedere».

Clarke gli lanciò una strana occhiata.

«Ma la tv è qui!».

«Non è inchiodata al pavimento e la presa è anche in camera, la posso spostare».

Clarke lo guardò come non lo aveva mai guardato prima di allora e solo in quel momento seppe. Seppe di essere completamente persa ormai.

Si alzò dal divano e aveva fatto appena pochi passi quando si sentì sollevare da terra con quella che le parve un’estrema facilità.

«Bellamy! Mettimi subito giù, sono perfettamente capace di camminare!» esclamò tentando di mantenere un tono autoritario, ma che a quanto pare, il ragazzo non prese affatto seriamente perché il sorriso divertito che si aprì sul suo volto parlava da sé.

«Principessa… stai un po’ zitta» e detto ciò, si diresse in camera sua con un angolo della bocca leggermente incurvato verso l’alto, così alla ragazza non rimase che cedere e si lasciò andare contro il suo corpo.

Bellamy la depose sul letto, poi disse: «Sposto la televisione e sono subito da te».

Clarke annuì, ma prima di lasciarlo andare lo attirò a sé per l’orlo della maglietta e lo baciò intensamente per qualche istante, facendolo sospirare sulle sue labbra. Lei adorava quando lo faceva, perché in quei momenti si lasciava andare.

«Non vorrei metterti in allarme Clarke, ma dovresti davvero pensarci molto bene prima di fare certe cose perché io cerco di controllarmi… ma a tutto c’è un limite».

Una risposta le balenò in testa e decise di azzardare prima di stare troppo a rifletterci. Puntò i suoi occhi dritti in quelli scuri di lui e, con il bavero della sua maglietta ancora stretto tra le dita, lo avvicinò ulteriormente a sé e sussurrò al suo orecchio: «Forse è semplicemente arrivato il momento di smettere di trattenersi».

Sentì il corpo di lui irrigidirsi al suo fiancò e udì distintamente il suo deglutire a vuoto. Bellamy si scostò leggermente, giusto quanto bastava per osservarla meglio, alcune ciocche di capelli corvini gli ricadevano sul viso, poi Clarke registrò con un attimo di ritardo la lieve carezza nel suo interno coscia, lasciato scoperto dai pantaloncini di jeans che indossava e trattenne improvvisamente il respiro.

«Attenta Clarke» sospirò lui, e l’istante dopo era già sparito oltre la porta.

La ragazza rimase pietrificata esattamente nella stessa posizione per svariati secondi, sentiva appena vagamente Bellamy armeggiare nell’altra stanza per portare la televisione in camera.

Il suo cuore batteva forte e velocemente, il respiro mozzato e superficiale. Com’era possibile che le facesse un tale effetto? All’inizio si chiedeva come sarebbe stato baciarlo, se appena un lieve sfiorarsi delle loro labbra le aveva provocato una scarica di brividi lungo la spina dorsale. Ed ora… mio Dio, non riusciva neanche a pensare a come si sarebbero potute evolvere le cose.

Le occorse qualche istante prima di tornare a regolarizzare il respiro, dopodiché dovette riprendersi per forza perché Bellamy tornò reggendo tra le braccia il televisore e lo posizionò su un cassettone di fronte al letto.

«Ti serve una mano?» chiese Clarke, giusto per ridarsi un contegno, ma lui le rivolse un sorrisetto.

«Tranquilla, devo solo attaccare il cavo e poi è a posto».

Lei annuì e si mise più comoda sul letto; Bellamy la raggiunse qualche istante dopo.

«Allora… hai pensato a cosa vedere?».

«Mmm… non mi viene in mente molto in realtà. Proviamo a fare un po’ di zapping?».

«D’accordo» rispose lui cominciando a cambiare i vari canali.

Ne passarono in rassegna un paio prima che lui esclamasse: «Questo non è male! Tra l’altro è basato su una storia vera».

«Che cos’è?».

«American Sniper. Non so se è nel tuo genere, è un film di guerra».

«Mi piacciono i film di guerra, non ti preoccupare. Li guardavo sempre con mio padre» disse sorridendo e, si rese conto, non era un sorriso triste o nostalgico. Non riusciva a spiegarsi il perché, ma da quando Bellamy era con lei, era come se fosse più serena.

A quel punto anche lui si sistemò meglio con la schiena contro la testiera del letto, circondandole le spalle con un braccio e lei si rannicchiò contro il suo petto.

Per un po’ seguì il film con vero interesse, ma poi, quando Bellamy iniziò ad accarezzarle i capelli con il dorso della mano, la sua concentrazione allo schermo venne meno.

Cercò di resistere e per un po’ ci riuscì, anche perché lui sembrava veramente preso dalle immagini che rapide si susseguivano una dopo l’altra, ma ad un tratto fu come se dentro avesse avuto un timer, che era esploso improvvisamente.

«Bellamy» lo richiamò e il suo tono tradiva una certa urgenza, tanto che il ragazzo la fissò con una nota di preoccupazione negli occhi.

«Stai bene?» le chiese smettendo di accarezzarle i capelli e allontanandosi appena per riuscire a guardarla meglio negli occhi.

Bene. E adesso che cosa poteva dirgli? Avrebbe fatto la figura della ninfomane perché quelle due parole intrappolate nel fondo della sua gola non si decidevano ad uscire.

Ti voglio, avrebbe voluto dirgli più di ogni altra cosa, ma invece di parlare, decise di passare ai fatti. Si spostò sopra di lui, gli prese il volto tra le mani e lo baciò con passione.

Lo stupore di lui fu palese perché sgranò gli occhi e si irrigidì, ma recuperò ben presto, afferrandole la vita con fermezza e rispondendo con trasporto a quel bacio dirompente.

Clarke ansimò sulle sue labbra e non poté fare a meno di notare che questo provocò un brivido lungo la schiena di Bellamy, che serrò ulteriormente la presa e in realtà quella non fu l’unica parte del corpo di lui ad avere una reazione perché la ragazza non poté fare a meno di notare il rigonfiamento che si era formato all’altezza del cavallo dei suoi pantaloni.

Incoraggiata da quella reazione, spostò le mani sotto la maglietta di lui, accarezzando i suoi muscoli tesi e forti.

Con una sorta di ringhio proveniente dal fondo della gola, Bellamy ribaltò le posizioni, spostandosi sopra di lei.

«Principessa… te le vai proprio a cercare allora».

Il suo tono ansante le fece capire quanto fosse carico di desiderio.

«Sta’ zitto» annaspò lei un attimo prima di sfilargli la maglietta e lui le facilitò il compito, lanciando poi l’indumento da qualche parte alla rinfusa.

Ormai Clarke sentiva solo di sottofondo il sommesso ronzio della televisione, tutto ciò che esisteva in quel momento erano Bellamy, lei, e i loro corpi preda di una passione che mai aveva provato prima.

Lui impiegò mezzo secondo per liberarsi della canottiera di Clarke e per un breve istante interruppe quel frenetico susseguirsi di baci e carezze per osservarla.

«Sei… oddio Clarke, tu mi vuoi morto».

Disse poggiando per un istante la fronte contro la sua spalla.

«No, per niente. Ti voglio vivo, Bellamy. Ti voglio vivo come non lo sei mai stato prima» e, dicendo questo, le sue mani corsero all’elastico dei pantaloni da jogging che indossava, spingendoli verso il basso e lui se ne liberò con un calcio, mandandoli a volare da qualche parte sul pavimento e poco dopo anche gli shorts di Clarke fecero la stessa fine.

Il cuore della ragazza batteva come impazzito, ormai non riusciva più a mettere insieme un pensiero logico perché il corpo caldo di Bellamy era tutto ciò che esisteva e che voleva in quel momento.

Posò le labbra sul collo di lui, iniziando a lasciarvi una scia di baci bollenti e il ragazzo le fece arpionare le gambe intorno alla sua vita.

Yeti cominciò a miagolare dietro la porta, probabilmente contrariato dal fatto di essere stato chiuso fuori, ma per questa volta Clarke non se ne curò minimamente, poteva miagolare per tutto il resto della notte, lei non si sarebbe certo alzata da lì per aprirgli.

Come se le avesse letto nel pensiero, la voce di Bellamy offuscata dalla passione, arrivò alle sue orecchie.

«Non ci pensare neanche, Clarke», ma lei lo attrasse a sé, riportandogli le labbra sulle sue e le loro lingue si inseguirono per qualche altro istante prima che Bellamy iniziasse la sua discesa.

Baciò il suo petto, accarezzandola sopra la biancheria in pizzo che portava e Clarke sussultò, inarcando la schiena, poi ancora giù, a baciarle il ventre piatto, fino ad arrivare alla coscia.

La ragazza ansimò mentre lui le sfiorava appena l’elastico degli slip, ma poi… uno stridio di ruote sull’asfalto, una brusca sterzata e un gran boato: uno sparo.

Clarke trasalì, tirandosi a sedere sul letto e così anche Bellamy.

«Resta qui» disse lui in tono deciso, mentre già raccoglieva da terra i suoi vestiti.

«Bellamy, aspetta!» esclamò con i sensi ancora annebbiati, ma dopo un attimo lui era già sparito oltre la porta e Yeti si era appropriato del suo lato del letto.

Ancora confusa e con il cuore che le martellava nel petto, Clarke iniziò a rivestirsi e raggiunse Bellamy sulla veranda. Anche i vicini si erano radunati e osservavano la via deserta cercando di capire cosa fosse successo, ma gli unici indizi lampanti erano i segni degli pneumatici che voltavano bruscamente a destra all’incrocio più vicino e un penetrante odore di gomma bruciata.

«Torna dentro… » le disse Bellamy riparando il corpo della ragazza con un braccio.

«Ma Bellamy… ».

«Clarke, qualcuno ha sparato. Per favore… torna dentro».

Così la ragazza annuì e fece come le aveva detto. Già una volta non aveva dato retta ad una richiesta del genere da parte di Bellamy ed era finita con lui che si era beccato una coltellata. Decisamente, non voleva ripetere l’esperienza.

Andò in cucina e si versò un grosso bicchiere d’acqua dal momento in cui era ancora parecchio accaldata per via di ciò che lei e Bellamy stavano facendo prima di essere interrotti.

Il ragazzo tornò dentro dopo una decina di minuti.

«Sembra che nessuno abbia visto molto, soltanto l’uomo della casa di fronte afferma che una macchina scura era parcheggiata qui davanti da un paio d’ore e che se la sia filata alla svelta a un certo punto. Mi dispiace, Clarke».

«Per cosa?».

Bellamy chiuse gli occhi per un momento, passandosi una mano tra i capelli.

«Ho come l’impressione di non riuscire a tenerti al sicuro nemmeno in casa nostra».

Quelle parole a Clarke non sfuggirono. Casa nostra. Ormai era come se per Bellamy fosse quasi scontata la sua presenza costante lì, mentre lei quasi non riusciva a capacitarsene, ma era elettrizzata. Gli si avvicinò, allacciando le braccia intorno al suo collo.

«Io sono al sicuro, Bellamy. Non ti devi preoccupare, è chiaro?».

Lui sospirò contro il suo collo e poi la baciò.

«Avanti… torniamo a letto adesso».

La ragazza annuì e, prendendolo per mano, lo guidò nuovamente in camera.

Si richiuse la porta alle spalle e tornò a sdraiarsi sul letto, dopo aver sostituito gli shorts di jeans con un paio in cotone leggero, mentre Bellamy si limitò a restare in boxer.

I climatizzatori avevano cominciato a fare capricci e Clarke sperò soltanto che non saltassero com’era successo già a parecchi in città, se si fossero rotti era certa che quel caldo esasperante l’avrebbe uccisa.

Si sdraiò sopra il lenzuolo disordinato che aveva lasciato poco prima con Bellamy e lui spense la televisione rimasta accesa, ma ormai non aveva più senso perché entrambi avevano smesso di seguire il film già da un pezzo.

Il ragazzo era sdraiato a pancia in su, l’aria assorta di chi è lì solo fisicamente.

«Bell?».

La sua attenzione fu catturata subito e la osservò con sguardo strano.

«Perché mi fissi in quel modo?» gli chiese allora e sul viso di lui comparve l’ombra di un sorriso.

«È la prima volta che mi chiami così».

Solo allora Clarke se ne rese conto. Era vero, prima di allora non lo aveva mai chiamato con quel diminutivo e non poté fare a meno di sorridere a sua volta.

«A cosa stavi pensando? Sembravi perso chissà dove».

Lui scrollò il capo.

«Riflettevo su… beh, su quello che sta succedendo. I vicini hanno chiamato la polizia, hanno detto che faranno dei sopralluoghi per cercare di capire cosa sia successo, chi ha sparato».

Clarke annuì e si girò su un fianco per guardarlo meglio in faccia.

«Non devi ossessionarti, sai?».

«Cosa?» l’espressione di lui adesso era alquanto interrogativa.

«Lo so come sei, Bellamy Blake. C’è voluto un po’, ma adesso ho imparato a conoscerti e so che proteggeresti le persone a cui tieni facendo loro da scudo con il tuo corpo, ma non è quello che voglio. Voglio che tu sia sereno, quando sei con me e non che vivi con l’ansia costante che possa succedermi qualcosa».

A quelle parole il ragazzo la attrasse a sé, sospirando tra i suoi capelli.

«Mi dispiace, ma preoccuparmi credo che faccia parte della mia natura. Dopo mia madre… io non posso perdere nessun altro».

«E lo capisco, credimi».

«Lo so».

«Ma noi affronteremo tutto questo insieme, è chiaro? Senza che tu ti faccia mille paranoie, altrimenti mi farai pentire di averti coinvolto», ma a quelle parole la stretta di Bellamy attorno al suo corpo si serrò.

«No» disse lui, immerso nei suoi capelli.

«E allora non ti tormentare. Sono qui e sto bene, no? È questo ciò che conta».

Lui annuì, poi Clarke racchiuse il suo collo tra le mani e lo baciò con intensità, stringendosi poi al suo torace.

«Adesso dormi, Clarke, domani ti aspetta quella deposizione alla centrale di polizia».

Lei annuì e poco dopo si sistemò meglio contro il corpo di lui prima di cadere in un sonno profondo.



Il buio era ancora totale quando riaprì gli occhi, ma sentiva il corpo caldo di Bellamy vicino al suo e il suo respiro tranquillo e ritmato, segno che stava dormendo profondamente e questo la rassicurò.

Lei però non aveva sonno per niente, così, con calma, sgusciò via dalla presa di Bellamy e tirò fuori dal cassetto del suo comodino il blocco da disegno e il carboncino che il ragazzo le aveva regalato.

Adorava ritrarlo mentre dormiva, beh, in realtà adorava ritrarlo in generale, ma i primi due disegni che gli aveva fatto erano andati distrutti nell’incendio, quindi decise di approfittarne.

Poco alla volta, cominciò a tracciare i lineamenti del suo viso, la forma leggermente allungata degli occhi, quella spruzzata di lentiggini sulle guance, la fossetta sul mento che lei tanto adorava… dopo un’ora rimirò la sua opera, ritenendosi soddisfatta del suo lavoro.

Il caldo però era atroce, uscì dalla stanza e poté constatare che il climatizzatore aveva definitivamente smesso di funzionare.

Dannazione.

Si avviò in cucina per prendere un bicchiere di acqua ghiacciata, quando sentì dei rumori provenire dalla stanza da letto e la voce, ancora piuttosto assonnata, di Bellamy chiamarla.

«Sono in cucina!» esclamò.

«Ehi… » lui spuntò dopo qualche istante. Gli occhi erano ancora annebbiati per via del sonno e il suo corpo appiccicaticcio a causa del sudore.

«Da quanto sei sveglia?».

«Un po’. Avevo sete, il climatizzatore è ufficialmente andato, sarà da morire finché questo caldo non si placa».

Bellamy sbuffò, passandosi una mano tra i capelli umidi.

«Sì, sarà terribile. Ormai ne stanno saltando parecchi, Atom è nella stessa situazione».

Con un sospiro, Clarke gli offrì il bicchiere dal quale stava bevendo poco prima e Bellamy mandò giù l’acqua fresca con sollievo.

«Grazie. Torniamo a letto?».

La ragazza sorrise e annuì.

Si distesero nuovamente sopra le lenzuola, ma, nonostante il caldo, Clarke si strinse comunque al corpo di Bellamy e lui non la rifiutò anche se Clarke era perfettamente consapevole di quanto stesse soffrendo per via di quella temperatura.

«Buonanotte, Bell» disse poco prima di risprofondare nel sonno e, per qualche motivo, ebbe come l’impressione che il ragazzo stesse sorridendo.

«Buonanotte, Clarke».



La mattina dopo, quando Clarke riaprì gli occhi, il sole splendeva alto nel cielo e Bellamy era ancora immobile, le dava le spalle. Erano appena le otto, si sarebbe dovuta presentare in centrale tra più di un’ora, quindi decise che poteva starsene a poltrire a letto ancora un po’.

Osservò il ragazzo, perdendosi ad ammirare la sua schiena ampia e muscolosa; lei adorava la schiena di Bellamy e per un istante si fermò a pensare che prima o poi avrebbe dovuto ritrarre anche quella parte di lui.

Ad ogni modo, ora gli scostò appena i capelli dal collo, cominciando a baciare quella pelle morbida. Lo sentì muoversi poco a poco contro il suo corpo, finché sostituì i baci ed iniziò a mordicchiarlo teneramente.

«Griffin, sei proprio sicura di quello che stai facendo?» e, nonostante la sua voce fosse ancora assonnata, la ragazza riuscì distinguere anche una nota di divertimento e qualcos’altro… di molto simile al desiderio.

La ragazza sorrise sul suo collo prima di risalire a mordere leggermente il suo lobo e a quel punto lui si voltò di scatto, intrappolandola tra le sue braccia.

«Ti piace giocare col fuoco, vero, Principessa?».

«Non sai quanto» rispose, praticamente sulle sue labbra.

«Dio, come devo fare con te?» e detto questo fece aderire completamente le loro labbra, baciandola con trasporto.

Clarke sospirò, tirandosi un po’ più indietro per osservarlo bene.

«Già, mi chiedo proprio come farai con me», detto questo scivolò via dalle sue braccia, osservandolo con aria maliziosa.

«Dove credi di andare adesso?» chiese lui, piuttosto contrariato dalla sua improvvisa lontananza.

«A farmi una doccia. Non posso certo presentarmi alla centrale in queste condizioni».

«Beh, anch’io ho bisogno di una doccia, direi che possiamo risparmiare acqua».

«Ti piacerebbe» disse poi con espressione furba.

«A dire il vero sì. Molto».

A quelle parole, Clarke non poté fare a meno di ridere, dopodiché prese un cambio di vestiti e si avviò verso il bagno, ma udì distintamente le parole di Bellamy quando disse: «Mi ucciderai, donna» e non riuscì a non sorridere.

Non impiegò molto a farsi la doccia, anche perché appunto, ne aveva bisogno anche Bellamy, dunque dopo dieci minuti era già fuori, avvolta da un asciugamano e completamente gocciolante.

«Clarke, sappi che nelle ultime ventiquattro ore… anzi, possiamo anche dire nelle ultime dodici, hai messo a durissima prova la mia pazienza e il mio autocontrollo» disse Bellamy non appena la vide uscire.

«Mmm… davvero interessante» disse lei guardandosi allo specchio e spazzolandosi con vigore i capelli ancora bagnati.

«Interessante? Davvero? Perché io… », ma Clarke lo mise a tacere con un bacio e lo sospinse verso il bagno.

«Muoviti, sono quasi le otto e mezza e tu devi ancora lavarti e dobbiamo fare colazione» gli disse dandogli una lieve pacca sul sedere. Lui si voltò a guardarla con aria fintamente scandalizzata prima di mettersi a ridere e avviarsi in bagno.

Quando si fu richiuso la porta alle spalle, Clarke legò i capelli bagnati in una treccia laterale e indossò gli shorts di jeans della sera precedente e una camicetta leggera. Forse non era l’abbigliamento più adatto per presentarsi in un centrale di polizia, ma il caldo era davvero troppo opprimente.

Bellamy uscì dal bagno gocciolante e con un asciugamano legato in vita circa dieci minuti dopo, quando Clarke aveva appena messo la moka del caffè sui fornelli e tirato fuori dal frigo un barattolo da mezzo chilo di yogurt.

«Come va la tua caviglia oggi?» si informò lui una volta vestito e che l’ebbe raggiunta in cucina.

«Direi che ormai è a posto».

«Bene» rispose lui con un sorriso, versando nella tazza di yogurt una quantità inverosimile di cereali.

Quando il caffè fu pronto, Clarke lo divise tra di loro e fecero colazione in tranquillità.

Erano ormai le nove quando si alzarono dal tavolo e Clarke lavò rapidamente tutto quanto prima di uscire, mentre Bellamy cambiava l’acqua nella ciotola di Yeti.

«Sembrate andare più d’accordo voi due» disse lei con un sorriso.

«Sono ancora fermamente convinto del fatto che sia la reincarnazione di Satana, ma se non altro ha smesso di farmi agguati ogni mezzo secondo».

Quelle parole fecero ridere Clarke, che rimise a posto l’ultima tazza prima di chiudere la credenza.

«Ormai ho perso le speranze».

«È colpa sua, è lui lo psicopatico».

La bionda gli diede un leggero schiaffo sulla spalla e lui le posò un bacio sulle labbra.

«Andiamo, Principessa. Prima chiudiamo questa cosa, prima ti riporto a casa. E oggi pomeriggio potremmo dedicarci a quel pomeriggio di shopping che ti avevo promesso dato che tu non hai più vestiti e che la tua caviglia va meglio. Lo cercheremo domani quel dottor… Roden».

«Bellamy Blake, tu sì che sai come conquistare una donna».

«Davvero? Perché non mi sembri la classica shopping-dipendente. Anche se certo… potrei portarti in libreria».

A quelle parole, gli occhi della ragazza si illuminarono.

«Sei una delle persone più fantastiche che abbia mai conosciuto» disse lei, facendolo ridere.

«Beh, meno male allora, perché voglio che passiamo insieme ancora molto molto tempo. E adesso andiamo, prima che ti rapisca».

Così, con il sorriso ancora stampato in volto, la ragazza lo seguì fuori di casa e Bellamy si mise alla guida in direzione della centrale di polizia.

Impiegarono circa un quarto d’ora per arrivare e, appena entrati, incrociarono subito Lincoln.

«Ehi!» li salutò lui con un gran sorriso.

«Lincoln!».

«Come va, ragazzi? Bellamy, ho saputo della sparatoria davanti casa vostra. Tua sorella era preoccupatissima».

«Sì, noi… stavamo guardando un film quando è successo, abbiamo solo sentito la macchina e uno sparo. Avete scoperto qualcosa?».

«Non molto. Uno dei tuoi vicini ha detto che una macchina scura era appostata da diverse ore lì davanti, ha visto un uomo scendere e avvicinarsi verso casa tua appunto, ma poi un altro è spuntato fuori di corsa. Il primo se l’è data a gambe e l’altro ha sparato verso la macchina, che sembra essere scomparsa nel nulla».

«Verso casa mia, davvero?».

«Già, ad ogni modo… il comandante ti aspetta nel suo ufficio, Clarke, avrà sicuramente qualcosa da dirti».

Lei annuì, dopodiché, lanciando un ultimo sguardo a Bellamy, si avviò da sola verso l’ufficio che ormai aveva imparato a conoscere.

Bussò due volte, piano, e la voce fredda e chiara del comandante le disse di entrare.

«Clarke… accomodati» disse la giovane donna dall’altra parte della scrivania.

La ragazza prese posto e rimase in silenzio, aspettando che fosse il comandante a parlare per primo.

«Ho sentito quello che è successo ieri sera di fronte casa di Bellamy Blake… stai bene?».
La sua preoccupazione la metteva quasi a disagio, specialmente dopo la sua entrata in scena della sera prima, ancora non le piaceva il modo in cui aveva trattato Bellamy, ma doveva fare buon viso a cattivo gioco, in modo da poter andare via di lì alla svelta.

«Sto bene, grazie. Dunque… è necessario che le spieghi cosa è successo la sera dell’incendio? Certo, sempre dal momento in cui mi sono svegliata e mi sono resa conto di cosa stava succedendo».

Il comandante annuì.

Così, brevemente la ragazza spiegò che dopo la notte passata da Jasper, aveva trascorso gran parte della giornata a dormire e che semplicemente, quando ormai era sera tarda, si era svegliata per via di un insolito caldo. Quando aveva aperto gli occhi, aveva visto che casa sua bruciava, dopodiché Wells era stato tempestivo nel chiamare i soccorsi, ma lei era tornata dentro per recuperare Yeti. Il resto non aveva bisogno di alcuna spiegazione.

Lexa War annuì.

«Clarke… non vorrei metterti troppo in allarme, ma pensiamo che ciò che sia accaduto ieri sera davanti casa di Bellamy Blake, possa essere collegato all’incendio».

«Sta dicendo che la persona che ha appiccato l’incendio a casa mia, potrebbe essere la stessa che ha sparato ieri sera?».

La ragazza fece un cenno appena percettibile di assenso con il capo.

«Potrebbe essere».

Clarke si lasciò andare contro lo schienale della sedia e sospirò pesantemente.

«Quindi che si fa adesso?».

«Metteremo un agente in borghese davanti casa vostra per un paio di giorni, tanto per cominciare. E vediamo se intanto succede qualcosa, dopodiché, decideremo cosa fare».

A Clarke quell’idea non piaceva e immaginava che sarebbe piaciuta ancor meno a Bellamy. Si sentì in colpa. Se non fosse stato per lei, lui non sarebbe finito in mezzo a tutti quei guai.

Non le restò che annuire, ancora piuttosto scettica, ma aveva come l’impressione che protestare sarebbe stato inutile, perciò decise semplicemente di lasciar correre e si alzò dalla sedia, dopo aver stretto la mano del comandante.

«Mi raccomando, Clarke… fa’ attenzione» e, con quest’ultima frase, la bionda aprì la porta e si ritrovò nuovamente in corridoio.

Bellamy la aspettava seduto nell’ingresso, Lincoln era sparito. Non appena la vide scattò subito in piedi.

«Allora? È tutto a posto?».

Lei lo prese per mano.

«Vieni, ti spiegherò tutto mentre torniamo a casa» e, mano nella mano, uscirono alla svelta dalla centrale di polizia.



Get out your guns, battles begun
Are you a saint, or a sinner?
If loves a fight, than I shall die
With my heart on a trigger

They say before you start a war
You better know what you're fighting for
Well baby, you are all that I adore
If love is what you need, a soldier I will be

I'm an angel with a shotgun
Fighting til' the wars won
I don't care if heaven won't take me back
I'll throw away my faith, babe, just to keep you safe
Don't you know you're everything I have?
And I, wanna live, not just survive, tonight



Tira fuori le tue pistole, la battaglia inizia
sei un santo, o un peccatore?
Se l'amore è una lotta, allora dovrei morire
con il mio cuore sul grilletto.

Dicono che prima di iniziare una guerra
è meglio che tu sappia ciò per cui stai combattendo.
Beh piccola, tu sei tutto quello che adoro
se l'amore è quello di cui hai bisogno, sarò un soldato.
Sono un angelo con un fucile a pompa
combatterò finché la guerra non sarà vinta
Non mi importa se il paradiso non mi rivorrà indietro.
Butterò via la mia fede, piccola, solo per tenerti al sicuro.
Non lo sai che sei tutto quello che ho?
E io voglio vivere, non solo sopravvivere, stanotte.



In poche semplici frasi, Clarke gli aveva spiegato le intenzioni della polizia, in altre parole: controllarli.

No Bellamy, stanno solo cercando di proteggere Clarke, datti una calmata, è per la sua sicurezza, si costrinse a pensare, ma era inutile fingere che la cosa non gli desse un certo fastidio. Forse era semplicemente perché non gli piaceva l’idea che qualche agente stesse incollato alla porta di casa sua ventiquattr’ore su ventiquattro, o forse perché, semplicemente, non gli piaceva quel comandante. Non sapeva neanche lui il motivo, ma gli dava una strana sensazione e proprio non riusciva a fidarsi.

Ad ogni modo, se era per il bene di Clarke, se ne sarebbe rimasto zitto e buono; la ragazza al suo fianco gli aveva assicurato che non si sarebbero nemmeno accorti della presenza degli agenti, le era stato garantito dal comandante stesso.

La macchina entrò silenziosa nel vialetto di casa sua e lui la parcheggiò senza difficoltà, spegnendo poi il motore.

«Allora Principessa… direi di aspettare il pomeriggio per fare quel giro di shopping che ti avevo promesso, il sole adesso picchia forte e onestamente non mi va di grondare di sudore per le vie del centro con questo caldo infernale».

«Dici? Sei sexy quando sei sudato».

Ed ecco che quel lato di Clarke tornava a galla. Prima o poi lo avrebbe ucciso, ne era certo. Per un momento ripensò alla sera prima, quando lei sostanzialmente gli era saltata addosso e aveva iniziato a baciarlo e spogliarlo. Dio, se non fosse stato per quella macchina e quello sparo, era sicuro del fatto che non avrebbe avuto la forza di volontà di fermarsi e, se non altro quella volta, probabilmente neanche Clarke. Almeno si augurò che non ne avrebbe avuto la crudeltà, perché se fosse venuta meno senza quell’intervento di forza maggiore, lui probabilmente avrebbe perso la testa.

Cercò di calmare i bollori, distogliendo lo sguardo dalla ragazza.

«Che succede, Bellamy Blake? Non ti avrò mica messo a disagio… ».

A quelle parole, gli occhi del ragazzo tornarono su di lei.

«Dovrai impegnarti di più per mettermi a disagio, mi dispiace».

Quella frase fece ridere Clarke, che si sporse a dargli un lieve bacio sulle labbra e poi si avviò in camera, forse per cambiarsi.

Quando sentì la porta della stanza richiudersi, si prese la testa tra le mani.

< Maledizione.

Sì. Maledizione a lei che era così dannatamente sexy e che si divertiva a provocarlo di proposito, maledizione a lui che non era capace di gestire i suoi fottutissimi ormoni manco avesse quindici anni e maledizione a quella situazione che lo avrebbe mandato fuori di testa.

Perché, semplicemente, per una volta la sua vita non poteva avere una parvenza di normalità? Non si lamentava della sua vita fino a quel punto, insomma… di certo non era stata facile, ma non era nemmeno stata una brutta vita.

Era stata movimentata da alti e bassi, forse più bassi che alti, ma lui aveva conosciuto l’amore. Quello puro e incondizionato di Octavia. L’amore senza fine che sua madre gli aveva dato senza chiedere nulla in cambio, nonostante fosse stato un adolescente difficile. E, a suo modo, anche lui le aveva amate e avrebbe continuato ad amare e proteggere sua sorella fino alla fine dei suoi giorni.

Chiuse gli occhi, prese un profondo sospiro e lo lasciò andare, ma un attimo dopo fu investito dall’ormai familiare profumo di Clarke e sentì le sue braccia avvolgergli il torace.

«Stai bene?» chiese lei, posandogli la testa su una spalla.

«Sì, Clarke. Sto bene» rispose rilassandosi contro il corpo di lei.

Quella ragazza aveva un’innata capacità di passare da una versione di sé stessa provocante e maliziosa, ad una estremamente semplice e dolce con una naturalezza disarmante. E questa era un’altra delle cose che adorava in lei.

Si voltò, per riuscire a far sì che fossero petto contro petto e le avvolse la schiena con le braccia.

«Sai una cosa, Bellamy Blake?» disse lei, alzando la testa per poterlo osservare bene in faccia.

«Che cosa?».

«Le tue braccia sono il posto in cui mi piace stare di più al mondo».

Forse non avrebbe dovuto, ma quelle parole lo sorpresero ugualmente. Clarke non era esattamente il tipo di ragazza che si lasciava andare a dichiarazioni del genere, come anche lui non era solito fare grandi discorsi sui suoi sentimenti, ma ad ogni modo non riuscì a trattenersi dal sorridere.

«Beh, allora meglio così perché ho intenzione di tenerti fra queste braccia ancora per molto tempo» e detto questo chinò il capo fino a far combaciare le loro labbra.

Non sapeva spiegarsi come, ma quell’incastro era sempre qualcosa di perfetto e quando baciava Clarke… tutto si annullava. I problemi, le preoccupazioni, ogni cosa spariva dalla sua mente e tutto ciò che esisteva erano loro due e i brividi che gli correvano lungo il corpo.

Le accarezzò i fianchi, l’addome, tutto ciò che riusciva a raggiungere in quella posizione, e come sempre, non riuscì a capire quanto fosse passato quando si staccarono.

Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non gli veniva in mente nulla di abbastanza significativo da farle capire cosa provasse per lei, così si limitò a stamparle un bacio sulla fronte, gli occhi ancora chiusi e la sentì stringersi al suo petto.

«È forse questo, Bellamy?» adesso anche il tono di lei era serio.

«Che cosa?».

«Dopo tutto il dolore e la sofferenza che abbiamo passato, dopo le persone che abbiamo perso, ciò che abbiamo dovuto affrontare. È questa la ricompensa?».

Un sorrisetto a metà si aprì sul volto del ragazzo.

«Beh, in tal caso Clarke, se fosse questa la ricompensa… direi che me la farò bastare».

A quelle parole anche lei sorrise e si sporse a baciarlo un’altra volta.

Bellamy la strinse a sé per un’ultima volta prima di scostarsi bruscamente.

«Ok, Principessa. Adesso direi di darci una calmata, perché seriamente… tra ieri e oggi potrei davvero non rispondere più delle mie azioni. C’è un limite a tutto e noi dobbiamo studiare e restare concentrati, ricordi?».

«Sai Bellamy, ai tempi del liceo non avrei mai detto che fossi un tipo così dedito allo studio».

«Sono cambiate tante cose da allora» rispose lui con un sorrisetto furbo.

Dio, com’erano cambiate le cose.

Ad ogni modo Clarke non se lo fece ripetere due volte e si avviò in salotto, dove sul tavolo erano posati i suoi libri e appunti di medicina. Aveva così tanta roba che Bellamy dovette restare in cucina perché lui e il suo libro non sarebbero mai entrati in mezzo a tutto quel macello.

Dunque si sedette attorno al tavolo e aprì il manuale.

Le pagine erano scarabocchiate da appunti disordinati in una grafia spigolosa, Octavia gli aveva sempre detto che scriveva in modo terribile, ma non le aveva mai dato retta.

La sua mente si perse tra quei paragrafi, pagina dopo pagina assimilava ogni nozione, ogni singolo dettaglio che lo avrebbe aiutato a superare quel test. Voleva passarlo a tutti i costi. Voleva con tutte le sue forze poter restare nella caserma 62 per continuare a lavorare con quei ragazzi che, ormai, erano diventati la sua famiglia.

In quel libro c’era veramente di tutto: dalle attrezzature, al primo soccorso, alle procedure… ogni cosa e francamente non gli dispiacque rispolverare la parte teorica, si rese conto che, nonostante avesse sempre messo in pratica tutto ciò che aveva imparato ai tempi dell’accademia, certe cose erano andate dimenticate nei recessi della sua mente. Senza alcun dubbio tutto quello gli sarebbe tornato utile, specialmente perché di esperienza sul campo, da allora, ne aveva accumulata parecchia.

Era ormai mezzogiorno passato quando la sua concentrazione venne meno e lui chiuse il libro. Era sempre stato così: non riusciva mai a passare pomeriggi interi con la testa tra i libri e restare concentrato per tutto il tempo. Non era come Clarke; piuttosto preferiva fare sessioni di studio brevi e frequenti, ma mai più di due o tre ore consecutive. Inoltre la fame cominciava a farsi sentire.

Fece capolino in salotto, giusto per controllare Clarke e capì dalla sua espressione attenta e concentrata e dalla piccola ruga che si era formata tra le sue sopracciglia che era del tutto presa dallo studio in quel momento, dunque decise di non interromperla.

Si avviò in cucina, cominciando ad armeggiare tra pentole e fornelli. Apparecchiò la tavola e, dopo circa mezz’ora, fu tutto pronto, dunque si riavviò in salotto, dove adesso Clarke era intenta a sottolineare qualcosa sul libro con un evidenziatore azzurro.

Il ragazzo si chinò dietro di lei per posarle un bacio su una spalla nuda e lei rabbrividì.

«Non ti ho sentito arrivare» disse interrompendo la sua attività e voltandosi a guardarlo con un sorriso.

«Sì, ho notato la tua concentrazione. Vieni in cucina, è pronto il pranzo».

Lei non riuscì a non lasciarsi sfuggire un’espressione stupita, poi sbuffò divertita.

«Non mi sono davvero accorta di nulla. Scusa, ti avrei dato una mano».

«Eri così assorta che non ti volevo disturbare».

«Beh, la prossima volta disturbami. Mi piace quando cuciniamo insieme» disse dopo un momento di pausa.

Si fissarono per un momento, poi Bellamy la baciò e si sorprese di quanto quell’azione per lui fosse diventata così spontanea e naturale nel giro di così poco tempo. Dopotutto… erano trascorsi meno di dieci giorni dalla famosa cena al ristorante “Timeless”. Meno di dieci giorni da quando l’aveva baciata per la prima volta e… Dio, com’era stato intenso.

Era stato come togliersi un peso dallo stomaco, ma in senso buono. Una vera e propria liberazione quando le sue labbra avevano toccato quelle di Clarke e lui aveva finalmente trovato un senso perfino a quel casino in cui erano andati a cacciarsi. Sembrava quasi come se tutta quell’assurda situazione li avesse condotti a quella sera, a quel bacio e nonostante tutto… non se ne sarebbe mai pentito.

Mangiarono in un’atmosfera distesa, nonostante Bellamy avesse notato quell’auto scura parcheggiata fuori dalla sua abitazione. Dentro un agente della polizia che aveva già visto qualche volta, durante il corso del suo lavoro, un certo Aaron McClay non molti anni più grande di lui che, quando si era affacciato dalla finestra e lo aveva notato, sembrava tutto intento nella lettura della pagina sportiva del “Times”.

Bellamy aveva sospirato, ma, ancora una volta, si era costretto a pensare che tutto quello fosse per la sicurezza di Clarke e, nonostante fosse convinto che ora che poteva tenerla d’occhio costantemente, non sarebbe potuto accaderle nulla di male, avere un paio d’occhi in più non sarebbe guastato.

Quando finirono di mangiare la ragazza lo aiutò a sparecchiare, ormai la sua caviglia si era completamente ripresa, non aveva più bisogno delle stampelle e sembrava che camminare per periodi prolungati non la infastidisse come invece accadeva prima.

Di nuovo, Bellamy tornò con la mente alla sera dell’incendio e per un momento si rabbuiò. Se solo la chiamata di Wells Jaha fosse arrivata due minuti dopo…

Scosse la testa, costringendosi a non pensarci e aprì l’acqua del lavandino per mettere a bagno le stoviglie sporche, dopodiché prese Clarke in spalla, che emise un’esclamazione sorpresa e si lasciò cadere sul divano, con la ragazza tra le braccia.

«Bellamy, lasciami, devo tornare a studiare», disse lei, cercando di rimanere seria, ma in vano.

«No. Tanto è inutile studiare subito dopo i pasti, anzi, è addirittura controproducente».

«Mmm… davvero? Ma non mi dire».

«Sì, adesso hai proprio bisogno di un po’ di relax, Principessa… e tecnicamente sei ancora in convalescenza, perciò non ti muoverai da questo divano. È chiaro?».

Bellamy la tenne stretta per la vita, impedendole di muoversi dalle sue gambe, ma francamente non sembrava che a Clarke la cosa dispiacesse molto.

«Credo di non avere molte altre alternative in ogni caso» rispose lei sorridendo.

«No, infatti» la avvicinò ulteriormente a sé stringendola ancora un po’ e lei lo attrasse per la nuca, finché le loro labbra non si incontrarono.

Bellamy sospirò, non riusciva proprio a trattenersi dal farlo ogni volta che Clarke lo baciava ed era perfettamente consapevole del fatto che lei avesse capito che quello era un segnale di quanto avesse imparato a lasciarsi andare, ma al tempo stesso di quanto si stesse trattenendo dal volerle fare cose molto peggiori di un semplice, innocente bacio. Anche se effettivamente non tutti i baci erano stati esattamente innocenti, anzi, c’erano state volte in cui un bacio era stato molto più significativo di qualsiasi altro gesto o parola.

Avvertì le dita sottili e affusolate di Clarke insinuarsi sotto la sua maglietta e, nonostante il caldo, non poté fare a meno di rabbrividire.

La strinse così forte che per un momento ebbe paura di sentire qualche costola scricchiolare, poi allentò la presa e, piano, si staccò da lei, riaprendo gli occhi.

Era bellissima nonostante i capelli scarmigliati e lo sguardo vagamente ubriaco di chi si è appena svegliato da un sogno che non avrebbe voluto interrompere.

«Bellamy Blake, tu mi ucciderai».

«Strano Principessa… è la stessa cosa che stavo pensando io in questo momento».

Lei sorrise ad occhi chiusi e Bellamy rimase a fissarla. Amava quel sorriso, amava l’espressione rilassata di Clarke quando sembrava che niente di brutto stesse accadendo intorno a loro, nonostante la realtà fosse tutt’altra cosa.

Si sdraiò sul divano, trascinando la ragazza su di sé e restarono così per un po’, lui a passarle le dita tra i capelli a lei a respirare piano nell’incavo del suo collo. Ci volle un po’ prima che Bellamy si rendesse conto che si era addormentata.

Forse, nonostante tutto, doveva ancora risentire della stanchezza.

La strinse a sé un po’ di più, circondandole il torace con le braccia e le posò un lieve bacio tra i capelli, poi, chiuse gli occhi a sua volta e si rilassò.



Si risvegliò per via del caldo. Grondava di sudore e adesso che il climatizzatore era rotto era veramente un problema. Non voleva svegliare Clarke, ma per lui la temperatura stava diventando davvero insopportabile, il corpo della ragazza sopra il suo sembrava bruciare.

Cercò di mettersi più comodo e si costrinse a regolarizzare il respiro. Clarke aveva bisogno di riposare, non aveva nessuna intenzione di svegliarla.

Provò a pensare ad altro, si concentrò, contò fino a dieci. Nulla.

Poi Clarke si mosse. Poco dapprima, ma poi una delle sue mani si strinse sulla sua canottiera madida di sudore, finché non alzò la testa fino ad incontrare il suo sguardo.

Inizialmente sorrise, poi assunse un’espressione leggermente preoccupata. Bellamy non doveva essere in buone condizioni, se ne rendeva conto anche da solo.

«Ehi, Principessa… mi chiedevo se mi avresti fatto morire annegato nel mio stesso sudore» cercò di sdrammatizzare e, non appena Clarke mise a fuoco la situazione, si scostò da lui tempestivamente.

«Perché non mi hai svegliata?!» sembrava quasi arrabbiata.

«Dormivi così bene. E poi hai ancora bisogno di riposo».

«Al diavolo, sembra che tu sia sul punto di andare in autocombustione da un momento all’altro!» strillò e questa sua reazione lo fece quasi ridere.

«Nulla che non si possa risolvere con una bella doccia, Principessa. E, se per te non è un problema, ci andrei subito» disse poi alzandosi.

Le lanciò uno sguardo fugace, scorgendo un sottile velo di senso di colpa nei suoi occhi chiari, così si chinò per osservarla bene.

«È tutto a posto, Clarke».

In tutta risposta lei gli prese il volto tra le mani e lo baciò con impeto, prendendolo alla sprovvista e rischiando di fargli perdere l’equilibrio, ma lui riuscì a mantenerlo poggiandosi contro il divano, poi le mise le mani sulle ginocchia.

«Principessa… attenta, o potrei trascinarti sotto la doccia con me».

«Beh, non sarebbe la prima volta» disse lei con una punta di malizia negli occhi e Bellamy non riuscì a trattenere un sorriso.

«Già… è stato divertente, no?».

«Mmm… mi hai inzuppata di acqua gelida. Non molto in realtà».

«Sei stata tu per prima a farlo. Dovevo passare al contrattacco».

«Beh, no ovviamente. Avresti solo dovuto lasciarmi fare».

«Subire e basta? No, non è da me, Principessa, mi dispiace. E poi ho la vaga impressione che non piacerebbe neanche a te».

«Potresti avere ragione, Blake» disse poco prima di stampargli un altro bacio sulle labbra.

«Adesso ho proprio bisogno di quella doccia. Non ci metterò molto, tu comincia a vestirti se vuoi, ti ho promesso un pomeriggio di shopping ed è quello che avrai».

Gli occhi di lei si illuminarono e Bellamy pensò che non doveva tanto essere dovuto allo shopping, Clarke non era quel genere di ragazza, quanto al fatto di uscire di casa, cosa che tra la caviglia malmessa di lei e il caldo infernale di quell’estate, avevano fatto molto poco ultimamente.

Bellamy prese a caso dei vestiti puliti dall’armadio, poi andò in bagno e rapidamente si svestì e si infilò dentro la doccia. Subito l’acqua fresca lo rinfrancò e lui si godé il momento prima di cominciare ad insaponarsi.

Adorava la sensazione dell’acqua scivolare sulla sua pelle, gli scioglieva i muscoli e lo rilassava.

Uscì dalla cabina dopo meno di dieci minuti, si asciugò velocemente il corpo e infilò al volo i vestiti, lasciando i capelli gocciolanti sulla fronte, tanto probabilmente sarebbero stati asciutti nel giro di poco una volta fuori per via di quelle temperature elevate.

Quando arrivò in salotto, Clarke era pronta, un paio di pantaloncini beige, una canottiera rossa e un gran sorriso stampato in volto non appena lo vide. Yeti era disteso al suo fianco che faceva le fusa mentre lei gli grattava la testa.

«Bene, Clarke… possiamo andare».

Lei si mise in piedi e lo seguì dopo un’ultima carezza al suo fedele gatto, che però sembrò alquanto contrariato quando la vide allontanarsi da lui.

«Psyco non sembrava molto contento quando sei andata via».

A quelle parole Clarke non riuscì a trattenere un sorriso, ma al contempo lo colpì bonariamente sulla nuca.

«Vuoi piantarla di chiamarlo così?».

«Non ci penso neanche».

«Ma ha anche smesso di soffiarti contro ogni volta che ti vede!».

«A volte lo fa ancora e comunque continua a guardarmi sempre storto».

Lei sbuffò, alzando le mani.

«Io mi arrendo».

Salirono in macchina e Bellamy accese subito la radio. Ormai per lui era diventato un gesto automatico non appena prendeva posto in auto, era come se non riuscisse più a guidare senza musica e, a giudicare da come Clarke si mise a battere il piede a ritmo, anche a lei non doveva dispiacere.

Percorse con sicurezza quelle strade che ormai aveva imparato a conoscere così bene, finché il familiare paesaggio di Manhattan non cominciò a stagliarsi davanti ai loro occhi.

«Siamo arrivati, Principessa» annunciò entrando nel parcheggio di un enorme centro commerciale.

Lei sorrise e scese dall’auto non appena Bellamy spense il motore.

«Non sono mai stata qui».

«Oh… beh, ci ho portato mia sorella qualche volta da ragazzina, quando mi chiedeva di fare da tassista a lei e qualche sua amica, ma se preferisci andare in qualche posto che conosci basta che tu me lo dica».

«Non ti chiederò di farmi da tassista, Bellamy. E poi sono sempre curiosa di provare posti nuovi. Chissà, magari trovo qualcosa di interessante» rispose lei con un sorriso.

«Beh… vediamo, allora. Sarà meglio che trovi anche qualcosa per Atom».

«Atom?».

«Sì, il 6 settembre è il suo compleanno. Mi conviene cogliere l’occasione adesso che sono in ferie perché tra la preparazione per l’esame da tenente e il ritorno al lavoro, dubito che avrò altre occasioni per trovare qualcosa».

«Vi fate i regali di compleanno? Che carini» lo prese in giro lei, beccandosi un’occhiataccia dal ragazzo.

«È una cosa che abbiamo sempre fatto. Lui, Octavia, e Raven sono gli unici a cui prenda qualcosa nelle ricorrenze. Tra l’altro negli ultimi anni avevo anche smesso con Raven dal momento che difficilmente tornava a casa, ma insomma… lei è la mia migliore amica».

«E Lincoln?».

Lui scosse la testa.

«Non abbiamo mai avuto quel tipo di rapporto. È il ragazzo di mia sorella, anzi, il suo fidanzato adesso, e lo considero uno di famiglia, ma non lo so… non saprei neanche che cosa prendergli onestamente, lo so che è ridicolo».

Clarke scrollò le spalle.

«Perché dovrebbe essere ridicolo?».

Lui si mise le mani in tasca e alzò le spalle, senza rispondere, allora fu Clarke a prendere parola: «L’unico a cui io abbia mai preso regali era mio padre. Non ne ho mai comprati neanche per mia madre o per Thalia».

«La tua coinquilina di Harvard?».

«Già. E praticamente la considero la mia migliore amica. È un po’ triste, vero?».

A quelle parole, Bellamy la prese per mano, intrecciando le loro dita.

«Immagino che ognuno faccia ciò che si sente».

«Già, suppongo sia così».

«Sai, Clarke… noi ci siamo ricostruiti da zero. Non so bene come spiegarmi, ma, almeno io, dopo la morte di mia madre diciamo che ero un po’ squilibrato. Non squilibrato nel senso di essere pazzo, ma nel senso letterale della parola: avevo perso il mio equilibrio. Lei era l’unica figura genitoriale che avessi mai avuto, sono cresciuto senza mio padre e i miei ricordi di lui sono molto vaghi, Octavia non lo ha neanche mai conosciuto, se l’è filata quando mia madre gli ha detto che era incinta di mia sorella, dunque probabilmente è stato meglio così. Non lo rimpiango, ecco, ma così il mio unico punto di riferimento fisso è sempre stata lei. E quando se n’è andata, mi sono sentito come se il terreno mi fosse stato strappato da sotto i piedi, immagino che sia stato qualcosa del genere anche per te, specialmente dal momento in cui almeno io avevo mia sorella, mentre tu… beh, diciamo che il rapporto con tua madre è sempre stato un po’ complicato».

A quelle parole lei emise un mezzo sbuffo divertito.

«Diciamo anche che è sempre stato molto complicato».

«Sì. Quello che cerco di dire è che nel momento in cui queste persone così importanti per noi sono venute a mancare, è vacillato anche l’equilibrio che in qualche modo ci eravamo costruiti, ma nonostante tutto abbiamo trovato il modo e la forza di rialzarci, ci siamo rimboccati le maniche e, pezzo dopo pezzo, ci siamo rimessi insieme dal nulla. Noi ce l’abbiamo fatta Clarke e questo… io ne vado fiero. Lo so che ci sono persone molto più realizzate di me, magari persino più giovani, che hanno avuto risultati migliori dei miei, ma io… sono riuscito a rimettermi in carreggiata dopo una sbandata tremenda e sono riuscito a garantire a mia sorella ciò a cui voleva arrivare. Ed ora lei e felice e io sono felice… » nel dire questo aumentò la pressione delle loro dita intrecciate per un momento… «… e va bene così» concluse.

Clarke alzò la testa e lo osservò meglio per un momento.

«Sei una persona speciale, Bellamy Blake. Non lo dimenticare mai. Octavia è stata fortunata ad avere un fratello come te, sei stato fantastico con lei. Te ne sei preso cura come una figlia».



Lui accennò un sorriso, guardando dritto di fronte a sé e fece passare un braccio attorno alle spalle della ragazza nel momento in cui varcavano l’ingresso del centro commerciale.

Subito l’aria dei climatizzatori sparati a mille li investì e lui tirò un sospiro di sollievo per quel fresco improvviso, avrebbe dovuto chiamare qualcuno per farsi sistemare quello a casa sua il primo possibile, non sapeva quanto avrebbe resistito altrimenti senza stare male.

Fin da bambino aveva avuto problemi con il troppo caldo, quand’era all’asilo era perfino svenuto dopo aver iniziato a perdere sangue dal naso.

Le maestre avevano chiamato immediatamente il 911 e sua madre, che era arrivata di corsa in ospedale, spaventata a morte.

In ogni caso, da allora non aveva mai più avuto problemi del genere, anzi… le volte in cui si era ammalato potevano contarsi sulle dita di una mano, ma aveva sempre sofferto tremendamente il caldo, gli faceva calare la pressione a picco.

«Mia sorella è sempre stata il punto focale della mia vita. Il prendermi cura di lei mi ha reso la persona che sono adesso. Mi ha aiutato a crescere».

Lei sorrise, poi iniziò a guardarsi intorno per vedere di trovare qualcosa che potesse interessarle.

Erano dentro da quasi dieci minuti quando qualcosa catturò la sua attenzione.

«Che ne dici?».

«Dico che siamo qui per te Clarke, se trovi qualcosa che ti piace provalo», così, Bellamy la seguì all’interno del negozio.

Il ragazzo si sedette su una poltrona mentre lei prendeva con sicurezza ciò che le piaceva senza perdere tempo ad aggirarsi inutilmente per il negozio.

Era certo del fatto che Octavia lo avrebbe tenuto lì per ore, mentre dopo cinque minuti Clarke era già in camerino a provare ciò che aveva scelto, mentre lui leggeva la pagina economica del Wall Street Journal, abbandonato su uno dei tavolini bassi vicino l’ingresso.

Clarke uscì qualche minuto dopo rimirandosi nel grande specchio posato contro il muro mentre indossava una sgargiante canottiera verde con un originale intreccio sulla parte più alta della schiena, abbinata a degli shorts neri. Bellamy doveva ammettere che stava davvero bene, ma riflettendoci meglio, per com’era preso ormai da lei, gli sarebbe sembrata bellissima anche con un sacco di nylon addosso.

«Che ne dici?».

«Ti stanno bene» rispose tentando di limitarsi, mentre avrebbe voluto trascinarla dentro quel camerino e toglierle tutto di dosso.

Lei sorrise a quella risposta.

«Bellamy, ti ringrazio per tutto ciò che stai facendo per me, ma non ti obbligherò ad un pomeriggio dentro e fuori dai negozi solo per seguirmi, vai pure a farti un giro per conto tuo intanto, va bene? Quando ho finito ci sentiamo» disse sventolandogli davanti alla faccia il cellulare che lui stesso le aveva comprato.

«D’accordo, allora ti lascio questa» disse estraendo dalla tasca posteriore dei pantaloni il suo portafogli e tirando fuori la carta di credito.

«Sei consapevole di ciò che stai facendo, vero?».

«Mi preoccuperei se la stessi dando a mia sorella, ma non a te Clarke. Da quanto ho visto, e se ho capito qualcosa di te, non sei quel tipo di donna».

Clarke sorrise di nuovo, prendendo la carta.

«Molto bene signor Blake… ci vediamo più tardi allora».

«A dopo» e si chinò su di lei per baciarla.

Così uscì dalla piccola boutique, guardandosi un po’ in giro, cercando di individuare un negozio in cui avrebbe potuto trovare qualcosa per Atom, ma non aveva grandi idee in realtà.

Era un appassionato di motori e di elettronica, finché non gli venne in mente che una volta, in quel centro commerciale, aveva visto un negozio in cui vendevano biglietti per dei giri in pista con delle macchine da corsa. Per il suo migliore amico quella avrebbe potuto essere una buona idea.

Così si avviò in quella direzione, sperando di trovarlo ancora e con sollievo constatò di sì.

Si informò con un commesso alto e muscoloso e lui gli illustrò ciò che avevano attualmente in negozio.

Alla fine Bellamy optò per prendere un biglietto sfruttabile entro sei mesi in uno dei più grandi circuiti del circondario ed uscì, con il portafogli decisamente più leggero, ma se non altro consapevole del fatto che Atom lo avrebbe adorato.

Per un po’ girò osservando le vetrine, entrando ed uscendo da vari negozi senza troppo interesse, finché non arrivò davanti ad un negozio di animali.

Decise di entrare e subito venne attorniato da sei cuccioli di cane di diverse razze. Sorrise, chinandosi ad accarezzarli mentre la proprietaria del negozio li rimproverava bonariamente.

Ad un tratto però l’attenzione del ragazzo venne attirata da un settimo cucciolo rimasto in disparte, che lo fissava con due profondi occhi azzurri: un husky.

«Ehi ciao… » disse piano mentre allungava una mano nella sua direzione per accarezzarlo.

Il cucciolo abbassò le testa e poi, timidamente, iniziò ad avvicinarsi, dapprima annusandogli un po’ la mano.

«Caspita, le devi piacere molto. Non si è mai fatta avvicinare da nessuno fino ad ora».

«È bellissima».

A Bellamy i cani erano sempre piaciuti, ma gli husky… ne aveva visto uno da bambino e se ne era perdutamente innamorato. Avrebbe tanto voluto chiedere ai suoi genitori se ne potessero prendere uno, ma da che avesse memoria, era sempre stato consapevole della loro condizione economica, dunque prendersi cura anche di un cane sarebbe stato impossibile. Tra l’altro era certo del fatto che suo padre sarebbe andato su tutte le furie e lui era una persona che decisamente era meglio non infastidire, mentre per quanto riguardava sua madre, non voleva darle altri pensieri. Poi era arrivata Octavia e le cose si erano complicate ulteriormente, specialmente dopo l’abbandono di suo padre.

«Gli husky sono una razza molto elegante ed estremamente intelligente, ma bisogna saperli prendere. Una volta conquistata la loro fiducia, con il padrone instaurano un legame di assoluta fedeltà per tutta la loro vita».

Bellamy sorrise, continuando ad accarezzare la cagnolina. Aveva un pelo morbidissimo, il muso e la pancia erano bianchi, mentre il dorso grigio chiaro.

Si perse ad accarezzarla e non si rese più conto del tempo finché non udì una voce alle sue spalle.

«Vedo che hai fatto amicizia».

Si voltò, anche se sapeva già a chi appartenesse quella voce.

«Clarke».

Non mancò di notare che la ragazza teneva tra le mani due borse belle piene e un pacchettino un po’ più piccolo.

«Dammi pure, ti aiuto a portarle».

«Possiamo stare ancora un po’ se vuoi, ti vedevo molto preso».

«Da quanto sei qui?».

«Un po’. Stavo ancora dando un’occhiata in giro quando mi sono accorta che eri dentro. Non sapevo che i cani ti piacessero tanto».

Il ragazzo si grattò la testa.

«Sì, io… mi sono sempre piaciuti molto. Gli husky in particolar modo».

A questo punto anche lei si chinò per accarezzare la cagnetta.

«E tu chi sei?» disse grattandole la testa dietro le orecchie.

Bellamy notò che la padrona del negozio li osservava con interesse.

«È davvero strano, solitamente è molto schiva con gli estranei, sembra che voi due l’abbiate proprio catturata».

I due sorrisero.

«Se vuoi possiamo andare, Clarke. Ti avevo promesso un giro in libreria, no?» a quelle parole gli occhi di lei si illuminarono, così salutarono la proprietaria e, dopo un’ultima carezza al cucciolo, uscirono dal negozio, ma quando Bellamy si voltò un’ultima volta per osservarla, notò che lei aveva inclinato la testa da un lato e li guardava con occhi tristi mentre andavano via. Gli si strinse il cuore per un momento.

«Tutto bene?» gli chiese Clarke, che forse aveva notato qualcosa.

«Sì, io… non lo so, quel cane mi piaceva davvero».

Clarke sorrise.

«Sì, era molto bella».

Bellamy non seppe perché, ma le raccontò la storia dell’husky che aveva visto da piccolo e di quanto ne avesse sempre voluto uno.

«Non hai mai pensato di prenderne uno?».

Lui fece un respiro profondo.

«Avevo Octavia a cui pensare e poi c’è stata l’accademia per entrare nei vigili del fuoco, il lavoro, i turni… certo che ne avrei tanto voluto prendere uno, specialmente da quando vivo da solo, ma è complicato. Sono consapevole dell’impegno che rappresenterebbe, in particolar modo un cane del genere. Ok ho un giardino spazioso, ma sono dell’idea che prendere un cane per mollarlo in giardino tutto il giorno non è una cosa molto responsabile».

Clarke annuì.

«Hai trovato qualcosa per Atom?».

«Sì, alla fine sì. Parlando di compleanni… lo sai che non so nemmeno quando è il tuo, Principessa?».

Lei sbuffò divertita.

«24 ottobre. E il tuo?».

«20 dicembre».

I due chiacchierarono fino a trovarsi davanti ad una libreria, dopodiché Clarke mollò a Bellamy anche il pacchetto più piccolo, lui l’aveva praticamente obbligata a fargli portare le due borse più grandi, e sparì all’interno del negozio.

In effetti anche lui avrebbe potuto dare un’occhiata dentro, dunque decise di raggiungerla, dando una rapida scorsa tra gli scaffali.

Non si rese conto di quanto tempo persero lì dentro, ma alla fine seppe solo che stava tenendo in mano un’altra busta, molto più pesante delle altre due e uno dei libri era suo, mentre il resto era di Clarke.

Risalirono in macchina che ormai erano le sette passate e impiegarono un po’ prima di giungere a casa.

Bellamy aveva fatto spazio nel suo armadio in modo da liberare del posto per le cose di Clarke e, quando la ragazza ebbe messo tutto in ordine, andò in salotto e si lasciò cadere esausta sul divano.

Forse quel giorno si era stancata troppo, si preoccupò Bellamy.

Si sedette accanto a lei e la prese tra le braccia.

«Hai fame? Posso prepararti qualcosa, ormai sono le nove».

Lei scosse la testa mugugnando.

«No. Voglio che restiamo qui».

Bellamy le baciò i capelli, poggiando la testa contro la sua.

«Come vuoi».

Il ragazzo la osservò mentre lei chiudeva gli occhi, fino a che non poggiò la testa contro il suo petto e il respiro si fece più profondo.

La guardò, la vide.

Qualche minuto dopo la sollevò tra le braccia e la portò in camera.




NOTE:




Ebbene sì, non è un miracolo, ma ho davvero aggiornato.

Chiedervi scusa per l’immane ritardo penso sia inutile, ma scusatemi, ho davvero avuto un blocco pazzesco, in compenso questo capitolo è pieno pieno di Bellarke, no? Mi sono fatta perdonare?

Ad ogni modo, spero che il capitolo vi sia piaciuto, ormai siamo quasi al punto di svolta, devo ancora decidere se accadrà già nel prossimo capitolo o se me ne prenderò un altro, ma non posso garantirvi nulla, si vedrà nel momento in cui lo scriverò.

Teorie? Fatemi sapere. Mi auguro che vi siate goduti il capitolo e che vi sia piaciuto.

Per quanto riguarda i brani abbiamo “Everytime we touch” di Cascada dal punto di vista di Clarke e “Angel with a Shotgun”, The Cab per Bellamy.

Everytime we touch – Cascada. Clarke

Angel with a shotgun – The Cab. Bellamy

Alla prossima!

Mel

   
 
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